L’annus mirabilis di John Locke

Ogni grande filosofo ha avuto probabilmente il suo annus mirabilis, un tempo benedetto da una intuizione così illuminante da rischiarare tutto il percorso successivo della sua ricerca; non sempre ci è dato di conoscere quando questo è avvenuto, soprattutto per quel che riguarda i secoli passati. A volte la percezione del mutamento prodotto dall’intuizione è rimasta inespressa, quasi oscura allo stesso che l’ha sperimentata; è dai frutti che possiamo riconoscerla. Altre volte essa è stata colta e celebrata, come nel caso di Cartesio. La sua corrispondenza, così come i suoi scritti, ci mostrano una certa inclinazione a parlare di sé; non stupisce dunque che abbia consegnato un dettagliato resoconto di quella esperienza al suo amico Mersenne nella corrispondenza.

Il caso di John Locke è molto diverso. Malgrado di lui, della sua vita privata, letture ed esperienze ci è dato di sapere molto di più di quanto sappiamo di Cartesio, grazie alla mole di note manoscritte contenute nei suoi journals, notebooks, e poket memorandum books, una certa ritrosia a parlare di sé, persino nelle lettere agli amici più cari, ci rende difficile determinare quando alcune fondamentali intuizioni balenarono nella sua mente, e a seguito di quali esperienze. D’altra parte, tali intuizioni hanno lasciato alcune tracce nelle note manoscritte del filosofo: sono proprio queste che ci aiutano a formulare qualche ipotesi. Quella che propongo in questo articolo ruota attorno ad un anno della vita di Locke, il 1677, che sembra essere stato davvero fondamentale per lo sviluppo delle sue idee. Si tratta di un momento che non ha come scenario l’Inghilterra, o meglio quella Oxford in cui aveva compiuto i suoi studi, bensì la Francia.1 Dal 1675, Locke è in Francia per motivi di salute (era malato di tisi), o forse per evitare un possibile coinvolgimento nelle tormentate vicende politiche che hanno come protagonista il suo patron Lord Shaftesbury; è probabilmente lo stesso Shaftesbury ad invitarlo a lasciare il paese. Dopo alcuni giorni trascorsi a Parigi Locke si sposta a Montpellier, famosa per la sua facoltà di medicina; qui trova senz’altro un ambiente congeniale alla formazione che aveva ricevuto al Christ Church College di Oxford, dove aveva conseguito il magistero in medicina.

A Montpellier Locke resta stabilmente fino all’inizio del 1677, tranne che per alcuni mesi che trascorre in Provenza e nella Linguadoca. A marzo, inizia il suo viaggio alla volta Parigi; a Bordeaux lo raggiunge Caleb Banks, il figlio di un ricco mercante londinese di cui si prenderà cura come tutore perché perfezioni i suoi studi nella capitale. Il 2 giugno 1677, Locke arriva a Parigi con Caleb; nel luglio del 1678 intraprendono insieme un tour della Francia, poi a novembre del 1678 sono di nuovo a Parigi per qualche mese. I primi di maggio dell’anno successivo, Caleb e Locke fanno ritorno in Inghilterra.

La vita parigina di Locke nel 1677 è molto intensa, come rivela il journal.2 A giugno visita Versailles e l’Osservatorio, a luglio il Louvre e l’Hôtel des Invalides, che descrive accuratamente nelle pagine del suo diario. Ritorna diverse volte in questi luoghi nei mesi successivi; in agosto è alla biblioteca dell’abazia di St. Germain des Prés, poi nella bottega dell’abile fabbricante di strumenti matematici e astronomici Michael Butterfield, nella quale tornerà più volte. A settembre visita Fontainebleau e altri luoghi vicino Parigi; in ottobre fa la conoscenza di Cassini all’Observatoire. Nello stesso mese frequenta il medico, viaggiatore e filosofo François Bernier, medico della facoltà di Montpellier, che aveva conosciuto in precedenza; aveva già letto una sua opera, quella Histoire del regno del Gran Mogol frutto della lunga permanenza di Bernier in Oriente.3 Nel 1678 Bernier pubblicherà un abrégé della filosofia di Gassendi; Locke ne custodisce una copia nella sua biblioteca.4

Sempre a ottobre, Locke conosce padre Claude Dumolinet, bibliotecario dell’abazia di S.te Geneviève; visita la zecca di Parigi, palazzo Mazzarino, i giardini delle Tuileries e il castello di Rueil, un tempo residenza di Richelieu. A novembre si reca più volte a trovare Thomas Herbert, il futuro conte di Penbroke (il dedicatario del Saggio sull’intelletto umano), che al momento si trova a Parigi e non in buone condizioni di salute; conosce inoltre Pierre Briot, traduttore di molte opere inglesi. A dicembre trascorre molto tempo con la duchessa di Northumberland, affetta da una nevralgia al trigemino: in qualità di medico con diversi anni di esperienza alle spalle, Locke segue il suo caso con attenzione. Verosimilmente nello stesso periodo conosce René Hubin, émailleur ordinaire du roy ed esperto fabbricante di strumenti scientifici; il suo nome appare frequentemente nel journal a partire dal gennaio 1678. Nei mesi successivi, Locke continua ad esplorare Parigi prendendo nota di tutto quanto suscita il suo interesse, dalle misure degli edifici alle parate militari ad altre curiosità di vario genere.

