Che cosa c’è prima della punizione. Una lettura del libro di Giobbe

1. Dissuadère ed educare

Il principio della correlazione tra colpa e punizione fa parte di quel non piccolo gruppo di costanti antropologiche che, pur godendo della più ampia testimonianza possibile nella storia dell’umanità, tuttavia si presentano più difficili da interpretare in maniera univoca e convincente. L’eccezione rappresentata da non poca pedagogia e teoria politica contemporanea ci pare più apparente che reale, nella misura in cui non viene messo in questione il fatto che la colpa implichi la punizione, ma piuttosto il fatto stesso che la colpa esista, o perlomeno che esista in certi luoghi e in certi modi. Dunque, i colpevoli devono essere puniti, certo, ma non è chiaro perché, e tale incertezza trascina con sé parimenti le definizioni stesse di punizione e di colpa. Tale incertezza, piuttosto che attenuata, viene resa più acuta dal fatto che è possibile facilmente individuare molte spiegazioni parziali, che in sé giustificano perfettamente il mantenimento delle prassi sociali di punizione: ma tutte, nel momento stesso in cui spiegano perché sia opportuno il fatto che ad una colpa segua una punizione, traducono il concetto di colpa in qualcos’altro, e dunque sembrano dissolverlo anziché chiarirlo. Vediamo perché.

La punizione può essere facilmente interpretata come socialmente utile per il suo valore deterrente: nel momento in cui associa ad un certo atto (si suppone in una certa misura egoisticamente vantaggioso) una conseguenza nettamente più spiacevole del vantaggio che se ne potrebbe trarre, essa dissuade l’individuo che ragioni sulla base di una valutazione dei costi e dei benefici. È così che il piccolo risparmio di tempo di un parcheggio in sosta vietata viene sopravanzato dal danno della multa, o che il vantaggio pecuniario derivante da un furto viene annullato e superato dalla pena che lo punisce. La spiegazione è convincente, ma la saggezza della filosofia (e teologia) morale ha da tempo ridimensionato questa capacità esplicativa: ammesso che davvero esistano (e probabilmente esistono), punizioni così concepite (definite «puramente penali») non hanno in quanto tali alcuna rilevanza morale. Nulla esclude infatti che la persona, sulla base di un giustificato calcolo, preferisca incorrere nella sanzione: la multa per la sosta vietata può così essere interpretata come una tariffa di parcheggio, costosa sì, però talvolta giustificabile. Nessuno in ogni caso dovrebbe qui sentirsi in colpa. L’intero sistema delle pene dovrebbe dunque essere concepito come l’esito di un’obiettiva valutazione di costi e benefici, affidato ad una simmetrica valutazione degli individui.

Ma evidentemente ciò significa dissolvere il concetto di colpa. Il problema non riguarda tanto l’aspetto psicologico: in fondo si potrebbe affermare che esso non sia altro che l’inevitabile interiorizzazione di norme esterne. Il problema è specificatamente etico: come è possibile concepire per esempio l’omicidio, o qualsiasi atto che ferisca la dignità, la fiducia, l’amore, come qualcosa i cui «vantaggi» individuali possano essere commisurati con la pena corrispondente? Qualsiasi misurazione diventa impossibile quando non si ha a che fare con oggetti esterni economicamente valutabili. Ciò tanto più quando la punizione, per quanto venga giudicata equilibrata e sensata, non può assumere in nessun caso il carattere di una riparazione oggettiva: quale atto può veramente compensare la perdita di una vita, o anche di ciò che rende la vita autenticamente umana? Pure ammesso che ciò possa essere compensabile, non lo è certo nell’ordine della punizione.1 Certo, la storia e la cronaca traboccano di delitti compiuti pur nella certezza della punizione: ma quando questo avviene, paradossalmente entrano in gioco considerazioni «morali», forse di una morale deformata, ma a suo modo pur sempre morale: la percezione cioè di un’azione che deve essere compiuta malgrado essa conduca sicuramente alla propria rovina.

È per questi motivi che può sembrare necessario mutare il punto di vista, e interpretare il nesso tra colpa e punizione non nell’orizzonte di una razionalità economica, ma nel senso dell’educazione morale. Ora, alla radice dello stesso concetto di educazione morale vi è qualcosa di apparentemente paradossale: il fatto cioè che non è naturale (cioè non è spontaneamente offerto come dotazione) essere virtuosi, cioè comportarsi abitualmente in un modo che è realmente conforme alla natura umana. Per quanto la formulazione appaia appunto paradossale, in essa si potrebbe racchiudere il senso stesso dell’educazione: gli esseri umani, con la profondità e complessità che li contraddistingue, giungono solo con fatica ad essere sé stessi. È proprio questa fatica che sembra offrire una chiave migliore per comprendere il senso del nesso tra colpa e punizione. Prendiamo le mosse un po’ più da lontano, da una considerazione tratta dall’Etica Nicomachea. Qui Aristotele, con la chiarezza e l’acume che gli sono propri, precisa che non chiunque compia azioni virtuose è virtuoso, ma soltanto chi le compie volentieri (Eth. Nich., 1099 a15-21). Ciò significa che è virtuoso l’uomo in grado di trarre piacere dal bene, senza lasciarsi fuorviare dalla superficialità di un vantaggio momentaneo che viene sì incontro a qualche aspetto della natura umana, ma non la raggiunge nella sua intimità. La gioia profonda, durevole, perché veramente umana, è una lenta conquista, non un dato ovvio e originario.2 Una conquista, quindi, che riflette un processo di educazione. Ma che cosa significa «educare»? Almeno in questo caso, significa trasmettere la correlazione tra male e infelicità e quella tra bene e felicità anche laddove esse non sono percepite. Senza nulla togliere al fatto che nel progresso morale si trova anche un necessario aspetto di autoapprendimento (per questo, si dice nell’Etica Nicomachea, è insensato voler insegnare ai giovani la filosofia morale [Eth. Nich., 1095 a2-6]), Aristotele è dunque convinto che esattamente questo sia il compito delle leggi nella città, e, in una scala diversa, dell’allevamento dei bambini (Eth. Nich., 1180 a1-14). Punire e premiare non significa altro che creare vincoli visibili di causa ed effetto affinché (e in attesa che) i nessi profondi ed essenziali divengano parte della persona stessa. Insomma: il virtuoso, e solo lui, non ha bisogno né di premi né di punizioni. Neppure nell’aldilà: quando Aristotele discute la possibilità che l’uomo coraggioso dia la vita per il bene della città, tra le considerazioni che rendono razionale questa scelta non nomina neppure (con una reticenza che nel Medioevo farà scorrere parecchio inchiostro) la possibilità che tale gesto eroico possa venir fatto in vista di una beatitudine futura (Eth. Nich., 1169 a18-26). Se il dono della vita ha un senso, deve averlo per l’esistenza umana già qui, su questa terra, pure se nel solo attimo estremo in cui la si sta abbandonando.

