Femminilità e corpo-oggetto: alcuni elementi per un’archeologia dell’anoressia nervosa

Introduzione

Evidenziare il legame tra femminilità e l’anoressia nervosa rende possibile risalire agli antecedenti socioculturali di tale disturbo e soprattutto ci consente di cogliere degli elementi di continuità e discontinuità fra alcuni comportamenti alimentari nel corso del tempo. Scavando nella letteratura, siamo indotti a rafforzare l’idea secondo cui l’anoressia possa essere un male dalle radici molto più profonde di quanto comunemente si pensi: sottolineare il ruolo dell’oppressione patriarcale e della stretta sul corpo sessuato nel dispiegarsi di questo disturbo ci indirizza a comprenderlo come traente linfa dal passato oltre che dal presente. Nella riflessione che segue s’avanza la proposta di indagare la relazione tra corpo-oggetto, femminilità e alcuni modelli del comportamento anoressico a partire dalla descrizione del personaggio di Fedra nell’Ippolito di Euripide e di quello di Marian nel romanzo The Edible Woman di Margaret Atwood.

Ma se amare è mangiare e l’amante è «ciò che ama», allora la frase «l’uomo è ciò che mangia» ha dalla sua persino l’autorità dell’amore divino.

– L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia

Il corpo è mio e lo gestisco io! – Anoressia nervosa e corpo-oggetto

Esperisco me stessa come colei che ha un corpo e, allo stesso tempo, come colei che è il proprio corpo; normalmente, in tale esperienza soggettiva, queste due componenti coesistono in modo proporzionato. La proporzione è tuttavia ambigua, perché se da una parte «avere un corpo» vuol dire porre una separazione tra quest’ultimo e l’io, sostenendo così un diritto di proprietà sul cosiddetto oggetto-corpo; dall’altra, essere il proprio corpo significa affermare una piena coincidenza. Pertanto, io sono il mio corpo vissuto e divengo di continuo anche corpo-oggetto percependo, ad esempio, le mie labbra con le mani, facendole così diventare oggetto del mio toccare.1 L’esperienza del corpo vivo presenta delle caratteristiche che m’insegnano cosa significa essere un’unità psicofisica: esperisco il mio corpo come animato, annodato a una psiche e, per questo, capace di sentire. Tale esperienza primaria, caratterizzata dal fatto che le cose si costituiscono senza l’intervento degli altri e prima di ogni intersoggettività, è la condizione di possibilità di ogni altra costituzione. Il mio corpo è ciò mediante cui sono immessa nel mondo e ciò grazie cui esiste per me il mondo;2 nella relazione con l’altro, è sempre il corpo proprio a costituirsi all’interno della mia corrente esperienziale, annunciando in essa un’altra vita coscienziale – quella dell’alter-ego – che però resta per me estranea e impenetrabile.3 Il corpo, con la sua essenziale ambiguità, è il mio centro di orientamento e di direzione nel mondo e, quando è dato concretamente, è vissuto e non conosciuto;4 esso «mi è indicato dalle cose, è continuamente utilizzato, assunto: ma appunto perché è me stesso mi sfugge»5.

L’anoressia nervosa costituisce un particolare modo di essere al mondo in cui emerge il tentativo di una separazione radicale tra l’io e il corpo, perciò si crede che quest’ultimo possa cambiare mentre l’io resterebbe essenzialmente invariato. L’anoressica esperisce sé stessa come colei che ha un corpo e come colei che è sempre un altro corpo. «Il corpo è mio e lo gestisco io!» – motto che sottende la frantumazione del rapporto tra l’io e il corpo6 potrebbe essere utilizzato – con finalità diverse rispetto all’uso che se ne faceva durante la rivoluzione sessuale, significando sempre però un corpo posto come un attributo da liberare o da indagare tecnicamente –7 per esprimere la protesta strozzata delle anoressiche. Queste ultime, sentendo il proprio corpo vissuto sfuggire, credono di poter scegliere una volta per tutte la propria identità a partire dalla manipolazione del loro corpo-oggetto. Eppure, l’identità personale implica innanzitutto unità psicofisica e apertura a «continue relazioni col mondo che ne modificano in corso d’opera la fisionomia, dando luogo a un suo effettivo processo di costituzione»8.

In questo disturbo, emerge in modo preponderante la tematica corporea, espressione di un’esistenza mancata, del fallimento della libertà e dell’impotenza di fronte al mondo e agli altri. Nell’ombra di tale malattia, il corpo spicca, mostrandosi evidentemente come il limite delle nostre pretese assolutistiche, come incarnazione della nostra limitatezza esistenziale e ontologica, palesando la necessità con cui caratterizza e significa ogni circostanza. Pertanto, sotto questo profilo, l’anoressia può essere interpretata come il rifiuto della condizione fondamentale di dipendenza in rapporto al corpo materiale, pulsionale e, per molti versi, incontrollabile. Il personaggio euripideo di Fedra9 potrebbe essere letto come una proto-manifestazione di tale rifiuto. In questo senso si spingono le interpretazioni di Elena Castelluccio, che, in un suo contributo, ha sottolineato le «caratteristiche anoressiche» presenti in tale figura tragica. Castelluccio rileva, ad esempio, che Fedra e l’anoressica hanno in comune il rigetto di aprirsi all’altro e, di conseguenza, combattono il proprio corpo sessuato: «il suo [di Fedra] obiettivo primario è evitare che la passione diventi nota ed ella lo persegue utilizzando vari mezzi, tra cui l’anoressia, alla ricerca di un corpo asessuato»10.

Fedra, la regina, la moglie di Teseo, è innanzitutto una donna; è ben consapevole che questo significa avere «un fragile equilibrio», essere soggetta «a terribili disordini»11 ed essere «esposta al disprezzo di tutti»12: in un discorso governato dalla voce maschile, il femminile coincide per sé stesso con la riprovazione e la condanna. La donna è essenzialmente «una disgrazia»13, quindi non si capisce perché mai sia stata creata: «per noi sarebbe stato meglio comprare i figli nei templi: deporre tanto oro, ferro e bronzo e ricevere in cambio un figlio di valore corrispondente»14. Intercorre un forte legame tra la disonestà e la sessualità femminile e, infatti, la donna sarebbe capace «di tutto quando si tratta di sesso»15. Appare dunque evidente che, in una simile prospettiva, il corpo femminile, così concreto, governato da pulsioni irrefrenabili e caratterizzato da una sessualità inaggirabile è un ostacolo per il raggiungimento della perfezione spirituale e intellettuale. Una donna non potrebbe mai affermare pienamente di non conoscere «nulla del sesso»16, non potrebbe quindi davvero arrivare – come invece succede al maschio Ippolito, devoto alla dea Artemide – a porre effettivamente come perno della propria esistenza una relazione totalizzante con qualcosa che non si vede.

