Recensione a Vinicio Busacchi, Angiola Iapoce e Önay Sözer (curatori), L’inconscio a più voci. Percorsi multidisciplinari tra psicoanalisi, ermeneutica, fenomenologia

Vinicio Busacchi, Angiola Iapoce e Önay Sözer (curatori), L’inconscio a più voci. Percorsi multidisciplinari tra psicoanalisi, ermeneutica, fenomenologia, Fattore Umano Edizioni, Roma 2021.

Il volume nasce dalla collaborazione all’interno di quella cerchia di studiosi – per lo più, psicoanalisti e filosofi – che si raccolgono intorno alla casa editrice presso cui esso è stato pubblicato. Fattore Umano è, infatti, anche un’Associazione culturale che opera nella promozione di eventi che hanno tutti, come comun denominatore, lo studio e la valorizzazione del pensiero umanistico, nelle molteplici forme in cui esso si è storicamente manifestato.

Apre il volume una Introduzione1 a firma dei tre curatori, i quali iniziano la loro esposizione rilevando come la questione dell’inconscio sia, per chiunque la sollevi, quanto c’è non solo di più prossimo e vicino, ma anche, al tempo stesso, di massimamente lontano. Come parlare, infatti, di un qualcosa che, proprio perché ci abbraccia pervasivamente, non si presta a essere posto di fronte a noi a una distanza oggettivante? Per non parlare poi del fatto che, in molti versanti della cultura occidentale, l’inconscio viene visto come un lascito del passato di cui poter tranquillamente fare a meno. Non così, ovviamente, per gli autori di questo libro, i quali – come vedremo –, al di là del taglio specifico che caratterizza i loro contributi, sono tutti accomunati dal proposito di rivendicare la centralità della dimensione dell’inconscio, in chiave psicologica, esistenziale, nonché in rapporto alla vita quotidiana di ognuno.

E si arriva così subito a una precisazione che viene fatta riguardo al titolo. L’inconscio a più voci vuol significare che i vari contributi sono concepiti, appunto, come «voci» in senso enciclopedico, ossia come lemmi che intendono andare a costituire, senza alcuna pretesa di sistematicità, un piccolo lessico tascabile attinente all’argomento in questione. Ma il termine «voci» risuona nel titolo anche in un altro senso: in quello di «suoni significanti che aprono a campi di ricerca di significati e a possibili orizzonti di comprensione», lungo sentieri che, esplorando il lato profondo della nostra vita psichica, dischiudono così «nuove possibilità di dialogo, ricerca, riflessione»2.

Nel parlare di inconscio, è impossibile, ovviamente, non fare i conti con Freud, il quale, lungo il suo percorso psicoanalitico, non ce ne ha fornito mai un’esplicazione definitiva, ma ha formulato più ipotesi al riguardo, addirittura in contrasto fra loro, come quando passò, ad esempio, da una concezione sostanzialistica dell’inconscio a una funzionale, dove esso non veniva riferito più a un dominio psichico specifico, ma finiva per improntare a sé l’intero sistema della nostra mente. La riflessione più recente in materia parla, addirittura, non più di inconscio al singolare, ma di inconsci al plurale, a conferma del fatto che inconscio "si dice in molti modi", i quali possono essere visti come diverse sfaccettature di un’unica costellazione in se stessa densamente articolata.

Ma, parlando di inconscio, non si può fare a meno di pensare anche a Jung. A lui, dobbiamo una concezione di esso strutturata, fondamentalmente, nel segno di due dimensioni: una personale, più in superficie, e un’altra collettiva, più profonda, dove esso sta per quel contenitore psichico universale in cui si raccolgono simboli, archetipi e immagini comuni a tutti gli uomini e a tutte le culture.

Ci viene ricordato, inoltre, come l’inconscio psicoanalitico rimandi, come suo atto di nascita, alla «Grande Vienna», in un’epoca in cui la città imperiale, cosmopolita, multietnica e multilinguistica, viveva un momento di fermento culturale molto intenso e produttivo, in filosofia, nelle scienze, in musica, nonché in tutte le altre arti.3 Un nome su tutti viene menzionato: quello del filosofo Fritz Mauthner. Egli precede di poco Freud e riflette, in particolare, su un motivo da cui il padre della psicoanalisi trae sicuramente spunto e alimento: il tema del «tradimento della parola», ossia il fatto che la lingua rappresenterebbe «un sistema ingannatore» che impedisce «agli uomini di conoscersi veramente l’un l’altro»4.

Ma, per quel che riguarda la prima fase della storia della psicoanalisi, c’è un’altra città europea, insieme con Vienna, che ha giocato un ruolo culturalmente molto importante: Zurigo. Qui, opera Bleuer, insieme con il suo assistente Jung, nonché nascono la prima clinica psichiatrica universitaria di fama internazionale, la prima Associazione Internazionale di Psicoanalisi e la prima rivista scientifica del settore (lo «Jahrbuch für Psychoanalytische und Psychopathologische Forschung»). Ancora da ricordare poi è che fu proprio in Svizzera che nacque, per opera di Binswanger, l’antropoanalisi, uno dei filoni sicuramente più fecondi della psicopatologia di impianto fenomenologico.

A questo punto, i tre curatori anticipano che quasi tutti i contributi contenuti nel volume tematizzano, esplicitamente o meno, il nesso che corre fra psicoanalisi, o psicologia del profondo, e filosofia. Nesso su cui hanno fatto leva sia Freud sia Jung, dal momento che entrambi, anche se per vie diverse, volevano procurare alla loro riflessione una solida base teorica, così da non limitarla al puro e semplice aspetto terapeutico. Per entrambi, un punto di riferimento imprescindibile è rappresentato da Nietzsche: il primo vi vede una qualche anticipazione del "suo" inconscio, mentre il secondo si confronta, in particolare, con il messaggio di Zarathustra.5