Le esperienze molteplici del 1677, registrate fedelmente nel journal, ci consegnano il profilo di un «virtuoso» particolarmente attento a tutto ciò che accade attorno a lui; la filosofia naturale, la medicina in particolare, sembrano di fatto l’interesse prevalente di Locke, come mostrano molte sue note manoscritte. Ma vi sono altre note, altrettanto numerose, che mostrano altro: nuove idee cominciano a prendere forma, e cercano una propria collocazione. Queste idee partoriranno i loro frutti più tardi, ma sembrano germogliare proprio nel 1677: come cercherò di evidenziare nei prossimi paragrafi, si tratta di idee che riguardano la concezione dello spazio fisico, la teoria della conoscenza e la morale. Proprio questo affollarsi di nuove idee sembra avvalorare l’ipotesi, ribadita nella conclusione, che il 1677 possa definirsi l’annus mirabilis di Locke.

1. La natura dello spazio fisico

Molti degli appunti di Locke relativi al 1677 hanno a che fare con il suo interesse per la filosofia naturale, che si traduce in una mole di esperienze diverse. Lo dimostra anzitutto il suo Weather diary, che contiene un insieme di osservazioni relative al tempo atmosferico: Locke aveva cominciato a compilare il diario ad Oxford nel 1666 su sollecitazione di Robert Boyle, il suo mentore nell’ambito degli studi scientifici, e proseguirà fino al 1683.5 Anche mentre è in Francia, Locke raccoglie scrupolosamente una serie di osservazioni nel suo diario del tempo; alcune di esse troveranno spazio in quella General History of the Air pubblicata nel 1691, opera postuma di Boyle di cui Locke è l’editore.

Sono molte le note nel journal del 1677 che riguardano la medicina: esse sono state tutte raccolte da Kenneth Dewhurst6 in un volume che ospita anche le note mediche degli anni successivi. Questi appunti, per lo più brevi e sempre accompagnati da un titolo (Ocus debiles, Dentium dolor, Vulnari, Venerea, Salivatio, Convulsio, Tertiana, Purge, etc.), sono molto frequenti nei primi mesi del 1677, quando Locke è ancora a Montpellier e dunque in contatto con la facoltà di medicina. Anche nei mesi successivi le note di medicina non mancano, ma a Parigi Locke sembra avere molte altre cose da appuntare nel suo taccuino. Legge molto, e si procura nuovi libri: un elenco di tutti gli scritti di Cartesio, che include anche opere postume quali L’homme, si trova in una nota nel journal datata 8 agosto 1677.7 Locke evidentemente già conosce l’opera di Cartesio; lo menziona infatti più volte nei Draft del Saggio,8 dai quali si ricava che ha letto il Discorso sul metodo, le Meditazioni metafisiche e i Principia. Una nota nel journal datata 27 marzo 16769 mostra che la sua concezione dello spazio, o estensione, è quella cartesiana: esso non è nulla una volta separato dalla materia. Spazio e materia si identificano perché non esiste alcun vuoto: «lo spazio o estensione – scrive Locke nel journal – separati nei nostri pensieri dalla materia o corpo sembrano non avere più esistenza reale di quanta ne abbia il numero (…) senza qualcosa da numerare». In un’altra nota del 20 giugno 1676,10 Locke ribadisce questa convinzione: l’estensione può attribuirsi unicamente ai corpi, in quanto dotati di partes extra partes; spazio e corpi dunque si identificano.