Fedra è innamorata di Ippolito, il «figlio dell’Amazzone» e di suo marito Teseo. Custodisce questo segreto dentro di sé, guardandosi bene dal raccontarlo perché, per lei, la priorità è proteggere il proprio onore, l’ideale a cui tiene di più e per il quale è pronta a morire. Di conseguenza, si ostina a intendere la propria passione per Ippolito come destinata a rimanere irrealizzata. Fedra combatte per il proprio corpo, per mantenerlo puro e intatto, ma così facendo, allo stesso tempo, lotta contro di esso perché «non può mai darsi un corpo che sia del tutto “oggetto”17». Negare il corpo e i suoi bisogni naturali, alla ricerca della purezza, ha come unico risultato l’Ade:

Coro: Vecchia, fedele nutrice della regina, in che stato è la povera Fedra! Ma perché soffre così? […] Non conosci la causa delle sue sofferenze? […] Guarda com’è debole, com’è deperita! Nutrice: è normale sono giorni che non tocca cibo. Coro: è impazzita o ha deciso di morire? Nutrice: vuole morire. È per questo che digiuna. Coro: il marito non fa nulla? Mi sembra strano! Nutrice: Lei fa finta di non soffrire, dice che non è malata. Coro: E lui non se ne accorge? Basta guardarla in faccia!18

Fedra si ostina a rifiutare di riconoscere di essersi ammalata e di aver bisogno di mangiare, e soprattutto si ostina a fuggire il desiderio per onore: «[l]e mani sono pure: è l’anima che è sporca» – sospira sconsolata la regina. La ricusa della moglie di Teseo di compiere il crimine sessuale mostra quanto sia importante che le mani rimangano pure al fine di conservare il proprio corpo formalmente intatto agli occhi degli altri. Fedra prova a scindere il proprio io dal corpo, cadendo preda di due tendenze opposte: da una parte desidera essere fedele agli altri, nutrendo la volontà di conformarsi allo stereotipo della donna onesta, e, dall’altra, vorrebbe in fondo restare fedele a sé stessa, alle proprie passioni.

«Noi sappiamo cos’è il bene, lo vediamo, ma poi non ci sforziamo di farlo»19 – la regina tenta di contrastare il lavorio interno e rovinoso del desiderio, astraendolo, praticando cioè un intenso sforzo di riflessione. Ciò la porta, contro ogni ottimismo socratico, a denunciare l’insufficienza del conoscere per la buona riuscita dell’esistenza: diviene ancora più determinata a compiere tutto il necessario non tanto per preservare quel corpo che è, ma piuttosto per raggiungere l’immagine della donna onesta, unica parte dignitosa che l’uomo le ha concesso nella commedia umana. Rifiuta di riconoscersi nel ruolo della seduttrice e dell’adultera, per cui, soltanto sulle pagine della lettera che lascia trovare al marito dopo la sua morte, consuma quell’amplesso bramato, ma che mai, nella realtà, avrebbe potuto provare: «si vuole immaginare come vittima contaminata e offesa, come corpo stuprato dalla foia maschile del suo figliastro, come oggetto dell’altrui desiderio»20. È estremamente testarda nell’assumere un atteggiamento distorto nei confronti del cibo, che non tiene conto né della fame, né dei rimproveri, né degli incoraggiamenti o delle minacce che le provengono dagli altri:

Dimmi dove ho sbagliato, oppure, se ho ragione, accetta i miei consigli. Di’ qualcosa… guardami! Povera me, che disgrazia! È tutto inutile. Non mi dava ascolto prima e non ascolta neppure adesso! Ma sappi una cosa, e poi continua pure, se vuoi, a fare la testarda, sorda più del mare… se muori, tradirai i tuoi figli: perderanno l’eredità del padre! È la pura verità!21

Fedra ha occhi soltanto per quello che vorrebbe che gli altri vedessero di lei, a tal punto che gli altri finiscono, paradossalmente, per non esistere più realmente: non le interessano i figli e il marito, ma ciò che questi potrebbero pensare di lei; non le interessa effettivamente Ippolito, l’uomo al quale non osa rivolgere neppure una parola ma di cui si dice innamorata, e che scredita facilmente, non essendo disposta «a tollerare la propria vergogna solo per riguardo a “una vita”22». Riuscire a essere una donna onesta vuol dire, in un certo senso, tendere a un fine socialmente riconosciuto e apprezzato. Proprio come avviene nell’anoressica – che, secondo Hilde Bruch, è quasi sempre una ragazza che si è misurata con i modelli degli altri, lasciando che fossero questi ultimi a stabilire la sua identità –, sembrerebbe che anche la scelta di Fedra di rifiutare il cibo sia dettata, in fondo, dal bisogno di trovare una propria identità. Infatti, l’insicurezza, causata dal fatto di non essere altro che una donna e quindi di non essere nessuno, potrebbe cedere il passo alla sicurezza soltanto se ella raggiungerà la perfezione.

Come nel caso delle sante anoressiche descritte da Rudolph Bell,23 anche le descrizioni che abbiamo offerto della protagonista della tragedia euripidea non ci spingono a interpretarla e catalogarla – in modo sbrigativo e alquanto infondato – come un soggetto affetto da anoressia nervosa. Infatti, nel racconto di Euripide non vengono contemplate, ad esempio, la paura di ingrassare e l’insistente desiderio di dimagrire, che invece rappresentano i sintomi più caratteristici dell’anoressia nervosa. Ciò non ci impedisce tuttavia di cogliere alcuni elementi di continuità che ruotano intorno al rifiuto del cibo, con la rilevante differenza però che per Fedra tale rifiuto è causato dal desiderio di essere una donna onesta agli occhi degli altri; mentre per l’anoressica odierna esso dipende dal desiderio di essere magra. Inoltre, alla regina viene presentato uno specifico modello morale a cui aspirare, ed è proprio lo sforzo ad adeguarsi a esso a poterla rendere identificabile e apprezzabile. Analogamente, nella cultura contemporanea occidentale, la magrezza è decantata come uno degli ideali di bellezza femminile e così, sforzandosi a “mantenere la linea”, è possibile acquisire valore agli occhi degli altri. L’anoressica dimostra una forte diffidenza verso il proprio corpo; allo stesso modo, Fedra è costantemente preoccupata dal fatto di poter essere improvvisamente tradita dai propri bisogni pulsionali. Ossessionate dall’idea della purezza, entrambe provano repulsione nei confronti della sessualità e disprezzano apparentemente l’egoismo. Entrambe si muovono nel campo di un’immanenza che si articola verso sé stesse e verso gli altri; tuttavia, l’onore per Fedra ha un valore metafisico; mentre la magrezza è un ideale nullificante.