E veniamo così al primo contributo del nostro volume, di Filippo Maria Ferro, dal titolo Archeologia.6 Il punto di partenza è dato dal parallelismo che può essere colto fra il lavoro dello psicoanalista e quello dell’archeologo, visto che, in entrambi i casi, a essere dissotterrato è un qualcosa che giaceva occultato e sepolto. Archeologia che ha potuto fungere da modello per la psicoanalisi anche perché l’epoca in cui Freud imposta, per primo, questa analogia (1890) è quella di alcune grandi scoperte archeologiche (i primi scavi, condotti da Schliemann, della città di Troia risalgono al 1868), nonché della massima fioritura della filologia classica. Ferro ci ricorda come l’invenzione della metafora archeologica avrebbe avuto origine da un sogno fatto da Freud dopo essere stato a casa di un paziente e aver visto un’acquaforte, raffigurante delle rovine antiche, il cui autore era, molto probabilmente, Piranesi. Ma il padre della psicoanalisi coltivava una passione anche per il collezionismo di reperti classici, così che si può dire che in Freud – proprio nella misura in cui è stato tanto un "collezionista" quanto un "sognatore" – si sono dati due modi distinti, ma complementari, di «cercare e associare»7. Ed è proprio per questa via che il padre della psicoanalisi arriva a capire che nel linguaggio del mito è custodito un sapere sostanzialmente diverso rispetto a quello di cui è depositaria la scienza ufficiale. Comprende, cioè, che nella Grecia antica risiede il nucleo essenziale dell’Occidente, ossia che nella maniera di pensare dell’uomo europeo, in ogni sua domanda, risuona il modo squisitamente greco di porsi di fronte alla realtà. L’aver messo in luce questo «orientamento arcaico-mitologico dell’inconscio»8 è il grande merito, fra l’altro, che Jung riconosce a Freud: Jung che, proprio continuando a percorrere una tale strada, perviene all’idea secondo cui l’analogia che vige fra l’archeologia e la ricognizione del lato profondo della nostra psiche può essere vista come l’indice di una «convergenza tra psicologia individuale e collettiva, tra filogenesi e ontogenesi»9.

Il secondo contributo, di Luigi Aversa, si intitola Causa e caso.10 Esso si apre con l’autore che si chiede: com’è che noi entriamo in contatto con l’inconscio? Ebbene, ciò avviene sempre nel segno di un qualcosa che irrompe, travolge, accade improvvisamente e che, a volte, può essere anche indotto dalle domande dell’analista. In tal modo, viene infranto il rigido tempo lineare della causalità e si accede all’esperienza della casualità o, meglio, del kairós: di ciò che i greci, distinguendolo dal tempo misurabile, configuravano come tempo "opportuno". Il tocco del caso così «spodesta la causalità» e costringe la coscienza a dismettere ogni automatismo e a ri-orientarsi, ossia «a rapportarsi con se stessa non attraverso il controllo ma attraverso l’attenzione alla fluttuazione della percezione. È entrare in contatto con questa dimensione il vero obiettivo dell’esperienza psicoanalitica». Ed è proprio a questo punto che insorge in noi quell’«unica domanda che non conosce risposta: "Perché?"11». Domanda che ci offre così l’occasione opportuna per uscire dalla protezione del tempo storico-lineare, in modo che, sporgendo al di là del regime cui sottostà quotidianamente il nostro io, ci insediamo in quello spazio intermedio nel cui segno possiamo finalmente «sperimentare l’intensità piena e gratuita del Presente»12.

Il terzo contributo, di Angelo Moscariello, Cinema,13 inizia ricordando come una delle caratteristiche della settima arte, fin dai tempi del muto, è stata sempre quella di andare oltre la rappresentazione pura e semplice della realtà, per evocare immagini dalla forte valenza simbolica, capaci di portare allo scoperto quell’"altra parte", oscura e inquietante, che dimora in noi. Nel seguito, vengono poi presi in considerazione alcuni topoi cui fa ricorso frequentemente il cinema per esprimere le "voci" dell’inconscio: l’impiego dei fenomeni atmosferici come immagini psicologiche archetipiche, di porte la cui apertura segna la scoperta di segreti inconfessabili o anche di specchi e di ombre, dove, mentre i primi riflettono ciò che noi non vediamo o che non vogliamo vedere, le seconde hanno la funzione, invece, non solo di creare inquietudine, ma anche di rivelare le turbe psichiche che affliggono i diversi personaggi.

Il quarto contributo, di Riccardo Lombardi, si intitola Corpo14 e muove dallo stabilire un nesso strettissimo fra quest’ultimo e l’inconscio. E ciò a tal punto che se perdiamo contatto con l’uno perdiamo anche la possibilità di accedere all’altro: «in mancanza di una relazione con il corpo, l’inconscio non riesce nemmeno a trovare una sua collocazione»15. L’autore nel cui segno vengono esplorati i rapporti fra corpo e inconscio è Freud, il quale, nella sua prima pratica clinica, va alla ricerca delle radici somatiche dell’isteria, mentre, all’altezza de L’interpretazione dei sogni (1899), indaga la continuità che si dà fra stimoli corporei ed elaborazione onirica. Indice della centralità del corpo, nel testo appena menzionato, è il fatto che il desiderio funge da vero e proprio motore del lavoro onirico, il quale opera così da vettore che converte «il mondo primitivo degli impulsi fisici in manifestazioni della vita mentale»16. In tal modo, «la nascita e il funzionamento della mente appaiono indissociabili dal dato corporeo quale primo rappresentante del principio di realtà»17.

Anche più in avanti, Freud continua a essere interessato ai rapporti che corrono fra corpo e vita mentale e vede nella sessualità e nella sfera degli affetti quella dimensione in cui l’uno e l’altra trovano una coordinazione, nel segno di una concezione integrale dell’uomo. Nell’ultima fase della sua riflessione, il padre della psicoanalisi si muoverebbe, addirittura, in direzione di una riformulazione del rapporto coscienza-inconscio nei termini della relazione mente-corpo, così che l’esplorazione dell’inconscio si configura, per lui, sempre di più, come un avvicinamento a quella base fisica che ci caratterizza strutturalmente in quanto individui.