È questa un’interpretazione più soddisfacente della precedente? In molti sensi sì. Se non altro, essa è in grado d’integrare molto bene le riflessioni prima fatte: la punizione non cessa di essere deterrente per il fatto che sia educativa; solo, tale finalità risulta inglobata in una più ampia, quel lento cammino verso la coscienza di sé in quanto esseri umani, quel cammino che ha come mèta non solo l’efficienza in questo o in quel campo (il buon flautista, il buon falegname), ma il compimento della propria umanità: essere uomini buoni.

2. Un ordine nel mondo?

E tuttavia, anche qui c’è qualcosa che non sfugge e non riesce a chiudere il discorso. Sono almeno due le fratture che si aprono in questa teoria della punizione. La prima e più evidente è che quest’ultima riesce solo indirettamente e quasi simbolicamente a creare un legame tra male e infelicità: ciò che essa istituisce è infatti qualcosa di molto diverso, cioè il legame tra male e dispiacere. È vero che nel tessuto concettuale aristotelico i nessi tra piacere e felicità sono tutt’altro che secondari: il primo è infatti il segno accompagnatore della buona riuscita di un atto umano, ivi incluse le più alte operazioni intellettuali e spirituali che disegnano appunto l’ideale della felicità (Eth. Nich., 1174 b14-23); ma ciò non toglie che si tratta appunto solo di un segno concomitante, e che confondere esso con la felicità significa effettuare quella deviazione dell’idea di umanità responsabile della più bassa vita possibile ad un essere umano, quella modellata sulle finalità di un animale irrazionale. Tutto ciò significa che interpretare la punizione in funzione educativa implica supporre che la persona punita sia in grado essa stessa di effettuare quel mutamento di paradigma tra piacere e felicità — in cui consiste in buona parte l’obiettivo dell’educazione stessa! Pare esserci insomma una sorta di circolo vizioso, per cui la punizione in quanto educativa presuppone proprio ciò che essa dovrebbe indurre.3

Ma c’è anche una seconda frattura, più profonda e più grave: il fatto cioè che il legame stesso tra felicità e bene è tutt’altro che assicurato. Aristotele, con un candore disarmante che susciterà le lodi di Kierkegaard, riconosce che la virtù non è affatto sufficiente per essere felici (Eth. Nich., 1099 b2-6). Solitudine, povertà, malattia, perfino bruttezza fisica, sono tutte condizioni puramente esteriori che tuttavia impediscono la felicità pure in presenza di tutte le virtù (senza neppure contare il fatto che alcune di queste ultime, quali la munificenza, hanno già come presupposto il possesso di beni esteriori). Tutto ciò significa anche che la felicità porta con sé un’intrinseca fragilità: la tragedia greca è da questo punto di vista magistrale nel mettere di fronte agli occhi la continua realtà dei capovolgimenti di fortuna più clamorosi, in cui la buona coscienza o perfino l’eroismo non sono sufficienti a proteggere dai colpi ciechi o incomprensibili del destino. La logica del premio e della punizione, dunque, pure se riescisse a colmare la distanza che separa piacere e felicità, insegnerebbe una corrispondenza che a prima vista non esiste.

Sarebbe abbastanza facile interpretare l’etica stoica come un tentativo di ristabilire questa corrispondenza. Nella forma chiara e rigorosa che essa assumerà in Epitteto, la felicità è completamente indipendente da qualsiasi condizione esteriore, dunque anche dal piacere che segna il sottile e vulnerabile passaggio tra i beni esteriori e la percezione interiore. Ricchezza, onori, famiglia, reputazione: sono tutte cose che non dipendono dal soggetto, e che dunque egli deve apprendere (certo faticosamente) a considerare come tali. Così facendo egli conquisterà la perfetta libertà, perché stimerà sue solo le cose che realmente sono tali: sostanzialmente, lo sguardo distaccato e saggio che si può esercitare su qualsiasi realtà. Ma ovviamente, è facile accorgersi che in questo modo il problema della punizione non solo non è chiarito, ma è aggravato: il distacco che ristabilisce l’equivalenza tra virtù e felicità è infatti quello che contemporaneamente rende indifferente qualsiasi punizione. Come se, paradossalmente, l’unica cosa che la punizione dovesse insegnare è che essa non ha alcun significato. La dossografia stoica è su questo tema ricca di esempi, al punto che nel linguaggio comune lo «stoicismo», con una semplificazione in fondo non biasimabile, viene identificato con la capacità di sostenere senz’alcun turbamento qualsiasi sofferenza.