Abbiamo posto l’accento su alcuni elementi della tragedia, che a nostro avviso lasciano intravedere come il rifiuto del proprio corpo pulsionale e la fissazione su un ideale vadano a intrecciarsi al problema della femminilità. Questo legame continua a essere presente – seppur in forme diverse – e a giocare una parte rilevante, all’interno dell’organizzazione dell’anoressia nervosa.

Attualmente, siamo schiacciati dall’immagine della donna liberata, totalmente focalizzata sulla carriera, aggressiva e sicura di sé; tuttavia, le donne sembrerebbero essere impreparate ad accogliere questo modello che, per secoli, è stato loro estraneo, in quanto definito da elementi aderenti esclusivamente al mondo maschile. Se è vero – sulla scia di quanto proposto da Carol Gilligan, in A Different Voice – che le donne hanno una necessità primaria di rapporti familiari, e quindi una tendenza a creare e a mantenere legami interpersonali, chiedere loro di ignorare ciò, per acquistare potere alla maniera maschile, può essere estremamente nocivo. In quest’ottica, allora, «l’anoressia può essere vista come una tragica caricatura della donna liberata e autosufficiente, incapace di rapporti familiari e tutta presa da un desiderio ossessivo di potere»24; dunque, tale disturbo potrebbe essere consequenziale alla ricerca – che perde per strada le necessarie differenze – di un’uguaglianza che finisce per snaturarsi, poiché è intesa come un’omologazione del femminile al maschile. In questa prospettiva, s’inscrivono le considerazioni sull’anoressia da parte di una femminista come Susie Orbach (espresse, in particolare, durante una conferenza tenuta nel 1984 e intitolata: The Construction of Femininity: Some critical issues in the psychology of women). Orbach intende questo disturbo come una delle espressioni più vistose dell’oppressione patriarcale: emerge l’immagine di una donna che si lascia morire di fame, perché incapace di prendersi cura di sé stessa, una donna che rifiuta i propri desideri perché impossibilitata a trovare il modo di affermarsi costruttivamente. Come proposto da Bell e Davis, considerare l’anoressia nervosa come un’espressione nella donna della ricerca di una «nuova definizione ed esperienza di sé»25, porterebbe all’esigenza – auspicata – di nuovi approcci terapeutici, che partano dal riconoscimento dell’impossibilità d’intervenire su tale disturbo al di fuori di un’autentica comprensione della specificità della psicologia femminile.

Mangiare o essere mangiata? – L’anoressia nervosa come situazione-limite

Sentirsi incatenate al proprio corpo, non accettandone i cambiamenti; viverlo intensamente come un ostacolo per la propria realizzazione esistenziale, ed essere costrette per mezzo di esso a un ruolo sessuale determinato:26 tutto questo può costituire una situazione-limite insopportabile, «in cui si disgrega ogni finzione conciliatrice»27 e alla quale si può reagire tentando progressivamente di disincarnarsi. È stato infatti riconosciuto che la differenza sessuale rappresenta un fattore nient’affatto insignificante nell’organizzazione dell’anoressia nervosa;28 tuttavia, va detto che è assai complicato comprendere in cosa consista la femminilità, senza cadere in posizioni riduttive e parziali. Ad esempio, è possibile affermare che la psicoanalisi freudiana abbia offerto, per certi versi, una visione limitata di quello che Simone de Beauvoir definisce il «destino femminile»29, modellandone semplicemente la descrizione su quello maschile. Freud coglie la differenza tra il maschile e il femminile – oltre che in senso biologico e sociologico – nei termini di attività e passività. La pulsione è sempre attiva, per cui la libido è definita maschile; inoltre, ognuno rivela «una combinazione di attività e passività, sia in quanto questi tratti del carattere psichico dipendono dai caratteri biologici, sia anche nella misura in cui ne sono indipendenti»30. In questa prospettiva, per il corpo femminile, che rimanda all’assenza e all’invidia del pene, l’accesso a impulsi attivi deve sempre essere mediato dalla mascolinità.

Secondo Hilde Bruch, il senso di autostima di un’adolescente è minacciato soprattutto dal fatto di sentire di essere una donna, ovvero un essere umano meno stimato e potente dell’uomo, che è invece tradizionalmente associato all’autonomia e alla solidità.31 In questo senso, non si può dire semplicemente che l’anoressia sia causata da una cultura sessista, ma occorre chiedersi fino a che punto essa possa costituire un comportamento antitetico a tale cultura: per alcune femministe – della cosiddetta seconda ondata – l’anoressia nervosa rappresenta una ribellione al patriarcato. In essa, la donna vive tutta l’ambiguità di un conflitto tra due tendenze totalmente opposte: da una parte desidera essere fedele agli altri, nutrendo la volontà di conformarsi a uno stereotipo malsano di femminilità, e, dall’altra, desidera restare fedele a sé stessa, rifiutando di accettare le connotazioni sessiste dell’essere donna. Questi aspetti – di cui, secondo noi, il personaggio di Fedra potrebbe rappresentare una proto-manifestazione – sono stati penetrati magistralmente da Margaret Atwood in The Edible Woman. In questo romanzo, viene descritto il meccanismo secondo cui la relazione con il cibo può divenire per la donna non solo espressione del disagio per la perdita del proprio sé, ma anche una strategia paradossale con cui cercare di rivendicarlo e ritrovarlo. Marian, la protagonista, usa il cibo (o la sua mancanza) in maniera paradossale: per acconsentire alla richiesta sociale di incarnare la femminilità attraverso la magrezza, il silenzio e la docilità, e, allo stesso tempo, per ribellarsi contro questa stessa richiesta. Ella avverte con spavento il proprio corpo vissuto come incontrollabile, ricco di segreti che celano un’essenziale imperfezione: la sua sessualità femminile. Al contrario, il corpo maschile viene considerato solido, pulito, potente, controllabile e privilegiato. L’anoressia è allora un veicolo attraverso cui, da una parte, Marian rifiuta la propria femminilità, nel tentativo di avvicinarsi alla mascolinità, e dall’altra, essa rappresenta la tensione verso l’identificazione con il modello di fragilità e delicatezza femminile.32

