Pavel Aleksandrovic Florenskij: un profilo del suo pensiero

Ci sono stati dei giusti che hanno avvertito con articolare acutezza il male e il peccato presenti nel mondo, e che nella loro coscienza non si sono separati da quella corruzione; con grande dolore hanno preso su di loro la responsabilità per il peccato di tutti, come se fosse il loro personale peccato, per la forza irresistibile della particolare struttura della loro personalità.1

L’espressione del grande filosofo, teologo e scienziato russo, oltre che a se stesso, si può ben applicare alle altre figure che evocheremo nel corso delle nostre riflessioni, ma anche alla nutrita schiera di martiri in un secolo, certamente «breve», ma anche decisamente drammatico: «Questa è un’epoca tanto tremenda che ognuno deve rispondere di se stesso» scriveva il Nostro in una memoria databile 1934, e aggiungeva: «Io ho compreso che è soltanto l’ascolto della voce di Dio che devo seguire».2 Le lettere dal gulag attestano il tormento della prigionia di questo prete ortodosso, paragonato a Leonardo o a Pascal per il suo genio enciclopedico, che gradualmente stiamo imparando ad apprezzare anche in Occidente e in particolare nel nostro Paese.3 Il martirio, mediante fucilazione, si è consumato l’8 dicembre 1937 presso Leningrado.4

La deriva ideologica della modernità ha espresso tutta la sua barbarie e il suo non-senso nelle atrocità perpetrate nei lager nazisti come nei gulag stalinisti. E di questa profonda irrazionalità Florenskij si mostra ben consapevole: «la stupidità opprime».5 Si tratta di azioni la cui assurdità è pienamente percepita: «Mi stupisce l’assurdità delle azioni umane che non trovano giustificazione nemmeno nell’egoismo, perché gli uomini agiscono a scapito anche dei propri interessi. Della parte morale non parlo neanche. Dappertutto spergiuro, inganno, uccisioni, servilismo, mancanza di qualsiasi principio. I legami di parentela si buttano da parte, la legge si crea e si abolisce per far piacere alla necessità del momento e comunque non viene rispettata da nessuno».6 E il «terrore» prodotto dall’ideologia genera l’appiattimento della Historie, mentre il martire vive in quella sorta di pre-storia propria della Geschichte, che etimologicamente fa risalire alla figura dell’idiota, come persona priva di ogni legame, che vive solo in sé e per sé.7

A questa consapevolezza non è estranea la sensazione di profondo disagio, manifestata ad esempio a proposito della sorte di Puskin, dove ancora una volta si manifesta «quella legge universale che vuole che si lapidino i profeti e poi si costruiscano loro i sepolcri, dopo che sono stati uccisi. Puskin non è né il primo né l’ultimo: retaggio della grandezza è la sofferenza, sofferenza che viene dal mondo esterno, e sofferenza interiore, che viene da noi stessi».8 E accanto all’amarezza per l’incomprensione dei propri contemporanei, la lucida coscienza dello scacco che il proprio pensiero subirà presso i posteri:

Non sono neppure convinto che l’avvenire accetterà [il mio pensiero], perché, quando l’avvenire arriverà allo stesso punto, avrà una sua lingua e un suo approccio. Alla fine dei conti, è una consolazione ben magra pensare che quando l’avvenire, partendo dal lato opposto, arriverà alle mie stesse conclusioni, si dirà: «A quanto pare, nel 1937 un certo NN aveva già formulato le stesse idee, ma in un linguaggio per noi superato. È sorprendente come a quell’epoca potessero arrivare alle nostre conclusioni». E magari istituiranno anche un anniversario o una commemorazione, che se non altro mi farà ridere.9

Il nostro tentativo di individuare nel pensiero del martire russo elementi istruttivi per la TF del Novecento, e oltre, rischia di destare la sua ilarità, ma non per questo ci sembra di dover demordere dal cercare nella sua lezione delle chiavi interpretative del pensiero filosofico-teologico del suo e del nostro tempo, senza tuttavia istruire un’attualizzazione estemporanea delle sue acquisizioni o tributargli dei riconoscimenti tanto formali quanto sterili. La sua lezione mi sembra possa valere per almeno tre nuclei tematici fondamentali, intorno ai quali si è esercitato e deve ancora esercitarsi il nostro pensiero teologico: a) il carattere asistematico e antinomico della conoscenza; b) la dimensione iconica del pensiero; c) il nesso tra verità e libertà.

1. Antinomia e Paradosso

Uno dei tratti caratteristici della profonda e nient’affatto banale attualità del pensiero di Florenskij lo si può cogliere a partire dalla convinzione, più volte espressa anche nelle lettere, circa la a-sistematicità del sapere. Il senso di tale connotazione va compreso non tanto nella chiave di un fantomatico ritorno al caos originario,10 o di una disperata frammentazione dell’esistenza e quindi del senso, bensì attraverso la metafora della musica, che lo stesso Florenskij suggerisce ed adotta:

Come il rumore di una lontana risacca, cosi risuona all’autore l’unità ritmica della sua opera. I temi se ne vanno e poi ritornano e di nuovo se ne vanno e di nuovo ritornano; e ciò accade sempre di nuovo: essi ritornano ogni volta rafforzati ed arricchiti, ogni volta si riempiono del stucco di vita. […] I temi scorrono l’uno dietro l’altro, si raggiungono l’un l’altro, si respingono l’un l’altro, per poi, dopo aver cessato di echeggiare, cedere il posto a nuovi temi. Ma nei nuovi risuonano i vecchi, pur già da tempo passati. Essi nascono e si sviluppano in una maniera mai udita, intrecciandosi tra di loro fino ad assomigliare ai tessuti di un organismo, perché, pur eterogenei, formano un unico corpo. È in questo modo dialettico che i temi rivelano i loro legami di reciprocità, testimoniando di essere frutto dì un’unica percezione originaria. Così, nell’insieme dell’opera, tutti i temi si trovano, in una o nell’altra maniera, legati tra di loro. Questa è l’espressione della responsabilità collettiva: il palpitare ritmico dei temi che si compenetrano reciprocamente l’un l’altro.11

Lo spirito di sistema proprio della modernità e che nella modernità compiuta trionfa, strutturandosi ideologicamente, trova in Florenskij uno dei critici più radicali. Il pensatore russo fa qui propria la lezione di Novalis, secondo cui Systemglaube ist Aberglaube (= la fede nel sistema è superstizione),12 dove riecheggia l’espressone ancora più radicale di W.H. Wackenroder: Aberglaube besser als Systemglaube. Una lettera del 1936 è particolarmente eloquente a riguardo:

Gli uomini dei tempi nuovi, a partire dall’epoca del Rinascimento, si sono ammalati sempre più di Fede nel sistema, sostituendo erroneamente il senso della realtà con formule astratte che non hanno più la funzione di essere simboli della realtà, ma diventano un surrogato di essa. Così l’umanità si è immersa nell’illusionismo, nella perdita del contatto con il mondo e nel vuoto, il che inevitabilmente ha portato alla noia, allo sconforto, allo scetticismo corrodente, alla mancanza del buon senso. Uno schema, in quanto schema, per se stesso, se non è controllato dalla viva percezione del mondo, non può neanche essere seriamente valutato: qualunque schema può essere bello, cioè strutturato bene in se stesso. Ma la visione del mondo non è il gioco degli scacchi, non è costruire schemi a vuoto, senza avere il sostegno dell’esperienza e senza tendere risolutamente alla vita. Per quanto ingegnosamente possa essere strutturato in se stesso, senza queste basi e senza questo scopo ogni schema è privo di valore. Ecco perché credo che sia assolutamente necessario accumulare da giovani una concreta percezione del mondo, e darle forma solo a un’età più matura.13

