Recensione a Pietro De Vitiis, La teologia politica come problema ermeneutico

Pietro De Vitiis, La teologia politica come problema ermeneutico, Morcelliana, Brescia 2013

Per presentare l’ultimo testo di De Vitiis, La teologia politica come problema ermeneutico,1 vorrei iniziare ricordando l’interesse di lunga durata del suo autore proprio per il problema ermeneutico. Al riguardo, menziono solo due testi, dove il termine ermeneutica compare fin dal titolo: Ermeneutica e sapere assoluto2 e Filosofia della religione fra ermeneutica e postmodernità.3 Senza dimenticare poi i numerosi contributi prodotti da De Vitiis sul pensiero di Heidegger, tra cui: Heidegger e la fine della filosofia,4 Il problema religioso in Heidegger5 e Prospettive heideggeriane.6 Ma il nostro libro reca nel titolo anche un riferimento alla teologia, politica nella fattispecie. E proprio alla teologia, filosofica più in generale, il nostro autore ha dedicato un’altra cospicua parte della sua produzione. Qui, mi piace ricordare solo un titolo: il numero della rivista «Humanitas»,7 curato insieme a F. P. Ciglia, intitolato, appunto, La teologia filosofica oggi.

Il testo in questione cade, inoltre, in un momento di grande attenzione per i problemi di cui esso si occupa. Sempre nel 2013, abbiamo avuto, infatti, altri due lavori dedicati alla teologia politica, i cui autori sono due filosofi italiani di alto profilo: M. Cacciari con Il potere che frena. Saggio di teologia politica8 e M. Borghesi con Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana.9

Fin dall’inizio, De Vitiis enuclea chiaramente i suoi referenti teorici, ossia, premesso che il tema del suo lavoro è dato dal concetto di secolarizzazione, essi sarebbero costituiti da Blumenberg e dalla sua tesi relativa alla legittimità dell’epoca moderna e da Schmitt, nel quale la teologia politica si configura proprio come una teoria della secolarizzazione.

Il capitolo primo («Postmodernità e postsecolarismo») esamina, in particolare, la posizione di due studiosi: un costituzionalista, Ernst-Wolfgang Böckenförde10, allievo di Schmitt, e un filosofo, Robert Spaemann, il quale dallo stesso Schmitt, in una certa misura, è stato influenzato. Ora, a tutti è noto il concetto di secolarizzazione, del quale mi limito, perciò, a ricordare che esso incarna, forse, il tratto più tipico della modernità, che affonda le sue radici nell’Illuminismo e che, in chiave sociologica, sta subendo, negli ultimi anni, una certa attenuazione, connotata, dagli studiosi del settore, come processo di de-secolarizzazione.

L’inflettersi di questo processo avrebbe come suo luogo di manifestazione privilegiato il fenomeno della religione, con l’affermarsi di nuove forme di quest’ultima e con la tendenza, sempre più accentuata di essa, ad assumere un ruolo deprivatizzato e pubblico. Fra l’altro, è proprio in questo senso che oggi si parla di “postsecolarizzazione”. E lo ha fatto anche Habermas, in particolare, nel dialogo che ha intrattenuto, nel 2004, con l’allora cardinale Ratzinger11: dialogo che prende le mosse proprio dal “teorema di Böckenförde”, secondo il quale il grande rischio che lo Stato liberale secolarizzato si è assunto, proprio per amore della libertà, riguarda il fatto che esso vive di presupposti che, da se stesso, non riesce a garantire. In questa chiave, lo studioso in questione retrodata la nascita del processo di secolarizzazione, rispetto all’uso più diffuso a collocarla entro l’orbita dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. La fa risalire, addirittura, alla lotta per le investiture fra papato e impero, laddove, per la prima volta, si verificherebbe una laicizzazione della sfera politica, con la separazione di essa dalla sfera sacrale. Tutto ciò, però, non perché la prima intendeva emanciparsi così dalla seconda, ma per la volontà di riconoscere ai due ordini una piena e reciproca autonomia: riconoscimento che è la matrice da cui poi sorgerà lo Stato liberale moderno, dove l’ordinamento politico, dandosi il compito di garantire i diritti naturali dei cittadini, non cerca più la propria legittimazione in una fondazione divina12.