Anche l’interpretazione educativa della punizione cade dunque facilmente in aporie. Non che tale fine di fatto non venga (talvolta) raggiunto: ma esso pare correre per così dire parallelo rispetto al meccanismo della punizione, e richiedere risorse spirituali che la punizione in quanto tale non può creare dal nulla. È per questo motivo che sembra necessario ricorrere all’interpretazione oggi spesso percepita come più arcaica: la punizione è anzitutto una retribuzione, la cui prima motivazione non si trova nell’effetto soggettivo che essa potrebbe raggiungere sul punito o su coloro che ne guardano la sorte, ma nell’effetto oggettivo: essa stabilisce un ordine nella società. È quest’esigenza di ordine che può mostrare il «contrappasso» come il meccanismo più adeguato per la commisurazione della pena alla colpa: occhio per occhio, dente per dente, vita per vita; per lo meno finché non intervengano altre considerazioni (di carattere soggettivo), questa è la simmetria che meglio rende il senso dell’ordine che il sistema della punizione intende istaurare, che compensa il terrore che il mondo possa precipitare in un caos nel quale a chiunque è lecito sopraffare chiunque, rompendo qualsiasi possibilità di convivenza.

Le tradizioni legislative antiche offrono al riguardo tutti gli esempi possibili. Le più antiche testimonianze che possediamo attengono a quello che complessivamente è noto come «diritto cuneiforme», con testimonianze che spaziano dal 2000 al 1500 a. C. e con il caso più noto nel Codice di Hammurabi intorno al 1790 a. C. È qui che, in testi che probabilmente vanno interpretati non tanto come «codici» quanto come raccolte di casi generalizzati, la legge penale è presentata come la decisione di un re divinamente investito che pone ordine nel mondo. Si tratta di un ordine che gli storici possono a ragione sospettare idealizzato, ma che proprio per questo trasporta la legge in un’altezza d’implacabile perfezione: colui che un uccide un uomo dev’essere messo a morte, colui che uccide il figlio di qualcuno deve avere a sua volta il proprio figlio messo a morte. Una simmetria terribile, ma pur sempre perfetta.

Malgrado il tono disumano che tale interpretazione può suscitare, in realtà essa sembra esigere un prezioso presupposto antropologico che può sfuggire alle precedenti: la libertà umana. L’ordine che la punizione vuole restaurare non è fisico (pure se può essere pensato ad immagine di questo): è piuttosto un ordine morale, e ciò perlomeno in due sensi. Anzitutto, perché le trasgressioni che vengono sanzionate sono appunto tali perché vìolano una struttura di senso che non è semplicemente biologica: l’omicidio è condannato perché nella comunità umana non vige la legge del più forte, incesto o stupro sono considerati violazioni gravissime perché infrangono quell’ordine simbolico in cui i rapporti sessuali sono chiamati a significare e generare relazioni umane affidabili. Ma l’ordine restaurato dalla punizione appare morale anche in un altro senso: perché suppone che il colpevole sia stato fondamentalmente libero nella sua azione, e per questo possa giustamente meritare una punizione. Con un apparente paradosso (che Kant non esiterà a sostenere), in tale prospettiva il colpevole ha il diritto di essere punito, perché questo significa la sua reintegrazione nell’ordine sociale: come la colpa commessa sottrae una parte della propria dignità, così la colpa espiata restituisce alla piena dignità e obbliga la comunità al completo rispetto. Non c’è dunque da meravigliarsi che questa sia proprio l’interpretazione della punizione che più decisamente viene avversata dove le idee stesse di colpa e di libertà non vengano accettate, o perlomeno dove si creda che ad esse non vada assegnato uno spazio nella vita pubblica e nella meccanica sociale. È però questo retroterra antropologico un motivo sufficiente per accettare la teoria della retribuzione come definitiva e insuperabile?

Purtroppo no. Il problema non si trova nella libertà umana e nella conseguente nozione di responsabilità, che chi ha a cuore l’uomo è ben disposto ad accettare pur con tutta la sua insondabile profondità. In effetti, come la storia dell’umanità dimostra benissimo, la nozione di ordine della punizione antedata clamorosamente qualsiasi idea di dignità e responsabilità personale. Il problema si trova dunque proprio nella nozione di ordine sulla quale essa si basa: un ordine che non spiega assolutamente nulla del senso della punizione. Affermare che bisogna punire per restaurare l’ordine non chiarisce infatti nulla se l’ordine a sua volta viene tautologicamente definito come la situazione in cui il male viene punito (e il bene premiato). La sentenza di Hammurabi secondo cui «chi uccide il figlio di qualcuno (e perfino involontariamente) deve avere a sua volta il proprio figlio messo a morte» non è dunque una degenerazione dell’ideale kantiano, ma piuttosto è il riflesso di un ordine mitico che l’ideale kantiano intende solo razionalizzare e limitare con il concetto di responsabilità personale. Insomma: se la teoria della retribuzione può apparire talvolta più soddisfacente, ciò avviene solo perché essa afferma direttamente, come un postulato, un’esigenza alla mancanza della quale le altre interpretazioni in fin dei conti sono costrette ad arrendersi: il fatto che esista un ordine nel quale al bene corrispondono felicità e piacere, e al male infelicità e dispiacere. Ma porre alla luce del sole un’aporia non è davvero la stessa cosa che risolverla. Il mondo è troppo «disordinato» affinché i tentativi di riordinare quei piccoli frammenti di vita comune raggiunti dal diritto penale non appaiano purtroppo patetici.

