L’aristotelismo galileiano degli scritti giovanili

Gli indirizzi filosofici che caratterizzarono l’umanesimo e il rinascimento1 non riuscirono affatto a soppiantare dalle università dell’epoca le più importanti correnti filosofiche tradizionali; riuscirono tuttavia a esercitare su di esse una certa influenza, sia pure esterna, dovuta soprattutto al nuovo materiale scoperto e messo a disposizione dai filologi. Ciò accadde in particolare per l’aristotelismo.

Due erano state le versioni principali dell’aristotelismo latino, determinatesi durante i vivi dibattiti del XIII secolo: la cosiddetta versione ortodossa (Alberto Magno e Tommaso d’Aquino), e la versione averroista. In un primo tempo, sia l’una che l’altra erano state colpite da severe condanne da parte delle autorità ecclesiastiche. Ma all’inizio del XIV secolo i difensori dell’aristotelismo tomista (cioè i domenicani) ottennero la revoca di esse e perfino la canonizzazione dell’aquinate. Nei secoli successivi l’aristotelismo tomista consolidò e perfezionò la propria struttura sistematica riuscendo a caratterizzarsi come uno dei baluardi più sicuri dell’ortodossia; questa posizione riceverà una specie di sanzione ufficiale ad opera della Controriforma. Più vario e complesso fu invece lo sviluppo della versione eterodossa.

1. La tradizione aristotelica rinascimentale

L’università di Padova, tra il Quattrocento e Cinquecento, si affermò sempre più come il grande centro dell’averroismo, in antitesi a Firenze (centro del platonismo). Infatti a Padova comparve nel 1472-74 la prima edizione latina delle opere di Aristotele, che includeva anche un commento di Averroè; a Padova insegnarono molti sostenitori dell’aristotelismo averroista tra i quali è giusto citare Paolo Veneto, autore di due note opere di logica e un commento al De anima di Aristotele, chiaramente ispirate a queste teorie, e Agostino Nifo che si farà portatore dell’averroismo nelle varie città italiane dove si recherà a insegnare (Pisa, Bologna, Salerno, Roma).

Un secondo grande centro dell’aristotelismo eterodosso essenzialmente rivolto, come quello di Padova, ai problemi di scienza e filosofia della natura ma, come vedremo in seguito, con una impostazione filosofica alquanto diversa, fu l’università di Bologna. Non dobbiamo però dimenticare che anche a Firenze si ebbe nel frattempo una rinascita di studi aristotelici a opera di dotti bizantini (Gemisto Pletonio e Basilio Bessarione). Furono proprio tali dotti a proclamare la necessità di una migliore conoscenza dei testi aristotelici, per cogliere l’autentico pensiero dello stagirita, al di là delle interpretazione che se ne erano date nel medioevo. Se la maggior parte dei dotti bizantini venuti in Italia propendeva per il platonismo (o meglio il neoplatonismo), vi era però stato qualcuno di essi che, nel grande confronto tra Platone ed Aristotele, aveva difeso la superiorità di quest’ultimo. È il caso di Giorgio di Trebisonda.

Il richiamo ad una miglior conoscenza dei testi aristotelici ebbe notevole risonanza anche entro l’ambiente padovano, in cui si vollero studiare più a fondo anche gli antichi commenti della filosofia aristotelica. Il fatto nuovo che suscitò una autentica svolta entro l’aristotelismo rinascimentale, fu tuttavia un altro, ovvero la meditata riflessione sui commenti aristotelici e sulle opere originali di Alessandro di Afrodisia.2 È proprio dall’approfondita conoscenza dell’interpretazione di Aristotele data da Alessandro, che prese origine quella notevolissima variante dell’aristotelismo nota come “aristotelismo greco o alessandrista”. La figura più eminente dell’aristotelismo eterodosso fu quella di Piero Pomponazzi, seguace del commento alessandrista.

Va ricordato che sia l’alessandrismo che l’averroismo, come varianti all’aristotelismo tomista, essendo entrambe filosofie aristoteliche, non possono fare a meno di avere in comune i caratteri tipici dell’aristotelismo: per esempio l’impianto metafisico della fisica (cioè la tendenza a far intervenire la causa finale nella spiegazione di qualunque fenomeno), l’importanza attribuita alla logica più che alla matematica, l’impostazione rigorosamente razionalista di tutta l’indagine filosofica. Il maggior divario tra i due indirizzi riguarda però il problema dell’anima. Per gli averroisti essa è immortale, separata dall’individuo concreto; gli alessandrini sostengono invece la mortalità dell’anima individuale. Malgrado le polemiche interne, essi si trovarono spesso coinvolti nelle medesime battaglie filosofiche e così accadde che il nome “averroista” finì con il perdere il suo significato originario e venne usato per indicare indistintamente tutti gli aristotelici eterodossi. Come sappiamo, mentre i platonici dominarono in modo assoluto l’accademia fiorentina, gli aristotelici eterodossi dominarono altre università, fra le quali Bologna e Padova.

Il recupero della Scolastica medioevale, che ebbe luogo nel Cinquecento, è conosciuto anche con il nome di Seconda Scolastica o Scolastica spagnola. Essa si svolse parallelamente alle correnti filosofiche evidenziate nelle pagine precedenti. I pregi più cospicui di questa ripresa non sono stati di natura gnoseologica e metafisica, ma piuttosto etica e giuridica. Nel campo metafisico furono rilevati notevoli indebolimenti che sfaldarono il pensiero occidentale e aprirono le porte ad un nuovo metodo per raggiungere la verità, punto di partenza di una nuova filosofia che vedrà in Galileo e Cartesio i principali pionieri. La seconda scolastica è fondamentalmente dominata dal pensiero di Tommaso d’Aquino, il quale, dopo l’oblio e il tramonto del Trecento e del Quattrocento, andò lentamente acquistando un posto di primato. Antonino di Firenze e il Savonarola, in Italia, entrambi domenicani, avevano richiamato l’attenzione sull’opera dell’Aquinate. Tommaso de Vio detto il Gaetano, Francesco de Silvestri detto il Ferrarese e Francesco de Vitoria, sono tre dei maggiori commentatori delle Somme di Tommaso; il più insigne rappresentante è però Francisco Suárez.

Merita particolare menzione Roberto Bellarmino, il quale svolse i suoi studi al Collegio Romano e nelle Università di Padova e Lovanio. Molto coinvolto nel dibattito culturale intorno a Galileo, la sua opera si distingue anche per la formulazione, poi divenuta paradigmatica, delle relazioni Stato e Chiesa. Egli parte dalla naturalità della società civile e dell’autorità politica e ammette l’autosufficienza dello Stato. Nelle nazioni cristiane la Chiesa ha però autorità suprema su deliberazioni in materia morale e religiosa, avendo perciò il diritto-dovere di intervenire nel governo della nazione.

L’aristotelismo di ispirazione tomista ottenne un chiaro riconoscimento con il Concilio di Trento e la Controriforma. Se da un lato riforma protestante e teorie umaniste avevano sostenuto la necessità di un ritorno allo studio dei testi nella loro autentica purezza, la Controriforma, pur sostenendo la stessa necessità, tentò di salvaguardare i presupposti teologici e filosofici alla base della fede cristiana.

Artefici di tale opera di salvaguardia furono i religiosi della Compagnia di Gesù, la quale divenne un vero e proprio strumento di guerra in difesa della cattolicità e della sua espansione in ogni paese. Seguendo le direttive generali della Controriforma i gesuiti accettano in linea di massima il tomismo, quale strumento di recupero dell’egemonia culturale della chiesa.