La messa in luce di una correlazione fra le indagini sull’inconscio di Freud e quelle fenomenologiche sulla coscienza di Husserl è al centro del quinto contributo, di Angela Ales Bello, dal titolo Coscienza.18 Qui, il riferimento puntuale è a un manoscritto del filosofo tedesco in cui egli si chiede se la «riduzione fenomenologica» possa essere applicata non solo agli Erlebnisse di cui abbiamo coscienza, ma anche a quelli che non raggiungono mai la soglia di quest’ultima. Sua intenzione dichiarata è, infatti, di ridurre a conoscenza sistematica e metodica proprio questo continente sommerso, in modo che così «si possa rendere conscio ciò che è inconscio»19. E a proposito del termine Erlebnis – ciò che stiamo vivendo a livello non immediato, ma riflesso –, l’autrice formula un’importante precisazione, la quale riguarda l’abituale traduzione in italiano di esso con "vissuto". Ebbene, il termine che nell’originale tedesco è un sostantivo, convertito nella nostra lingua diviene un participio passato, per cui, per aggirare l’equivoco, sarebbe forse più corretto far ricorso al neologismo vivenza, sul modello del portoghese e dello spagnolo.

Ci viene segnalato anche un passo dell’opera di Husserl in cui egli, nell’esplorazione di quel fondo oscuro e nascosto costituito dalle vivenze arazionali, si mostra consapevole del fatto che sta battendo una strada molto simile a quella di Freud. Nella Krisis, il filosofo tedesco parla poi di un’intenzionalità "inconscia" e aggiunge che a essa fanno capo tutti quei comportamenti non coscientemente motivati intorno a cui indaga proprio la «psicologia del profondo»: comportamenti cui riconosce un’importanza pari in rapporto ai modi della percezione cosciente.20. Resta aperto, però, il problema di che cosa intenda esattamente quando parla di «psicologia del profondo»: se si riferisca solo a Jung o usi la formula in un senso più ampio, comprensivo anche di Freud. Comunque sia, a quest’ultimo egli rimprovera soprattutto una cosa: il fatto che, nel rapporto fra attività e passività dello spirito, ad avere la meglio sia la seconda, al punto da sottomettere interamente a sé la prima.

Segue il sesto contributo, di Franco Bellotti, dal titolo Esperienza,21 il quale inizia notando come tanto Freud quanto Jung attribuiscano all’inconscio le stesse caratteristiche della «cosa in sé» kantiana: esiste, ma, tuttavia, è inconoscibile. Si accede così a esso o attraverso un lavoro interpretativo condotto sui suoi derivati, per il primo, o attraverso i contenuti simbolici che affiorano alla coscienza, per il secondo.

L’autore si sofferma poi sulla nozione freudiana di «rimozione originaria»: nozione che ipotizza l’esistenza di un inconscio non rimosso, i cui contenuti non sono, cioè, rappresentabili. Da questa prospettiva, siamo davanti a un rapporto di continuità, ossia non differenziato, fra conscio e inconscio, tale che ciò che, forse, meglio lo rappresenta è dato dal concetto di «perturbante (Unheimliche)»: concetto che mostra profonde affinità con il pensare di tipo antinomico di Jung, con la «funzione alpha» di Bion, con lo «spazio transizionale» di Winnicott e con il «chiasma» di Merleau-Ponty. In tutti questi casi, si dà un nesso fra senso ed espressione, percezione e percepito, sensibile e intellegibile che prende la forma di un intreccio molto stretto, il quale sta al di qua della soglia della rappresentazione e dell’intenzionalità.

Per quanto, secondo Freud e Jung, l’inconscio resti, dunque, un qualcosa di inconoscibile, al pari del noumeno kantiano, di esso, tuttavia, se ne può fare esperienza: esperienza che consiste nel «saper cogliere un senso nel modo della sua manifestazione». E ciò proprio come voleva il Wittgenstein del Tractatus, secondo il quale «il rappresentare della proposizione ha un limite che apre a un mondo di senso che nella sua indicibilità può essere solo mostrato»22. «L’esperienza dell’inconscio non è rendere intellegibile il non ancora spiegato, l’ignoto, quanto un essere colpiti da qualcosa che si manifesta come trascendenza nell’immanenza»23.

E arriviamo così al settimo contributo, di Paulo Barone, dal titolo Individuazione.24 Egli parte dalla configurazione dell’inconscio come di un grande mare, così che tutti i fenomeni psichici possono essere visti come dei moti ondosi che si susseguono incessantemente sulla sua superficie. Ma com’è che, allora, noi riusciamo a identificare tali fenomeni? Individuandoli all’interno di un più vasto campo mentale caratterizzato da un’oscillazione fra opposti polari: conscio/inconscio, natura/cultura, atemporalità/tempo, identità/alterità. Naturalmente, nel corso degli anni, questo modello è stato messo a punto sempre meglio, per cui siamo arrivati a oggi, in cui «le oscillazioni divengono sempre più rapide e infinitesimali, più simili a dei sussulti quasi impercettibili»25, così che il campo mentale collettivo viene sottoposto a una intensificazione e a un raffinamento del suo modo di fungere e di operare. La storia stessa della psicoanalisi riepiloga l’arco di questo percorso, per cui si va da una fase, corrispondente a Freud, in cui il campo psichico è organizzato con molta chiarezza, nel segno dei principi di contiguità e di causalità, a un’altra fase, che si prolunga fino ai nostri giorni, con Matte Blanco e Ogden, in cui l’epicentro della vita psichica è dato da «certe particelle poste indecidibilmente all’incrocio di conscio e preconscio»26. Siamo davanti così a una «"contrazione" residuale del campo mentale», la quale corrisponde a una «sua totale esposizione», senza che nessuna risorsa di esso «ne rimanga fuori»27. Un tale «campo mentale» sarebbe contrassegnato, in altre parole, in ogni momento della sua attività, «dall’esaurimento del possibile e, dunque, in questo specifico senso, dall’impossibile»28.