3. La protesta di Giobbe

Il «diritto cuneiforme» trova una buona corrispondenza nel diritto mosaico, benché alle numerose analogie si sommino certamente notevoli progressi (per esempio sulla linea della responsabilità personale della colpa). Il maggiore contributo dell’Antico Testamento non sembra però consistere nella raffinazione di una teoria della punizione, ma piuttosto nella sua messa in crisi: è questo, anticipiamolo subito, che ci pare avvenire nel libro di Giobbe. È un libro che per la tradizione ebraica ha certamente autorità minore rispetto al Pentateuco, ma che proprio posto nella terza e ultima parte del canone sembra proporre un totale ripensamento di quanto fino a quel momento si è appreso. Gli enigmi che esso porta con sé ne hanno fatto uno dei pochi casi in cui gli esegeti paiono rassegnati alle continue incursioni dei filosofi: i problemi di interpretazione che esso pone non sembrano infatti poter essere risolti solo con considerazioni storico-critiche, perché riguardano fondamentalmente la «cosa stessa».4

Da un punto di vista letterario, il libro di Giobbe sembra a prima vista raccontare due storie parallele: una quella della breve narrazione in prosa, l’altra quella dei lunghi discorsi in poesia. La prima racconta di un uomo potente e rispettato, buono e felice, che Dio concede a «satana» (l’accusatore) affinché questi ne metta alla prova la devozione: è facile essere grati a Dio quando si è benedetti in ogni cosa! Satana così lo priva prima di tutti i suoi beni, poi lo colpisce con una dolorosissima malattia. Ma Giobbe resiste entrambe le volte: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?» (Iob, 2, 10). Dio dunque, esaurita la prova, lo ristabilisce nello stato precedente, anzi ne raddoppia le ricchezze. Letta così, questa storia è esattamente una riaffermazione dell’ordine del mondo. In essa viene infatti proclamato che alla fine i giusti sono felici, che Dio si preoccupa di loro, e che se temporaneamente le cose paiono non andare così ciò non avviene per una distrazione o impotenza di Dio, ma affinché l’infelicità sia occasione di prova: la vera bontà è quella che non si lascia distogliere da un dolore che (bisogna sempre sperare) è solo momentaneo.

La seconda storia, quella dei lunghi discorsi in poesia, è più complessa. Essa racconta di tre uomini che vanno a far visita al loro amico caduto in disgrazia, e vogliono convincerlo che un motivo ragionevole della sua disgrazia deve pur esserci: il dolore nel mondo non è mai gratuito, e una tale catastrofe può solo significare che egli sta scontando il male che evidentemente ha commesso. Con molte sottili varianti, questo è quanto viene ossessivamente ripetuto dai tre, fino al punto che i piani della colpa e della sofferenza si confondono e la disgrazia di Giobbe quasi diventa la sua colpa. Ma anche la risposta di Giobbe è ossessiva: egli è innocente, non può rimproverarsi nulla. Non solo egli è stato giusto, ma si è sempre comportato con misericordia verso i più infelici (Iob, 29, 12-16). Non può non sorprendere la costatazione che in questo modo il messaggio sembra capovolto: questa storia racconta il disordine del mondo, o per lo meno spezza il legame tra felicità e bontà sul quale ragionevolmente si basano i discorsi dei tre amici. Bisogna infatti osservare che Giobbe non accusa Dio di farlo soffrire ingiustamente: egli semplicemente rivendica la propria bontà e dunque rivela che l’infelicità non è sincronizzata con il male, né la felicità con il bene. Quando infatti Bildad lo invita alla pazienza preannunciandogli che se egli è veramente integro sarà ristabilito nella sua felicità (8, 1-22), Giobbe risponde con alcune delle parole più cupe mai scritte sulla posizione dell’uomo di fronte a Dio: nessun uomo può mai aver ragione di fronte a lui, neppure quello più giusto:

Tanto meno potrei rispondergli io, scegliendo le parole da dirgli; io, anche se avessi ragione, non potrei rispondergli, al mio giudice dovrei domandare pietà. Se lo chiamassi e mi rispondesse, non credo che darebbe ascolto alla mia voce. Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, non mi lascia riprendere il fiato, anzi mi sazia di amarezze. Se si tratta di forza, è lui il potente; se di giustizia, chi potrà citarlo in giudizio? Se avessi ragione, la mia bocca mi condannerebbe; se fossi innocente, egli mi dichiarerebbe colpevole. Benché innocente, non mi curo di me stesso, detesto la mia vita! Per questo io dico che è la stessa cosa: egli fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. La terra è lasciata in balìa del malfattore: egli vela il volto dei giudici; chi, se non lui, può fare questo? (Iob, 9, 14-24)

Tutto questo non significa appunto che la sofferenza è ingiusta, ma semplicemente che essa non ha letteralmente alcun senso. Di fronte ai suoi amici che ne vogliono dedurre le sue colpe in quanto essa ha evidentemente origine da un Dio onnipotente, Giobbe risponde che proprio l’impune strapotere dei malvagi, che evidentemente da Dio è permesso, dimostra che davanti all’onnipotenza di Dio non ha senso parlare di giusto e ingiusto:

Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti. Poiché non è uomo come me, al quale io possa replicare: «Presentiamoci alla pari in giudizio». Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi (Iob, 9, 30-33)

È molto acuto costatare l’inesistenza di un «arbitro»: se non esiste alcun criterio ultimo di bontà che non sia Dio stesso, ogni sua accusa è contemporaneamente sentenza, come in un tribunale in cui pubblico ministero e giudice fossero la stessa persona. Ma questo significa appunto che non c’è legame conoscibile tra bontà e felicità, perché è proprio l’ordine della bontà che in realtà ci sfugge. Se è questa connessione che cerchiamo, non possiamo dunque far altro che concludere che il mondo è disordinato.