Rispetto alla teologia politica cosiddetta “giuridica”, che avrebbe il suo referente in Schmitt, Böckenförde vede esistere altre due forme di essa: la teologia politica “istituzionale”, cosiddetta perché procura una legittimazione all’ordinamento politico, e quella “appellativa”, cosiddetta perché, nel segno di istanze evangeliche, fa appello ad un impegno politico per la trasformazione della società. Un esempio tipico di quest’ultima sarebbe dato dalla teologia della liberazione.

Per lo studioso in questione, il problema di fondo della teologia politica è, così, quello chiedersi, innanzi tutto, se sia possibile operare una netta distinzione tra sfera della religione e sfera del politico. Cosa che, per lui, non è possibile, visto che quest’ultimo, schmittianamente inteso, non dispone mai di un contenuto specifico, ma si caratterizza proprio per il fatto di infondere in altri ambiti della vita umana il suo paradigma improntato alla conflittualità e alla categoria amico-nemico. E, a proposito di quest’ultima categoria, Böckenförde la assume interpretandola nel senso che il fine della politica non è la guerra, ma il superamento del conflitto, in vista del conseguimento di uno stato di pace.

A proposito del rapporto fra Böckenförde e Schmitt, De Vitiis suggerisce poi una chiave di lettura molto originale: come Habermas, nel 1979, aveva parlato, a proposito di Gadamer, di una “urbanizzazione della provincia heideggeriana”, così il primo avrebbe dato seguito ad una “urbanizzazione della provincia schmittiana”, nel senso che l’allievo provvederebbe a temperare la sfiducia del maestro circa l’incapacità del liberalismo nel dominare i conflitti della sfera politica.

Passando al secondo autore, Spaemann, De Vitiis ne analizza la concezione del postmoderno. Se il moderno ha segnato l’apoteosi del sapere scientifico obiettivante, l’uscita da esso — senza, però, che se ne perdano le indiscutibili conquiste (una su tutte: il valore della libertà) — consisterebbe, invece, nel recupero dell’istanza dell’incondizionato, quale si esprime, in particolare, nella dimensione etica e religiosa. L’inizio della crisi del moderno sarebbe rappresentato, per il filosofo tedesco, da Nietzsche: colui con il quale l’Illuminismo perviene all’autodistruzione, corrodendo i suoi stessi presupposti. Dal che si vede come, su questo punto, Spaemann è molto vicino al “teorema di Böckenförde”.

Si diceva, in precedenza, che anche Spaemann è stato influenzato, in una certa misura, da Schmitt. Ebbene, ciò riguarda, innanzi tutto, il motivo per cui la categoria amico-nemico sarebbe, per lui, costitutiva del politico. E, in seconda battuta, la tesi secondo cui, dove la discussione non ha più presa, lì si deve far ricorso alla decisione. Sul filosofo tedesco in questione agisce poi anche un’altra influenza: quella dell’etica classica, attraverso il recupero dei concetti di finalismo, aristotelicamente inteso, e di eudemonia. Ma ciò in cui trova sbocco la sua prospettiva è dato, in ultima istanza, dal concetto ontologico di “immemoriale (Unvordenkliche)”, inteso come quell’essere che sempre ci precede e che, in ogni circostanza, ci condiziona.