Ora, l’autore trova la conferma di quanto appena detto nella riflessione sul màndala di Jung, immagine nel cui segno i singoli individui ricompongono in forma di sintesi l’unità, in loro infrantasi, di conscio e inconscio. Il punto è che il cerchio mandalico non presenta una configurazione rigida e schematica, ma si presta a una definizione di esso in un senso sempre più particolareggiato e individualizzato, così da poter fungere da vero e proprio sismografo del passaggio epocale che oggi stiamo attraversando. Non si tratterebbe, pertanto, di ripristinare una continuità infranta, ma di isolare ciascun momento nella sua pienezza compiuta, nel suo tempo non più «alienato e fuggevolmente perduto», ma «già redento e liberato»29.

L’ottavo contributo, di Roberta Lanfredini, si intitola Leib, Körper30 e muove – come indica, appunto, il titolo – dalla nota distinzione fenomenologica tra corpo fisico o materiale e corpo vissuto o animato: distinzione che, per Husserl, si dà su un piano non, ovviamente, fattuale, ma solo ontologico. Il Leib sarebbe, cioè, un corpo che, pur realizzandosi in una materia estesa, tuttavia, la sopravanza e la eccede, disponendo di una dimensione psichica e senziente.

Questa distinzione fra dimensione materiale e dimensione psichica del corpo vissuto metterà poi capo, proprio attraverso Husserl, a una relazione tra fisico e mentale molto più plastica e sfumata rispetto a quella tradizionale. Ed è proprio qui che il padre della fenomenologia incrocia Merleau-Ponty. Con la sostanziale differenza, però, che, mentre quest’ultimo intende il corpo vivo come «carne», visto il darsi di un rapporto chiasmatico originario fra soggetto e oggetto, interno ed esterno, toccante e toccato, in Husserl, lo spirituale mantiene, invece, una posizione di privilegio, come «centro di irradiazione» e «principio egologico»31. «Se per Merleau-Ponty la coscienza, prima ancora di rappresentarsi il mondo, si fa mondo attraverso il corpo, per Husserl la coscienza rimane indubbiamente l’unico principio in grado di conferire senso al mondo»32.

Segue il nono contributo, di Angelomarco Barioglio, intitolato Materia,33 il quale inizia con l’osservazione secondo cui comprensione psicoanalitica e comprensione neuroscientifica della mente sono prospettive che, pur avendo avuto un inizio distinto l’una dall’altra, negli ultimi tempi, si stanno sensibilmente avvicinando, nel tentativo di dar vita a un dialogo interdisciplinare che eviti, soprattutto per la seconda, qualsiasi forma di riduzionismo. Dopo aver fatto il punto circa le acquisizioni che sono venute dalle ricerche neuroscientifiche più recenti, come, ad esempio, quelle relative alla scoperta dei neuroni-specchio, l’autore si sofferma sul lavoro scientifico dello psicobiologo Alberto Oliverio, il quale si è dedicato a indagare la «vita privata» e nascosta della mente, ossia quelle manifestazioni della nostra psiche che si svolgono al confine fra conscio e inconscio.34 Qui, un risultato cui si è giunti riguarda, ad esempio, il sogno, il quale non è più visto come la fucina di «oscuri simbolismi», ma come un tentativo, da parte della corteccia celebrale, di «far luce sull’attività casuale che la pervade»35.

Come prova evidente della collaborazione, attualmente in corso, fra psicoanalisi e neuroscienze, viene poi esaminato il lavoro scientifico di Mark Solms, il quale coniuga, infatti, il modello metapsicologico di Freud con quello neuropsicologico dinamico di Aleksandr R. Lurija. In base a questa impostazione, l’Io esplicherebbe la funzione primaria di mediazione fra mondo interno e mondo esterno, «stabilendo una serie di "barriere" tra le sue due superfici sensomotorie»: barriere il cui compito è quello di «interporsi tra impulso e azione, attraverso i processi di attenzione, giudizio e pensiero»36. Un punto importante della riflessione di Solms riguarda, inoltre, il rapporto fra coscienza e inconscio. Rovesciando completamente la concezione tradizionale, egli considera i processi istintuali non come intrinsecamente inconsci, ma come afferenti a una coscienza di tipo essenzialmente affettivo. «Le rappresentazioni della corteccia sono di per sé inconsce; quando, però, i processi attentivi le attivano si trasformano in qualcosa di conscio e stabile, che può essere pensato nella coscienza della vita quotidiana»37.

Ed eccoci cosi al decimo contributo, di Roberto Finelli, dal titolo Politica.38 Esso inizia richiamandosi alla necessità, al giorno d’oggi, di pensare una nuova forma di socializzazione, tale che coniughi, fra loro, due versanti che sono stati tenuti, tradizionalmente, distanti l’uno dall’altro: i diritti liberali della persona, da un lato, con i diritti del cittadino, improntati all’eguaglianza, dall’altro. Come a una possibile prefigurazione di tutto ciò, il riferimento dell’autore va alla teorizzazione del «liberalsocialismo», fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, da parte di Guido Calogero39 e alla polemica che egli intrattenne con Croce, strenuo difensore di una religione civile della libertà rispetto alla rilevanza, per lui, puramente empirica, del valore dell’uguaglianza. Più recentemente, la teorizzazione di Calogero ha trovato una nuova formulazione in Étienne Balibar, il quale, al riguardo, ha coniato anche un nuovo termine: égaliberté, a conferma del fatto che "eguaglianza" e "libertà" vanno pensate nel segno non di una giustapposizione, ma di una loro sintesi compiuta, tanto teorica quanto pratica.40

È così che nella psicoanalisi viene vista una disciplina che ci può dare un prezioso contributo circa il nuovo compito di socializzazione da intraprendere. Essa, con la scoperta dell’inconscio, ha portato alla luce, infatti, «una societas dell’interiorità che si differenzia dalla tradizionale collocazione di ciò che è societas in un ambito propriamente esteriore e intersoggettivo»: «una societas dell’interiorità» che, proprio come l’altra, reclama una «sua costituzione e i suoi diritti»41. Una cultura dell’égaliberté, ripensata alla luce dell’istanza di riconoscimento hegeliana, deve configurarsi così come una pratica di soggettivazione individuale mediata dalle istituzioni sociali, il cui obiettivo dovrebbe essere quello di estendere, dallo spazio privato a quello pubblico, l’esercizio della cura, psicoanaliticamente intesa.