Che questo culmine parossistico sia realmente la parte più significativa della protesta di Giobbe ci pare dimostrato dalla risposta che alla fine viene messa sulla bocca di Dio. Si tratta di una replica che ben difficilmente soddisfa gli spiriti moderni, centrata com’è su un’esibizione di pura potenza. Terra, mare, luce, tempesta, stagioni, leoni, corvi, camosci, asini, bufali, struzzi, cavalli, aquile, ippopotami, e infine il terrificante Leviatano: sono queste le «ragioni» che Dio srotola a Giobbe per metterlo a tacere. Com’è possibile anche solo ragionare su colui che tutto questo ha creato e che tutto deve curare con la sua provvidenza? Le parole di Dio non si muovono dunque sul piano morale che desidereremmo (e neppure su quello che viene tratteggiato nei discorsi del «giovane» Elihu, che rimproverando Giobbe e al tempo stesso i suoi amici interpreta la sofferenza come una prova e un’occasione di miglioramento). Se Giobbe viene duramente redarguito da Dio, ciò non avviene insomma perché egli abbia esagerato, ma piuttosto perché non è stato abbastanza radicale: se di fronte a Dio non si può replicare, se egli è la fonte del bene e del male, non ha neppure nessun senso chiamarlo a testimone della propria innocenza. È significativo che è esattamente su questo piano che il grande lamento di Giobbe si riallaccia al problema della colpa e della punizione nelle parole di Dio, dove egli lancia la sua sfida: come può da lui pretendere una giustizia cosmica colui che non è a sua volta in grado di fare giustizia nella scala tanto più piccola delle comunità umana?

Oseresti tu cancellare il mio giudizio, dare a me il torto per avere tu la ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua? Su, órnati pure di maestà e di grandezza, rivèstiti di splendore e di gloria! Effondi pure i furori della tua collera, guarda ogni superbo e abbattilo, guarda ogni superbo e umilialo, schiaccia i malvagi ovunque si trovino; sprofondali nella polvere tutti insieme e rinchiudi i loro volti nel buio! Allora anch’io ti loderò, perché hai trionfato con la tua destra (Iob, 40, 8-14).

4. «Perciò vengo meno, ma sono consolato»

È un compito difficile mettere insieme la prima storia (quella che racconta del giusto sofferente alla fine ricompensato per la sua pazienza) con la seconda (quella che presenta un uomo messo a tacere da Dio per aver osato sollevare la questione dell’ordine del mondo). Però è necessario: non solo perché, anche ammesso che abbiano diversa origine, il redattore finale le ha combinate nel testo che possediamo, ma anche perché le due storie sono di fatto inseparabili. La parte in prosa preannuncia e introduce i tre amici, e alla fine pronuncia su di loro una condanna per le loro parole; i lunghi discorsi in poesia suppongono da parte loro l’esistenza di un quadro narrativo. Ma questo pare moltiplicare i problemi: non soltanto siamo confrontati con il difficile e penoso nesso tra bontà e felicità, ma anche con due interpretazioni a prima vista così lontane. Tentiamo tuttavia d’individuare un tema che almeno individui un filo rosso che attraversa l’intero libro. Per fare questo, prendiamo le mosse dalle parole che Giobbe pronuncia (nella sezione in poesia) dopo la lunga reprimenda divina:

Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai! Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò vengo meno, ma sono consolato per la polvere e la cenere (Iob, 42, 2-6).

Queste sono anche le ultime parole dette in tutto il libro di Giobbe: Dio è per definizione colui per il quale «nulla è impossibile», e dunque ogni ragionamento sui suoi piani è destinato ad essere incerto. Dinanzi a Dio, si può soltanto attendere la sua parola. E ciononostante, le ultime parole di Giobbe sono di consolazione.5 Perché? Certamente è consolatorio il fatto che Dio non gli abbia rimproverato la sua colpa (e neppure, secondo la logica dei suoi amici, la sua infelicità). Ma questo Giobbe già lo sapeva. A ben leggere le sue parole, la sua nuova consolazione viene solo dal fatto che Dio si è fatto vedere e ascoltare, ha preso l’iniziativa di mostrarsi e di parlare. Quanto quest’aspetto sia importante e giunga come la risoluzione del dramma si vede molto prima, nel discorso in cui Giobbe invoca pietà dai suoi amici: mentre Dio lo sta perseguitando, mentre tutti i suoi famigliari e conoscenti lo scansano, mentre i passanti lo coprono di insulti, almeno loro abbiano pietà di lui e siano differenti da Dio! Ma pure nell’evidente fallimento di quest’appello resta la certezza che Dio, oltre che persecutore, sia anche redentore e alla fine possa essere visto:

Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro (Iob, 19, 25-27).

È comprensibile che queste parole siano state intese innumerevoli volte come un’almeno velata professione di fede nella resurrezione (è per esempio in questa funzione che sono da secoli usate nella liturgia cristiana dei morti); ma in effetti il loro adempimento è già alla fine del libro, quando Giobbe per la prima volta sperimenta la consolazione: non perché Dio lo ristabilisce nella sua fortuna (ciò avverrà dopo), ma solo perché si mostra vivente. È in questo suo esserci davanti agli occhi del sofferente che egli è «redentore».

Quando l’accento venga spostato sulla consolazione, una nuova luce cade sull’intera vicenda. Dopo la notizia delle catastrofi abbattutesi su Giobbe, i suoi amici «si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo» (Iob, 1, 11). Nel corso però dei loro lunghi dialoghi, ciò che Giobbe radicalmente rimprovera loro non è tanto l’esposizione di teorie errate, quanto il loro fallimento come amici:

Ne ho udite già molte di cose simili! Siete tutti consolatori molesti. Non avranno termine le parole campate in aria? O che cosa ti spinge a rispondere? Anch’io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: comporrei con eleganza parole contro di voi e scuoterei il mio capo su di voi (Iob, 16, 2-4).

È forse questo che anche Dio rimprovera loro alla fine, quando afferma di essere irato con loro e di aver preferito ai loro discorsi quello di Giobbe (Iob, 42, 7)? Quest’interpretazione è quanto meno probabile: in che cosa può consistere altrimenti la non rettitudine delle parole degli amici in confronto a quelle di Giobbe, che pure al colmo del suo dolore (ricordiamolo) aveva attribuito a Dio un dispotico e insensato potere sul cosmo?6 Ciò che comunque è certo è che alla fine del racconto il cambiamento che più sorprende è quello che vediamo in tutti i personaggi comprimari: «Tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo; banchettarono con lui in casa sua, condivisero il suo dolore e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato su di lui, e ognuno gli regalò una somma di denaro e un anello d’oro» (Iob, 42, 11): finalmente essi sono divenuti veramente amici e capaci di consolazione!