Fin dalle prime pagine del romanzo, veniamo subito trascinati nell’esistenza di Marian MacAlpin: un flusso che appare asfissiante. Il primo luogo nel quale siamo immessi – e, forse, non a caso – è la cucina, in cui ci viene presentata Ainsley, la coinquilina della protagonista e suo costante termine di paragone: «mentre mi affrettavo verso il mio ufficio, mi trovai a invidiare ad Ainsley il suo lavoro. Sebbene il mio fosse meglio retribuito e più interessante, il suo era più passeggero: lei sapeva cosa voleva fare dopo»33– pensa tra sé e sé Marian, alla fermata del bus, guardandosi «i tacchi alti che ci impongono di portare in ufficio»34. Ciò che balza immediatamente agli occhi è che la giovane neolaureata Marian si trova a un punto morto della sua vita. È ben consapevole che, in quanto donna, non c’è veramente un futuro per lei alla Seymour Surveys, l’azienda per la quale lavora, la cui stratificazione viene evocata con – l’ennesima – immagine culinaria:

[Essa è] un gelato imbottito, con tre piani: lo strato superiore, quello inferiore e il nostro reparto [composto da sole donne], lo strato appiccicaticcio, nel mezzo. Al piano superiore ci stanno i dirigenti e gli psicologi – detti gli uomini di sopra, dato che sono tutti uomini […] Sotto di noi ci sono le macchine: […] dove gli operai sembrano logori e affaticati e hanno inchiostro sulle dita. Il nostro reparto serve da trait d’union fra i due: noi dobbiamo occuparci dell’elemento umano.35

Del resto, si potrebbe affermare che il romanzo di Atwood nasca interamente da un’immagine: quella di una donna che, da ogni parte, viene presa a morsi, e la cui personalità viene così ridotta a brandelli; una donna la cui identità è continuamente minacciata da instabilità e assenza di forma.

Marian è coinvolta in una relazione sentimentale con un uomo, Peter, che chiaramente non la ama e che lei vede con ironica e indulgente distanza:

Era, come aveva detto Clara, “di bell’aspetto”; questo era forse ciò che da principio mi aveva attratto in lui. La gente lo notava, non perché avesse dei lineamenti duri o particolari, ma perché era la normalità elevata a perfezione, come le facce giovanili ben curate delle pubblicità delle sigarette. Ma talvolta sentivo il bisogno di una verruca o di un neo rassicuranti, o uno squarcio di rudezza, qualcosa su cui il tatto si potesse fissare invece di scivolarci sopra.36

A poco a poco, ella sembra imboccare la strada della passività, trasferendo qualsiasi processo decisionale a Peter e diventando perciò una sorta di sonnambula: «“preferirei che fossi tu a prendere le decisioni importanti”. Ero sbalordita di me stessa. Non gli avevo mai detto nulla di lontanamente simile prima. La cosa ridicola era che dicevo proprio sul serio»37. In fondo Marian sa bene che sposare Peter sarebbe un errore, ma non si sente comunque in grado di agire in base a ciò che le suggerisce la coscienza; finisce così per infrangere anche questa consapevolezza nel suo disturbo alimentare.

La seconda parte del romanzo è una sorta di discesa nella follia – elemento che, come ricorda Susan E. Lorsch, è molto caro ad Atwood –, segnata, all’interno della narrazione, dal repentino passaggio dalla prima persona singolare alla terza: un chiaro riflesso dell’ormai evidente scissione della personalità di Marian sotto le pressioni del suo ambiente. Questa è anche la parte in cui l’autrice si dimostra molto abile nel fissare nero su bianco il subdolo, silenzioso e graduale lavorio dell’anoressia nervosa: dapprima Marian, improvvisamente e inspiegabilmente, non riesce più a mangiare la carne, compreso il pollo di cui una volta «era stata ghiotta»38; poi è la volta delle uova, e dopo ancora delle verdure fino a raggiungere lo stadio in cui è incapace di ingerire qualsiasi alimento. La protagonista accoglie l’impossibilità di assumere un numero sempre crescente di vivande con «tranquillo timore», avvertendo con «distacco» la sensazione che «questo rifiuto della sua bocca di mangiare, fosse qualcosa di maligno; che si sarebbe sparso; che lentamente il circolo che ora divideva il commestibile dal non commestibile si sarebbe rimpicciolito sempre di più, che i cibi alla sua portata sarebbero stati esclusi uno alla volta»39.

Quando Marian si ritrova ad osservare le sue colleghe, concludendo sgomenta che essere mature equivale a essere «grasse»40, è possibile notare – più evidentemente che mai – il suo rifiuto verso i mutamenti naturali del corpo – macchiato dalla femminilità – fare il paio con il tentativo di aggrapparsi alla mascolinità:

che strane creature che erano [le donne del suo ufficio, ma più in generale le donne]; e il flusso continuo tra l’esterno e l’interno, l’ingerire, l’espellere, masticare, parole, patatine, rutti, grasso, peli, figli, latte, escrementi, biscotti, vomito, caffè, succo di pomodoro, sangue, tè, sudore, liquore, lacrime e pattume… Per un attimo sentì loro, le loro identità, quasi la loro sostanza, passarle sul capo come un’ondata. Un giorno o l’altro sarebbe stata… oppure no, era già anche lei così; era una di loro, il suo corpo lo stesso, identico, si fondeva con quell’altra carne che appesantiva l’aria […] si sentì soffocare da questo denso mar dei Sargassi di femminilità. […] voleva qualcosa di solido, di chiaro: un uomo, voleva che ci fosse Peter nella stanza così da poter allungare la mano e tenersi aggrappata a lui, per non venire risucchiata.41