Quando però Locke torna sull’argomento un anno dopo, sembra avere altre idee. Una nota datata 16 settembre 1677 lo conferma:11 in essa sono prese in considerazione tre ipotesi, delle quali l’ultima non può certo dirsi cartesiana. Nella prima, lo spazio si identifica con la possibilità di esistere dei corpi ed è infinito; nella seconda, lo spazio equivale ad una «mera relazione» tra i corpi, ovvero alla distanza che li separa. Entrambe le ipotesi non attribuiscono realtà allo spazio; la terza, invece, afferma che esso è qualcosa. Locke anzitutto osserva che è senz’altro possibile concepire il vuoto, perché in caso contrario non vi sarebbe posto per nuovi corpi creati e neppure sarebbe possibile il movimento di un corpo da un luogo all’altro; poi aggiunge: «se è impossibile supporre il puro nulla o estendere i nostri pensieri dove non c’è nulla, o dove possiamo supporre che non ci sia alcun essere, questo spazio vuoto di corpo deve essere qualcosa che appartiene all’essere divino».12 Locke non afferma che questa è la sua idea di spazio; quello che propone è un ragionamento ipotetico in base al quale, se non è possibile pensare che lo spazio sia puramente immaginario, si deve ammettere che esso è qualcosa di reale e precisamente un attributo divino. Questa affermazione troverà conferma nel Saggio sull’intelletto umano, dove Locke propende nettamente per l’idea di uno spazio reale e infinito identificabile con un attributo divino (o forse con la sostanza stessa di Dio: Locke rifiuta di esprimersi a riguardo, perché nega che il concetto di sostanza corrisponda nella mente umana ad un’idea chiara e distinta).13 L’ idea di uno spazio reale e infinito stava progressivamente prendendo piede nel seicento, anche grazie ad una importante intuizione di Francesco Patrizi; Gassendi l’aveva fatta propria, ma anche il platonico di Cambridge Henry More. In The Metaphysics of Henry More, Jasper Reid ha evidenziato un importante momento di incontro tra le posizioni di Locke e quelle di More, che ha per oggetto proprio quella nota nel journal datata 16 settembre 1677 in cui il primo esponeva le tre ipotesi sulla natura dello spazio.14 Stando alla ricostruzione di Reid, in quella nota Locke starebbe parafrasando quanto trovava esposto nel capitolo settimo dell’Appendice dell’Antidote against Atheism, un’opera di More apparsa nel 1655 e ristampata più volte.15 A quell’epoca More non aveva ancora sviluppato appieno le sue idee, che lo porteranno a concepire lo spazio infinito come attributo divino; ad ogni modo, nella corrispondenza con Cartesio (1648-49) aveva già esposto la sua convinzione che lo spazio dovesse concepirsi come reale. Nell’Appendice all’Antidote, More aveva discusso le tre ipotesi sulla natura dello spazio, nello stesso ordine in cui si esse si trovano esposte nella nota di Locke del 1677; la lettura dell’opera di More, presente nella biblioteca di Locke in ben due edizioni, potrebbe dunque avere avuto un ruolo importante nel distoglierlo dalla concezione cartesiana dello spazio, insieme all’incontro con il gassendista Bernier. Anche in una nota del 20 gennaio 1678, intitolata «Relation»,16 Locke ritorna sull’interpretazione cartesiana dello spazio come plenum, denunciandone la problematicità; d’altra parte, sarà soltanto l’incontro con Newton diversi anni dopo a rendere quell’intuizione efficace, come dimostra appunto il Saggio. Anche Newton aveva letto More ed era stato da lui influenzato.17

È possibile che nell’ambiente parigino Locke abbia incontrato qualcuno che lo abbia stimolato alla lettura di More. La traduzione in latino delle maggiori opere di More negli anni 1675-79 (tra le quali appunto l’Antidote against Atheism) aveva senz’altro guadagnato al filosofo di Cambridge un pubblico più vasto; molti curiosi parigini conoscevano e apprezzavano gli scritti di More. Uno di questi è l’ugonotto Henry Justel, corrispondente di Leibniz, di Oldenburg e anche di Locke; il suo nome compare per la prima volta nel journal il 7 ottobre del 1677, ma probabilmente già da qualche tempo Locke frequentava il suo salotto letterario. Una lettera di Justel a Leibniz del 4 ottobre 1677 conferma il suo interesse per l’opera di More;18 molti appunti nel journal di Locke contengono le informazioni che riceve da Justel. È possibile che sia stato dunque Justel a stimolare in Locke il desiderio di approfondire la sua conoscenza di More; per di più, a Parigi Locke aveva conosciuto Briot, il traduttore in francese di un’opera di More che piaceva molto a Justel, The Immortality of the Soul,19

È certamente possibile che l’incontro con il gassendista Bernier abbia contribuito ad indirizzare Locke verso un ripensamento delle sue posizioni riguardo alla natura dello spazio. Ad ogni modo, è evidente che proprio nel 1677 una nuova intuizione si affaccia nella sua mente, che darà frutti importanti nel Saggio: non è solo la sua concezione dello spazio fisico, ma anche la sua metafisica (ovvero la sua concezione dell’onnipresenza divina) che subiscono una trasformazione.

2. La teoria della conoscenza

L’8 febbraio 1677, Locke scrive una lunga nota nel suo journal, intitolata «Understanding».20 La nota comincia con un proverbio latino, «Quod volumus facile credimus», e prosegue con una quaestio: «fin dove e con quali mezzi la volontà opera sull’intelletto e sull’assenso». La risposta inizia con una costatazione di fatto: «le nostre menti non sono così grandi come la verità, né atte a contenere l’intera estensione delle cose». Locke prosegue sottolineando la sproporzione dell’intelletto non solo di fronte alle cose più grandi, ovvero all’universo, ma anche di fronte alle più piccole, come una singola particella di materia; insiste sull’importanza di non scoraggiarsi di fronte al limite dell’intelletto, ma piuttosto di apprezzare quanto possiamo conoscere. Le nostre facoltà sarebbero perfettamente adeguate se si considera ciò che ci è davvero necessario, ovvero «quei fini che la costituzione della nostra natura e le circostanze del nostro essere ci indicano»; esse ci permettono di procacciarci il nutrimento, di mantenerci in salute, e di rifornirci di tutte quelle conveniencies che rendono la vita più confortevole. Benché l’essenza delle cose ci resti nascosta, così come il loro segreto funzionamento, non avremmo dunque alcuna ragione di lamentarci: non si tratta infatti di conoscenze necessarie, ma piuttosto di speculazioni per «cervelli troppo curiosi». Il fine della conoscenza è quello di assicurarci la felicità in questo mondo; essa si identifica con l’avere in abbondanza ciò che, con il piacere che ci procura e con la sua varietà, è più adatto a preservarci nel nostro essere più a lungo. Poiché inoltre è molto probabile che dopo questa vita ve ne sia un’altra migliore, nella quale ciascuno riceverà ciò che ha meritato, è opportuno che gli uomini si diano da fare per conoscere il proprio dovere e praticarlo, piuttosto che sforzarsi di investigare quanto non può essere loro di giovamento; è questo quanto Dio ha loro prescritto, non volendo che si inorgoglissero nell’uso del loro intelletto.