L’undicesimo contributo, di Gaspare Mura, si intitola Psyche e Pneuma.42 Parte dalla definizione del termine psyché nell’antichità greca e ricorda la svolta impressa al significato di questo termine da Socrate, come dimensione puramente spirituale, centro della vita intellettuale e volitiva dell’uomo, poi consolidata da Platone, il quale acquisisce a essa il concetto di immortalità. Aristotele giunge a pensarla così nel segno di una metafisica dell’essere, lasciando aperto il problema se una sua parte possa essere intesa come una «sostanza separata». Attraverso la mediazione di Plotino, che pensa l’anima dell’uomo in unità con l’anima mundi, giungiamo poi ad Agostino, il quale la concepisce come composta di tre facoltà, sul modello della Trinità. Anima mundi che vive, successivamente, una rinascita nell’Accademia fiorentina e poi nel romanticismo, fino a James Hillman, il quale vedrà proprio in Plotino, Ficino e Vico i precursori della psicologia archetipica di Jung.43

Passando al termine pneuma, a partire dal quale l’anima è assimilata al respiro, ci viene ricordato, inoltre, il fatto che è con il cristianesimo che esso perde il suo significato naturalistico originario e assume un valore decisamente trascendente. La conversione compiuta della psyché nello pneuma avviene con s. Paolo, il quale imposta in termini nuovi il problema antropologico, approfondendo non più il rapporto fra anima e corpo, ma quello fra carne e spirito. La carne non indica, per s. Paolo, il corpo materiale, dotato di psiche, il quale è stato creato buono da Dio, ma piuttosto l’uomo che, pur provvisto di anima, «si abbandona ai desideri carnali, lasciandosi dominare dal peccato che lo conduce alla morte»44. Se, da un lato, va detto che l’alternativa appena prospettata – attingere una dimensione spirituale oppure rimanere schiavi della carne – era già presente nel messaggio di Platone, ereditato da Socrate, dall’altro, però, nel santo di Tarso, è presente una concezione cristiana della grazia, assolutamente nuova, la quale significa la capacità dell’uomo di essere rigenerato, grazie alla sua partecipazione al corpo di Cristo risorto. Sta tutta qui la chiave della teologia di s. Paolo, ossia nell’idea, spesso misconosciuta, secondo cui la carne, nonché la stessa materia, non vengono annullate nella nuova dimensione acquisita dall’uomo, ma trasfigurate nel segno di un rinnovamento dell’intera creazione.

Il dodicesimo contributo, di Vinicio Busacchi, si intitola Rappresentazione45 e inizia ricordando come il concetto in questione, assumendo rilevanza filosofica in età medioevale, si sviluppa, in direzione prevalentemente gnoseologica, in età rinascimentale e moderna, fino ad arrivare a Kant. Venendo poi al versante scientifico, il concetto di rappresentazione assume una posizione centrale prima nella psicoanalisi di Freud e, successivamente, nella psicologia cognitiva. In quest’ultima, il tema delle immagini mentali si inflette in diverse direzioni, ma viene sviluppato, soprattutto, in relazione alla sfera della percezione e al linguaggio.

L’autore si sofferma, in particolare, sulla riflessione di Ricoeur, presso il quale la nozione di rappresentazione o, meglio, di rappresentanza «è intesa […] come espressiva della "coincidenza" tra dimensione esistenziale del senso e dimensione organico-biologica della forza, ovvero tra registro discorsivo ermeneutico e registro discorsivo energetico»46. Per il filosofo francese, sta tutta qui l’originalità della teorizzazione di Freud, ossia nel fatto che il passaggio dal piano della pulsione a quello della motivazione viene inteso, dal padre della psicoanalisi, come una traduzione dell’inconscio nel conscio: traduzione possibile, in ragione della loro uniformità strutturale di partenza.

Nuove prospettive riflessive per la nozione di rappresentazione si dischiudono poi approfondendo il tema in chiave prevalentemente ermeneutico-linguistica. E qui un apporto rilevante ci è venuto, ancora una volta, da Ricoeur, il quale ha parlato di una dialettica della rappresentazione, distinguendo fra una «rappresentazione-oggetto» e una «rappresentazione-operazione», così da collocare il discorso storico nel segno di un prolungamento critico della memoria, tanto personale quanto collettiva.47

E passiamo così al tredicesimo contributo, di Giuseppe Martini, intitolato Rimosso, non rimosso.48 Inizia rilevando come l’incontro fra psicoanalisi e neuroscienze avrebbe messo capo a una concezione dell’inconscio molto più articolata rispetto al passato: concezione in cui alla nozione di rimozione è affidato il compito di marcare una linea di confine. L’approfondimento della distinzione fra rimosso e non rimosso, in Freud, porta poi l’autore a mettere a fuoco, in quest’ultimo, il rapporto fra inconscio e rappresentazione, nell’ipotesi che il padre della psicoanalisi non avrebbe mai scalzato il primato di essa, come ha fatto, invece, con l’Io. Ma se tutta la psicoanalisi di Freud può dirsi incardinata nella nozione di «rappresentabile», non va dimenticato come già Jaspers avesse criticato questa impostazione, intendendo l’inconscio come un qualcosa che non può mai essere reso cosciente.49

Prendendo atto dell’indirizzarsi della psicoanalisi contemporanea verso la soglia del non-rappresentabile, la domanda che sorge, a questo punto, è se tutto ciò non finisca per mettere in crisi l’intero dominio della metapsicologia tradizionale. Nelle psicosi, ad esempio, la nozione di non-rappresentabile si presenta come un vuoto, indice di «una carenza della rappresentazione» o come «una eccedenza disorganizzata di senso»50. Vuoto che, per Bion, si trova, addirittura, all’origine della mente: un infinito senza forma che attende di essere convertito in pensiero.