Nel capitolo secondo («Hans Blumenberg e il dibattito sulla secolarizzazione») si afferma che il filosofo appena menzionato respinge la tesi di Karl Löwith, ossia che il fenomeno della secolarizzazione consisterebbe in una conversione nell’idea di progresso della tesi cristiana relativa alla storia della salvezza. E ciò perché, mentre la prima implica una continuità immanente del processo storico, la seconda, invece, presuppone che quest’ultimo, interrompendosi, lasci spazio ad un intervento trascendente. Il punto è che, per Blumenberg, la continuità del processo storico, più in generale, non è mai garantita da contenuti che si trasmettono, trasponendosi da un piano all’altro, ma da domande che, ereditate dal passato, si riempiono nel presente di contenuti diversi. L’idea di progresso sarebbe, così, la risposta moderna a quel problema teologico medioevale nel segno del quale la storia veniva configurata come una totalità.

E, a questo punto, assistiamo ad un nuovo richiamo, nel libro, al nome di Schmitt, perché è proprio in quest’ultimo che Blumenberg trova la formulazione più compiuta del teorema della secolarizzazione, la quale si configurerebbe, così, per lui — in linea con la sua concezione, appena vista, della storia — come un’elaborazione di concetti politici attraverso un patrimonio di metafore messo a disposizione dalla teologia.

Nel capitolo terzo («Secolarizzazione e tradizione in Gadamer»), quest’ultimo ci viene presentato come un autore che, prendendo le distanze da Blumenberg, difende, piuttosto che la legittimità dell’epoca moderna, l’idea di una continuità sostanziale della tradizione. Come si sa, Gadamer, in Verità e metodo, opera un recupero del concetto di tradizione, condotto nell’ambito della sua riabilitazione della nozione di pregiudizio, rispetto allo screditamento subito da quest’ultimo ad opera dell’Illuminismo. Ora, De Vitiis riconduce giustamente la nozione di pregiudizio, in Gadamer, al suo originario profilo ontologico, nonché alla sua funzione di scardinare la figura hegeliana del sapere assoluto, criticando la lettura, in chiave prevalentemente ideologica, che di una tale nozione è stata proposta da interpreti recenti (Teresa Orozco).

Un problema discusso in questo capitolo è anche quello della presunta adesione di Gadamer al nazionalsocialismo, in merito alla quale ci viene ricordato, però, che il filosofo in questione non fu mai iscritto al partito, cosa che, all’epoca, doveva comportare sicuramente degli svantaggi. Tanto più che, nel 1946, viene chiamato a ricoprire la carica di rettore dell’Università di Lipsia, compito che mai gli sarebbe stato affidato, se fosse risultato compromesso con il nazismo.

Il capitolo quarto («Carl Schmitt e la teologia politica come problema ermeneutico») inizia con la discussione del concetto paolino — su cui riflette Schmitt — di katechon, concetto che, risalendo alla Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 6-7), ha trovato un’approfondita tematizzazione nel lavoro di Cacciari citato in precedenza. Fra l’altro, il titolo di esso, Il potere che frena, allude proprio al katechon, inteso come quella forza che tiene a distanza la potenza del male, prima dell’avvento della parousia: come quel «qualcosa o qualcuno che contiene-trattiene-frena il definitivo trionfo dello Spirito dell’empietà»13.

Il libro fa poi riferimento alla disputa interpretativa fra Blumenberg e Schmitt intorno al concetto di secolarizzazione, attingendo, questa volta, all’epistolario fra i due uscito solo di recente (2007). De Vitiis ha così l’occasione per mettere a punto il motivo di questa disputa nei seguenti termini: mentre per Schmitt la conversione dal teologico al politico «è uno spostamento di contenuti reali fra i due ambiti», per Blumenberg, invece, essa «è solo una formazione di metafore che rimane nella sfera soggettiva»14, tant’è che, in tal senso, la teologia politica non è altro, per lui, che una teologia metaforica.

Ricordiamo, inoltre, che il capitolo che stiamo riassumendo ha come suo oggetto -ce lo dice già il titolo — la teologia politica come problema ermeneutico in Schmitt. Ebbene, l’aggettivo “ermeneutico” può applicarsi a pieno titolo alla teologia politica di quest’ultimo, in quanto, per lui, la transizione all’epoca moderna metterebbe capo non tanto ad un’eliminazione della trascendenza, quanto ad una lotta accesa per l’interpretazione di essa.