Questa concreta percezione del mondo, dell’uomo e di Dio costituisce il riferimento reale di quell’orizzonte sapienziale (meglio forse sarebbe dire sociologico) in cui si situano le diverse forme del sapere nella prospettiva florenskijana e al tempo stesso rivela il profondo carattere antinomico della realtà. A questo riguardo il pensatore russo fa tesoro della grande lezione di Pascal, facendo proprio l’appello alla «professione dei contrari», come emblema di un cristianesimo radicale fedele alle origini e al tempo stesso al proprio tempo (si chiami esso «fine dell’epoca moderna», già all’interno della stessa modernità nascente o si designi col termine ambiguo e complesso di postmodernità). La forma antinomica del paradosso, cardine della gnoseologia e diremmo dell’ontologia florenskijana, viene a più riprese teorizzata ed esposta negli scritti del pensatore russo e ritorna nell’Epistolario. In una lettera del 1935, per esempio, nell’offrire indicazioni per una corretta ermeneutica dei testi, sostiene l’interesse per le contraddizioni che un’opera, anche la più «sistematica» contiene:

Si può dire che quanto più grandiosa è un’opera. Tante più contraddizioni si possono trovare in essa: e ciò, più di una volta, ha dato ai critici stupidi occasione di accusare i grandi creatori (a partire da Omero, e poi Goethe, Shakespeare e altri) di incapacità, disattenzione e addirittura di irriflessione. Ciò è un profondo errore. Di grandi contraddizioni abbondano perfino opere matematiche e fisico-matematiche, anche quelle più rilevanti… .14

Ma nell’Epistolario cogliamo l’eco dell’opera principale di Florenskij, dove il carattere antinomico del paradosso e dell’istanza veritativa e ontologica, di cui esso è portatore appare in tutta la sua evidenza, nella lettera VI, intitolata «La contraddizione».15 La tesi centrale qui espressa, secondo cui semplicemente e apoditticamente «La verità è un’antinomia»,16 viene rappresentata attraverso l’immagine che precede lo scritto, articolata e dimostrata attraverso il ricorso all’algoritmo logistico e documentata con suggestivi riferimenti a Eraclito e Platone, fino alla esposizione di una serie di antinomie dogmatiche che ricordano i Paradossi dogmatici17 luterani, che nel 1518 diedero vita alla disputa di Heidelberg e che incontrarono l’interesse di Heidegger nelle sue lezioni dedicate al pensiero di Agostino.

Né si può dimenticare il tema del terzo escluso che Florenskij evoca nell’epilogo18 della sua opera. Il tertium datur teologico e metafisico, declinabile ai diversi livelli della trattazione ed invocabile come legame agapico tra le diverse forme attraverso cui l’antinomia del paradosso si esprime è lo Spirito Santo. Senza addentrarci in ulteriori approfondimenti basterebbe qui segnalare come, all’interno dell’ontologia trinitaria, strumento speculativo proprio della metafisica della carità, è grazie al riferimento a questo grande terzo escluso della teologia occidentale che si può stabilire un rapporto fecondo fra pensiero e paradosso, dove appunto tra i doni che Egli elargisce la tradizione segnala quelli dell’intelletto, della scienza e della sapienza e ciò in armonia con la libertà in cui l’atto di fede si esprime. «I primo aut è la geenna, il secondo è l’eroismo ascetico, tertium non datur, ma ambedue hanno la caratteristica di poter convincere».19 E più avanti:

Per arrivare alla verità bisogna rinunciare alla propria aseità, uscire da se stessi e questo ci è decisamente impossibile perché siamo carne. E allora come aggrapparsi alla colonna della verità? Sappiamo soltanto che tra le crepe del raziocinio umano si intravede l’azzurro dell’Eternità; è inattingibile, ma è così. Sappiamo anche che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e non il Dio dei filosofi» e dei dotti viene a noi, viene al nostro letto, ci prende per mano e ci guida in una maniera che non avremmo mai potuto prevedere. «Agli uomini questo è impossibile, ma tutto è possibile a Dio».20

Una suggestiva pagina del compianto don Italo Mancini, dove la professione dei contrari si coniuga con la necessità di esprimere e vivere il «tragico»21 proprio dell’appartenenza cristiana, costituisce a mio avviso il miglior commento all’imperativo di Pascal e alla sua ripresa florenskijana:

E quello cristiano [= il compito], oggi, lo indicherei nel segno della coscienza tragica con quanto di indicativo teologico e di imperativo pratico esso comporta: ossia la pascaliana logica di far professione dei due contrari, dove paradossalmente Dio è tutto e toglie valore alle cose, quando vengono comparate, nel tessersi e ritessersi della tela, alla riva eterna dell’essere; e, per la misteriosa assenza di questa presenza, onde Gesù, il primogenito esemplare di tutti i fratelli, è detto «in agonia fino alla fine del mondo», anche il mondo risulta u tutto, sì che Pascal, che pur aveva avuto al notte di gioia e di fuoco, consumerà gli ultimi anni della sua vita nel progettare carrozze meglio viabili per Parigi, farà ricerche sulla cicloide, e dichiarerà la geometrica «il più bel mestiere del mondo», e non come, sedotta da una certa mistificazione, dirà la sorella Madame Périer nella nota biografia, per distrarsi dal dolore dei denti, ma perché in tal modo attuava lo statuto della coscienza tragica, fissato da Lukàcs con questi due asserti per sé contraddittori (e vivere nella contraddizione, non logica, ma quella tra i tempi, tipica del cristiano, crea lo stile pensoso, tollerante, e non quello di chi trionfa e fugge da ogni agonia): per la coscienza tragica «il miracolo solo è reale»; e anche in forza di intendere il soprannaturale come il vero «impossibile» per la vita naturale, e quindi come «puro inizio», «creazione» e «miracolo», la vita tragica è la più esclusivamente mondana di tutte le esistenze».22

Il Novecento teologico ha ulteriormente espresso il senso del paradosso, inteso sia come antinomia che come dirompenza,23 in rapporto al soprannaturale in particolare nell’opera di Henri de Lubac, tanto che questa tematica è stata assunta come chiave interpretativa fondamentale del pensiero di questo grande teologo francese.24 Basterà qui accennare ad alcune direzioni speculative caratterizzanti una ripresa della paradossalità originaria all’interno di percorsi propri della TF. In primo luogo tale paradossalità investe e tende a caratterizzare il discorso su Dio, assumendo così una valenza teologica e gnoseologica, in secondo luogo essa implica ed ovviamente richiama il tema cristologico, quindi, e non da ultimo, si espande ai temi antropologico ed ecclesiologico, passando attraverso la prospettiva sacramentale. In questo senso la lezione di Florenskij può essere assunta come paradigmatica rispetto ad un nucleo teoretico decisivo caratterizzante la TF del novecento. Da un altro punto di vista l’attenzione di questo geniale e versatile pensatore verso le scienze della natura, risulta ben in linea con l’affermazione tipica della TF ortodossa, secondo cui «la creazione è rivelazione».25

2. Pensiero iconico

Il carattere antinomico del paradosso riceve in Florenskij una formalizzazione attraverso l’utilizzo della logica simbolica, sicché l’antinomia risulta così espressa:

P = (p ∩ -p) ∩ V26

Mentre da un lato questo il martire russo offre un paradigma importante di confronto-incontro fra i diversi saperi (oggi si parla molto di integrazione dei saperi), d’altro canto rappresenta certamente una delle figure in cui si può rinvenire quella riscossa del simbolo27 in contrapposizione al pensiero aridamente razionalistico proprio degli esiti deleteri della modernità filosofica e scientifica. Anche in questo caso l’attualità di Florenskij risulta folgorante: è davvero pensatore postmoderno e così come il carattere a-sistematico del sapere che persegue si contrappone allo spirito di sistema proprio della modernità, così il carattere profondamente simbolico delle sue espressioni allo spirito concettualistico ed intellettualistico proprio di alcune espressioni dell’epoca moderna, che hanno finito col caratterizzarla nei termini della cultura egemone.