Questa trasformazione non è però l’unica. Seguendo l’invito di Dio, alla fine del racconto Giobbe prega e intercede per i suoi amici, affinché l’ira divina non si accenda contro di loro (Iob, 42, 8. 10). Questa conclusione può apparire un poco estrinseca se non si ricorda che sullo sfondo della scena anche la rinnovata prosperità di Giobbe sembra l’effetto di un’intercessione. È in questo modo infatti che la aveva preannunciata Elihu:

Ma se vi è un angelo sopra di lui, un mediatore solo fra mille, che mostri all’uomo il suo dovere, che abbia pietà di lui e implori: «Scampalo dallo scendere nella fossa, io gli ho trovato un riscatto», allora la sua carne sarà più florida che in gioventù, ed egli tornerà ai giorni della sua adolescenza. Supplicherà Dio e questi gli userà benevolenza, gli mostrerà con giubilo il suo volto, e di nuovo lo riconoscerà giusto (Iob, 33, 23).

Insomma: se un «satana» aveva provocato con la sua malignità la sua disgrazia, forse un anonimo angelo dietro le scene lo ha anche salvato. La preghiera di intercessione di Giobbe per i suoi tre amici è dunque sì completamente gratuita (nell’economia del racconto egli non aveva davvero nessuna ragione per esser loro grato!), e tuttavia risponde ad una logica di compassione di cui forse egli per primo è stato il destinatario.

5. L’umanità prima della punizione

Alla fine del libro di Giobbe, è inevitabile trovarsi con idee sulla retribuzione più incerte di prima. Certo, il quadro narrativo ci parla di una felicità destinata ai buoni e di un’infelicità destinata ai cattivi: ma tutto il dramma avvenuto nel frattempo ci parla, e molto più, di un male senza senso comprensibile. Il lettore sa bene che tutto è stato una prova istigata da un «satana» e deliberata lassù in cielo: ma questa spiegazione che avrebbe consentito a Dio di tirarsi facilmente fuori d’impaccio di fronte ai lamenti di Giobbe e alle teorie dei suoi amici non viene in effetti mai data, e tutti i personaggi della novella sono alla fine ignoranti quanto lo erano all’inizio, sovrastati da una storia che non hanno capito né mai capiranno. Ma questo significa solo una cosa: che l’ideale di un mondo ordinato e comprensibile è un fantasma. Non solo: è un fantasma umanamente pericolosissimo. È dentro ad esso che gli amici costruiscono la loro teoria della retribuzione e si accaniscono contro l’innocente Giobbe, perché pensare che il malvagio deve essere punito significa anche, se si ha fiducia nell’ordine del mondo, pensare che chi è punito lo è perché malvagio, pure se la sua «punizione» non è stata deliberata da un’autorità riconoscibile.7

Il libro di Giobbe è certamente un capolavoro filosofico, ma lo è anzitutto non per la sua originalità, ma perché riesce a gettare un fascio di luce su un disagio che in fondo ogni essere umano conosce fin troppo bene. Perché, allora, tutte le società continuano a credere nel nesso tra colpa e punizione? Eliminata la spiegazione positiva dell’«ordine» (che, come abbiamo visto, viceversa è fondato su quel nesso), ne resta il rovescio: la necessità realistica di spezzare il circolo infinito delle rivalse e vendette e di ridurre i meccanismi di attribuzione di colpevolezza entro limiti dominabili. Questo è ciò che il parossismo dei discorsi degli amici di Giobbe induce anzitutto a riconoscere. Una punizione regolata dalla legge sottrae il punito al risentimento della folla e, protetta com’è dal prestigio del potere politico, limita il rischio che su di essa s’inneschi un circolo di violenze. Insomma: la presunta giustizia umana non è forse una gran cosa, ma è sicuramente meglio del linciaggio e della vendetta; non è di per sé generatrice di vita, ma almeno garanzia di sopravvivenza. Ma riconoscere questo ruolo positivo costringe appunto ad abbandonare il miraggio dell’ordine morale sul quale la retribuzione vorrebbe fondarsi.8

Ma non è solo questo che il libro di Giobbe può suggerire. Non bisogna dimenticare che la sua prospettiva finale è positiva e quasi luminosa: perché quando il fantasma dell’ordine del mondo viene dissolto i rapporti umani si ricompongono nella consolazione e nell’affetto. Come se, costretti a riconoscere che il mondo con la sua sofferenza è incomprensibile o privo di senso, gli uomini ritornassero a sé stessi e alla loro capacità di vicinanza. Con ciò il discorso è trasportato su un altro piano? Solo in parte. Dobbiamo riflettere al fatto che tutte le spiegazioni che abbiamo prima tentato della correlazione tra colpa e punizione si sono arenate in luoghi simili: nei luoghi cioè in cui in questione è l’umanità. È ad essa che si arresta la teoria della deterrenza, perché il prezzo dell’umanità ferita non è misurabile economicamente. È su essa che s’interrompe la teoria educativa, perché ogni educazione suppone capacità e atti spirituali che la punizione non può creare e in quanto tale neppure attivare. È su essa infine che naufraga la teoria della retribuzione, il cui presunto ordine metafisico si rivela solo un’illusione tramite cui contenere la disumanità. Tutte e tre hanno dovuto insomma implicitamente dichiarare che ci dev’essere qualcosa prima di esse in cui la logica della punizione può eventualmente trovare un senso umano.