Marian prova a negare la parte oscura della sua personalità, ad adeguarsi – come fanno le donne che la circondano – agli insoddisfacenti ruoli femminili. Le cosiddette vergini dell’ufficio sono, ad esempio, donne che lavorano, o, meglio, che sono costrette a lavorare, in quanto – pur ricercandolo disperatamente – non riescono a trovare un buon partito, un uomo che le salvi. Clara è la donna sposata, la madre che ha abbandonato i propri studi, le proprie ambizioni per dedicarsi totalmente al marito e ai figli. Ainsley va a caccia di uomini perché vuole rimanere incinta a tutti i costi, dal momento che, secondo lei, avere un bambino è «la realizzazione della propria più profonda femminilità»42. Marian tenta faticosamente di essere la fidanzata di Peter, una donna modello che dunque non ammette bisogni e desideri egoistici, ma ciò non l’aiuta affatto a realizzare sé stessa: a differenza delle altre donne, che sembrano riuscire ad abbracciare più facilmente i ruoli femminili tradizionali, dentro Marian lavora qualcosa che ostacola la sua silenziosa sottomissione. Più si sforza a vedersi come la moglie di Peter, più il suo corpo sembra ribellarsi. Ella arriva a convincersi infatti dell’autonomia di quest’ultimo rispetto al proprio io, al punto che tenta di «ragionare con esso, […] ma esso era irremovibile; e se lei ricorreva alla forza si ribellava».

Nella seconda parte del libro, il personaggio di Duncan assume sempre più importanza. Egli è una figura quasi surreale: un ventiseienne che, a primo impatto, sembra un quindicenne, «magro come un cadavere», come «una figura emaciata di una silografia medioevale», dalla pelle «quasi priva di colore, non bianca, ma più vicina alla sfumatura giallastra della biancheria vecchia»43. Grazie al contatto con Duncan, Marian riesce a immaginare nuove possibilità per sé stessa: con lui impara ad affermare i propri bisogni invece di continuare a nascondere il suo ego sotto ruoli convenzionali, che richiedono alle donne di cancellarsi, fungendo esclusivamente da specchi, da donne dell’uomo.44 Con Duncan, Marian si sente «presa nel vortice del presente»45 e soprattutto – quando gradualmente abbandona i panni della crocerossina – si sente trattata da pari. Egli deride a più riprese la società e le sue rigide distinzioni di genere e si può dire addirittura che Duncan incarni la messa in discussione della validità dei ruoli che la società, tipicamente, assegna agli uomini e alle donne. Atwood associa al suo personaggio prerogative che sono tradizionalmente femminili: ad esempio, egli passa il suo tempo alle lavanderie a gettoni, stira per allentare la tensione; si rapporta agli altri «come un bambino» e da tale viene trattato; allo stesso modo, tipicamente, le donne sono trattate come delle bambine dagli uomini. La loro relazione dà a Marian la possibilità di vivere una sessualità avulsa da giochi di potere e ruoli predefiniti: ella scopre di potersi fondere con un altro senza perdersi, senza sentirsi assimilata, fagocitata, agendo e non sottomettendosi.

Atwood sintetizza, attraverso le parole del marito di Clara, Joe, il dramma che, frequentemente, le donne si trovano ad affrontare e che l’intero romanzo, del resto, cerca di raccontare:

quando [una donna] si sposa, il suo nucleo viene invaso… […] [quest’ultimo è] Il centro della sua personalità, quello che lei si è costruita; la sua immagine di sé stessa […] Il suo ruolo femminile e il suo nucleo sono davvero in contrasto, il suo ruolo femminile richiede passività da parte sua… […]. Così lascia che il marito si impossessi del suo nucleo. E quando arrivano i bambini, lei si sveglia una mattina e scopre che dentro non le è rimasto niente, che è vuota, non sa più chi è; il suo nucleo è stato distrutto.46

Le nozze con Peter si avvicinano ineluttabilmente e Marian percepisce sempre di più la paura «di stare sciogliendosi, di scollarsi uno strato dopo l’altro come un pezzo di cartone in una pozzanghera della strada»47; eppure, proprio quando non sembrano esserci vie d’uscita, le «passa per la testa che non vedeva alcuna ragione per morire di fame. Ciò che cercava, se ne rese conto, si era ridotto alla semplice sicurezza. Credeva di essere avanzata in direzione di essa per tutti quei mesi ma in realtà non era approdata a niente. E non aveva realizzato niente»48. Improvvisamente, decide qualcosa: prepara una torta alla quale dà una forma femminile e le disegna «una sorridente bocca rosa dalle labbra carnose e scarpe rosa intonate»49. Plasma una donna-torta, fornendole un aspetto «delizioso» fatto ad hoc per essere mangiata: in sostanza, Marian fa alla torta ciò che è stato fatto a lei, affermando così un dominio attivo sulla propria sofferenza passiva.50 Una volta ultimata, ella la offre a Peter: «[H]ai cercato di distruggermi, vero? Hai tentato di assimilarmi. Ma io ti ho fatto un sostituto, qualcosa che ti piacerà molto di più. Questo è ciò che hai in realtà voluto sempre, vero? Ti prendo una forchetta»51. Di fronte a queste parole, lo sbigottito Peter batte in ritirata, lasciando la forchetta a Marian e con ciò ella sembra essere riuscita, in qualche modo, a dare avvio alla riconquista del proprio «nucleo». Tuttavia, lasciare il lavoro e tornare alla cosiddetta realtà, a essere una «consumatrice»52 la metterà davvero al riparo dal pericolo di perdere nuovamente sé stessa? Non sposare Peter, riuscire a mangiare la torta sono davvero gesti che indicano l’avvio della sua guarigione? Atwood chiude questo cerchio di tossicità commestibile senza fornire delle risposte a tali domande.

Conclusione

Your body is not a word.

– M. Atwood, We are hard, in Selected Poems (1965-1975).