Ma questa riscossa del simbolo risulta ancor più vigorosa nell’attenzione che Florenskij rivolge all’icona e alla sua valenza sapienziale e veritativa. Sicché oltre che simbolico il suo pensiero si può con buona ragione indicare come paradigma di quel «pensiero iconico» oggi fortemente perseguito anche in Occidente. Il quadro entro cui si situa il carattere iconico della conoscenza è certamente quello sociologico. Tra le lettere della Stolp va rilevata a questo proposito la decima, dedicata alla Sofia, con il richiamo in appendice al simbolismo dei colori presente nella relativa icona. Sebbene in maniera piuttosto germinale rispetto all’elaborazione teoreticamente più caratterizzata di Bulgakov28 e nonostante il turbamento espresso da Evdokimov circa il carattere dirompente e conturbante della Sofia florenskijana,29 ci sembra che il nesso icona-sofia, attraverso appunto la descrizione dell’icona della Sofia, costituisca il nocciolo della concezione sociologica del martire russo, dove l’icona, relazionata al simbolo e intesa e interpretata come trasfigurazione inclusiva del simbolo, diventa il luogo di quella «metafisica concreta», certo debitrice della riscoperta dell’idealismo, caratteristica di quella che è stata chiamata l’«età d’argento» del pensiero russo,30 ma anche capace di segnare profondamente la distanza da una concezione meramente idealistica, in senso razionalistico, della realtà e della vita.

La tensione antinomica precedentemente accennata svolge un ruolo decisivo in rapporto al simbolo-icona, il cui significato più profondo risiede nel mistero dell’incarnazione,31 definita «precetto fondamentale della vita: l’Incarnazione che è realizzare le proprie potenzialità nel mondo, accogliere in sé il mondo e formare la materia di sé».32 Alcuni passaggi del saggio sull’icona risultano particolarmente istruttivi intorno al carattere antinomico:

L’icona è un’immagine del mondo venturo; essa (e del come non ci occuperemo) consente di saltare sopra il tempo e di vedere, sia pure vacillanti le immagini — «come in enigmi nello specchio» — del mondo venturo. Queste immagini sono del tutto concrete e parlare dell’accidentalità di alcune delle loro parti significa assolutamente fraintenderne la natura simbolica. E perfino se si ammette che è accidentale questo o quel tipo di particolari, ciò non porta affatto a fare altrettanto con altri tipi di particolari […].33

Con questo il martire russo non intende escludere ogni accidentalità dall’icona, ma semplicemente sostenere che «l’accidentale dell’icona non è l’accidentale dell’icona, bensì del suo ricopiatore e ripetitore».34 Sul piano veritativo dunque la pittura d’icone sarà una metafisica, come viceversa la metafisica è «pittura d’icone della parola».35 Se «il significato dell’icona è l’incarnazione»,36 allora il pensiero iconica sarà tutt’altro che un pensiero antimetafisico, piuttosto esso si oppone all’astrazione propria di certa metafisica, risultando invece l’espressione più autentica della metafisica concreta:

Silenziosamente si è insinuata l’idea che la metafisica sia astratta, l’idea della metafisica come pensiero astratto. La causa è il radicale rifiuto del pensiero religioso, o più precisamente dell’intelletto ecclesiale e delle strutture astratte come tali. La Chiesa nega il significato spirituale di un pensiero che non poggi su una concreta esperienza che fondi la metafisicità della vita e la vitalità della metafisica.37

In questo senso il riferimento all’icona rimanda al tema dell’apparizione, che Florenskij interpreta, a scanso di equivoci, nel senso della rivelazione:

per evitare un’interpretazione ambigua che confonda apparizione e apparenza, diciamo rivelazione, rivelazione del sacro. Sia la metafisica sia la pittura d’icone poggiano su questo fatto intellettuale o intelletto effettuale: nella rivelazione dall’alto non c’è niente di semplicemente dato, di non compenetrato di un significato, come non c’è neanche nulla di astrattamente edificante, ma tutto è significato incarnato e visibilità intelligibile. Fondata su questa rivelazione, la metafisica cristiana non perde mai concretezza e perciò sempre accompagnerà la pittura d’icone, e il pittore d’icone, fondandosi sulla stessa rivelazione, non usa di una mera tecnica priva di significato metafisico.38

Sul piano epistemologico, tuttavia, non si richiede al filosofo cristiano di dipingere icone, né al pittore d’icone di scrivere libri concettualmente rilevanti, eppure il rimando della sfera filosofica a quella iconica risulta imprescindibile, tanto che il pensiero iconico risulta una sorta di ponte spirituale fra filosofia e teologia, fra arte e riflessione, sicché «i veri teologi e i veri pittori d’icone si chiamano ugualmente filosofi».39

Il senso dell’unitotalità proprio del sapere metafisico, si connota qui di una profonda dimensione sofiologica. Rimandando alla lettera X della Stolp ci soffermiamo qui semplicemente e brevemente sulla modalità iconica, propriamente espressiva del tema della Sofia, interpretando il turbamento di Evdokimov nel senso del timore di vedere riproposto il quaternario baaderiano, nelle pagine che il pensatore russo dedica a questa fondamentale riflessione. Una lettura più penetrante dei testi intravede e poggia la distanza di questo pensiero dalle forme idealistiche e teosofiche di marca tedesca nel suo radicamento trinitario e nel suo costante riferimento ecclesiale, prima ancora che ecclesiologico.40 Ed ecco un piccolo saggio di come, seguendo il Portal, Florenskij spiega gli elementi cromatici presenti nell’icona della Sofia:

Alla base del simbolismo cromatico sta, secondo Portal, il fatto che tutti i colori derivano dalla luce e dalla tenebra. Il rosso, colore dell’amore divino, e il bianco, colore della sapienza divina, derivano immediatamente dalla luce; il giallo, che deriva dal rosso e dal bianco, è il simbolo della rivelazione dell’amore e della sapienza divina; anche l’azzurro deriva dal rosso e dal bianco e significa la sapienza divina che si manifesta attraverso la vita, lo spirito o il soffio di Dio, simboleggia lo spirito di verità, indica la manifestazione dell’amore e della sapienza nelle opere, è simbolo dell’amore e della rinascita dell’anima attraverso l’ascesi. In altre parole, a fondamento del simbolismo stabiliamo tre momenti: 1) l’essere in sé (cioè, secondo noi, Dio in se stesso, Padre e Triunità): qui prevale il colore rosso e bianco; 2) la manifestazione della vita (cioè, secondo noi, il Logos nel mondo e la Sofia): qui i colori simbolici sono il giallo e l’azzurro; 3) l’azione che ne deriva (cioè, secondo noi la Creatura vivificata dallo Spirito Santo), simbolo della quale è il colore verde.41

Qui il ritmo trinitario è evidente a conferma della tesi sopra espressa, mentre il discorso prosegue con la descrizione delle diverse scelte cromatiche ed in particolare quella dell’azzurro in rapporto appunto alla Sofia.