Anche nella nota manoscritta che Locke scrive il 12 febbraio 1677,21 ovvero immediatamente dopo «Understanding», torna il tema del limite dell’intelletto: sono molte le cose che non comprendiamo, insiste, riguardo alla materia, al movimento e alla distanza. Queste riflessioni troveranno ampio sviluppo nel Saggio sull’intelletto umano, dove costituiranno il fondamento dello scetticismo lockeano, la sua legittimazione sul piano etico-religioso. È nella benevolenza divina il senso ultimo del limite della conoscenza umana, del potere limitato dei nostri sensi e facoltà: proprio questo limite, ribadisce Locke, indirizza l’uomo verso il suo fine più alto e lo allontana da ciò che potrebbe distrarlo. Lo stato terreno dell’uomo è uno «stato di mediocrità», si legge nel Saggio, uno stato in cui gli è preclusa tanto la conoscenza delle verità più sublimi quanto quella delle più piccole cose. È Dio che ha stabilito questo, per preservare l’uomo dall’orgoglio; Egli ci avrebbe

fornito solo il crepuscolo, se posso dire così, della probabilità, conforme, presumo, a quello stato di mediocrità e di apprendistato in cui gli è piaciuto porci qui; uno stato nel quale, verificando la nostra eccessiva sicurezza in noi stessi e presunzione, potessimo mediante l’esperienza quotidiana diventare consapevoli della nostra limitata capacità di visione e tendenza all’errore; il senso del quale potrebbe essere un monito costante a spendere i giorni del nostro pellegrinaggio con industriosità e attenzione, nella ricerca e nel percorrimento di quella via che potrebbe condurci ad uno stato di più grande perfezione.22

L’espressione «stato di mediocrità» ritorna in un altro passo del Saggio,23 dove è di nuovo discusso il limite della conoscenza umana; il suo significato può essere meglio inteso richiamando alla mente l’immagine della catena dell’essere, che Locke utilizza nel Saggio e altrove. La posizione dell’uomo nell’orizzonte del creato lo colloca al di sopra delle bestie, ma al di sotto delle intelligenze angeliche; la medietas che questa posizione evidenzia sul piano epistemico si traduce, sul piano etico, in un elogio della moderatio.

L’espressione «stato di mediocrità» era comparsa per la prima volta in una lunga nota manoscritta che Locke aveva iniziato a scrivere il 16 marzo 1677, e che verrà probabilmente completata entro il mese di maggio. La nota, che s’intitola «Study», contiene il passo seguente:

colui che crede che il proprio intelletto sia capace di contenere tutto, sale sulle ali della sua fantasia, benché invero la Natura non lo abbia provvisto di tali ali, e avventurandosi nella vasta distesa delle verità incomprensibili riesce soltanto a dar ragione alla favola di Icaro, mentre si perde nell’abisso. Qui noi siamo in uno stato di mediocrità; creature finite, fornite di poteri e facoltà perfettamente adeguati ad alcuni scopi, ma del tutto sproporzionati rispetto alla vasta, illimitata estensione delle cose.24

Anche in «Study» torna dunque il tema del limite dell’intelletto, inteso stavolta come movente per orientare gli studi (quelli dello scholar, da intendersi come dovere fondamentale dopo la devozione a Dio) verso ciò che è veramente importante, la vita etica. Questo tema, e la mediocrità che esso addita come cifra esistenziale, ci conducono alla lettura dei Pensieri di Pascal. Si tratta di una lettura ben documentata negli scritti di Locke del 167725 e anche nel Saggio, dove è rielaborato l’argomento della scommessa.26 L’incontro con il pensiero di Pascal si svolge all’interno di un contesto più ampio: è il giansenismo che, con la sua enfasi sull’importanza delle buone opere (un’enfasi che corregge quella, opposta, sulla predestinazione propria del calvinismo intransigente, di cui Locke era insoddisfatto),27 risulta particolarmente congeniale al filosofo. In Francia si addentra nella lettura degli Essais de morale di Nicole, che avranno un notevole impatto su di lui come vedremo nel paragrafo successivo; la lettura dei Pensieri di Pascal sembra averlo ugualmente colpito. Un passo in particolare potrebbe averlo ispirato:

L’estrema intelligenza – scrive Pascal – è accusata di follia, così l’estrema deficienza. Solo la mediocrità è bene. È la maggioranza che ha stabilito questo, e censura chiunque se ne allontana verso non importa quale estremo. Io non mi ci opporrò, consento che mi ci si collochi, e mi rifiuto di stare all’estremo inferiore, non perché esso sia inferiore ma perché è estremo; infatti, rifiuterei allo stesso modo che mi si mettesse in quello alto. Uscire dalla condizione mediana è uscire dall’umanità. La grandezza dell’anima umana consiste nel sapervi rimanere; è così poco vero che essa consista nell’uscirne, che è vero piuttosto che essa sta nel non uscirne.28