La corporeità, il mio ponte con il mondo, mi costringe a prendere atto del mio esserci come vita che è gettata e che appartiene al mondo in quanto è vita di un corpo. Quest’ultimo non è solo lo strumento che dà forma alle intenzioni del mio presente, ma è anche ciò che mi vincola ad un mondo che mi è da sempre familiare e che colloca il mio esserci in un contesto, in un passato che è prima di ogni mia scelta. Attraverso il corpo, l’io può esperire e conoscere la malattia: la testimonianza dolorosa della relazione dello spirito con la materia. Inoltre, il mio corpo è sempre un corpo sessuato ed è importante tenerlo a mente per potersi rendere conto che «in quanto sessuata rappresento un senso per l’altro e gli sono in un certo modo destinata»53. Nel mio corpo sono inscritte le relazioni con il mio genere e con quello dell’altro e questo non fa che evidenziare ulteriormente l’impossibilità per esso di essere meramente una «fattità»54: un fatto, una realtà oggettiva presente. Partendo da tali presupposti, nella riflessione di Luce Irigaray, la differenza sessuale viene intesa come un elemento cruciale nella costituzione dell’identità personale, nella quale la relazione con l’altro diviene «inscritta nel pre-dato del mio corpo»55. In questa prospettiva, essere donna implica ontologicamente essere in relazione con l’uomo e viceversa; per cui l’identità di una donna non può essere costituita se non accogliendo che esiste «una parte di negativo, di non realizzabile da me sola, una parte di notte, una parte di ritegno, una parte di irriducibile femminile impropria a rappresentare il tutto dell’essere umano che deve entrare nella costituzione della mia identità»56. Riprendendo la critica del Soggetto delineata da Simone de Beauvoir nel 1949, è possibile assumere che il pensiero occidentale si sia fondato sul riconoscimento dell’esistenza dello stesso e unico Soggetto, l’uomo, senza mai ammettere che «esistono due soggetti e la ragione deve misurarsi con la realtà e con l’essere di questi due soggetti, nelle loro dimensioni orizzontali e verticali»57. La distinzione dei generi è stata infatti declinata per molto tempo in modo sproporzionato. Da ciò discendono, tra le varie cose, credenze che hanno allontanato le donne dalle attività intellettuali: esse non avrebbero effettivamente capacità di discernimento e il loro corpo sessuato le voterebbe per natura e in modo pressoché esclusivo verso un télos biologico (riproduzione della specie). Così, per una donna la strada che conduce dal proprio essere incarnato alla rappresentazione del Soggetto neutro e universale, è tale da far sì che essa finisca per incontrare sé stessa come una mera figura funzionale alla costituzione dell’identità dell’unico Soggetto.58 Appartenere a un genere consentirebbe invece, secondo Irigaray, di operare in me, per me e verso l’altro una dialettica fra oggettività e soggettività che «sfugge alla dicotomia soggetto-oggetto»59: la relazione tra i due generi non può né deve «ridursi alla passività per l’una e all’attività per l’altro»60. Il fatto che «essere un sé significa principalmente essere incorporato nel proprio ambiente attraverso l’ancoraggio al proprio corpo»61 viene ulteriormente evidenziato dalle manifestazioni psicopatologiche del vissuto corporeo che indicano un’alterazione nel rapporto con l’altro e con il mondo. Essere coscienti del corpo vissuto implica sperimentare di appartenere al mondo fisico; al tempo stesso, essere consapevoli del proprio corpo come fisico implica viverlo come proprio. Pertanto, tali forme di autocoscienza corporea comportano l’esperienza sia della soggettività sia della fisicità del corpo. Nell’anoressia nervosa si verifica uno squilibrio nella relazione tra una dimensione e l’altra,62 tale da contribuire a rendere questo disturbo una problematica dell’alterità. In linea con ciò, seguendo le considerazioni di Lévinas, Dorothée Legrand intende l’anoressica come un soggetto per il quale l’alterità inassimilabile è insopportabile; perciò o l’altro viene assimilato come quello che l’anoressica non è ma vorrebbe diventare; oppure l’altro viene rifiutato come un’alterità radicale che non può essere assunta come tale. In questa prospettiva, l’esperienza che accomuna le persone affette da anoressia nervosa è quella della lotta contro la soggezione della propria soggettività all’alterità dell’altro. Esse spogliano il cibo dalla sua materia nutritiva per farne un elemento di linguaggio e, così facendo, attraverso un corpo che si fa sempre più emaciato, materializzano la fame per evidenziarla e indirizzarla, in qualche modo, agli altri.63

Come indicato acutamente in La faim et le corps, l’anoressia nervosa è una malattia scandalosa perché palesa un’organizzazione psichica volta «alla distruzione dei pazienti da parte di sé stessi, senza che se ne curino»64, cioè senza che l’incredibile rigetto di soddisfare un bisogno primario così vitale come la fame sia per loro «fonte di interrogativi o di inquietudini»65. Sono tanti gli aspetti che caratterizzano tale patologia e che ne complicano la comprensione (distorsione dell’immagine corporea; controllo del corpo e ascesi; dialettica tra libertà e angoscia; autonomia e dipendenza); tra questi rientra a pieno titolo il rapporto con la femminilità. Con il nostro contributo, abbiamo voluto sottolineare soprattutto questo elemento nell’organizzazione dell’anoressia nervosa. Infatti, leggendo le opere di Euripide e di Atwood, tale elemento ci ha fornito la chiave per individuare – ispirati dalla via aperta dal metodo storiografico tracciato da studiosi come Vandereycken e Van Deth – degli elementi di continuità e discontinuità fra alcuni comportamenti alimentari nel corso del tempo, e la cui esistenza consente di non escludere la possibilità di compiere un’archeologia dell’anoressia nervosa. Aprire le considerazioni sull’anoressia nervosa alla letteratura ci ha permesso di penetrare due tipi femminili, rispettivamente impersonati da Fedra e Marian, che non si accettano come esseri in divenire, cioè come soggetti a trasformazioni e come essenzialmente aperti alle possibilità: sembra che per loro sia insopportabile non potersi liberare di ciò che sono. Allo stesso modo, nell’anoressia nervosa, il tentativo in atto è quello di sbarazzarsi dell’essere che va declinato nel senso del divenire e della possibilità; tale tentativo si scontra però, sempre e comunque, con l’essenza dell’esistenza, che è caratterizzata invece da un senso di apertura: essa non può mai essere qualcosa che si dà una volta per tutte. La presenza umana richiede sempre che la propria identità e differenza siano giocate sul piano dell’intersoggettività; tuttavia, Fedra e soprattutto Marian, attraverso la sua anoressia, vivono le conseguenze di un problema diffuso: spesso ciò che sembrerebbe assicurare la nostra presenza individuale è ciò che invece la fa scadere nell’assoluta impersonalità, nell’anonimato, ciò che conduce alla perdita di noi stessi. Questo disturbo – che è, per certi versi, un richiudersi nel senso d’immanenza – dimostra la rilevanza, per l’equilibrio vitale, del senso di trascendenza; allo stesso modo, fa quindi emergere con estrema forza l’impossibilità dell’esistenza di un corpo che sia “semplicemente una parola” o che sia del tutto oggetto.