L’interesse verso il pensiero iconico si è ridestato nell’Occidente filosofico e teologico del Novecento, non senza riferimento proprio ai pensatori russi in genere e a Florenskij in specie. Se si escludono l’attenzione verso la bellezza e la conseguente estetica teologica balthasariana,42 che si sviluppa in prospettiva e con metodo differenti rispetto a quelli florenskijani, come anche l’interesse rivolto al rapporto estetica e teologia da parte di P. Sequeri,43 un abbozzo di pensiero iconico in campo teologico lo troviamo in un recente saggio di B. Forte,44 mentre l’attenzione al simbolo risulta piuttosto accentuata e non solo, come in C. Geffré,45 dal punto di vista del linguaggio, bensì nella stessa prospettiva teologico fondamentale, attraverso la teoria dell’«evidenza simbolica della rivelazione».46 In campo filosofico, la riscossa del simbolo risulta preponderante.47 Ci limitiamo qui segnalare, data la sua dipendenza dichiarata dal pensiero russo, la riflessione sull’icona proposta da M. Cacciari48 e la contrapposizione, risolta piuttosto in senso apofatico,49 quindi anche qui differente rispetto al pensiero di Florenskij, tra idolo e icona, proposta da J.-L. Marion.50 Il pensiero rivelativo ha tentato così di assumere una dimensione «iconica»,51 abbandonando l’«idolo» e le sue pretese egemoniche. Ecco come Marion svolge la propria critica all’idolatria filosofica, chiamando in gioco la rivelazione cristiana ed i suoi eventi fondamentali:

avanziamo una prima domanda: l’Incarnazione e la Resurrezione del Cristo investono il destino ontologico o restano un avvenimento puramente ontico? E poi quest’altra: un’obiezione all’indipendenza ontologica di Dio è strettamente legata all’anteriorità irrefutabile del «soggiorno divino» che dovrebbe accoglierlo; ma appunto, in che cosa può dipendere Dio dal soggiorno che Gli prepara l’umanità (in questa o quella figura della storia del mondo)? In realtà, un idolo dipende interamente da questo presupposto, in quanto lo riflette, gli dà un nome e vi trova il proprio volto. Ma l’annuncio ebraico e la rivelazione cristiana mettono in gioco, sullo sfondo di una critica all’idolatria di cui il pensiero moderno non ha ancora potuto fare a meno, una venuta del Dio fra i suoi che si attesta persino quando «i suoi non lo ricevettero» (Gv 1, 11). L’assenza del «soggiorno divino» più che limitare o impedire la manifestazione, ne diventa invece la condizione — come distruzione di ogni idolo che abbia preceduto l’impensabile — la caratteristica — Dio solo può rivelarsi nel momento e nel luogo in cui nessun altro ente divino può esistere — e persino il rischio più grande — Dio si rivela spogliandosi della gloria divina.52

La rivelazione sarà allora pensata come puro dono e questa sua caratteristica fondamentale avrà valenza speculativa, ossia metterà in gioco lo stesso pensiero, chiamato a «regredire dalla metafisica», «superando la differenza ontologica»,53 e preoccupandosi del darsi stesso dell’amore originario ed originante: «Solo la distanza può dare all’essere che la vanità divenga dono senza ragione, poiché solo lei, che si abbandona in questi doni, sa riconoscere nella Gelassenheit un’icona della carità».54

3. Verità e libertà

La struttura antinomia della verità e quindi della realtà suggerisce e finisce con l’imporre questo terzo nucleo teoretico, oltremodo significativo per il pensiero teologico-fondamentale del Novecento, in quanto esige che l’istanza veritativa non venga mai disgiunta da quella etica, sicché fra l’adesione della verità e l’esercizio della volontà libera si dà un nesso profondo ed imprescindibile. Florenskij è molto chiaro e determinato a questo riguardo, proprio nella lettera VI, sull’antinomia, scrive:

Del resto non deve nemmeno essere diversa, perché si può affermare in anticipo che la conoscenza della verità esige una vita spirituale e quindi è un atto eroico, e l’atto eroico del raziocinio è la fede, cioè l’autonegazione. L’atto di autonegazione del raziocinio precisamente è un’espressione dell’antinomia. Infatti si può credere solo all’antinomia, perché ogni giudizio non antinomico viene semplicemente accettato o respinto dal raziocinio, visto che non trascende i confini del suo isolamento egoistico. Se la verità fosse non antinomica, il raziocinio, muovendosi in cerchio nel proprio campo, non avrebbe un punto d’appoggio, non vedrebbe l’oggetto extrarazionale, e quindi non avrebbe lo stimolo ad abbracciare l’eroismo della fede. Questo punto d’appoggio è il dogma. Proprio con il dogma incomincia la nostra salvezza, perché il dogma, essendo antinomico non costringe la nostra libertà e dischiude tutta l’estensione della fede volontaria o della maligna incredulità. Infatti non si può obbligare nessuno a credere o a non credere, nemo credit nisi volens, dice sant’Agostino.55

Interessante notare come il velle credendi venga interpretato come fondamento della meta-storicità dell’atto di fede, dove naturalmente non si tratta di una fede velleitaria e cieca, in quanto non esclude la ragione, mentre la accompagna con l’esercizio della volontà libera.

Interessanti le annotazioni secondo cui il tema della libertà, in Florenskij, viene trattato in connessone con quello del peccato, in particolare nella lettera VII della Stolp.56 Lo statuto ontologico-veritativo della libertà, pensato in rapporto all’uomo fa sì che la volontà libera venga percepita e teorizzata nel quadro della stessa struttura metafisica dell’essere umano e strettamente connessa all’immagine di Dio che l’uomo porta in sé come «nucleo santo» del suo esistere. L’uomo, quindi, non è in grado di esercitare la libertà rispetto a questo suo nucleo costitutivo originario, mentre può esercitarla e di fatto la esercita nella possibilità di accogliere o rifiutare la realizzazione della somiglianza divina.57 Qui la teodicea incrocia l’antropodicea:

Dio è attorno a noi, presso di noi, ci circonda: «in Lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», immersi in un inesplorabile abisso delle azioni Divine, grazi e alle quali e attraverso le quali possiamo esistere. Queste energie Divine, che sono la Divinità stessa, ci guidano e operano su di noi, anche se noi spesso non lo sappiamo. Ma al di là di tutto ciò, c’è la sfera della nostra libertà che con ‘e sue radici, attinge dalle stesse energie Divine fondandosi del tutto su di esse, ma che, allo stesso tempo, alle sue vette possiede il dono dell’autodefinizione, il dono di compiacersi o no della vita con Dio, possiede il potere divenire da Lui odi allontanarsi da Lui. Questo è il potere della nostra soggettività, di quel qualcosa di ontologico che è del soggetto e che, contrariamente al soggettivismo privo di. forza ed energia, è di carattere cosmico. E in nostro potere spalancare i nostri cuori alla Sorgente dell’essere ricevendo da Esso i flussi di vita, oppure, al contrario, di chiuderci nella soggettività, rifugiarci sotto terra, fuggire dall’essere. Ma in quel caso iniziano a seccarsi i nostri legami con il mondo e tutto il nostro essere sta per morire.58

La divinizzazione dell’uomo dunque esige il suo assenso libero e si espone allo scacco del peccato con la conseguenza della geenna,59 intesa non tanto come castigo ulteriore, ma come orizzonte metafisico del negativo e della morte e ciò sempre nel quadro del carattere antitetico-paradossale della realtà che la fede esprime:

Se la libertà dell’uomo è una vera libertà di decisione, il perdono della cattiva volontà è impossibile, essendo essa il prodotto creativo della libertà. Non ritenere cattiva la cattiva volontà significherebbe non riconoscere la realtà della libertà; se la libertà non è reale, nemmeno l’amore di Dio per la creatura è reale; se non c’è una reale libertà della creatura, non c è nemmeno una delimitazione reale da parte della Divinità sulla creazione, non c’è kénosis e quindi non c’è amore. E se non c’è amore non c’è nemmeno perdono. Al contrario, se esiste il perdono di Dio, esiste anche l’amore di Dio e quindi una vera libertà della crea- mia. Se c’è una vera libertà è inevitabile anche la conseguenza: la possibilità della cattiva volontà e quindi l’impossibilità del perdono. Chi nega l’antitesi nega la tesi, chi afferma l’antitesi afferma anche la tesi, e viceversa. Tesi e antitesi sono inseparabili come l’oggetto e la sua ombra. L’antinomicità del dogma del destino ultimo è logicamente indubbia e psicologicamente evidente.60

La teologia del Novecento ha evitato accuratamente gli esiti radicali in chiave escatologica del pensiero florenskijano, così come sono espressi nella VIII lettera, e tuttavia a livello fondamentale non ha mancato di marcare con forza il nesso tra verità e libertà, ritenendolo di fatto costitutivo dell’atto di fede testimoniale,61 e del sapere che dalla fede si genera,62 oppure sviluppando una fenomenologia dell’atto di fede congrua con la dinamica dell’azione umana, elaborata da M. Blondel e con la sottolineatura della possibilità della negazione e dell’atteggiamento recalcitrante della libertà.63 D’altro canto quella che Luigi Pareyson ha chiamato l’«ontologia della libertà», anche qui privata dalla radicalizzazione del tema del male che il filosofo torinese alla scuola di Schelling propone, non manca di interpellare la TF e di porla perennemente in ricerca di una elaborazione critico-speculativa dell’imprescindibile nesso tra verità e libertà, con tutte le sue possibili varianti.64

Il testo è tratto da «Teologia fondamentale», in G. Canobbio — P. Coda (curatori), La teologia del XX secolo. Un bilancio, vol. 1: Prospettive storiche, Città Nuova, Roma 2003, pp. 391-499 (in particolare pp. 393-411).


  1. Questo testo dello stesso Florensij in V. sentalinskij, I manoscritti non bruciano. Gli archivi letterari del KGB, Garzanti, Milano 1994, 174. ↩︎

  2. Cf a questo proposito il Martirologio di Leningrado 1937-38, San Pietroburgo 1999, 655 [Per questo testo cf P. Florenskij, «Non dimenticatemi». Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, a cura di N. Valentini e L. Zák, tr. it. di G. Guaita e L. Charitonov, Arnoldo Mondadori, Milano 2000, 25 e 40 (n. 40)]. ↩︎

  3. Tra le opere di Pavel A. Florenskij tradotte in italiano ricordiamo: La colonna e il fondamento della Verità, a cura di E. Zolla, tr. it. di P. Modesto, Rusconi, Milano 1974, 19982: capolavoro di Florenskij, vera e propria summa della teologia e spiritualità ortodosse; Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano 1977: trattazione originale del tema dell’icona e dell’iconografia, impostata in chiave teologico-antropologica; La laura della Trinità e di san Sergio e la Russia, in Russia Cristiana 4 (1977), pp. 3-19: breve saggio sui fondamenti spirituali del popolo russo; Cristianesimo e cultura, in L’altra Europa, 5 (1987), pp. 49-62: riflessione sulla crisi del cristianesimo e sul suo superamento per mezzo di un’apertura ecumenica delle chiese; Attualità della parola. La lingua tra scienza e mito, tr. it. di E. Treu, Guerini e Associati, Milano 1989: contiene tre saggi dedicati alla filosofia del linguaggio; La prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di N. Misler, tr. it. di C. Muschio e N. Misler, Gangemi Editore, Roma 1990: raccolta di saggi di carattere filosofico sul tema dell’arte e dell’estetica; Note sull’ortodossia, in L’altra Europa, 1 (1991), pp. 25-33: breve ma intenso saggio sull’importanza della fede in Dio, e sull’unità dei credenti di tutte le confessioni e religioni; Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro, a cura di N. Kauchtschischwili, tr. it. di E. Treu, Qiqajon, Magnano (BI) 1992: affascinante racconto sul monaco Isidoro, padre spirituale di Florenskij; Lo spazio e il tempo nell’arte, a cura e tr. it. di N. Misler, Adelphi, Milano 1995: lezioni tenute agli Atelier superiori tecnico-artistici di Stato sul tema dell’analisi della spazialità e del tempo nelle opere dell’arte figurativa; Il significato dell’idealismo, a cura di N. Valentini, tr. it. di R. Zugan, Rusconi, Milano 1999: riflessione filosofico teologica sul tema del rapporto «uno-molteplice», collegato intrinsecamente con il tema dell’esistenza uni-trina di Dio; Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, a cura di N. Valentini e L. Zák, tr. it. di R. Zugan, Piemme, Casale Monferrato 1999: raccolta di alcuni brani significativi di carattere teologico-spirituale; «Non dimenticatemi». Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, a cura di N. Valentini e L. Zák, tr. it. di G. Guaita e L. Charitonov, Arnoldo Mondadori, Milano 2000: scelta accurata delle lettere di Florenskij ai famigliari che testimoniano da vicino il dramma degli ultimi anni della sua vita; La struttura della parola, La natura magica della parola, tr. it. di E. Treu, in D. Ferrari-Bravo, Slovo. Geometrie della parola nel pensiero russo tra ’800 e ’900, Edizioni ETS, Pisa 2000, pp. 129-211; La venerazione del nome come presupposto filosofico, Il valore magico della parola, Sul nome di Dio, tr. di. G. Lingua, in P.A. Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2001. Tra le opere dedicate alla figura e al pensiero di Florenskij segnaliamo: M. Silberer, Die Trinitätsidee im Werk von Pavel A. Florenskij. Versuch einer systematischen Darstellung in Begegnung mit Thomas von Aquin, Augustinus Verlag, Würzburg 1984; R. Slesinski, Pavel Florensky: A metaphysics of Love, St. Vladimir’s seminary press, New York 1984; M.G. Valenziano, Florenskij. La luce della Verità, Studium, Roma 1984: introduzione e commento a una breve scelta antologica de La colonna e il fondamento della Verità; N. Kauchtschischwili — M. Hagemeister (edd.), P.A. Florenskij e la cultura della sua epoca. Atti del Convegno Internazionale Università degli Studi di Bergamo (10-14 gennaio 1988), Blaue Hörner Verlag, Marburg 1995; N. Valentini, P.A. Florenskij: la sapienza dell’amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997: ampia presentazione dei percorsi originali di filosofia della religione di Florenskij, con una particolare attenzione ai temi della verità, della bellezza e del linguaggio in prospettiva ermeneutica; L. Zák, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998: partendo da un’analisi attenta di alcune esperienze significative della vita spirituale e intellettuale di Florenskij lo studio introduce alla comprensione delle intuizioni e dinamiche più profonde del suo pensiero e, in particolare, della sua etica; G. Lingua, Oltre l’illusione dell’Occidente. P.A. Florenskij e i fondamenti della filosofia russa, Silvio Zamorani ed., Torino 1999: l’autore tenta di delineare una ricostruzione organica del pensiero filosofico di Florenskij rimarcando la sua particolarità all’interno della filosofia religiosa russa; N. Franz — M. Hagemeister — F. Haney (edd.), Pavel Florenskij. Tradition und Moderne. Beiträge zum Internationalen Symposium an der Universität Potsdam 5-9 April 2000, Peter Lang, Frankfurt a.M. — Berlin — Bern — Bruxelles — New York — Oxford — Wien 2001. Personalmente debbo l’incontro di questo autore al collega Mario Farrugia, gesuita, ora alla Gregoriana, mentre per una conoscenza più approfondita sono debitore al collega Lubomir Zák, della Lateranense, tra i migliori conoscitori di questo pensiero. ↩︎