Di notevole importanza, in questo periodo storico, per quel che riguarda l’itinerario formativo dei giovani, è la promulgazione della ratio studiorum, che andò a fondare la pedagogia e il metodo di studi attuati nelle istituzioni scolastiche dei gesuiti. La prima ratio studiorum fu preparata dal preposito generale Acquaviva. Nel 1599 venne promulgata con valore di legge. Il corso di studi prevede un ciclo di cultura generale della durata di otto anni, cinque a indirizzo umanistico e tre a indirizzo filosofico. Nella prima parte, di cui tre anni sono dedicati allo studio della grammatica, uno all’“umanità” e uno alla retorica, assume valore centrale lo studio del latino, cui viene subordinato quello della storia, della geografia e del greco. Nella seconda parte lo studio della filosofia è integrato con cognizioni più propriamente scientifiche, riguardanti la matematica, l’astronomia, la fisica. La ratio studiorum ha esercitato un forte influsso sull’organizzazione degli studi medi e superiori anche e soprattutto al di fuori dell’apparato formativo proprio della Compagnia di Gesù, entrando di forza ad influenzare e condizionare l’organizzazione di molte università italiane ed europee.

1.1. Panorama universitario italiano tra XVI e XVII secolo@@

Nonostante il corso di studi dei gesuiti privilegiasse un taglio umanistico, fin dal 1550 lo stesso Ignazio di Loyola aveva preso in considerazione la possibilità che, nelle scuole gesuitiche, venissero insegnate le matematiche dopo che già nella pratica didattica i precoci collegi di Messina e Roma vi dedicavano da qualche anno un corso specifico. La necessità di incrementare gli studi fu poi auspicata con energia da Cristoforo Clavio,3 il prestigioso scienziato del Collegio Romano da molti soprannominato il “secondo Euclide” per l’autorevolezza del suo magistero. Infatti nel 1586 Clavio scrisse l’opuscolo Modo quo disciplinae mathematicae in scholis Societas possent promoveri e la Ratio studiorum ne sancì l’insegnamento. Non per nulla la grande promozione della disciplina era avvenuta qualche anno prima, nel 1582, allorché la matematica, alleatasi con l’astronomia, aveva dato vita alla riforma del calendario, voluta da papa Gregorio XIII e compiuta per l’appunto da Clavio.

In seguito la battaglia tra nuova scienza galileiana e la Chiesa obbligò la Compagnia di Gesù a preparare quadri intellettuali sempre più agguerriti nella ricerca filosofica e scientifica, capaci di dialogare con Galileo: Clavio era l’esponente di punta di questa classe docente.

A Bologna, dove pure i primi insediamenti di gesuiti si erano avuti fin dal 1546, premessa dell’apertura cinque anni dopo dalla prima scuole di grammatica, umanità e retorica per allievi esterni, fu possibile istituire corsi completi di filosofia e teologia soltanto nel 1635, grazie al trasferimento in città dello studentato di Parma. A differenza di Bologna, dove la più antica università cercò sempre di tutelare il proprio monopolio didattico da ogni possibile ingerenza del corpo docente che insegnava nel collegio gesuitico di Santa Lucia, a Parma l’atto di fondazione dell’università, nel 1601, era avvenuto di fatto con l’assorbimento del locale collegio di san Rocco.4

Docente di Parma per un ventennio era stato il bolognese Giuseppe Bianconi, coetaneo e interlocutore diretto di Galileo, con cui era entrato in familiarità durante un comune soggiorno padovano, tra il 1596 e il 1599. Tali competenze scientifiche, dopo un apprendistato nelle scuole gesuitiche nelle province venete, prima di approdare a Parma in qualità di docente, le acquisì alla scuola di Clavio, da cui ereditò il principio della centralità epistemologica della matematica. A contatto però con la tradizione tecnologica e sperimentale di Parma, Bianconi seppe convertire la competenze matematiche in una dimensione più fattuale, predisponendo l’alleanza di una physico-mathesis che, di fatto, lo poneva distante dalla tradizione del corpo accademico parmense e bolognese. Nella sua Sphaera mundi non relega la cosmologia aristotelica nel repertorio delle teorie obsolete, ma ne mina molte tesi di fisica, assumendo una difesa convinta della matematica.

Per quanto sia una personalità d’eccezione, Bianconi non può ovviamente competere con il carisma di Galileo; nel collegio di Bologna il ruolo di leader fu svolto, a partire dal 1636, da Giambattista Riccioli, le cui ricerche astronomiche lo fecero diventare una delle autorità più ascoltate tra gli scienziati fedeli alle direttive controriformistiche e, al tempo stesso, uno degli uomini più temuti e riveriti da parte dei “novatori”. Naturalmente Riccioli, considerato dai discepoli di Galileo «soggetto hoggi de buoni di questi nostri paesi»,5 accumulò argomentazioni su argomentazioni per confutare Copernico.

A Bologna, presidio del sapere scolastico canonizzato negli statuti ufficiali dell’università, Galileo troverà parecchi avversari, taluni felpati e circospetti come Magini, altri, rozzi e sguaiati, come Horky; ma al tempo stesso, per la politica accademica di Galileo, che mirò sempre ad insediare suoi allievi nelle roccaforti peripatetiche, il suo insegnamento aveva attecchito in questo ateneo, tanto che all’indomani della pubblicazione dei Massimi Sistemi un suo amico, Cesare Marsili, si era assunto l’incarico di ricevere le copie che «dovranno vendersi a Bologna».6

Uno dei più illustri docenti padovani invece fu Giacomo Zabarella, autore del commento al De anima di Aristotele, nonché di varie opere di logica che godettero di grande notorietà per circa un secolo. Al pensiero di Zabarella è collegato quello di Cesare Cremonini, che fu collega di Galileo proprio a Padova, oltre che amico sincero, pur avversando caparbiamente le dottrine galileiane; è famoso per essersi rifiutato di guardare nel cannocchiale e per l’essersi preso gioco di tale scoperta.7 Tale avversione alla ricerca scientifica nasce in lui dalla profonda separazione che egli compie tra Dio e il mondo, sostenendo che questo non può essere frutto della creazione divina: Dio infatti è verità immobile.

1.2. L’influenza dell’aristotelismo

L’influenza, nelle accademie universitarie, dell’indirizzo aristotelico esaminato nei paragrafi precedenti fu assai vasta e profonda per tutto il XVI e XVII secolo. Va innanzitutto segnalata l’importanza della distinzione, tenacemente propugnata da tutti gli aristotelici, fra ordine delle verità filosofico-scientifiche e ordine delle verità di fede: essa conduce, a poco a poco, non soltanto a riconoscere la piena autonomia delle prime, ma a considerare le altre come proposizioni inferiori, fornite non tanto di autentica verità, quanto piuttosto di semplice validità.