  1. Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Parigi 1945; trad. it. Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2019, p. 227. ↩︎

  2. Cfr. U. Galimberti, Dizionario di psicologia, UTET, Torino 1992, p. 231. ↩︎

  3. A tal proposito si faccia riferimento, in particolare, alla quinta meditazione in E. Husserl, Cartesianische Meditationen (1931), in Husserliana, Bd. I, Stephan Strasser (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1950; trad. it. Meditazioni cartesiane, con l’aggiunta dei Discorsi Parigini, Bompiani, Milano 1989. ↩︎

  4. Cfr. J.-P. Sartre, L’etre et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Parigi 1943; trad. it. L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 2014, p. 403. ↩︎

  5. A.P. Rovatti, Che cosa ha veramente detto Sartre, Ubaldini, Roma 1969, p. 72. ↩︎

  6. Cfr. G. Stanghellini, Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, Feltrinelli, Milano 2020, p. 22. ↩︎

  7. Ivi, p. 30. ↩︎

  8. S. Besoli, Versioni dell’identità personale tra Locke e Husserl, in «Rivista di storia della filosofia», n. 1, 2015, p. 204. ↩︎

  9. L’Ippolito è la seconda tragedia che Euripide dedica a questo mito: quella più fortunata, che gli vale il primo posto nel concorso teatrale delle Dionisie. Intorno al personaggio di Fedra ruotano anche altre opere, alcune delle quali non ci sono pervenute integralmente: abbiamo notizia di una Fedra di Sofocle, e di una tragedia dedicata alla vicenda dal poeta ellenistico Licofrone. Ovidio riprende questo mito, soffermandosi sul personaggio di Fedra, che confessa la sua passione a Ippolito in una lettera (Erodi, Lettera IV). La riscrittura tragica di Seneca mostra invece una Fedra lacerata dalla lotta tra ratio e furor (si veda L.A. Seneca, Fedra, Carocci, Roma, 2011). Durante il medioevo, questo mito viene menzionato da Dante, che paragona il proprio esilio a quello di Ippolito, e da Boccaccio nel De casibus virorum illustrium. Nel Cinquecento e nel Seicento troviamo molte rielaborazioni: la Fedra scritta da Giuseppe Baroncini nel 1542; l’Hippolito di Ottaviano Zara del 1558; l’Hippolyte del 1573 realizzato da Robert Garnier; la Fedra del 1578 di Francesco Bozza; l’Hippolito scritto nel 1661 da Emanuele Tesauro; e l’Hippolyte di Guérin de La Pilenière del 1635. In Francia, Ippolito tende gradualmente ad «assomigliare a un gentiluomo à la mode» (a questo proposito, si veda Daniela Dalla Valle, Fedra e Ippolito nelle letterature classiche e francese, in Racine, Fedra e Ippolito, Marsilio Editori, Venezia 2000, pp. 31-38); in tale contesto, celebre è Phèdre di Racine (1677). Del 1866 è la Fedra di Swinburne, che, nel suo poemetto drammatico, la rappresenta insidiata da una terribile voluttà di sofferenza. Torbida e dissoluta è la Fedra di Pater nel suo Ippolito velato (1889); e ancora, – come commenta Susanetti – una «belle dame sans merci» è la Fedra dell’omonimo dramma teatrale di D’Annunzio (1909). Nel Teseo (1946) di Gide, Fedra è colei che non può essere perdonata. Molto interessante è la rilettura di Fedra da parte di Marguerite Yourcenar in Chi non ha il suo minotauro? (1963) e in Fuochi (1957), dove la regina cretese viene immaginata come una donna dalle «labbra contratte sotto un torrido tropico cuore». Contrastante è l’Amore di Fedra (1996) di Sarah Kane, che molto si allontana dalla versione euripidea. Qui, si racconta, ad esempio, di un Ippolito «grasso, decadente e sfatto», convinto che «il mondo puzzi soltanto di piscio e sudore» e che, quasi alla Bukowski, si masturba brutalmente con i calzini sporchi e si fa praticare una fellatio dalla matrigna. Per un accurato excursus su questa vicenda mitica e sulla sua fortuna, si veda D. Susanetti, Favole antiche. Mito greco e tradizione letteraria europea, Carocci, Roma, 2005 (in particolare, cap. 11). ↩︎

  10. E. Castelluccio, Per una storia dell’anoressia, in «Psychofenia», vol. X, n. 17, 2007, p. 260. ↩︎

  11. Euripide, Ippolito, a cura di Davide Susanetti, Feltrinelli, Milano 2017, p. 65. ↩︎

  12. Ivi, p. 81. ↩︎

  13. Ivi, p. 95. ↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. Ibidem↩︎

  16. Ivi, p. 111. ↩︎

  17. E. Agresti, A. Ballerini, L’ambiguità del corpo, in L’ora del vero sentire: corpo, delirio, mondo. La seconda generazione della psicopatologia fenomenologica italiana, a cura di G. Di Pietta, F. Cangiotti, M. Rossi Monti, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2014, p. 30. ↩︎

  18. Euripide, op.cit., p. 71. ↩︎

  19. Ivi, pp. 79-81. ↩︎

  20. Ivi, p. 31. ↩︎

  21. Ivi, p. 73 (corsivo mio). ↩︎

  22. Ivi, p. 32. ↩︎

  23. Si veda a tal proposito R.M. Bell, Holy Anorexia, The University of Chicago 1985; trad. it. La Santa Anoressia, Laterza, Bari 2019. Il lavoro storiografico di Bell rientra nella cosiddetta direttiva metodologica della continuità storica. Di contro, sulla linea della discontinuità si collocano autori come Tilmann Habermas, secondo cui l’anoressia nervosa non avrebbe potuto darsi prima del XVIII secolo, essendo la sua diagnosi legata a uno specifico contesto culturale (si veda: T. Habermas, Historical continuites and dicontinuites between religious and medical interpretations of extreme fasting. The background to Giovanni Brugnoli’s description of two cases of anorexia nervosa, in «Journal of the History of Psychiatry», 3, 1992, pp. 431- 455). Infine, vi è una terza ipotesi di lavoro, che tenta di evidenziare gli elementi socioculturali dell’anoressia nervosa e gli elementi di continuità e discontinuità tra alcuni comportamenti alimentari nel corso del tempo (si veda, tra le opere più importanti proposte in italiano: W. Vandereycken e Ron Van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche. Il rifiuto del cibo nella storia, Raffaello Cortina, Milano 1996). ↩︎