  4. Mi sembra interessante notare come il nome del pensatore russo ricorra nella Fides et ratio, tra quello di altri grandi maestri del pensiero credente, dai quali abbiamo molto da imparare: «Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l’ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov’ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto ai quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede. Una cosa è certa: l’attenzione all’itinerario spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati conseguiti. C’è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell’umanità» (FeR, 74). ↩︎

  5. P. Florenskij, «Non dimenticatemi», cit., 282. ↩︎

  6. Ib., 393. ↩︎

  7. Dopo aver fatto riferimento allo Schelling della Philosophie der Mythologie per l’explicatio terminorum relativa a Geschichte e Historie, Florenskij aggiunge: «Io vivo per l’appunto nella Geschichte, in un tempo preistorico, e pensare alla Storia mi dà persino fastidio. È una situazione simile all’«idiotismo della vita di campagna». Idiotismo viene da Idièthj, idiota, che nel significato originario del termine non significa affatto un debole di mente, ma una persona privata, che non partecipa alla vita storica, che vive in sé, senza legami con la società. Direi che essere idioti è la migliore sorte, soprattutto se si potesse essere idioti fino in fondo, cioè diventare un totale idiota» (ib., 358). ↩︎

  8. Ib., 374. ↩︎

  9. Ib., 386s. ↩︎

  10. Sull’irruzione del frammento in termini caotici, con particolare riferimento alle arti figurative, cf H. Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca, Borla, Roma 1983 (la prima edizione tedesca di questa significativa opera è del 1948 — a proposito del nostro argomento si veda in particolare il cap. V: «Il caos scatenato», 145-180). ↩︎

  11. P.A. Florenskij, «Vie e incroci», in «Agli spartiacque del pensiero (Tratti di una metafisica concreta)», in Simvol 28 (1992) 29-30 (trad. it. di Lubomir Zák, in Non dimenticatemi, op. cit., 342, n. 1). ↩︎

  12. A parte questa indicazione dello stesso Florenskij, un cenno all’influsso di Novalis sul suo pensiero lo troviamo in L. Zák, Verità come ethos, cit., 82-83 e 209. Ci sembra che le affinità, se non proprio gli influssi del poeta tedesco sul pensatore russo sul piano più strettamente teoretico possano riguardare, a parte il carattere a-sistematico della conoscenza: a) il tema della verità come antinomia («tutto è dimostrabile = tutto è antinomico» — Novalis, Frammenti, Rizzoli, Milano 1976, 60 [fr. 83]); b) l’andamento musicale del pensiero («Ogni tesi generale, indeterminata, ha un che di musicale» -ib., 82 [fr. 174]); c) la verità come ethos («L’agire morale è quel grande e unico esperimento in cui si risolvono tutti gli enigmi dei fenomeni più disparati» — Novalis, I discepoli di Sais, Rusconi, Milano 1998, 146-147); d) la stessa «prospettiva rovesciata» («La natura non sarebbe natura se non avesse uno spirito, non sarebbe quell’unica immagine rovesciata dell’umanità…» — ib., 182-183). Naturalmente tale rapporto resta tutto da indagare a livello storico-genetico, senza dimenticare l’aggettivo «magico» caratterizzante l’idealismo novalisiano, che nel poeta tedesco trova espressione oltre che nell’opera appena citata, nella ultima sezione dei Fragmente, intitolata appunto «Frammenti magici» (cf Novalis, Frammenti, cit., 425-445, fr. 1700-1790). Con questo non si vuol sottovalutare l’influsso di altre figure dell’idealismo tedesco su questo pensiero, in particolare quello di Schellling soprattutto con la Naturphilosophie e la Philosophie der Offenbarung, influsso ampiamente studiato dagli interpreti. ↩︎

  13. P.A. Florenskij, Non dimenticatemi, op. cit., 339. ↩︎

  14. P. Florenskij, Non dimenticatemi, op. cit., 153-154 (cf in particolare la n. 1 di p. 154, dove c’è un interessante excursus sull’antinomia). La profonda e costitutiva antinomia della realtà viene tra l’altro rilevata sul piano della fisica nei termini dell’asimmetria: «Essere nello spazio-tempo è sinonimo di essere irreversibile e asimmetrico» (ib., 268, ma cf tutta la lettera del 3 aprile 1936 dedicata all’argomento, ib, 264-273). ↩︎

  15. P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, op. cit., 191-213. La «professione dei contrari» viene qui espressa colla nozione di «antinomia», che sta a designare la struttura stessa dell’essere e quindi della verità, quindi non solo una sfida o un elemento esteriore: «L’assolutezza della verità viene espressa dal lato formale nel fatto che la verità anticipatamente sottintende e accetta la propria negazione e risponde ai dubbi sulla propria veridicità accogliendo questo dubbio in se stessa e addirittura nel suo limite. La verità è tale proprio perché non teme contestazioni, non le teme perché essa stessa dice contro di sé più di quello che può dire qualsiasi negazione e combina questa autonegazione con l’affermazione. La verità è contraddizione per il raziocinio, contraddizione che diventa evidente appena la verità riceve una formulazione verbale. […] Tesi e antitesi costituiscono insieme l’espressione della verità; in altre parole la verità è antinomica e non può non essere tale» (ib., 195). Per una esplicitazione teoretica del carattere antinomico della verità cf ib., 196-200, per una esposizione storica del senso del termine «antinomia» cf ib., 200-211 e l’«Appendice XII», ib., 642-644. ↩︎

  16. Ib., 196. Sulla possibilità del rapporto fra il «paradosso» kierkegaardiano e l’«antinomia» del pensatore russo, con riferimento anche a Pascal cf N. Valentini, op. cit., 111-113. ↩︎

  17. M. Luthers, «Disputatio Heidelbergae habita. 1518», in «Kritische Gesamtausgabe», in Werke, Hermann Böhlaus Nachfolger, Akademische Druck, Graz 1966, 353-355. ↩︎

  18. P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, op. cit., 551-557. ↩︎

  19. Ib., 556. ↩︎

  20. Ib., 556-557. ↩︎

  21. A proposito del «tragico» cf P. Florenskij, Non dimenticatemi, op. cit., 227 e 254. ↩︎

  22. I. Mancini, «Radicalismo cristiano», in G. Mosci (ed.), Agonie del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1977, 22-23. ↩︎

  23. Su questa duplice valenza del paradosso, con particolare riferimento alla teologia fondamentale cf il nostro: La logica del paradosso in teologia fondamentale, Lateran University Press, Roma 2001. ↩︎