Dal punto di vista prettamente filosofico, l’aristotelismo sorto nel Cinquecento rappresentò una difesa intransigente della conoscibilità del reale, contro misticismo e nominalismo. Tale difesa però spingeva ad asserire che la conoscenza del reale deve essere ottenuta mediante determinate categorie di tipo tradizionale, con la condanna di ogni tentativo di rinnovamento. Il merito più grande dell’aristotelismo, come è stato già accennato, fu l’interesse suscitato per i problemi della natura, che fece passare in secondo piano quello per l’oltremondo e per Dio. Anche qui tuttavia non seppe conseguire risultati veramente decisivi, perché rimase impacciato dalla rigidità delle proprie formule. Tre furono i pregiudizi che limitarono tale sviluppo:

  1. l’esclusione, dall’indagine naturalistica, dei procedimenti matematici, accusati di fermarsi alla descrizione dei fenomeni senza risalire alle cause. Si finì per imbrigliare la natura in schemi dialettici, definizioni, principi generali, ecc., che finirono col dare alla ricerca un carattere di astrattezza e generalità; toccherà soprattutto ai platonici contrapporre l’uso della matematica a quello della logica nella conoscenza dei fenomeni;
  2. l’accettazione della fisica aristotelica come costruzione scientifica perfetta, e la pretesa di spiegare con i suoi schemi, in particolare con la causa finale, tutti i dati scoperti e scopribili dall’osservazione; questo pregiudizio graverà in modo speciale sulle concezioni meccaniche e astronomiche, e costringerà la nuova scienza (di cui Galileo fu uno dei massimi interpreti) a entrare in un drammatico urto con l’aristotelismo;
  3. il ricorso alle anime per rendere conto dell’azione reciproca di un corpo sull’altro, e in tal modo l’attribuzione di un valore scientifico all’astrologia come studio dell’azione del mondo celeste su quello terrestre.

Per le gravi deficienze interne che ora abbiamo accennato, l’aristotelismo diverrà nel Seicento uno dei bersagli preferiti della nuova scienza.

2. Gli studi giovanili di Galileo

Il quadro culturale descritto fino ad ora fa da contorno alla prima formazione di Galileo e, l’aver ricordato alcune caratteristiche fondamentali di tale quadro, ci servirà a capire alcuni dei risvolti che avrà il pensiero del filosofo pisano sin dai suoi primi anni.8

Nei primi anni di studio di Galileo, l’intenzione del padre Vincenzio era quella di avviare il figlio agli studi di medicina, per fargli seguire così le orme di un loro parente vissuto nel XV secolo, chiamato anch’egli Galileo, che aveva goduto di grande fama come medico e come uomo di vita pubblica. D’accordo con questo piano, fece in modo che suo figlio si iscrivesse all’università come studente di medicina nell’autunno del 1581.

È possibile sapere quali studi ha affrondato Galileo nel suo soggiorno pisano esaminando con attenzione alcune parti dell’Edizione Nazionale delle Opere. Il curatore ci segnala infatti, che Galileo studiò la filosofia straordinaria con il Verini e il Buonamici, filosofia e medicina con Clemente Quarantotto, la logica con Rodrigo Fonseca, lesse la fisica di Aristotele con il fiorentino Giulio Libri.9 Studiò però anche matematica (che comprendeva anche astronomia), con Filippo Fantoni, monaco camaldolese. Egli tornava probabilmente a Firenze durante il periodo estivo e ciò spiegherebbe il modo in cui Galileo integrò la formazione matematica ricevuta da padre Fantoni.

Come abbiamo visto, era consuetudine della corte di Toscana trasferirsi ogni anno da Firenze a Pisa nel periodo che andava da Natale a Pasqua. Matematico di corte era Ostilio Ricci, un competente geometra che era stato probabilmente discepolo di Niccolò Tartaglia. Durante l’anno accademico 1582-83, Galileo incontrò Ricci, mentre quest’ultimo si trovava a Pisa, ed assistette alle lezioni che Ricci dava su Euclide presso la corte. L’estate seguente, quando Galileo ritornò a Firenze, all’epoca del suo studio di Galeno, invitò Ricci a casa sua, perché conoscesse suo padre. Ricci informò Vincenzio che suo figlio era poco interessato alla medicina e che voleva diventare invece un matematico e chiese pertanto il permesso di poterlo istruire in questa disciplina. Nonostante il disagio di Vincenzio di fronte ad una simile richiesta, avvalendosi dell’aiuto di Ricci, a partire da quel momento Galileo poté dedicarsi sempre più intensamente allo studio di Euclide e di Archimede, grazie probabilmente alle traduzioni in lingua italiana delle loro opere preparate dal Tartaglia10 .

Nel 1585 Galileo interruppe gli studi universitari a Pisa e cominciò ad insegnare privatamente matematica a Firenze e a Siena, ove ebbe un posto pubblico nel 1585-1586, e quindi a Vallombrosa, nell’estate del 1588. Nel 1589 Fantoni lasciò la sua cattedra di matematica a Pisa e Galileo fu scelto per sostituirlo, sia per la buona impressione data alla corte di Toscana durante le sue lezioni su Dante, sia per le raccomandazioni impetrate da Clavio e da altri matematici che avevano ormai conosciuto il suo lavoro. Galileo cominciò ad insegnare a Pisa nel novembre del 1589 insieme a Jacopo Mazzoni (1548-1598), un filosofo che insegnava Platone ed Aristotele, ma era anche esperto di Dante. I due diventarono subito amici. Mazzoni conosceva le opere di un altro matematico, Giovanni Battista Benedetti (1530-1590), e Galileo ne fa un’esplicita menzione in una lettera, scritta da Pisa e indirizzata a suo padre a Firenze, datata 15 novembre 1590.11

Durante il suo soggiorno pisano, Galileo scrisse tre quaderni in lingua latina, uno sulla logica, spiegando il concetto di dimostrazione e di prova in Aristotele (Dialettica , manoscritto [=MS] n. 27), un altro spiegando l’insegnamento di Aristotele sui cieli e sugli elementi (De caelo e il De elementis , MS n. 46), ed un terzo quaderno contenente il suo primo trattato sul moto (De motu , MS n. 71). Quest’ultimo parla della gravità e della leggerezza, del galleggiamento, dei corpi in moto, sia in caduta libera che lungo piani inclinati. I manoscritti 27 e 46 sono sostanzialmente delle esposizioni teoriche, mentre il manoscritto 71 menziona gli «esperimenti» (pericula) che egli realizzò nel tentativo di formulare le leggi del moto.12

Galileo insegnò a Pisa fino al 1592. La morte di suo padre, avvenuta nel 1591 gli causò, in quanto figlio primogenito, alcuni problemi finanziari; egli dovette allora procurarsi un salario migliore dei 60 fiorini che percepiva fino a quel momento. Si mise alla ricerca e finalmente ottenne un posto da 180 fiorini all’Università di Padova, ove svolse la sua lezione inaugurale il 7 dicembre 1592. Galileo trascorse ancora diciotto anni della sua vita nel territorio della Repubblica Veneta, più tardi ricordati da lui come gli anni più felici della sua vita.