  24. W.N. Davis, Epilogo, in R.M. Bell, Holy Anorexia, The University of Chicago 1985; trad. it. La Santa Anoressia, Laterza, Bari, 2019, p. 213. ↩︎

  25. Ibidem↩︎

  26. Le analisi di Simone de Beauvoir – in particolare, quelle contenute nella prima parte de Le deuxiéme sexe, intitolata Destino – risultano illuminanti. Ad esempio, viene sottolineata la maggiore complessità dello sviluppo del corpo femminile rispetto a quello maschile, che esporrebbe la donna a maggiori rischi: «la donna non permette che la specie prenda possesso di lei senza opporre resistenza; questo conflitto la indebolisce e la espone a molti pericoli. […] Dalla pubertà alla menopausa essa è sede di una storia che si svolge in lei e che non la riguarda personalmente. Gli anglosassoni chiamano la mestruazione the curse, la maledizione; e infatti il ciclo mestruale non ha nessuna finalità individuale. […] Questo è il periodo in cui essa sperimenta più penosamente il suo corpo come una cosa opaca, alienata, in preda a una vita ostinata ed estranea che in esso ogni mese fa e disfa una culla». (S. de Beauvoir, Le deuxiéme sexe, Gallimard, Parigi 1949; trad. it. Il Secondo sesso, il Saggiatore, Milano, 1978, pp. 53-55 [corsivo mio]). ↩︎

  27. E. Melandri, Esistenzialismo, in Filosofia (a cura di G. Preti), vol. XIV dell’Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 40. ↩︎

  28. Su questo si veda D. Celemajer, Submission and rebellion: Anorexia and a feminism of the body, in «Australian Feminist Studies», 2010, 2:5, pp. 57-69. ↩︎

  29. S. de Beauvoir, op.cit., p. 56. ↩︎

  30. S. Freud, Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie, 1905; trad. it. Tre saggi sulla teoria sessuale, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 105. ↩︎

  31. Si veda a tal propsito M. Briody Mahowald, To be or not be a woman: anorexia nervosa, normative gender roles, and feminism in «The Journal of Medicine and Philosphy», 17, 1992, pp. 233-251. ↩︎

  32. Si veda a tal proposito T. Brain, Figuring anorexia: Margaret Atwood’s The edible woman, in «Literature Interpretation Theory», 6:3-4, pp. 299-311. ↩︎

  33. M. Atwood, The Edible Woman, Virago, London 1969; trad. it. La donna da mangiare, TEADUE, Milano 1994, p. 19. ↩︎

  34. Ivi, p. 14. ↩︎

  35. Ivi, p. 22 (corsivo mio). ↩︎

  36. Ivi, p. 66. ↩︎

  37. Ivi, p. 97. ↩︎

  38. Ivi, p. 165. ↩︎

  39. Ivi, p. 163. ↩︎

  40. Ivi, p. 176. ↩︎

  41. Ivi, pp. 177-178. ↩︎

  42. Ivi, p. 44. ↩︎

  43. Ivi, p. 53. ↩︎

  44. Si veda E. Hardin, The way of all women, 1933; trad. it. La strada della donna, Astrolabio, Roma, 1978, p. 19 e segg. ↩︎

  45. M. Atwood, op.cit., p. 195. ↩︎

  46. Ivi, p. 284. ↩︎

  47. Ivi, p. 231. ↩︎

  48. Ivi, p. 277. ↩︎

  49. Ivi, p. 283. ↩︎

  50. Si veda a tal proposito J.B. Bouson, The Anxiety of Being Influenced: Reading and Responding to Character in Margaret Atwood’s “The Edible Woman”, in Style, Vol. 24, No. 2, «Psychoanalysis, Gender, Genre», 1990, pp. 228-241. ↩︎

  51. M. Atwood, op.cit., p. 285. ↩︎

  52. Ivi, p. 295. ↩︎

  53. L. Irigaray, Essere due (1994), Bollati Boringhieri, Milano 2017, p. 42. ↩︎

  54. Questo è il termine con cui viene tradotto in italiano da Giuseppe Del Bo la parola francese facticité in J.P. Sartre, «L’essere e il nulla», Il saggiatore, Milano, 1965 e a cui Irigaray si riferisce. ↩︎

  55. L. Irigaray, op.cit., p. 42. ↩︎

  56. Ivi, p. 44. ↩︎

  57. Ivi, p. 45. ↩︎

  58. Si veda a tal proposito: C. Fischer, E. Franco, G. Longobardi, V. Mariaux, L. Muraro, A. Sanvitto, B. Zamarchi, C. Zamboni, G. Zanardo, La differenza sessuale: da scoprire e da produrre, in Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, pp. 9-37. ↩︎

  59. L. Irigaray, op.cit., p. 44. ↩︎

  60. Ibidem↩︎

  61. D. Legrand, Le soil corporel in «L’Évolution psychiatrique», vol. 70, 2005, pp. 709-719 (trad. mia). ↩︎

  62. A tal proposito si veda D. Legrand, Subjective and physical dimensions of bodily self-consciousness, and their dis-integration in anorexia nervosa, in «Neuropsychologia», vol. 48, 2010, pp.726-737. ↩︎

  63. Si veda D. Legrand, Le paradoxe anorexique: quand le symptôme corporel s’adresse à l’autre, in «L’Évolution psychiatrique», vol. 81, 2016, pp. 309-320. ↩︎

  64. E. Kestemberg, J. Kestemberg, S. Decobert, La faim et le corps, Press Universitaires de France, Parigi 1972; trad. it., La fame e il corpo, Astrolabio, Roma 1974, p. 11. ↩︎

  65. Ibidem↩︎