E, a proposito della teologia politica “ermeneutica” di Schmitt — che De Vitiis considera, a tutt’oggi, ancora molto attuale — spunti di riflessione importanti ci vengono anche dall’epistolario tra il filosofo tedesco e Jacob Taubes, intercorso fra il 1955 e il 1980, ma pubblicato anch’esso solo recentemente (2007).

Taubes, impostando un confronto fra la teologia politica di Benjamin e quella di Schmitt, sostiene che, mentre nel primo prevale un’istanza messianico-rivoluzionaria, il secondo è orientato, invece, in senso controrivoluzionario, a partire proprio dalla nozione di kathecon. Egli fa poi riferimento anche alla critiche mosse a Schmitt dal teologo Peterson, autore — come vi ricorderete — su cui riflette il libro di Borghesi da me citato all’inizio. Per riassumere, in due parole, la posizione del teologo in questione, da ricordare è che egli riteneva che la teologia politica è possibile solo nel giudaismo o nel paganesimo, non nel cristianesimo. E ciò proprio in ragione del fatto che in quest’ultimo domina un paradigma non monarchico-divino, ma trinitario.

Il libro passa poi ad esaminare le letture più significative della teologia politica di Schmitt: dall’interpretazione ermeneutica, appunto, di Taubes a quelle, da un lato, in chiave teologica e religiosa, di Heinrich Meier e, dall’altro, in chiave decisionistica e nichilistica, di Löwith: una lettura, quest’ultima, definita, però, da De Vitiis come «sicuramente riduttiva»15. Un interprete che segue le orme di Löwith, Hasso Hoffmann, parla, addirittura, di una svolta, nel pensiero di Schmitt, dal decisionismo all’ordinamento concreto e alla storicità, paragonabile alla Kehre heideggeriana. Ma da ricordare è anche la chiave di lettura proposta da Hugo Eduardo Herrera che, cercando di mediare fra gli estremi delle precedenti interpretazioni e concentrandosi sul metodo adottato da Schmitt, ne ha messo in risalto il carattere fenomenologico, piuttosto che sistematico o ontologico-fondazionalista.

Un altro motivo importante svolto nel capitolo che stiamo esaminando riguarda il rapporto intercorso fra Schmitt e Ernst Jünger. Anche il loro epistolario è stato pubblicato solo di recente, nel 1999. Dopo una vicinanza iniziale, con l’avvento del nazismo al potere, le loro strade, in un primo tempo, si sono separate, poi, però, si sono rivvicinate. Nel 1941, i due si incontrano anche a Parigi, in occasione di una conferenza di Schmitt su temi di geopolitica.

In merito a Jünger, De Vitiis si sofferma, in particolare, sul famoso testo del 1950: Über die Linie, scritto per il sessantesimo compleanno di Heidegger. Qui, si prospetta la necessità di varcare la linea che delimita il dominio del nichilismo, ossia di superarlo nel segno della libertà, dell’eros, dell’arte e della poesia. Nota è la replica di Heidegger, che stigmatizza una tale posizione come una forma di ricaduta in una metafisica ontica. In Jünger, poi, un’altra figura incentrata sul motivo del “superamento della linea” è data dal concetto di «passaggio al bosco (Waldgang) »: concetto, quest’ultimo, che si dà come una forma di “essere-per-la-morte”, distinta, però, dalla nozione corrispondente heideggeriana, in quanto, a differenza di essa, comporta un riferimento alla vita eterna e all’essere sovratemporale.