La capacità di rimanere in una «condizione mediana» è una grande virtù per Pascal, riconosciuta dalla maggioranza degli uomini: Locke deve essere rimasto profondamente colpito da questa affermazione, al punto da farne una sorta di riferimento esistenziale (come ben dimostra anche l’epitaffio latino che compone per la propria sepoltura: «Siste viator – si legge nelle prime righe –, Hic juxta situs est Joannes Locke. Si qualis fuerit rogas, mediocritate sua contentum se vixisse respondet»).29 Anche il riferimento alla follia in molte pagine dei Pensieri potrebbe averlo colpito, come dimostrerebbero tre note manoscritte presenti nel journal, «Madnesse», «Error» e «Madnesse, Folly», tutte scritte nel novembre del 1677.30 Non è chiaro se proprio in quell’anno Locke avesse letto i Pensieri; è chiaro però che quella lettura traccia un solco profondo nella sua percezione delle cose umane. L’insistenza di Pascal sul piacere come vero movente dell’agire umano sembra essere lo sfondo da cui prendono le mosse le riflessioni su pleasure e pain in molte note manoscritte che Locke compone verso la fine degli anni settanta; queste riflessioni si svilupperanno in quella psicologia edonistica che trova nel Saggio una piena maturazione.

3. L’incontro con il pensiero di Pierre Nicole

C’è un’altra nota manoscritta relativa al 1677 tra gli appunti di Locke, intitolata «On translating Nicole»:31 si tratta di osservazioni che riguardano la traduzione in inglese di alcuni saggi di Pierre Nicole tra quelli presenti nei suoi Essais de morale.32 Locke sta traducendo tre saggi, «Discours contenant en abrégé les preuves naturelles de l’existence de Dieu et de l’immortalité de l’âme», «De la faiblesse de l’homme», e «Des moyens de conserver la paix avec les hommes»; intende pubblicare la traduzione, ma sarà anticipato da qualcun altro. Farà dono del manoscritto alla moglie di Shaftesbury, senza mai pubblicarlo.33

Come molti giansenisti, incluso Pascal, nei suoi Essais Nicole enfatizzava la debolezza delle facoltà e del corpo umano, la natura corrotta degli uomini e la brevità della loro vita; li invitava cercare sostegno solo in Dio e ad agire moralmente per ottenere la salvezza. In particolare, in «De la faiblesse de l’homme» Nicole insisteva sull’imperfezione della conoscenza umana e criticava tanto l’orgoglio intellettuale di alcuni, quanto il peccaminoso abbassamento di altri al livello d’ignoranza proprio delle bestie: certamente Locke aveva in mente anche queste pagine quando parlava di uno «stato di mediocrità».

Anche nel terzo saggio, «Des moyens de conserver la paix avec les hommes», Nicole aveva insistito sui limiti della conoscenza umana ma anche sua adeguatezza per «l’usage de la vie»: questa espressione è probabilmente ciò che Locke ha in mente quando, nella nota «Understanding» e poi nel Saggio, parla delle conveniencies of life.34. Ma evidentemente c’è anche qualcos’altro che ha osservato nel saggio di Nicole. A differenza di Pascal, che individua l’origine dell’ordine politico nella concupiscenza, Nicole afferma che ogni società deve il suo sorgere al beneplacito divino: è la volontà divina il fondamento dell’ordine sociale. Dio avrebbe dotato gli uomini di una serie di bisogni, che li obbligano a vivere in società: questo è il Suo disegno. Per mantenere la pace e promuovere la convivenza civile, gli uomini devono imparare a rispettarsi e ad amarsi reciprocamente: malgrado sia l’amour-propre il vero motivo del loro stare insieme, esso si rivela un potente incentivo a trattare gli altri con rispetto, perché solo il rispetto può assicurare la benevolenza e il favore altrui. Desiderando piacere agli altri, gli uomini riuniti in società imparano a dissimulare il loro egoismo in modo da evitare di suscitare l’avversione altrui; volentieri si sottomettono ad un codice comportamentale capace di guadagnare loro la stima e la benevolenza altrui. Si tratta delle lois de bienséance, che Locke traduce laws of decency: obbedire a queste leggi è per Nicole un imperativo al pari dell’obbedire al codice civile. La civilitas è un dovere cristiano, insiste: la gentilezza nella conversazione, la gratitudine e molti altri comportamenti funzionali all’ottenere l’altrui benevolenza sono obbligazioni dettate dalla carità, che impone di prendersi cura della debolezza della natura umana.