2.1. La Dialettica, il De coelo e il Tractatus de elementis

I manoscritti pisani sono indispensabili per la comprensione del periodo iniziale dell’attività di Galileo. La cronologia a cui facciamo riferimento è basata su ricerche recenti13 e non è contenuta nella Edizione Nazionale delle Opere di Galileo, in cui sono raccolti «coll’appellativo Iuvenilia».14 Favaro di certo conosceva il MS n. 27, ma ritenne si trattasse di un esercizio che Galileo copiò da un monaco di Vallombrosa, datato attorno al 1579 e non lo incluse pertanto nella edizione delle Opere. Trascrisse e pubblicò i MSS nn. 46 e 71 ma, da quanto sostenuto da Wallace, non datò bene il primo e non ricostruì correttamente le parti in cui era composto il secondo. I manoscritti sono attualmente conservati nella Collezione Galileiana della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.15

Il MS n. 27 fu trascritto e pubblicato quattrocento anni dopo essere stato scritto in due opere di W. A. Wallace.16 I trattati che esso contiene corrispondono al corso annuale di logica dato dal gesuita Paolo Vallius (1561-1622) al Collegio Romano, concluso nell’agosto del 1588 e furono composti da Galileo probabilmente all’inizio del 1589. Essi contengono un’esauriente analisi della dottrina di Aristotele circa la conoscenza previa necessaria ad ogni dimostrazione e sulla dimostrazione in se stessa e si concludono con una spiegazione sul processo dimostrativo. Il contenuto17 sostanziale e innovativo del MS n. 27 riguarda il processo (regressus) dimostrativo, un tipo di ragionamento che impiega due dimostrazioni, una “del fatto in sé”, l’altra “del fatto ragionato”. Dagli studi effettuati Wallace deduce che nella sua esposizione, Galileo si riferisce a queste due dimostrazioni come “progressioni” e nota che esse sono separate da una fase intermedia. La prima progressione argomenta dall’effetto alla causa, mentre la seconda si muove nella direzione opposta, dalla causa all’effetto. Perché il processo funzioni, occorre che la “dimostrazione del fatto” venga per prima e che l’effetto sia dunque inizialmente conosciuto più della sua causa, sebbene alla fine essi debbano essere visti in modo convertibile. La fase intermedia realizza la transizione alla seconda dimostrazione. Il termine latino examen è importante perché corrisponde al greco peîra , un vocabolo che è nella radice del latino periculum , cioè prova, l’equivalente di esperimento (experimentum). Compito principale della fase intermedia è la prova, il ricercare ed eliminare altre possibilità, in modo da ritrovare la causa che fa sì che quell’effetto sia presente. La maggiore innovazione di Galileo nella logica del regressus fu dunque l’impiego del periculum nella fase intermedia, allo scopo di determinare la vera causa del fenomeno che si stava studiando.

Il MS n. 46 è composto dai due trattati già segnalati (De caelo e il De elementis).18 Sono manoscritti su carta con filigrana pisana che presumono la conoscenza della logica del MS n. 27, e come quest’ultimo si basano su corsi impartiti dai gesuiti al Collegio Romano. La sua migliore datazione, secondo quanto sostenuto da Wallace, è a Pisa, attorno al 1590. Il tema intorno a cui ruota la prima parte del MS n. 46 è appunto la trattazione intorno alla struttura del cielo ripercorrendo i passi compiuti da Aristotele. Nelle varie quaestio Galileo si interroga se «unicum esse caelum»,19 sull’ordine in cui è strutturato il cielo, sulla sua composizione, sulla sua suddivisione in forma e materia, sulla incorruttibilità. Il lavoro di Galileo risulta essere una esposizione chiara e dettagliata del pensiero dello stagirita.

Nella seconda parte del manoscritto, riguardante la trattazione sugli elementi che compongono l’universo, possiamo distinguere due parti: una prima riguardante la forma e la sostanza degli elementi in cui Galileo esamina le quattro cause aristoteliche e la separazione tra forma e sostanza; una seconda in cui esamina le qualità primarie della natura. In questo trattato sono numerosi i riferimenti a molteplici opere di Aristotele (De coelo, De generatione et corruptione, Meteorologia, Fisica, Metafisica).

Appare opportuno sottolineare il giudizio del Favaro a proposito dei trattati in questione; essi «non differiscono di molto dai consueti commentari coi quali a que’tempi si esponevano dalla cattedra le dottrine d’Aristotele»;20 la conoscenza degli scritti aristotelici che il Galileo aveva acquisito nei suoi primi anni di studio aveva raggiunto un ottimo livello e soprattutto il suo acume gli permetteva di padroneggiare le teorie aristoteliche, a tal punto da perfezionarle e adattarle in base alla sua visione del metodo di ricerca.

Altri elementi che ci permettono di riportare questi manoscritti nella categorie delle esercitazioni di uno studente riguardano la struttura stessa dei lavori. Ricalcando la tradizione tomista i lavori sono strutturati in pars e quaestio, opinio e conclusio e riprendono il metodo espositivo caratteristico di questo tipo di impostazione filosofica.21 Anche se in alcuni riferimenti sui contenuti Galileo comincia a discostarsi dalla tradizione aristotelica, nella forma sembra voler ripercorrere queste orme.

2.2. Il dialogo De motu

La storia del MS n. 71, nota ai più con il titolo De Motu, è più complessa.22 Le sue cinque parti, tutte originali di Galileo, furono scritte in formato folio con una varietà di filigrane. Il suo latino va migliorando al progredire della composizione. Iniziato nel 1588 e completato attorno al 1592, le sue differenti parti furono scritte a Firenze e Pisa in epoche diverse.

Il De motu si compone in due parti. La maggiore è un trattato con capitoli non numerati, di cui i primi23 sono stati scritti di primo getto, e gli altri24 sono una successiva redazione. La seconda parte25 è un dialogo rimasto incompiuto tra due personaggi, Alessandro, il maestro rappresentante e “portavoce” di Galileo, e Domenico, il discepolo. Riportiamo ora un elenco che, a giudizio di Giacomelli, ci fornisce un indice abbastanza completo dei temi che Galileo vuole trattare nel suo scritto:

  • Quaeri potest, an gravia vere ad centrum moveantur; do quo Ptolemaeus, c. 7. p. lib. A1.
  • Utrum virtus impressa, tempore vel gravitate mobilis consumetur.
  • Motus naturalis a quo flat.
  • Motus violentus a quo flat.
  • Utrum medium sit necessarium ad motum.
  • An detur simpliciter grave et simpliciter leve.
  • An elementa, in proprio loco sint gravia aut levia.
  • De proportione motuum eiusdem mobilis in diversis mediis.
  • De proportione motuum diversorum, mobilium in eodem. medio.
  • De causa tarditatis et velocitatis motus.
  • An in puncto reflexionis detur quies.
  • An motus naturalis semper intendatur et cur intendatur.
  • Utrum tardits et celeritas motus naturalis sit a raritate vel de… . me… .
  • In motu 3 considerantur: mobile, medium et movens.
  • Quid prosit ant obsit figura mobilium motui.
  • De proportione gravitatum eiusdem gravis in diversis mediis, ex qua pendet quaestio de proportione motuum.
  • Data medii gravitate et velocitate mobilis, datur etiam gravitas mobilis.
  • Data gravitate mobilis et medii, datur velocitas motus.
  • Data volocitate et gravitate mobilis, datur gravitas medii.
  • De motu circulari.
  • Considerandum est de proportione motuum super planose inclinatos, et an forte leviora citius in principio descendant; sicut in lance, quo minora fuerint pondera, eo facilius fit motus.26

È importante evidenziare la sottolineatura che Giacomelli compie facendo notare come, nell’impostazione del suo lavoro, Galileo segua lo stesso schema del IV libro della Fisica di Aristotele. Al centro di questa trattazione vi sono sempre tre quesiti fondamentali:

  1. relazione tra velocità di caduta dei gravi e il loro peso;
  2. relazione tra velocità di caduta dei gravi e densità del mezzo attraversato;
  3. causa del movimento dei corpi lanciati, cioè del moto non determinato dal peso.

Le risposte della tradizione aristotelica, per i primi due quesiti, erano che la velocità di caduta fosse direttamente proporzionale al peso del corpo in caduta, e inversamente proporzionale alla densità del mezzo stesso (significava affermare che la velocità è proporzionale al rapporto peso del grave/densità); per il terzo invece il movimento dei gravi lanciati era dovuto all’azione del mezzo ambiente, cioè dell’aria.27

Nel proseguimento della nostra analisi potremo notare come le risposte di Galileo a questi quesiti siano differenti: la velocità di caduta in un dato mezzo è proporzionale alla differenza tra il peso specifico del grave e il peso specifico del mezzo. Il maggior utilizzo di Archimede da parte di Galileo fu in questo caso la causa della rimozione del concetto aristotelico di peso assoluto in favore di quello di peso specifico, cioè del peso del corpo influenzato dal mezzo in cui esso è immerso, la cui azione deve essere sottratta. Si tratta di un suggerimento originariamente avanzato da Benedetti e non da Galileo.