È così nel primo caso: perché la deterrenza funziona solo se si suppone che, al di qua delle valutazioni economiche, gli esseri umani abbiano una capacità innata di sentire il bene altrui come bene proprio. La capacità dunque di provar compassione, d’innamorarsi, di curare i più deboli a partire da quella debolezza costitutiva che è quella del nuovo nato incapace di sopravvivere. È solo questo polo attrattivo (che Aristotele chiama la «passione» dell’amicizia) che permette che la dissuasione da un delitto porti non solo ad un calcolo migliore, ma alla ricostruzione dei rapporti umani, in cui felicità e bene non hanno bisogno di essere ricomposti, perché originariamente associati. Anche la prospettiva educativa funziona solo sul presupposto dell’umanità: certo, lo abbiamo riconosciuto, nessuna punizione può di per sé insegnare la bellezza del bene e la bruttezza del male, costretta com’è a sfiorare appena la superficie della persona; ma il suo cuore è quello che viene raggiunto dalla parola e dall’esempio, insomma non dalla punizione, ma da altre persone: sono solo esse che possono educare. Forse troppo poco si nota che Aristotele, cercando un nome per la virtù che consiste nel saper rimproverare qualcuno che sta sbagliando, non trova di meglio che «amicizia» (Eth. Nich., 1108 a26-30), il nome cioè di quella passione che spontaneamente lega gli esseri umani fra di loro nel bene e nella felicità e dunque vuole che l’altro sia migliore: ed è solo una parola percepita come amante che permette di cambiare. E che cosa può guadagnare da un richiamo all’umanità la teoria della retribuzione, che, come abbiamo visto, si lascia facilmente smascherare come un modesto meccanismo di riduzione della violenza? Anche qui, crediamo, si tratta di riconoscere che circoscrivere la violenza ha un senso solo se si pensa che prima di essa c’è la capacità tutta umana di agire in maniera nuova, e in modo particolare con quella straordinaria novità che (come benissimo insegnava Hannah Arendt) è il perdono. Anche laddove la colpa non può essere veramente compensata in alcun modo, il sistema delle punizioni stabilisce una procedura alla fine della quale il colpevole è realmente reintegrato e dunque almeno in un certo senso perdonato: come se l’azione umanissima e indispensabile del perdono avesse bisogno di essere sorretta e ritualizzata perché ciò che è per eccellenza difficile e rischioso possa essere compiuto da esseri umani sempre troppo paurosi, sempre troppo fragili.

Pubblicato per la prima volta in lingua polacca con il titolo «Co poprzedza karę? Czytając Księgę Hioba», Ethos (Lublin), anno 23 (2010), nn. 2-3 (91-92), pp. 154-170.


  1. Tutto ciò ovviamente non esclude che soggettivamente vi sia chi si astiene da un comportamento inequivocabilmente «colpevole» sulla base di un calcolo. Quando ripetutamente si sottolinea che l’effetto deterrente sarebbe ottenuto dalla certezza della pena molto più che dalla sua entità, si sottintende che la prospettiva certa di una pena riesce a trattenere anche coloro che non avrebbero altre remore morali. Ma proprio così ragionando si ammette che la pena debba svolgere in questi casi la funzione di improprio surrogato di una coscienza morale difettosa, e si dà quindi per ovvio che il vero problema sta altrove: lasciando quindi ancora irrisolta la domanda su una correlazione essenziale tra colpa e punizione. ↩︎

  2. Con una notevolissima eccezione, secondo Aristotele: i rapporti affettivi originari. L’«amicizia» (un termine sotto il quale vengono sussunti anche i rapporti amorosi e l’elementare cura delle madri per i figli) è quella strana passione che non è qualificabile propriamente come «virtù» dato il suo carattere almeno parzialmente spontaneo, e in cui però si ritrova per così dire già presente quella coincidenza tra bene e felicità che l’educazione morale in tutti gli altri casi cerca faticosamente. È questa la prospettiva che costringe Aristotele a modificare la geometria intellettualistica della sua etica, facendola culminare (come farà molto più tardi perfino Kant nella sua Metafisica dei costumi) in una teoria dell’amicizia personale e civile. Abbiamo cercato di documentare quest’interpretazione di Aristotele in «Homo capax hominis. Alterità e costruzione dell’io», in Armando Rigobello (curatore), L’altro, l’estraneo, la persona, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2000, pp. 129-154. Su questo tema determinante torneremo alla fine. ↩︎

  3. Si potrebbe accusare qui la riflessione concettuale di escogitare problemi (come spesso accade) laddove la realtà semplicemente «funziona». Le cose sono invece veramente complicate. Che cosa dire per esempio del sistema di premi e punizioni nel campo dell’apprendimento? Autentici incentivi o disincentivi, o piuttosto compromissione della possibilità di conoscere la gioia del sapere, della scoperta, della curiosità intellettuale? La risposta non è affatto ovvia e l’esperienza offre dati variabili. Per esempio: l’attuale degenerazione dell’istruzione superiore almeno in diversi paesi europei, complice il «processo di Bologna» e la sua applicazione del senso della remunerazione in «crediti» pure per qualsiasi attività culturale fino ad allora per eccellenza libera, offre una facile materia di riflessione sotto gli occhi di tutti. Più serio perché legato a risvolti drammatici è la conclamata incapacità del sistema carcerario di educare chicchessia, un punto questo che perlomeno dopo le inquietanti analisi di Michel Foucault (Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Parigi 1975) nessuno può ignorare. ↩︎

  4. Non tentiamo neppure di nominare le più notevoli interpretazioni filosofiche del libro di Giobbe, che sono numerosissime. Ricordiamo tuttavia che iproblemi del libro di Giobbe sono anche di un ordine completamente diverso: quello linguistico. La lingua è forse la più irta di difficoltà dell’intera Bibbia, come la stessa tradizione ebraica riconosce. Ad un caso cruciale per l’interpretazione (Iob, 42,6) dovremo tornare più tardi; in esso solo ci discosteremo dalla traduzione della CEI 2008. ↩︎