L’impatto delle riflessioni di Nicole su Locke, soprattutto per quel che riguarda il significato cristiano e civile che il primo attribuisce alla decency, è fortissimo. Potremmo dire che tutti i cambiamenti che investono la concezione morale del filosofo a partire dal 1677 sono legati alla sua lettura degli Essais de morale. Nel 1677 riprende in mano il testo del De officiis di Cicerone, che ha letto più volte tra le mura del Christ Church College: anche Cicerone, come Nicole, sottolinea l’importanza del decus per preservare la concordia civium. Il decoro, ovvero la decency, è per Cicerone non solo un ingrediente fondamentale dell’honestum ma anche un elemento imprescindibile nell’adempimento di ogni dovere morale: proprio questo elemento comincia a fare capolino nei manoscritti di Locke (in primis nei cosidetti adversaria)35 con una certa insistenza a partire dal 1677. Dell’importanza del decoro in tutti gli aspetti della vita sociale senza dubbio ha già sentito parlare, dato che si tratta di un concetto fondamentale nel codice etico puritano (il perno della sua educazione): il decoro è il vero compagno della modestia e temperanza, oltre che l’ornamento di ogni virtù, ma anche un elemento cruciale per rafforzare i legami sociali.36 Locke è particolarmente sensibile a quest’ultimo argomento negli anni settanta: la sua patria sta affrontando un momento difficile (quella Exclusion crisis che ha per protagonista proprio il suo patron Shaftesbury), e il sovrano Carlo II non sembra affatto curarsi né delle antiche libertà inglesi, né dei buoni costumi.37 Progressivamente, nei manoscritti lockeani degli anni ottanta il decoro diventa sinonimo di virtù: questo è anche quanto ci mostra il Saggio. Nelle sue pagine, la «legge della reputazione» sostituisce la legge di natura:38 la prima è appunto la lois de la bienseance di cui aveva parlato Nicole.

Anche riguardo alla riflessione sulla morale, dunque, l’anno 1677 si conferma come un momento cruciale nella vita di Locke: la lettura di autori giansenisti gli risulta congeniale proprio in virtù del suo retroterra puritano, ed è forse per questo che lascia una traccia profonda nel suo pensiero.

4. Conclusioni

C’è un ulteriore elemento che sembra confermare che il 1677 possa davvero essere stato l’annus mirabilis di Locke, ovvero la sua scrittura di adversaria. Il termine è utilizzato dal filosofo con un significato piuttosto ampio: adversaria è il titolo che attribuisce ad alcuni notebooks, nei quali annota svariate informazioni (per lo più citazioni tratte da libri), così da realizzare commonplace books. Ma adversaria è anche il nome che Locke dà ad alcune note manoscritte che contengono indicazioni su come realizzare un commonplace book; ben cinque adversaria di questo tipo sono composti dal filosofo nel 1677, precisamente tra agosto e novembre.39 Se a questi si aggiunge il «Nouvelle Méthode», uno scritto che pubblica nel 1686 ma che risale probabilmente anch’esso al 1677,40 e che ha il medesimo scopo degli adversaria, il quadro diventa più chiaro. Locke avverte con particolare urgenza, in quell’anno, il bisogno di trovare un modo per mettere in ordine le molte informazioni che ricava dalle sue letture. Il metodo proprio degli adversaria – un metodo antico, basato sulla psicologia delle facoltà e non sull’ordinamento alfabetico, come il «Nouvelle Méthode» – gli consente di ordinare le nuove idee che stanno maturando nella sua mente in un contesto ben rodato: è questa una esigenza che Locke avverte in momenti speciali, come mostrano anche le sue classificazioni delle scienze. Se questa ipotesi è giusta, nel 1677 una serie di stimoli riconducibili ad alcune importanti letture (le opere di Nicole, Pascal e More) produce alcune importanti intuizioni nella mente di Locke: i loro frutti verranno a maturazione negli anni successivi e troveranno piena espressione nelle molte opere che il filosofo consegna alle stampe a partire dal 1690.


  1. Un resoconto dettagliato degli eventi relativi agli anni trascorsi da Locke in Francia (1675-79) è presente in alcuni journals e notebooks; John Lough ha raccolto insieme le note relative a questo periodo. Si veda J. Lough, Locke’s Travels in France 1675-79, as related in his Journals, Correspondence and other Papers, Cambridge, University Press 1953. ↩︎

  2. Si tratta del Bodl. Library MS Locke f. 2, il journal relativo al 1677. ↩︎

  3. F. Bernier, Histoire de la dernière révolution des états du Grand Mogol, Paris, C. Barbin 1670. Nella biblioteca di Locke si trovano molte altre opere di Bernier che contengono il resoconto dei suoi viaggi, un genere letterario a cui è molto interessato: si veda J. Harrison e P. Laslett, The Library of John Locke, Oxford, Clarendon Press 1971, nos. 285-89. ↩︎

  4. Si veda J. Harrison e P. Laslett, The Library of John Locke, Oxford, Clarendon Press 1971, no. 283. L’Abrégé de la philosophie de Gassendi era stato pubblicato da Bernier a Lione in otto tomi; Locke li possiede tutti. ↩︎

  5. Si tratta del Bodleian Library MS. Locke d. 9. Il diario contiene anche altre osservazioni atmosferiche, relative agli anni 1691-1703. Locke evidentemente riprese a scrivere le sue osservazioni poco dopo essere tornato in Inghilterra (aveva trascorso in esilio in Olanda gli anni dal 1683 al 1689), una pratica che interruppe solo un anno prima della sua morte. ↩︎

  6. Si veda K. Dewhurst, John Locke (1632-1704), Physician and Philosopher: a medical Biography, with an Edition of the medical Notes in his Journals, London, Wellcome Historical Medical Library 1963. ↩︎

  7. Per il testo della nota si vedano R. I. Aaron e J. Gibbs, An early Draft of Locke’s Essay, together with Excerpts from his Journals, Oxford, University Press 1936, p. 91. ↩︎