Critica del concetto di grave

Secondo Giacomelli, Galileo, nel suo trattato, compie una critica approfondita del concetto di grave.28 A tale trattazione egli dedica sei capitoli.29 Occorre innanzitutto ricordare che tale argomentazione prende corpo esaminando un dogma della fisica aristotelica secondo cui nel mondo i corpi andavano distinti in gravi e leggeri: i primi tendevano al centro del mondo, i secondi alla periferia (all’alto). Tale teoria aveva la conseguenza di distinguere la materia in base alle tendenze meccaniche opposte.

La verità per Galileo era differente:30 tutti i corpi sono pesanti, ma in maniera proporzionale alla loro densità; tutti sono in movimento verso il centro, ma in maniera diversa in ragione della loro densità. Il solo moto verso il basso è il moto naturale, spontaneo, mentre ogni moto verso l’alto è un moto violento.

Aristotele set caeteri philosophi pro levi accipere id quod nos minus grave appellamus contenti essent, hanc levis appellationem nos quoque admittere non gravati essemus: verum qia voluerunt (non contenti se pro levi id quod minus grave est intelligere) dari etiam leve quoddam corpus, quod tale sempliciter esset et omni careret gravitate, id cane peius et angue abhorrentes, omnimode et fenditus usque ipsum leve evertere conati sumus.31

Nelle ultime pagine della trattazione Galileo conclude affermando:

Concludamus itaque, gravitatis nullum corpus expers esse, sed gravia esse omnia, haec quidam magis, haec autem minus, prout eorum materia magis costipata et compressa, vel difusa et extensa, fuerit.32

La critica del concetto aristotelico di grave era stata già trattata nel capitolo dal titolo per cui non deve ammettersi «sempliciter leve et sempliciter grave».33 La requisitoria citata, invece, appartiene al primo di quattro capitoli34 in cui tale tema viene ampliato.35 Per questa laboriosa disamina Galileo prendeva le mosse da Archimede, secondo il quale la leggerezza di un corpo è una diminuzione della sua gravità, prodotta dalla gravità del mezzo. Ma tratteremo in maniera approfondita gli apporti archimedei alle teoria galileiana nel capitolo seguente.

La caduta dei gravi e il moto

Nei paragrafi successivi del suo studio Giacomelli fa notare come Galileo, nel trattare della caduta dei gravi, operi una prima distinzione considerando se essi siano in movimento in un mezzo pieno, nel vuoto o lungo piani inclinati.36

Per il primo caso (caduta dei gravi in un mezzo pieno), premesso che gli antichi consideravano il peso e ogni altra forza come fattore che producesse velocità e non accelerazione, la teoria aristotelica secondo cui la velocità di caduta di un grave in un mezzo pieno era data dal rapporto peso del grave/densità del mezzo, era stata già messa in discussione nel VI sec. d. C. .

Dallo studio del testo emerge che la trattazione di Galileo considera quattro differenti casi: corpi della stessa specie cadenti nello stesso mezzo; corpi di diversa specie cadenti nello stesso mezzo; corpi della stessa specie cadenti in diversi mezzi; corpi di diversa specie cadenti in diversi mezzi. Tale trattazione viene affrontata in un capitolo dove si dimostra che i mobili mossi nello stesso mezzo presentano una diversa proporzione rispetto a quella assegnata loro da Aristotele.37 In questo capitolo Galileo affronta solo il secondo dei quattro casi elencati in precedenza, ritenendo infatti che gli altri possano essere riconducibili tutti a questo.

Al termine delle considerazioni che Galileo riferisce per i diversi casi, egli giunge a stabilire una legge di proporzionalità diretta tra la velocità di caduta e l’eccesso del peso specifico del grave sul mezzo, affermando in conclusione:

Hae, igitur, universales sunt regulae proportionum motuum mobilium, sive eiusdem sive non eiusdem speciei, in eodem vel in diversis mediis, sursum aut deorsum motorum.38

Al capitolo ora esaminato, in cui è studiata la caduta dei gravi in un mezzo pieno, Galileo fa seguire due in cui tratta la caduta del grave nel vacuo. Nel primo di questi due capitoli,39 dove si riprendono in considerazione le dimostrazioni fatte in precedenza, Galileo rileva come non sia possibile parlare di vera gravità dei pesi finchè questi vengono studiati nel pieno; bisognerebbe che «in vacuo ponderari possent».40

Nel secondo capitolo,41 dove si dimostra, contro Aristotele, che esiste il vuoto, Galileo comincia con l’osservare che Aristotele nella Fisica aveva formulato argomentazioni fondate sul movimento per negare l’esistenza del vuoto; tali argomentazioni prendevano piede dal suo errato postulato in cui poneva una proporzionalità inversa tra velocità del corpo e densità del mezzo. Si stabiliva una proporzione assurda nel caso particolare del vuoto. Naturalmente Galileo applica al caso specifico del vuoto la sua proporzione diretta tra velocità e differenza dei pesi specifici, sottolineando come la sua sia una proporzione aritmetica (uguaglianza fra differenze) e non geometrica (uguaglianza fra rapporti) come quella di Aristotele.

Dato un corpo a di peso specifico 20 e due mezzi bc e de di uguale altezza, di peso specifico rispettivamente 12 e 6, si avrà che il corpo a cade nel primo mezzo con velocità 20 — 12 = 8 e nel secondo con velocità 20 — 6 = 14: donde la proporzione aritmetica 14 — 8 = 12 — 6. La quale dice che la differenza fra le velocità di caduta: in due mezzi di diversa densità è uguale alla differenza fra le densità dei mezzi attraversati. Nel caso che uno dei mezzi, ad esempio il secondo, sia il vuoto, essendo la velocità nel primo mezzo 20 — 12 = 8 e nel secondo 20 — 0 = 20, si avrà 20 — 8 = 12 — 0.42

Galileo conclude il capitolo con un perentorio «… et de hoc satis»43 ad indicare che per lui i mobili nel vuoto, siano essi della stessa o di diversa materia, si muovono con la stessa velocità, e tale argomentazione per lui non ha bisogno di ulteriori sottolineature.