  24. Mi limito a riportare soltanto alcuni dei titoli più significativi per il nostro argomento: Athéisme et Sens de L’homme, une double requête de Gaudium et Spes. Foi vivante, 67, du Cerf, Paris 1968; Augustinisme et théologie moderne, Theologie, 63, Aubier-Montaigne, Paris 1965; Catholicisme, les aspects sociaux du dogme, Unam sanctam, 3, du Cerf, Paris 1938; Correspondance de Maurice Blondel et Joannes Wehrle, extraits Annotation par Henri de Lubac, Bibliotheque Philosophique, Aubier-Montaigne, Paris 1969; De la connaissance de Dieu. 2me. ed., augmentee, éd. du Témoignage Chrétien, Paris 1948; Dieu se Dit dans l’Histoire. La Révélation Divine, Foi vivante, 159, du Cerf, Paris 1974; Claudel et Péguy, Henri de Lubac et Jean Bastaire, Aubier-Montaigne, Paris 1974; Le drame de l’humanisme Athée, Spes, Paris 1944; L’Écriture dans la Tradition, Aubier-Montaigne, Paris 1966; L’Église dans la crise actuelle, du Cerf, Paris 1969; L’Éternel féminin. Étude sur un Texte de Teilhard de Chardin. Suivi de Teilhard et notre temps, Aubier-Montaigne, Paris 1968; Méditation sur l’Église, Théologie, 27, Aubier-Montaigne, Paris 1953; Le mystère du Surnaturel, Theologie, 64, Aubier-Montaigne, Paris 1965; Paradoxe et mystère de l’Église, Aubier-Montaigne, Paris 1967; Paradoxes suivi de Nouveaux Paradoxes, du Seuil, Paris 1983 (riedizione aumentata la I ed. era del 1946); La pensée religieuse du père Teilhard de Chardin, Aubier-Montaigne, Paris 1962; La postérité spirituelle de Joachim de Flore, Le Sycomore (Serie «Horizon» 3), Culture et verite, Paris-Namur, 2vv. 1979 e 1981; «Pour une philosophie chrétienne», in Nouvelle Revue Théologique 63 (1936) 225-253; La Révélation divine, Traditions Chrétiennes, 16. 3e ed. rev. et augm., du Cerf, Paris 1983; Sur les chemins de Dieu, Aubier-Montaigne, Paris 1956; Surnaturel. Études historiques. Théologie, 8, Aubier-Montaigne, Paris 1946; Théologie dans l’histoire. Avant-propos de Michel Sales, 2vv., Desclee de Brouwer, Paris 1990; Théologies d’occasion, Desclee de Brouwer, Paris 1984; Trois jésuites nous parlent: Yves de Montcheuil 1899-1944, Charles Nicolet 1897-1961, Jean Zupan 1899-1968, Lethielleux, Paris 1980; Una visione complessiva in forma autobiografica in Mémoire sur l’occasion de mes écrits, Culture et Vérité, Paris-Namur 1989 (trad. it. Memoria intorno alle mie opere, Jaca Book, Milano 1992 l’opera omnia in lingua italiana si sta pubblicando da parte di questa casa editrice). Tra le opere su de Lubac ci limitiamo a segnalare questi saggi che affrontano il tema del paradosso: G. Chantraine, «Paradoxe et mystère. Logique théologique chez Henri de Lubac», in Nouvelle Revue Théologique 115 (1993) 543-559; N. Ciola, Paradosso e mistero in Henri de Lubac, Libr. Editrice PUL, Roma 1980; J. Haggerty, The Centrality of Paradox in the Works of Henri de Lubac (tesi di dott.), Fordham University 1987; E. Salmann, «Henri de Lubac. Stile sapienziale e paradosso teologico», in Gregorianum 78 (1997) 611-625; J.-F. Thomas, «La vérité du paradoxe», in Communio (ed. fr.) 5/1992, 92-109. Per una introduzione cf A. Russo, Henri de Lubac: teologia e dogma nella storia. L’influsso di Blondel, Studium, Roma 1990; Id., Henri de Lubac, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994. ↩︎

  25. Mi limito a citare a questo proposito D. Staniloaë, Il genio dlel’ortodossia, Jaca book, Milano 1985: «La Chiesa ortodossa non separa la rivelazione naturale da quella soprannaturale. La rivelazione naturale è pienamente conosciuta e compresa alla luce della rivelazione soprannaturale; la rivelazione naturale è data e permane attraverso l’azione soprannaturale di Dio» (ib., 29). ↩︎

  26. «[…] per comprendere la quale è necessario ricordare che Ú è il segno della verità (veritas) e che Ç l’operatore della moltiplicazione logistica, cioè il simbolo della comunità dei termini entro i quali è posto. Traducendo la formula nel linguaggio comune, diciamo: «L’antinomia è una proposizione che essendo vera comprende allo stesso tempo la tesi e l’antitesi e quindi è inaccessibile a qualsiasi obiezione». L’aggiunta del simbolo Ú eleva l’antinomia al di sopra del piano del raziocinio ed è ciò che distingue l’antinomia P dalla menzogna Ù (Ú rovesciato o -Ú) che sta sul piano del raziocinio […]» (P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., 199). A questa spiegazione della formula nello schema logico dell’antinomia va aggiunto che «La conoscenza è un giudizio, cioè la sintesi di un soggetto S con un certo predicato P» (ib., 193 sicché il P della formula sta per predicato o anche per «enunciato» o «proposizione». A questo proposito da un lato sembra opportuno richiamare la concezione florenskijana della matematica, secondo cui «la matematica è la più importante delle scienze che formano il pensiero, essa approfondisce, precisa, generalizza e lega in un unico modo la visione del mondo, educa e sviluppa, dà un approccio filosofico alla natura. Da noi, invece, la presentano come una disciplina morta che non serve a nessuno, terrorizzando gli studenti» (P. Florenskij, Non dimenticatemi, cit., 363, lettera del 6 gennaio 1937). E a proposito delle formule va opportunamente ricordato quanto affermava in uno scritto del 1902: «La formula [matematica] non può e non deve rimanere solo una formula. Essa è la formula di un qualcosa e perciò più ricche sono le associazioni che si creano in noi in relazione alla formula, più multilaterale è il suo reale contenuto, tanto più la possiamo comprendere e tanto più chiaramente si uniscono i fenomeni concreti di associazione in un organismo vitale di idee in una visione del mondo» (cit. ib., 364, n. 5). Va ricordato a questo proposito il grande contributo offerto alla logica simbolica dal grande maestro domenicano polacco Joseph Bochenski. Per decifrare le formule florenskijane, mi sono servito delle sue J. Bochenski, Nove lezioni di logica simbolica, Studio domenicano, Bologna 1995. ↩︎

  27. Sul tema del simbolo in Florenskij cf L. Zák, «Das symbolische Denken bei Florenskij und seine Bedeutung für die Epistemologie», in N. Franz — M. Hagemeister — F. HAney (edd.), Pavel Florenskij. Tradition und Moderne, cit., 195-213. ↩︎

  28. «Così se in Sergej Bulgakov la sofiologia troverà una sua compiuta elaborazione di straordinaria ricchezza dottrinale, configurandosi come «un interpretazione globale del mistero cristiano, […] ma anche come tentativo serio e rigoroso di ripensare il genio della spiritualità russa» [cit. da Coda], in Florenskij essa è ancora allo stato germinale. In lui prevale la forza intuitiva e talora incerta del fulgore abbagliante degli stati originari della vita» (N. VAlentini, Pavel A. Florenskij, cit., 185). Sul pensiero di Bulgakov si veda il saggio di P. Coda, L’altro di Dio, Rivelazione e kenosi in Sergej Bulgakov, Città Nuova, Roma 1998 e l’interessante tesi di A. Ramonas, L’attesa del Regno. Eschaton e apocalisse in Sergej Bulgakov, PUL-Mursia, Roma 2000. Naturalmente l’orizzonte sociologico di fondo di questi autori russi resta quello segnato da Solov’ëv (cf V.S. Solov’ëv, La Sofia. L’Eterna Sapienza mediatrice tra dio e mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997). ↩︎

  29. «Sofia è l’argomento più conturbante della teologia [della Stolp]» (P.N. Evdokimov, Cristo nel pensiero russo, Città Nuova, Roma 1972, 177). Nonostante questo giudizio Evdokimov riconosce il Florenskij il genio e la fecondità delle sue intuizioni (cf L. Zák, Verità come ethos, cit., 48). ↩︎