Ora, in riferimento al non-rappresentabile, confrontando le nuove impostazioni psicanalitiche con quella di Freud, l’autore ne conclude che, mentre il modo di concepire l’inconscio, da parte quest’ultimo, presuppone la contraddizione, le altre, invece, collocano l’inconscio stesso prima di essa, in quel dominio indistinto cui appartiene «ciò che non è ancora pensiero»51. Un’altra precisazione che viene fatta è poi quella secondo cui la distinzione fra inconscio non rimosso e inconscio rimosso rappresentazionale si dà solo in sede analitica, in quanto, in concreto, questi due aspetti sono strettamente intrecciati, nella misura in cui danno vita a un flusso psichico continuo.

Il contributo presente si conclude esaminando l’apporto recato dalle neuroscienze alla riflessione sull’inconscio non-rappresentabile. Ebbene, tale apporto viene rinvenuto nella nozione di «memoria procedurale». Con essa, veniamo messi di fronte al paradosso di un dispositivo mentale che, pur operando automaticamente, al di qua della soglia della consapevolezza e dell’intenzionalità, tuttavia, «condiziona emozioni ed affetti, ed entra in gioco soprattutto nel transfert e nel sogno»52.

Segue il quattordicesimo contributo, di Ӧnay Sözer, intitolato Simbolo.53 Qui, ci viene subito ricordato come il simbolo, in Jung, non ha nulla a che fare con il segno, semioticamente inteso, ma intrattiene, piuttosto, con ciò che simboleggia, un rapporto di «possibilità necessaria» o di «relatività […] esistenziale»54. Il fatto che Jung caratterizzi il simbolo in quanto attraversato da una contraddizione, vissuta dall’Io, porta poi l’autore a indicare come il motivo della scissione, in quanto connaturata alla vita, si trovi già nella filosofia di Hegel e nella sua psicologia, in particolare. In Jung, infatti, il simbolo come figura vivente si forma all’interno di un processo dialettico che si articola attraverso la posizione di una tesi e di un’antitesi, processo che non conosce mai, però, una risoluzione finale. Ora, è proprio il motivo dell’antinomia la chiave nel cui segno l’autore suggerisce di riconsiderare Jung. Si pensi, ad esempio, alla centralità che ha in quest’ultimo la nozione di «funzione trascendente», intesa come ciò che permette all’individuo di trovare un equilibrio tra sfera del conscio e sfera dell’inconscio, superando il dualismo dato dalla loro opposizione. Ed è proprio qui che il problema relativo alla storicità del simbolo fa valere tutta la sua incidenza, in quanto mostra che il simbolo stesso «non è semplicemente […] un fatto bruto […], ma una riflessione di Sé sull’Io che è mortale. Precisamente questa sua posizione costituisce la sua storicità e la sua unicità, l’una inseparabilmente dall’altra»55.

Del quindicesimo contributo è autore Nicola Zippel e si intitola Sogno.56 Esso, ricostruendo le linee essenziali dell’analisi del sogno portata avanti dalla fenomenologia, vuole gettare le basi per un dialogo produttivo fra quest’ultima e la psicoanalisi. Vengono esaminate, innanzi tutto, le prospettive sul sogno di Husserl e dell’allievo di questi, e poi collaboratore, Eugen Fink. Mentre il primo lo considera come espressione di un’attività opposta a quella che si esplica nella «presentificazione (Vergegenwärtigung)» (ricordo, attesa, fantasia), «essendo il suo oggetto direttamente presente nell’apparire, senza la mediazione dovuta a una ri-presentazione»57, il secondo lo ricomprende, invece, proprio nel fenomeno della «presentificazione». In più, lo vede corrispondere a uno stato dell’io distinto da quello della vita desta, l’unico a essere preso in considerazione da Husserl.

Altre due analisi fenomenologiche del sogno esaminate sono poi quelle di Jean-Paul Sartre e di Theodor Conrad. L’uno vi vede lo schiudersi di una nuova scena temporale dell’esperienza, nella quale il soggetto trasferisce il rapporto che intrattiene da sveglio con il mondo. L’altro lo definisce come un «vissuto di dislocazione», corrispondente a uno stato, distinto dalla vita desta, in cui noi siamo assorbiti completamente. A questo punto, l’autore trae una prima conclusione quanto alla differenza nel modo di considerare il sogno che corre fra Husserl e gli due altri fenomenologi. Essa consiste proprio nel fatto che, mentre i secondi, seppur da prospettive diverse, ritengono che il sogno possa essere oggetto di una ricognizione critica, il primo, invece, lo nega risolutamente. Si tratta di vedere, allora, quale, in ognuna delle tre posizioni esaminate, costituisca il nucleo più originale e autentico di essa. Tale nucleo corrisponderebbe, in Sartre, alla configurazione del sogno come attività intenzionale mossa dall’immaginazione, in Fink, all’idea secondo cui la «presentificazione» può fungere da «porta d’accesso descrittiva al sogno, e alla dimensione inconscia in generale»58, mentre, in Conrad, a un modo di concepire il sogno che lo vede come una «percezione travestita da rappresentazione». «Sartre, Fink e Conrad costituiscono tre sentieri interrotti che fra di loro non si sono mai incontrati ma che, oggi, possono essere di nuovo battuti per costruire una nuova strada da affiancare alle molteplici vie percorse dalla fenomenologia nella comprensione del Bewusstseinsstrom (flusso di coscienza)»59.

Il sedicesimo contributo, di Gabriella Baptist, si intitola Sonno della ragione60 e inizia chiedendosi se la chiave di accesso alla coscienza non possa essere costituita dal sonno, piuttosto che, come, per lo più, si è sempre creduto fin qui, dalla veglia. Nell’antichità, una posizione emblematica sul sonno è quella di Aristotele, il quale, riferendolo all’anima sensitiva, lo vede come una condizione indispensabile alla conservazione dell’efficienza della percezione e del movimento del vivente. Nell’età moderna, l’analisi del sonno presa in considerazione è poi quella di Hegel, la quale, mentre, da un lato, si sviluppa in continuità con Aristotele, dall’altro, richiamandosi a Bichat, uno dei padri fondatori della fisiologia sperimentale, inquadra il sonno nel contesto della ritmicità alternata che caratterizza gli stati della vita animale.