Di originale in Galileo in questa parte del trattato, secondo quanto sostenuto in diversi studi anche da Wallace, vi fu l’utilizzo del piano inclinato per ritardare la caduta, sotto l’influenza della gravità, dei corpi in esame.44 L’intuizione basilare che soggiace a questo esperimento può essere esposta come segue: se il peso effettivo di un corpo può essere diminuito collocandolo su di un piano inclinato, allora anche la sua velocità di scivolamento diminuirà proporzionalmente. La dimostrazione offerta da Galileo è di tipo geometrico e consiste nel mostrare che le forze corrispondenti ai pesi sui piani inclinati obbediscono di fatto alla legge della bilancia. Ciò richiede però varie supposizioni e, a questo proposito, può essere vista come una dimostrazione ex suppositione. Se quelle supposizioni sono garantite, la conclusione segue direttamente: il rapporto delle velocità lungo il piano inclinato corrisponderà a quello fra la lunghezza del piano e la sua altezza verticale, perché il peso dei corpi varia precisamente secondo quella proporzione.45

Nel prosieguo della sua trattazione Galileo passa a spiegare il moto dei corpi situati su un piano equidistante dell’orizzonte, in assenza di resistenza. La dimostrazione prende le mosse, come la precedente, dall’esemplificazione di una bilancia e arriva alla conclusione che «ergo restat, quod in ipso horizonte ercto nec natuliter nec violenter moveatur. Quod si non violenter movetur, ergo a vi omnium minima moveri poteri».46

Per Giacomelli, dopo tale dimostrazione, poteva sorgere il problema di che cosa potesse avvenire di un movimento comunicato ad una sfera in tale piano:47 essa cesserà il suo movimento dopo un intervallo di tempo oppure continuerà all’infinito? Per Galileo, in studi successivi, tale moto verrà considerato come moto circolare intorno alla terra stessa; tuttavia nel De motu si pone il problema della rotazione eterna di una sfera su se stessa. Per alcuni contemporanei di Galileo, che si rifacevano alla tradizione antica, una palla sferica, su un piano, toccata in una sola sua parte, non avrebbe mai potuto fermarsi.48 E ciò in relazione alle qualità metafisiche della sfera.

Galileo sposta il discorso sul piano fisico, facendo conciliare o meno tale rotazione con una legge dell’universo, che Newton codificherà in seguito come legge di gravitazione. Prima di parlare di eternità del moto bisogna allora vedere se esso è diretto verso il centro oppure se esso è fuori dall’influenza di tale attrazione. Se si prende la rotazione della sfera omogenea e non, in cui il suo centro di gravità coincide con il centro di gravità del mondo, avviene che il suo moto non è né naturale né violento. Se tale sfera è mossa «ab esterno motore», non si potrà formulare nessuna ipotesi senza aver prima definito che tipo di forza sia causa del movimento.49

Il concetto di forza tra Aristotele e Galileo

Nel capitolo del trattato intitolato «a quo moveatur proiecta»50 Galileo affronta il tema della forza e dei corpi lanciati da un movente. Nella teoria aristotelica, in cui alla base di ogni movimento vi è il contatto di un primo motore, seguito da un una successione ordinata di movimenti, tale moto era una eccezione discordante. Aristotele eliminò il problema affermando che tale moto avviene perché il mezzo si fa portatore del contatto tra mobile e motore (dottrina del mezzo). Dopo avere esposto l’infondatezza della teoria aristotelica il Linceo espone la propria:

… quod siti sta virus motiva, quae a proicente in proiecto imprimitur. Dicimus ergo, illam esse privatione gravitatis, cum mobile sursum impellitur; cum vero deorsum, esse esse privationem levitatis. […] Proiecta nullo modo moveri a medio, sed a virtute motiva impressa a proibente.51

In questa affermazione, per Koyrè, appare evidente il riferimento di Galileo all’opera di Giambattista Benedetti e alla fisica dell’impetus da lui sostenuta:

Omne corpus grave, aut sui natura, aut vi motum, in se recipit impressionem et impetum motus, ita ut separatum a virtute movente per aliquod temporis spatium ex seipso moveatur; nam si secundum naturam motu cieatur, suam velocitatem semper augebit, cum in eo impetus et impressio semper augeantur, quia coniunctam habet perpetuo virtutem moventem. Unde manu movendo rotam ab eaque; eam removendo, rota statim non quiescet, sed per aliquod temporis spatium circunvertetur.52

Ma che cosa è quest’impetus, questa forza motrice causa del movimento immanente al mobile? Nella sua opera su Galileo il Koyrè afferma che non è semplice dare una definizione chiara e comprensiva. È una qualità che si imprime al mobile, o meglio, che lo permea. È una specie di habitus che il mobile acquista per tutto il tempo in cui è sottoposto all’azione del motore.53

Nel capitolo successivo, intitolato «in quo virtutem motivam successive in mobili debilitari ostenditur»,54 Galileo passa a dimostrare che tale virtù tende a diminuire in modo continuo e non è mai uguale nel suo svolgimento.

Galileo tratterà di molte applicazioni di tale concetto di forza in natura, pensando addirittura di aver scoperto la causa dell’accelerazione del moto di caduta.55 Ci pare importante sottolineare il capitolo in cui considera la causa per la quale alcuni oggetti meno pesanti, all’inizio del loro moto, si muovano più velocemente dei oggetti più pesanti. Egli dice che, se è vero che un corpo all’inizio della sua caduta dalla quiete ha in se tanta forza quanto il suo peso, ne consegue che i corpi più gravi, dovendo perdere una quantità di forza, diretta in senso contrario alla gravità, dovranno discendere al principio più lentamente, avendo infatti una maggiore resistenza. Ne consegue ancora che tali corpi, una volta perduta tale resistenza contraria, scenderanno più velocemente. Da questa argomentazione riconosciamo alcune delle esperienze che egli ha fatto dalla torre: esperienze dirette ad escludere, secondo quanto sostenuto da Averroè, che il legno cadesse a terra più rapidamente del piombo, dato che il legno scendeva più velocemente nel tratto iniziale.56

3. Considerazioni conclusive

Abbiamo esaminato nelle pagine precedenti il contenuto di alcuni scritti del giovane Galileo. Ci è sembrato importante questa argomentazione per mettere in evidenza il grande lavoro di acquisizione intellettuale compiuto da Galileo nei suoi primi anni di studio accademico.

Negli ultimi anni Wallace ha riaperto la querelle sulla continuità tra pensiero mediovale, rinascimentale e moderno, specie aristotelico, prendendo come punto di partenza proprio gli Juvenilia galileiani. Per Wallace, dall’analisi dei manoscritti galileiani, risulta un influsso diretto del Collegio Romano sul giovane Galileo con il collegamento delle sue idee ai matematici medioevali. Egli avanza una nuova interpretazione che considera la metodologia galileiana legata alla prassi delle matematiche in uso nei collegi gesuiti e basata totalmente sul procedimento aristotelico ex suppositione. Gli elementi archimedei restano condizionati dalla fisica matematica di Clavio.57

Di certo ci si chiede che senso abbiamo tali manoscritti all’interno del percorso filosofico compiuto da Galileo nella sua vita. Vogliamo però evidenziare alcune affermazioni che il Favaro pone all’inizio dell’Edizione nazionale in cui scrive:

Grandi rivoluzioni scientifiche non operano mai coloro che, ricevuto un buon avviamento, in essi perseverano; quelli invece che, iniziati in una disciplina e riconosciutine gli errori, adoperarono nella ricerca del vero gli stessi criteri che li avevano guidati alla scoperta del falso, aprirono alla scienza nuovi orizzonti.58

È facile evidenziare una netta differenza fra i MSS. 27 e 46 e il MS. 71. I primi due, come abbiamo potuto vedere, rappresentano le esercitazioni di un giovane studente alle prese con i maestri della cultura antica. Il MS. 71 comincia a delineare una presa di posizione più netta e marcata rispetto alla tradizione.