  30. Cf ib., 206-207. ↩︎

  31. Cf P. Florenskij, Le porte regali, cit., 173. ↩︎

  32. P. Florenskij, Non dimenticatemi, cit., 324-325. ↩︎

  33. P. Florenskij, Le porte regali, cit., 129. ↩︎

  34. Ib., 129-130. ↩︎

  35. Ib., 175. ↩︎

  36. Ib., 173. ↩︎

  37. Ib.↩︎

  38. Ib., 174. ↩︎

  39. Ib., 175. ↩︎

  40. L. Zák, Verità come ethos, cit., 209-210. ↩︎

  41. P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., 616-617. ↩︎

  42. Soprattutto, naturalmente H.U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca book, Milano 1975-80, dove si dedica uno degli stili laicali alla figura di Solov’ëv, III, 261-326. ↩︎

  43. Cf P. A Sequeri, Estetica e teologia, Glossa, Milano 1993. ↩︎

  44. Cf B. Forte, La porta della Bellezza. Per un’estetica teologica, Morcelliana, Brescia 19993↩︎

  45. Cf C. Geffré, Le langage théologique comme langage symbolique, du Cerf, Paris 1969. Sui temi della parola e del linguaggio cf abbiamo in italiano i saggi di Florenskij: Attualità della parola. La lingua tra scienza e mito e La venerazione del nome come presupposto filosofico, Il valore magico della parola, Sul nome di Dio, tr. di. G. Lingua, in P.A. Florenskij, Il valore magico della parola, citati in n. 5. ↩︎

  46. C. Greco, «Intellectus revelationis. Elementi per uno statuto ontologico ed epistemologico della rivelazione di Dio», in A. Ascione — M. Gioia (edd.), Sicut flumine pax tua. Studi in onore del Cardinale Michele Giordano, D’Auria, Napoli 1997, 235-252, dove, concludendo si sostiene che la «evidenza specifica della rivelazione di Dio è […] quella di una «immediatezza mediata», cioè di una presenza che nella immediatezza del rapporto immanente, istituito dal suo apparire, manifesta realmente un’ulteriorità di senso rispetto alle forme stesse della sua manifestazione» (252). ↩︎

  47. Due esempi fra i tanti la recente raccolta di saggi curata da S. Givone (ed.), Sul pensiero simbolico, numero monografico della rivista Paradosso 1 (1997) e il volume: C. Greco — S. Muratore (edd.), La conoscenza simbolica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, dove si trova un’abbondante bibliografia sul tema, in calce al saggio di Cloe Taddei-Ferretti, «Il simbolo e il suo valore cognitivo», ivi, 112-128. All’interno di questo revival del «simbolico» va registrata l’attenzione verso autori e proposte di matrice orientale in genere e russa in specie, che talvolta, non senza una certa forzatura interpretativa, vengono letti nel segno della contrapposizione fra conoscenza simbolica e conoscenza razionale, conferendo loro una forte valenza apofatica. . «Il simbolo — scrive Chiara Cantelli nel suo saggio su Florenskij — senza annullare la distanza fra creazione e creatore, istituisce allo stesso tempo un nesso fra tali termini. La conoscenza simbolica perciò non può costituirsi razionalmente. Il Dio che si manifesta nella creazione non si impone necessariamente a essa, ma resta sempre un Dio nascosto, una presenza velata, che appare in ogni cosa creata senza possederla, costituendola come simbolo […]. Se dalla natura di Dio non si può dedurre l’esistenza del mondo, ciò significa che il rapporto fra Dio e il creato non deve essere pensato secondo categorie logico-razionali, ma secondo la categoria della libertà» (Chiara Cantelli, «Arte e creazione nella metafiisca simbolica di Florenskij», in Paradosso, cit., 95, l’intero saggio 89-107). ↩︎

  48. Cf tutta la seconda sezione di M. Cacciari, Icone della legge, Adelphi, Milano 1985, 171-298. ↩︎

  49. «La posizione di Florenskij circa il linguaggio dell’icona rappresenta una sostanziale diversificazione rispetto alla concezione dell’apofatismo» (N. Valentini, P.A. Florenskij, cit., 198. ↩︎

  50. Tra i suoi lavori segnaliamo: J.-L. Marion, L’idole et la distance, Grasset, Paris 1977 (trad. it. di A. Dell’Asta), Milano 1979; Id., Dieu sans l’être, Fayard, Paris 1982 (trad. it. di A. Dell’Asta), Milano 1984; Id., Prolégomènes à la charité, ed. de la Différence, Paris 1986; Id., Réduction et donation. Recherches sur husserl, Heidegger et la phénoménologie, PUF, Paris 1989; Id., «Filosofia e rivelazione», in Studia Patavina 36 (1989) 425-443; Id., La croisée du visible, ed. de la Differénce, Paris 1991; «Esquisse d’un concept phénoménologique du don», in Archivio di filosofia 62 (1994) 75-94; Étant donné, PUF, Paris 1997 (trad. it. di R. Caldarone), SEI, Torino, 2001. ↩︎

  51. Una ripresa di questa prospettiva in chiave cristologica in: C. Schönborn, L’icona di Cristo. Fondamenti teologici, Cinisello Balsamo 1988; C. Greco, «Gesù Cristo, icona del Dio invisibile», in Id., Cristologia e Antropologia. In dialogo con Marcello Bordoni, Roma 1994, 156-180. ↩︎

  52. J.L. Marion, L’idolo e la distanza, trad. it. cit., 218. ↩︎

  53. Ib., 236. ↩︎

  54. Ib., 249. ↩︎

  55. P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., 195. Vedi anche la nota corrispondente, ib., 716-718. ↩︎

  56. Cf ib., 215-255. ↩︎

  57. Cf a questo proposito L. Zák, Verità come ethos, cit., 377-378. ↩︎

  58. Testo citato in ib., 378-379. ↩︎

  59. Al tema della geenna è dedicata la lettera VIII della Stolp, cf P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., 258-315. ↩︎

  60. Ib., 263. ↩︎

  61. Cf a questo riguardo P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, in particolare 429-554, dove si parla della fede come affidamento e si tenta appunto una ontologia dell’affidamento. ↩︎

  62. Cf a questo riguardo il testo programmatico della scuola milanese: G. Colombo (ed.), L’evidenza e la fede, Glossa, Milano 1988, con particolare riferimento al saggio di A. Bertuletti, «Sapere e libertà», ib., 444-465. ↩︎

  63. In questa direzione muove H. Verweyen, La parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2001 (sulla III ed. tedesca di Gottes letzes Wort, che è del 2000, mentre la prima era del 1990). Cf a questo proposito il cap. VIII: «Un senso definitivamente valido, malgrado una libertà recalcitrante?», ib., 234-247. A proposito della posizione di Verweyen circa questo argomento, cf quanto scrive un interprete: «La riflessione trascendentale sulla fenomenologia del Sollen (ove Verweyen introduce la terminologia della manifestazione) mostra che il principio incondizionato — il fondamento ultimo — può essere adeguatamente pensato solo come condizione di possibilità della mia libertà (in questo senso ha carattere di promessa), la cui evidenza non è anticipabile alla sua istituzione a posteriori» (M. Epis, Ratio fidei. I modelli della giustificazione della fdde nella produzione manualistica cattolica della teologia fondamentale tedesca post-conciliare, Glossa, Milano 1995, 265 — cf tutto il paragrafo dedicato al teologo tedesco «L’evidenza dell’assoluto nell’evidenza della libertà: la rifondazione pratica del trascendentale», ib., 264- 267). ↩︎

  64. Si veda a questo proposito il volume P. Coda — C. Hennecke (edd.), La fede. Evento e promessa, Città Nuova, Roma 2000. ↩︎