Il capitolo quarto si chiude con una esposizione della teologia politica prospettata, a partire dagli anni Sessanta, dal teologo Johann Baptist Metz: essa, rispetto a Blumenberg, fa leva sul concetto di critica piuttosto che di legittimazione, mentre, rispetto a Schmitt, si presenta sotto un segno non tanto marcatamente filosofico, quanto ecclesiologico. Metz considerava, inoltre, Schmitt come un nemico della Repubblica di Weimar. Affermazione, questa, che De Vitiis giudica come «un errore sul piano storiografico», perché egli fu, piuttosto, un difensore di essa, in quanto consulente giuridico per l’elaborazione di un piano di emergenza volto ad impedire l’avvento al potere dei partiti totalitari. E se poi aderì al partito nazionalsocialista, fu solo per motivi opportunistici, tant’è che fra lui e un tale partito non si dette mai «una reale convergenza ideologica»16.

Il capitolo quinto («Cattolicesimo romano»), l’ultimo del libro, modula l’idea, sempre di Schmitt, secondo cui la Chiesa cattolica si caratterizza per un universalismo, erede di quello realizzato dall’Impero romano, grazie a cui riesce sempre a conciliare, al suo interno, posizioni opposte. E ciò di cui essa si fa carico attraverso il motivo dell’incarnazione e del Dio che si è fatto uomo è proprio di una forza di rappresentanza e di un’affermazione di autorità dal profilo eminentemente giuridico.

Questo capitolo, e l’intero volume, termina con un riferimento all’attualità, richiamando l’analisi del politologo statunitense Samuel P. Huntington, secondo il quale il nuovo ordine mondiale sarebbe caratterizzato dal fatto che, dopo il crollo del Muro di Berlino, il conflitto si apre non più fra ideologie, ma fra civiltà, come, ad esempio, fra il mondo islamico e l’Occidente. È così che, in ultima istanza, De Vitiis ritiene la tesi sulla secolarizzazione di Schmitt, ermeneuticamente, senz’altro più valida di quella di Blumenberg. E ciò perché, mentre la prima «afferma la continuità di una trasmissione reale nel processo della secolarizzazione», la seconda, invece, vede in esso solo «una frattura storica che riduce la religione a metafore soggettive»17. Cosa che, appunto, non si può accettare, se prendiamo per buona la tesi secondo cui i conflitti odierni fra civiltà diverse si configurano sempre come scontri che si accendono fra religioni.


  1. Morcelliana, Brescia 2013. ↩︎

  2. Milella, Lecce 1982. ↩︎

  3. Morcelliana, Brescia 2010. ↩︎

  4. Nuova Italia, Firenze 1974. ↩︎

  5. Bulzoni, Roma 1995. ↩︎

  6. Morcelliana, Brescia 2006. ↩︎

  7. N. 3/2004. ↩︎

  8. Adelphi, Milano 2013. ↩︎

  9. Marietti, Genova 2013. ↩︎

  10. Di questo studioso, G. Preterossi, Prefazione a E.-W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno allEuropa unita, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. V- XVI, ha scritto che si tratta di «un costituzionalista tra i più acuti e profondi del secondo dopoguerra. Un costituzionalista che, nel solco della tradizione tedesca, è anche un teorico della politica, un filosofo del diritto, uno storico della cultura giuridica e delle istituzioni politiche» (p. V). ↩︎

  11. Cfr. J. Habermas - J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di G. Bosetti, Marsilio, Venezia 2005, testo che, nell’edizione originale tedesca di questo stesso anno, reca il titolo di Dialektik der Säkularisierung↩︎

  12. Cfr. E.-W. Böckenförde, La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione, in Id., Diritto e secolarizzazione, cit., pp. 33-54. ↩︎

  13. Il potere che frena, cit., p. 11. Katechein - ricorda Cacciari - significa, infatti, non solo «trattenere o raffrenare», ma anche «contenere, comprendere in sé» (p. 22). ↩︎

  14. La teologia politica come problema ermeneutico, cit., p. 92. ↩︎

  15. Ivi, p. 112. ↩︎

  16. Ivi, p. 163. ↩︎

  17. Ivi, p. 192. ↩︎