In questa affermazione del Favaro troviamo giustificata e spiegata la motivazione che sta alla base della stesura di queste “esercitazioni scolastiche”: esse rappresentano il punto di partenza necessario per l’evoluzione, in senso anti-aristotelico, del pensiero galileiano nelle sue battaglie contro la fisica aristotelica. Per giungere alla demolizione della fisica aristotelica, allora, Galileo avrebbe dovuto necessariamente approfondire tale dottrina. E ciò è avvenuto in maniera mirabile, perché nei manoscritti Galileo ha compiuto un ingente lavoro di analisi dell’opera di Aristotele e di approfondimento di molte tematiche, sia filosofiche che scientifiche, dibattute in quel periodo. Alla quasi completa ortodossia dei primi due manoscritti fa riscontro, però, una prima chiara e limpida critica nel MS. 71 sul moto in cui prende le distanze dalla visione del mondo data da Aristotele: senza bisogno di entrare in merito ad ogni disputa, basta leggere i titoli dei vari capitoli per notare subito i tantissimi contra Aristotelem presenti in essi.59

A proposito della disputa filosofica sulla chiave di lettura da attribuire ai manoscritti giovanili di Galileo, vogliamo segnalare il parere di Dollo secondo cui, mentre la ricostruzione del pensiero galileiano proposta da Favaro presentava una evoluzione lineare, assegnando ai soli MS. 21 e 46 la modesta funzione di ricognizione scolastica del circolante accademico, la posizione di Wallace dovrebbe spingere ad una serie di interrogativi. Egli più volte ha sostenuto la tesi che vi sia una linea di accentuata continuità tra i tre manoscritti indicati.60

Si può infatti notare, secondo la chiave di lettura data da Dollo che sembra sposare l’interpretazione del Favaro,61 secondo cui fra le idee che stanno alla base del MS. 46 vi è l’accettazione dell’ilemorfismo, la differenza qualitativa delle sostanze celesti, la corrispondenza tra movimento e natura dei corpi, rifiuta Aristotele solo quando contrasta le verità di fede e non cita una sola volta Archimede. Se invece rivolgiamo la nostra attenzione al De Motu, assistiamo ad un cambiamento assai accentuato della prospettiva: è quasi assente l’ilemorfismo e vengono rigettati sia la differenza qualitativa tra le materie, sia la corrispondenza tra movimenti e sostanza; Aristotele è al centro delle contestazioni, mente Archimede diventa il presupposto di ogni discorso.


  1. Per le indicazioni riguardanti il dibattito filosofico tra XVI e XVII si fa riferimento alla Grande antologia filosofica, diretta da U. A. Padovani e M. F. Sciacca; coordinata da A. M. Moschetti, M. Schiamone, M. A. Raschini e P. P. Ottonello, Marzorati, Milano, voll VI e XII. ↩︎

  2. Alcuni scritti di Alessandro erano già noti fin dal medioevo, come il commento al De sensu; ma nell’epoca di cui ci stiamo occupando è l’intera sua opera che suscita il più vivo interesse degli studiosi. Ci limitiamo a ricordare la traduzione del De anima e diverse opere fra cui merita particolare attenzione la traduzione del commento di Alessandro alla Metafisica di Aristotele. ↩︎

  3. Per un quadro più ampio e completo del mondo accademico si può far riferimento a G. P. Brizzi e R. Greci (a cura di), Gesuiti e università in Europa, (secoli XVI-XVII), Atti del Convegno (Parma 13-15 dicembre 2001), Bologna 2002; A. Battistini. Galileo e i Gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano 2000 e U. Baldini, Legem impone subactis. Studi su filosofia e scienza dei gesuiti in Italia. 1450-1632, Roma 1992. ↩︎

  4. Sulla figura di Clavio si veda la prima parte di Cristoph Clavius e l’attività scientifica dei gesuiti nell’età di Galileo, Atti del Convegno internazionale (Chieti, 28-30 aprile 1993) a cura di U. Baldini, Roma 1995. ↩︎

  5. Cfr. U. Baldini, Legem impone subactis. Studi su filosofia e scienza dei gesuiti in Italia. 1450-1632, op. cit. ↩︎

  6. Lettera a V. Viviani del 10 Agosto 1655, in Carteggio 1649-1656, vol. II delle Opere dei discepoli di Galileo, a cura di G. Abetti e di P. Pagnini, Firenze 1942, p. 243. ↩︎

  7. Lettera di Cesare Marsili a Galileo, 18 dicembre 1631, in G. Galilei, Opere di Galileo Galilei, Ediz. Naz. a cura di Favaro A., Firenze 1890-1909, (d’ora in poi Opere), XIV, p. 319. ↩︎

  8. Cfr. Lettera di Paolo Gualdo a Galileo, 6 maggio 1611, Opere, XI, p. 100. ↩︎

  9. Cfr. M. Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della Controriforma, Roma 2004; L. Geymonat, Galileo Galilei, op.cit.; P. Rossi, Galileo Galilei, Roma 1995. ↩︎

  10. Opere, I, p. 12. ↩︎

  11. Cfr S. Drake, Galileo at Work: His Scientific Biography , Chicago-London 1978, trad it. Galileo. Una biografia scientifica, Bologna 1988. ↩︎

  12. cfr. Opere, X, pp. 44-45. ↩︎

  13. W. A. Wallace, Galileo’s Pisan Studies in Science and Philosophy , in «The Cambridge Companion to Galileo», a cura di P. Machamer, Cambridge 1998, pp. 27-52. ↩︎

  14. Ibid. ↩︎

  15. Opere, I, p. 9. ↩︎

  16. Biblioteca nazionale Centrale “Firenze”, Collezione Galileiana della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma. ↩︎

  17. W.F. Edwards e W.A. Wallace (a cura di), Tractatio de praecognitionibus and Tractatio de demonstratione, Padova 1988, e W.A. Wallace (a cura di), Galileo’s Logical Questions, A Translation, con note e commento, Dordrecht-Boston-London 1992. ↩︎

  18. Cfr. Ibid↩︎

  19. Rispettivamente in Opere, I, pp. 38-122 e Ibid, pp. 122-177. Per una versione critica più recente di entrambi i manoscritti si veda anche W.A. Wallace (a cura di), Galileo’s Early Notebooks, traduzione dal latino e commento paleografico, Indiana 1977. ↩︎

  20. Opere, I, p. 38. ↩︎

  21. Opere, I, p. 11. ↩︎

  22. Molti sono anche i riferimenti contenutistici, oltre che strutturali, alla Summa Theologiae di San Tommaso. ↩︎

  23. Per uno studio completo e approfondito si veda: R. Giacomelli, Galileo Galilei giovane e il suo “De motu”, Pisa 1949. ↩︎

  24. Opere, I, p. 243-340. ↩︎

  25. Ibid, pp. 341-366. ↩︎

  26. Ibid, pp. 367-408. ↩︎

  27. Opere, I, p. 418. « Può farsi questione se veramente i gravi si muovano al centro del mondo; di che Tolomeo, c. 7, p. lib. A.1. Se la virtù impressa sia consumata dal tempo ovvero dalla gravità del mobile. Da che sia causato il moto naturale. Da che sia causato il moto violento. Se il mezzo sia necessario al moto. Se si dia un grave e un leggero in senso assoluto. Se gli elementi nel proprio luogo siano gravi o leggeri. Della proporzione dei movimenti di uno stesso mobile in diversi mezzi. Della proporzione dei movimenti di diversi mobili nello stesso mezzo. Della causa della tardità e della velocità del movimento. Se nel punto di riflessione si dia quiete. Se il moto naturale si acceleri sempre più e perché si acceleri. Nel movimento si considerano tre cose : il mobile, il mezzo, e il movente. In che modo la figura del mobile sia favorevole o sfavorevole al movimento. Della proporzione delle gravità di uno stesso grave in diversi mezzi, dalla quale dipende la questione della proporzione dei movimenti. Data la gravità del mezzo e la velocità del mobile, è anche data la gravità del mobile. Data la gravità del mobile, e del mezzo, è data la velocità del moto. Data la velocità e gravità del mobile, è data la gravità del mezzo. Del moto circolare. Occorre considerare la proporzione dei movimenti su piani inclinati, e se forse i più leggeri non discendano al principio più rapidamente, allo stesso modo che nella bilancia nella quale, quanto più i pesi siano minori tanto più facile è il movimento». Per la traduzione italiana di questi e dei successivi passi del De Motu si fa riferimento a R. Giacomelli, op. cit, pp. 29-30. ↩︎