Quanto alla contemporaneità, infine, la prospettiva sul sonno esaminata è quella di Jean-Luc Nancy, per il quale esso rappresenta l’assenza di ogni intenzionalità e il grado zero della coscienza. La fenomenologia e l’ermeneutica del sonno proposta da Nancy61 si caratterizza per il fatto di essere paradossale, tant’è che egli arriva a dire che di esso, propriamente parlando, non può esserci né un’ermeneutica né una fenomenologia. Nel sonno, ognuno aderisce al proprio nucleo più intimo, eppure coincide con quanto, per noi, di più esteriore non c’è: il luogo in cui ci deponiamo, quasi fossimo un corpo minerale puro e semplice. Quando cadiamo nel sonno, inoltre, non possiamo dire di star dormendo, perché ciò che con esso viene meno è proprio la dimensione del sé, ossia di un soggetto capace di dire "io". «Dormendo divento un paradosso a me stesso: esisto come un’inesistenza, vedo l’eclissarsi della visione, lascio che prenda forma l’informe, che si levi il cadere e trionfi il sé dell’assenza a sé»62. Ed è proprio nel segno di queste contraddizioni che trova spazio l’inconscio, nel senso che quanto più la coscienza si fa investire da quest’ultimo, tanto più lo lascia salire in sé e vi si sprofonda, non perdendovisi, ma sapendosi, in qualche modo, interamente consegnato a esso.

L’ultimo contributo, che chiude il volume e, quindi, anche la nostra ricognizione, è di Angiola Iapoce e si intitola Tradizione, infanzia, memoria.63 Si parte rilevando come la riflessione sull’inconscio, quale che sia il suo orientamento in sede teorica e clinica, debba avvalersi, inevitabilmente, di due apporti: da un lato, di un pensiero di taglio critico, dall’altro, di un pensiero di taglio storico. Nel primo caso, si tratta di concettualizzare le scoperte, volta a volta, raggiunte, senza mai, però, fissarle in configurazioni rigide e definitive. Un referente esemplare per tutto ciò può essere visto nei giudizi sintetici a priori di Kant. Nel secondo caso, si tratta di dare una dimensione di "profondità" all’indagine, ricostruendo quelle connessioni significative che collegano ogni dato presente ai fenomeni del passato, senza mai obliare, però, la coscienza che l’uno segna sempre uno "scarto" rispetto agli altri. Solo a tali condizioni, il pensiero psicoanalitico sarà in grado di muoversi «tra una ragione che […] accompagna l’essere umano anche in presenza dell’inconscio e un senso di umanità collegato allo scorrere del tempo»64.

Dichiarando che il filo conduttore delle sue riflessioni è dato dal tema dell’azione, l’autrice passa quindi a esaminare una prospettiva filosofica dove essa riveste un ruolo rilevante: quella di Hannah Arendt. In lei, centrale è la nozione di «"lacuna" temporale», intesa come ciò che, rompendo il continuum indifferenziato del tempo storico, consente di inaugurare il tempo della soggettività individuata e concreta. È così che, per la filosofa tedesca, ogni azione umana dischiude un orizzonte futuro e si proietta verso l’avvenire solo a condizione di volgersi all’indietro, nell’atto in cui promuove «un recupero progettuale […] del passato»65. Ne discende che la «"vera" memoria, per Arendt, nasce in un vuoto del continuum temporale, nasce nella discontinuità»66. Ecco un esempio concreto di come il pensiero critico, senza mai chiudersi in un orizzonte concettuale definitorio, si converte in «pensiero psico-storico di tipo genetico»67, recuperando l’origine autentica dei concetti tradizionali.

Chi ha approfondito questo motivo della rammemorazione è stato poi Walter Benjamin, il quale riprende da Ernst Bloch il concetto di Eingedenken, letteralmente: «ricordare dentro». Non un esercizio attivo che si esplica in un richiamare alla memoria, ma una memoria involontaria o procedurale che, irrompendo nella presenza di un individuo, coincide con «un passato inespresso che chiede di essere realizzato»68 attraverso di noi. Ursprung è il termine che Benjamin usa al riguardo, letteralmente: «"zampillo originario", un’origine che è in relazione con una lacuna, con una discontinuità, con un salto»69.

L’autrice passa poi a mettere in circolo le prospettive di Arendt e di Benjamin con quella di Jung. Molti sono i punti di contatto fra i tre autori. L’idea dei primi due secondo cui il passato è un qualcosa cui ognuno di noi è assegnato e che appartiene non solo alla biografia personale, ma anche alla dimensione storica e collettiva richiama, ad esempio, la famosa idea del terzo relativa all’inconscio collettivo. Inoltre, come Benjamin e Arendt vedono l’azione rammemorante come quel momento che segna il risveglio da un passato di sonno e di vaghezza, così Jung teorizza, in quasi tutte le sue opere, l’incidenza del sogno sulla vita desta. Certamente, in quest’ultimo manca una vera e propria teoria della memoria. Ma ciò solo a livello esplicito, perché, a livello implicito, invece, la memoria è vista da lui come un medium che agisce in tutti i complessi caratterizzati da una tonalità di tipo affettivo. Un ulteriore raffronto, limitato, questa volta, solo a Benjamin e Jung, riguarda poi il «pensare per costellazioni», teorizzato dal primo, ma portato avanti, in qualche modo, anche dal secondo, nelle sue ricognizioni dei simboli da lui esaminati.

E proprio con un’analisi del simbolo, in Jung, termina il presente contributo: simbolo, il quale, mentre, da un lato, deve essere contestualizzato entro quell’esperienza che forma la struttura di una data personalità, dall’altro, invece, deve essere tenuto in rapporto tanto con il polo patico e inconscio della vita psichica quanto con il polo attivo e conscio, in piena correlatività dell’uno rispetto all’altro.