  5. La traduzione delle ultime parole di Giobbe è molto tormentata. I LXX traducono: dió epháulisa emautón kai etáken, hégemai de emautón gén kai spodón [dunque mi sono ritenuto un nulla e sono venuto meno, e mi ritengo polvere e cenere]; la Vulgata: idcirco ipse me reprehendo et ago paenitentiam in favilla et cinere [per questo mi rimprovero e faccio penitenza nella polvere e nella cenere] (e molte versioni moderne in parte la seguono); gli esegeti contemporanei propongono varie soluzioni, fino ad ipotizzare che il testo sia intenzionalmente ambiguo. Noi seguiamo qui l’interpretazione di Thomas Krüger (in Thomas Krüger, Manfred Oeming, Konrad Schmid e Christoph Uehlinger [curatori], Das Buch Hiob und seine Interpretationen, Theologischer Verlag, Zurigo 2007): non c’è bisogno di dire che tra il «pentirsi» e il «consolarsi» c’è un’enorme differenza! Questa lettura, che intende attenersi alla lettera del testo, è peraltro praticamente allineata a quella tradizionale ebraica, testimoniata dal commento di Rashi (Rabbi Shlomo Yitzhaki [Troyes 1040-1105], una traduzione inglese integrale è pubblicata all’indirizzo http://www.chabad.org/library/bible_cdo/aid/). Notiamo di passaggio che di quest’interpretazione non troviamo invece traccia nella Postilla di Nicola di Lyra (1270-1349), che pure legge e utilizza il commento di Rashi e fa sovente riferimento al testo ebraico della Bibbia. ↩︎

  6. Qui come in moltissimi altri casi, il testo ebraico non è chiarissimo. Dio sembra rimproverare agli amici: «non avete detto a me cose rette»; sia i LXX sia la Volgata interpretano «al mio cospetto» (enópion mou, coram me); e non impossibile è interpretare «riguardo a me», come molte versioni moderne. Ma, comunque si traduca, rimane il problema di comprendere in che cosa consista la mancata «rettitudine» dei discorsi degli amici. A noi (salvo meliori iudicio) sembra preferibile mantenere il senso più evidente del testo ebraico: le cose ingiuste sono dette a Dio. Anche in questo caso, è verosimile l’interpretazione di Rashi, che così parafrasa il rimprovero di Dio agli amici: «Se [Giobbe] continuò a parlare [dopo le esagerate espressioni di 9,22-23], parlò a causa della severità delle sofferenze che lo opprimevano e sopraffacevano; ma voi vi siete ribellati per il fatto che lo avete condannato, dicendo: «Ecco, il tuo timore è la tua follia» [4,6], e avete ritenuto che fosse un malvagio, e alla fine, quando siete stati messi a tacere e sconfitti davanti a lui, lo avreste dovuto consolare, come ha fatto Elihu. Non erano abbastanza per Giobbe la sua angoscia e le sue sofferenze, che voi esasperandolo avete aggiunto ai vostri peccati la ribellione?» Il ragionamento è chiaro: condannare un’innocente significa sempre ribellarsi a Dio, dunque le parole ingiuste contro Giobbe erano per ciò stesso parole contro Dio. Notiamo di passaggio il giudizio molto positivo che viene qui dato del «quarto amico», Elihu, che interviene come il più giovane dopo che sono esauriti i lunghi dialoghi tra Giobbe e i suoi amici. In realtà, anche lui rimprovera Giobbe, ma senza attribuirgli alcuna colpevolezza per le sue disgrazie: è per questo che nell’economia della narrazione complessiva egli non viene coinvolto nel rimprovero divino e meglio di chiunque altro formula la morale della storia, preannunciando perfino a Giobbe il ristabilimento della sua fortuna. ↩︎

  7. Il che può avvenire secondo la variante teologica: «Dio lo punisce», o quella secolarizzata: «se l’è cercata lui». È quest’aspetto che, con l’efficacia che gli è propria, ha messo bene in luce René Girard nel suo commento a Giobbe (La Route antique des hommes pervers, Grasset, Parigi 1985). In esso lo scontro tra il protagonista e i suoi amici viene analizzato attraverso il noto meccanismo del capro espiatorio: colui che un tempo era potente e onorato e ora è caduto in disgrazia non può che essere il colpevole per eccellenza, colui che percorre «l’antica via degli empi» (Iob, 22,15) e che dunque viene unanimemente fatto bersaglio di accuse; Giobbe rifiuta però l’attribuzione di colpa, e soltanto tramite le sue parole riesce a far balenare l’immagine di un Dio delle vittime (come nel cap. 19 già citato). Aver scelto di vedere nell’intero libro di Giobbe nulla più che lo smascheramento della dinamica sociale del capro espiatorio ci pare però condurre Girard ad aporie: tutto il lungo discorso di Dio, con la sua esibizione di forza, sarebbe per esempio solo il riflesso dell’immagine della divinità dei persecutori che i suoi amici promuovono, il che rende inspiegabile, per esempio, il fatto che proprio dopo questo discorso Giobbe dichiara di essere «consolato». ↩︎

  8. Peraltro, tenere presente questa modesta spiegazione consentirebbe perlomeno di evitare conseguenze peggiori nel dibattito sulla giustizia, come la cronaca spesso testimonia. Esemplificando: argomentare la necessità di una più severa punizione di un omicidio sulla base di un «diritto dei parenti delle vittime» (ossessivamente intervistati) o invocare l’inasprimento delle punizioni al momento della forte reazione emotiva provocata da un delitto, come con frequenza avviene nella discussione politica e nei mezzi di comunicazione di massa, significa risospingere il sistema delle punizioni verso la vendetta nel primo caso e il linciaggio nel secondo: cioè esattamente verso ciò che la giustizia umana vuole evitare più ancora dei delitti. ↩︎