  28. Cfr. R. Giacomelli, op. cit, pp. 30-31. Nei paragrafi successivi la suddivisione per trattazione che Giacomelli adotta nel suo studio, ci servirà come guida per una analisi più approfondita del testo di Galileo. ↩︎

  29. Cfr. Ibid, p. 33. ↩︎

  30. Cfr. Opere, I, p. 254-260, 289-293. ↩︎

  31. Cfr. R. Giacomelli, op. cit, pp. 33-34. ↩︎

  32. Opere, I, p. 355. «Se pertanto Aristotele e gli altri filosofi si contentassero di prendere per leggero quello che noi chiamiamo meno grave, non ci sarebbe grave di accettare anche noi questa espressione di leggero: ma poiché (non contenti di intendere per leggero ciò che è meno grave) vollero che vi fosse un qualche corpo leggero, il quale sia assolutamente tale e che manchi di ogni gravità noi che aborriamo ciò assai più d’un cane o d’un serpe, ci siamo sforzato di demolire questo leggero, in ogni modo e completamente». Traduzione italiana tratta da R. Giacomelli, op. cit, p. 34. ↩︎

  33. Ibid, p. 360. «Concludiamo pertanto che non vi è nessun corpo privo di gravità, ma che tutti sono gravi, se non che alcuni più e altri meno, secondo che la loro materia sia più costipata e compressa, o diffusa o dilatata». Traduzione italiana tratta da R. Giacomelli, op. cit, p. 34. ↩︎

  34. Cfr. Opere, I, p. 289. ↩︎

  35. Cfr. Ibid, p. 355-366. ↩︎

  36. I titoli dei capitoli nella traduzione italiana risultano: Contro l’opinione di Aristotele nessun corpo è privo di gravità; Nessun moto all’insù è naturale; Si prova che il moto all’insù non può essere naturale da parte del mobile; Quelle cose che fin qui sono state dette muovendosi naturalmente all’insù, non sono mosse da causa interna, ma esterna e precisamente, per estrusione, dal mezzo stesso. ↩︎

  37. Cfr. R. Giacomelli, op. cit, pp. 35 ss. Egli infatti titola tre differenti paragrafi per i tre casi presi in esame. ↩︎

  38. Il titolo del capitolo risulta: «…diversa mobilia in eodem medio mota aliam servare proportionem a bea, quae illis ab Aristotele est tributa » in Opere, I, pp. 262-273. ↩︎

  39. Ibid, p. 273. «Queste sono regole universali delle proporzioni dei movimenti dei mobili, sia della stessa sia non della stessa specie, nello stesso mezzo o in diversi mezzi, all’insù o all’ingiù». Traduzione italiana tratta da R. Giacomelli, op. cit, p. 42. ↩︎

  40. Il titolo del capitolo risulta: «…in quo ea omnia, quae supra demonstrata sunt, naturali discursu considerantur, et ad lancis pondera naturalia mobilia reducuntur» in Opere, I, pp. 274-276. ↩︎

  41. Ibid, p. 276. ↩︎

  42. Il titolo del capitolo è: «…ubi, contra Aristotelem, demonstratur, si vacuum esset, motum in instanti non contigere, sed in tempore» in Ibid, pp. 276-284. ↩︎

  43. Abbiamo riportato la dimostrazione di Galileo (cfr. Opere, I, 279) così come in R. Giacomelli, op. cit, p. 45. ↩︎

  44. Opere, I, p. 284. «E di ciò basta » ↩︎

  45. Ibid, pp. 296-302. ↩︎

  46. Cfr. W.A. Wallace (a cura di), Galileo’s Logical Questions, A Translation, op. cit. ↩︎

  47. Ibid, p.299. «…rimane dunque che sullo stesso orizzonte non si muova né naturalmente né violentemente. Ma se si muove violentemente potrà essere mosso da una forza la più piccola di tutte». Traduzione italiana tratta da R. Giacomelli, op. cit, p. 59. ↩︎

  48. Cfr. R. Giacomelli, op. cit, p. 60-61. ↩︎

  49. Cfr. R. Giacomelli, op. cit, p. 62-63, il quale riferisce il pensiero in merito di Nicola Cusano, espresso nell’opera De ludo globi↩︎

  50. Cfr Ibid, pp. 65-68. ↩︎

  51. «Da che cosa sono mossi i proiettili» in Opere, I, pp. 307-314. ↩︎

  52. Opere, I, pp. 309-311. «…che cosa sia questa virtù motrice che dal movente viene impressa al proietto. Diciamo invero che essa consiste in una privazione di gravità quando spinge in sul proietto; ed in una privazione di leggerezza quando lo spinge in giù […] Concludiamo che i proietti non sono mossi dal mezzo, ma da una virtù motrice impressa dal movente». Traduzione italiana tratta da R. Giacomelli, op. cit, p. 59 e 62. ↩︎

  53. J. B. Benedicti, Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber, Taurini 1585, p. 286. «Ogni corpo grave, che si muoye naturalmente o con violenza, riceve in se un impetus, un’impressione del moto, tale che, separato dalla virtù motrice, continua a muoversi da se durante un certo, lasso di tempo. Dal momento che il corpo si muove con un moto naturale, la sua velocità aumenterà senza posa; infatti, l’impetus e l’impressio che sono nel corpo crescono incessantemente, perchè il corpo è costantemente unito alla virtù motrice. Da ciò deriva il fatto che se, dopo aver messo in movimento la ruota con la mano, si toglie la mano, la ruota non si arresta immediatamente, ma continua a girare per un certo tempo». Trad. it. tratta da A. Koyrè, Studi galileiani, trad. it. di M. Torrini, Torino 1979, p 42. ↩︎

  54. Cfr. A. Koyrè, Studi galileiani, op. cit., p 42. ↩︎

  55. Opere, p. 315. ↩︎

  56. Ibid, pp. 315-323. ↩︎

  57. Cfr. Ibid, pp. 333-337. Il capitolo dal titolo «…in quo causa assignatur, cur minus gravia in principio sui motus naturalis velocis moveantur quam graviora». ↩︎

  58. Cfr. Dollo C., Galilei e la fisica del Collegio Romano, in Dollo C., Galileo Galilei e la cultura della tradizione, Soveria Mannelli 2003, pp. 87-105. Per un quadro più ampio si veda anche W. A. Wallace, Galileo and the Doctores parisienses, in «New perspectives on Galileo», Dordrecht-Reidel 1978, pp. 87-138. ↩︎

  59. Opere, I, pp. 12-13. ↩︎

  60. In queste considerazioni facciamo nostra l’idea che Corrado Dollo ha esperesso nello studio L’egemonia dell’archimedismo in Galileo, in Archimede. Mito, tradizione, scienza: Siracusa-Catania, 9-12 ottobre 1989, a cura di Dollo C., Firenze 1992, pp. 202-203 e in Galilei e la fisica del Collegio Romano, op. cit. ↩︎

  61. Cfr. Dollo C., Galilei e la fisica del Collegio Romano, op. cit., pp. 91 ↩︎