  8. I due Draft furono scritti negli anni 1671-72; si veda J. Locke, Drafts for the Essay concerning Human Understanding and other Philosophical Writings, a c. di P. H. Nidditch e G. A. J. Rogers, Oxford, University Press 1990. ↩︎

  9. Aaron e Gibbs, An early Draft, p.77. ↩︎

  10. Ibi, pp.77-80. ↩︎

  11. Ibi, pp. 94-96. ↩︎

  12. Ibi, p. 96. ↩︎

  13. Si veda Locke, An Essay concerning Human Understanding, a c. di P. Nidditch, Oxford, Clarendon Press 1979, II, xiii, 17, p. 174. Poco più avanti, Locke insiste sull’infinità e realtà del vuoto come requisito necessario per affermare l’onnipotenza di Dio, che non potrebbe annichilire alcun corpo se lo spazio fosse un plenum: si veda ibi, II, xiii, 21, pp. 175-76. Subito dopo, introduce un altro argomento in difesa del vuoto basato stavolta sul movimento dei corpi (ibi, II, xiii, 22, p. 177). Si veda inoltre ibi, II, xvii, 4, pp. 211-12, dove è ribadito quest’ultimo argomento. Più avanti, Locke riafferma che si può avere un’idea chiara e distinta dello spazio come infinito; esso sarebbe occupato dall’«infinita onnipresenza» di Dio, nello stesso modo in cui la Sua eternità riempie l’infinita durata del tempo. Si veda ibi, II, xvii, 20, p. 222. ↩︎

  14. Si veda J. Reid, The Metaphysics of Henry More, Dordrecht, Springer 2012, pp. 136-39. ↩︎

  15. H. More, An Antidote against Atheism, or, An appeal to the Naturall Faculties of the Minde of Man, whether there be not a God. London: J. Flesher, 1655. Locke possiede sia la seconda edizione dell’opera, in cui compare appunto l’appendice, sia una edizione del 1662, in cui essa riappare insieme ad altri scritti di More. Si veda J. Harrison e P. Laslett, The Library of John Locke, nos. 2047a e 2046. ↩︎

  16. Aaron e Gibbs, An early Draft, pp. 99-100. ↩︎

  17. Si veda a riguardo J. E. Power, «Isaac Newton and Henry More on Absolute Space», Journal of the History of Ideas, 31, 2 , 1970, pp. 289-296. ↩︎

  18. G. Leibniz, Sämtliche Schriften und Briefe, Reihe 1, Bd 2, Darmstad, Otto Reichl Verlag 1927, p. 297; si veda anche la lettera di Justel a Leibniz del 24 luglio 1679 (ibi, p. 504), in cui loda lo zelo di More contro atei e libertini. ↩︎

  19. Si veda la lettera di Justel a Leibniz del 28 luglio 1677, ibi, p. 287 in nota. ↩︎

  20. Si vedano Aaron e Gibbs, An early Draft, pp. 84-90. ↩︎

  21. Ibi, pp. 90-91. ↩︎

  22. Locke, Essay, IV, xiv, 2, p. 652. ↩︎

  23. Ibi, IV, xii, 10, p. 645. ↩︎

  24. P. King, The Life and Letters of John Locke, with Extracts from his journals and common-place books, 2 vols., London, R. Bentley 1830, I, pp. 171-203, a p. 197. In un altro saggio scritto nel 1678, intitolato «Scrupolosity», l’espressione «stato di mediocrità» ritorna, stavolta in riferimento al limite proprio di ogni attività umana, oltre che del pensiero: si veda ibi, pp. 204-212, a p. 210. ↩︎

  25. La lunga nota «Understanding» nel journal di Locke, datata 8 febbraio 1677, contiene un rimando alla teoria pascaliana dei due infiniti (l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo). Riguardo all’interesse di Locke per l’opera di Pascal si veda A. McKenna, De Pascal à Voltaire: le rôle des Pensées de Pascal dans l’histoire des idées entre 1670 et 1734, 2 vols., Oxford, Voltaire Foundation 1990, I, pp. 450-502. ↩︎

  26. Si veda Locke, Essay II, xxi, 70, p. 282. ↩︎

  27. Locke aveva ricevuto un’educazione puritana, dapprima all’interno della sua famiglia e poi al Christ Church College: il teologo puritano John Owen era stato uno dei suoi maestri. Alcuni puritani insistevano sull’importanza delle opere buone, in quanto veri frutti della fede; Locke aderiva a questa visione, che lo rendeva dunque critico verso un rigido predestinazionismo. ↩︎

  28. Il passo può trovarsi a p. 276 dell’edizione dei Pensieri di Pascal del 1678, un’edizione che Locke possedeva: si vedano Harrison e Laslett, The Library of John Locke, no. 2222. Il passo non era nelle edizioni precedenti; è probabile che qualcuno a Parigi, o a Montpellier, abbia mostrato a Locke ciò che mancava a queste ultime. ↩︎

  29. Locke, The Works in nine volumes, London, Rivington 1824, I, p. xxxix. ↩︎

  30. La prima nota è del 5 novembre: si veda K. Dewhurst, John Locke, p. 89; per la seconda e la terza, entrambe dell’11 novembre, si vedano Aaron e Gibbs, An Early Draft, pp. 97-98. ↩︎