  1. L’inconscio a più voci, pp. 5-43. ↩︎

  2. Ivi, pp. 6-7. ↩︎

  3. Su questo punto, cfr. A. Janik – S. Toulmin, La Grande Vienna, tr. it. di U. Giacomini, Garzanti, Milano 1975, nonché, più di recente, R. Calimani, La Grande Vienna ebraica, Bollati Boringhieri, Torino 2020. ↩︎

  4. L’inconscio a più voci, cit., p. 16. Il riferimento va, in particolare, a F. Mauthner, Beiträge zu einer Kritik der Sprache (1901/02), 3 voll., Cotta, Stuttgart-Berlin 1980. Per una selezione antologica in italiano di testi di Mauthner che affrontano i temi della critica del linguaggio, con passi tratti dai Beiträge e da altre sue opere, cfr. F. Mauthner, La maledizione della parola. Testi di critica del linguaggio, a cura di L. Bartolini, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2008. ↩︎

  5. Su Nietzsche, visto da Freud come quel filosofo le cui «intuizioni e scoperte coincidono spesso, in modo sorprendente, con i risultati faticosamente raggiunti dalla psicoanalisi», cfr. S. Freud, Autobiografia (1924), in Id., Opere, a cura di C. Musatti, vol. 10: 1924-1929. Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, Boringhieri, Torino 1978, pp. 69-141: p. 127. Sul confronto di Jung con Nietzsche, cfr. invece C. G. Jung, Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario tenuto nel 1934-39, a cura di J. L. Jarret, ed. it. a cura di A. Croce, Bollati Boringhieri, Torino 2011-2013. ↩︎

  6. L’inconscio a più voci, cit., pp. 45-59. ↩︎

  7. Ivi, p. 49. ↩︎

  8. Ivi, p. 52. ↩︎

  9. Ivi, p. 54. ↩︎

  10. Ivi, pp. 61-64. ↩︎

  11. Ivi, p. 63. ↩︎

  12. Ivi, p. 64. ↩︎

  13. Ivi, pp. 65-73 ↩︎

  14. Ivi, pp. 75-83. ↩︎

  15. Ivi, p. 75. ↩︎

  16. Ivi, p. 77. ↩︎

  17. Ivi, p. 78. ↩︎

  18. Ivi, pp. 85-91. ↩︎

  19. Ivi, p. 85. ↩︎

  20. Il passo in questione è laddove E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961, scrive: «già […] nell’intenzionalità dell’orizzonte, sono inclusi modi molto diversi di intenzionalità che, nel senso comune e ristretto della parola, è "inconscia" […]; modi che hanno modalità proprie di validità […]. Inoltre esistono ancora […] intenzionalità "inconsce". Tra esse occorre annoverare […] i comportamenti inconsciamente motivati che sono stati scoperti dalla recente "psicologia del profondo"» (p. 258). ↩︎

  21. L’inconscio a più voci, cit., pp. 93-100. ↩︎

  22. Ivi, p. 99. ↩︎

  23. Ivi, p. 100. ↩︎

  24. Ivi, pp. 101-107. ↩︎

  25. Ivi, p. 102. ↩︎

  26. Ivi, p. 103. ↩︎

  27. Ivi, p. 104. ↩︎

  28. Ivi, p. 105. ↩︎

  29. Ivi, p. 107. ↩︎

  30. Ivi, pp. 109-117. ↩︎

  31. Ivi, p. 116. ↩︎

  32. Ivi, p. 117. ↩︎

  33. Ivi, pp. 119-134. ↩︎

  34. Cfr. A. Oliverio, La vita nascosta del cervello, Giunti, Firenze 2012. ↩︎

  35. L’inconscio a più voci, cit., p. 124. ↩︎

  36. Ivi, p. 127. ↩︎

  37. Ivi, p. 130. ↩︎

  38. Ivi, pp. 135-145. ↩︎

  39. Cfr. G. Calogero, Primo manifesto del liberalsocialismo, in Id., Difesa del liberalsocialismo ed altri saggi, Marzorati, Milano 1940, pp. 199-220. ↩︎

  40. Cfr. É. Balibar, La proposition de l’égaliberté. Essais politiques 1989-2009, PUF, Paris 2010. ↩︎

  41. L’inconscio a più voci, cit., pp. 138-139. ↩︎

  42. Ivi, pp. 147-160. ↩︎

  43. Cfr. J. Hillman, Plotino, Ficino e Vico precursori della psicologia archetipica, in Id., L’anima del mondo e il pensiero del cuore, tr. it. di P. Donfrancesco, Garzanti, Milano 1993, pp. 9-40. ↩︎

  44. L’inconscio a più voci, cit., p. 158. ↩︎

  45. Ivi, pp. 161-166. ↩︎

  46. Ivi, p. 163. ↩︎

  47. Cfr. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, ed. it. a cura di D. Iannotta, Cortina, Milano 2003, p. 327. ↩︎

  48. L’inconscio a più voci, cit., pp. 167-178. ↩︎

  49. Cfr. K. Jaspers, Psicopatologia generale, tr. it. di R. Priori, Il Pensiero Scientifico, Roma 1964, laddove leggiamo: «Mentre l’inconscio quale inosservato è in effetti vissuto, l’inconscio come extracosciente in realtà non lo è» (p. 331). ↩︎

  50. L’inconscio a più voci, cit., p. 170. ↩︎

  51. Ivi, p. 174. ↩︎

  52. Ivi, p. 176. ↩︎

  53. Ivi, pp. 179-185. ↩︎

  54. Ivi, p. 179. ↩︎

  55. Ivi, p. 185. ↩︎

  56. Ivi, pp. 187-194. ↩︎

  57. Ivi, p. 187. ↩︎

  58. Ivi, p. 192. ↩︎

  59. Ivi, p. 193. ↩︎

  60. Ivi, pp. 195-201. ↩︎

  61. Cfr. J.-L. Nancy, Cascare dal sonno, tr. it. di R. Prezzo, Cortina, Milano 2007. ↩︎

  62. L’inconscio a più voci, cit., p. 200. ↩︎

  63. Ivi, pp. 203-218. ↩︎

  64. Ivi, p. 205. ↩︎

  65. Ivi, p. 206. ↩︎

  66. Ivi, p. 207. ↩︎

  67. Ivi, p. 208. ↩︎

  68. Ivi, p. 210. ↩︎

  69. Ivi, p. 211. ↩︎