  31. Il manoscritto di riferimento stavolta è il Bodl. MS Locke c. 28, ff. 42-49. Per il contenuto delle note, si veda Locke, Essays on the Law of nature, a c. di W. von Leyden, Oxford, Clarendon Press 1954, pp. 252-54. ↩︎

  32. Locke possedeva svariate edizioni dei primi quattro volumi dei saggi di Nicole. Del primo volume possedeva sia la prima edizione del 1671 sia la quinta del1679; del secondo possedeva la terza edizione del 1678, mentre del terzo e quarto possedeva la prima edizione (rispettivamente quelle del 1675 e 1679). Si vedano Harrison e Laslett, The Library of John Locke, nos. 2040, 2040a e 2040b. Relativamente alla lettura di Nicole da parte di Locke, si vedano R. Woolhouse, Locke: a Biography, Cambridge, University Press 2007, pp. 128 e 142; J. Marshall, John Locke. Resistance, Religion and Responsibility, Cambridge, University Press 1994, pp. 89-90, 131-37, 151-52, 157, 168, 178-86, 188-97, etc. Una menzione degli Essais di Nicole è in una nota nel journal datata 29 luglio 1676, per la quale si vedano Aaron e Gibbs, An Early Draft, pp. 81-82. ↩︎

  33. Per la traduzione di Locke dei tre saggi di Nicole si veda J. S. Yolton, John Locke as a Translator. Three of the Essais of Pierre Nicole in French and English, Oxford, Voltaire Foundation 2000. ↩︎

  34. Si veda Locke, Essay, IV, xii, 10, p. 645, dove il fine della conoscenza scientifica è identificato con «l’aumento del nostro bagaglio di comodità per questa vita»; si tratta di una visione baconiana della scienza, che le assegna un fine utile. Anche in «Study» Locke aveva insistito su questo concetto: scopo della conoscenza dovrebbe essere il «miglioramento delle nostre esperienze naturali per le comodità di questa vita e il governare se stessi così da ottenere la felicità nell’altra». Si veda King, The Life of John Locke, I, p. 198. Alcune note nel journal rivelano che Justel aveva parlato a Locke delle commodités de France, un argomento sul quale aveva intrattenuto anche Leibniz: si veda Lough, Locke’s Travels in France, pp. 175-6 e 198. Locke aveva chiesto a Justel di avere altre informazioni sull’argomento, al quale evidentemente era molto interessato. ↩︎

  35. Si tratta di manoscritti che risalgono per lo più al 1677, nei quali Locke fornisce le istruzioni per realizzare commonplace books. Una delle voci da inserire è appunto il decorum. Si veda G. Di Biase, «The Development of the concept of Prudentia in Locke’s Classifications», Society and Politics, 14, 2013, pp. 96-101. ↩︎

  36. I teologi puritani William Perkins e William Ames raccomandavano l’ordine esterno e il decoro tanto nella vita civile che in quella religiosa. Si veda W. Perkins, A Golden Chaine, or the Description of Theologie, Containing the Order of the Causes of Salva­tion and Damnation according to Gods word, Cambridge, J. Legat, 1600², p. 85 ; W. Ames, Medulla Theologica. Editio novissima, Amsterdam, J. Janssonius, 1656, pp. 283-288. ↩︎

  37. Un riferimento alla rilassatezza morale di Carlo II, e precisamente al suo adulterio con la duchessa di Portsmouth, si cela in una nota manoscritta che Locke scrisse nel 1681, intitolata «Virtue» : si veda Locke, Political Essays, a c. di M. Goldie, Cambridge, University Press 1997, pp. 187-188. Nella nota Locke dichiarava che malgrado il comportamento di un uomo legato a più donne poteva anche non definirsi sbagliato fuori dalla società civile, esso diventava un vizio al suo interno, in quanto contrario alle norme stabilite dal costume e dalla buona reputazione. La perdita di reputazione, insisteva Locke, «rende un uomo incapace di avere l’autorità, e di compiere il bene che potrebbe altrimenti». ↩︎

  38. Si veda Locke, Essay, II, xxviii, 10-11, pp. 353-54. ↩︎

  39. Per il contenuto e metodo degli adversaria, si veda G. Di Biase, «Theologia, Ethics and Natural Law in Locke’s Classifications of the Branches of Knowledge and Adversaria», Locke Studies 14, 2014, pp. 177-237. ↩︎

  40. Questa è una supposizione: scrivendo all’amico Nicolas Thoynard nel 1679, Locke gli rammenta di avergli fornito una descrizione del suo «Nouvelle Méthode» mentre erano insieme a Parigi; poiché l’incontro tra i due nella capitale avvenne nel 1678, possiamo supporre che la descrizione risalga a quell’anno o al 1677. Si veda E. S. de Beer, The Correspondence of John Locke, 8 vols., Oxford, Clarendon Press 1976- 1989, II, pp.119-120. Per il testo del «Nouvelle Méthode» si veda Locke, Literary and Historical Writings, a c. di J. R. Milton, Oxford, Clarendon Press 2019, pp. 213-306. ↩︎