1. Una definizione e i suoi problemi
Nelle lingue neolatine, come già nel latino stesso, il termine «umanità» presenta una peculiare ambiguità: esso significa da una parte l’insieme di tutti gli uomini viventi, dall’altra la qualità morale che (in prima approssimazione) rende l’uomo degno di esser chiamato tale, cioè senza la quale egli sembrerebbe più simile nel suo cieco agire ad un animale feroce. «Disumano» significa quindi qualcosa come «spietato», «insensibile». Una delle definizioni più soddisfacenti di questo secondo significato si trova ripetutamente in Kant, il quale per altro non cade nella notata ambiguità lessicale perché può agevolmente distinguere nella lingua tedesca la Menschheit, l’«insieme degli uomini», dalla Humanität, la «qualità morale dell’uomo». Ecco come Kant si esprime nella Metafisica dei costumi:
Congratulazione e compassione (sympathia moralis) sono sentimenti sensibili di piacere o dispiacere (che dunque sono da chiamare «estetici») per lo stato di benessere o dolore degli altri (sentimento comune, sensazione partecipativa), per i quali già la natura ha posto negli uomini la recettività. Tuttavia, il far uso di questi come di mezzi per promuovere la benevolenza attiva e razionale costituisce un dovere ulteriore (benché solo condizionato), che va sotto il nome di umanità (humanitas), poiché qui l’uomo viene considerato non puramente come essere razionale, ma anche come animale dotato di ragione. Questa può essere posta solo nella facoltà e volontà di essere partecipi gli uni degli altri in rapporto ai propri sentimenti (humanitas practica), oppure puramente nella recettività per il comune sentimento del benessere o del dolore (humanitas aesthetica), che la natura stessa dà. La prima cosa è libera e viene dunque chiamata partecipativa (communio sentiendi liberalis); la seconda non è libera (communio sentiendi illiberalis, servilis) e può chiamarsi comunicativa (come il calore o le malattie infettive), o anche passione comune, giacché essa si diffonde naturalmente tra uomini che vivono gli uni accanto agli altri. Solo nei confronti della prima esiste un dovere (A 129-130).
Queste osservazioni di Kant si situano palesemente su un piano differente da quello puramente razionale e formale della fondazione dell’etica. Qui infatti, dove entrano in gioco le concrete determinazioni dell’agire umano, non si può prescindere dai dati sentimentali. Essi vengono considerati da Kant come una sorta di prerequisiti, offerti in dotazione dalla natura, per rendere la vita morale di fatto accessibile, anche nella sua bellezza, ad esseri umani che non sono pura razionalità. Quella che viene in particolare qui chiamata in causa è la «recettività» per quel sentimento partecipativo che ci fa sentire gioie e tristezze altrui come gioie e tristezze nostre, semplicemente in forza della comune appartenenza alla specie umana.
Malgrado la terminologia leggermente diversa, sembra qui di trattarsi di uno dei quattro «concetti preliminari estetici», indicato all’inizio dell’opera come «amore per il prossimo»: essi sono preliminari perché, essendo condizioni della moralità nel suo esercizio effettivo (e non solo nella sua definizione formale), non possono essere oggetto di un imperativo, pena la caduta in contraddizione. Ecco come stanno le cose riguardo all’amore:
L’amore è questione della sensazione, non del volere, e io non posso amare perché voglio, tanto meno perché devo (essere costretti all’amore): dunque il dovere di amare è un’assurdità (Unding) […] Avere un dovere per l’amore (in quanto piacere immediatamente connesso con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto), cioè dover essere costretti a provarne piacere, è una contraddizione (A 39).
Certamente si può rimanere perplessi di fronte alla restrizione del significato del termine «amore» alla sfera sensibile, con esclusione degli aspetti volontari. Ciononostante l’osservazione di Kant individua uno strato dell’esperienza umana che, comunque si voglia chiamare, è senza dubbio reale: quell’istintiva gioia di fronte all’esistenza (perfino solo immaginata) di qualcuno o qualcosa, gioia che non si può giustificare, comandare, proibire. Ora, è proprio questo strato emotivo che entra come componente nella definizione dell’umanità prima citata. Se non la si intende come una semplice riformulazione di tale componente (quindi in senso «estetico»), essa deve individuare — così argomenta brevemente Kant — la virtù che consiste nell’adoperare la naturale predisposizione a condividere gioie e dolori altrui per alimentare una benevolenza attiva e ordinata dalla ragione. Virtuoso non è sentirsi stringere il cuore di fronte al sofferente, ma far sì che tale istintiva commozione si attualizzi in un cosciente e libero gesto di aiuto e condivisione, di cui la consonanza dei sentimenti costituisce anticipazione e promessa.1
Ma perché proprio questa virtù merita il nome di «umanità»? La risposta di Kant è brillante, perché rimotiva entro un contesto etico nuovo una terminologia ereditata da una lunga tradizione. L’umanità è la virtù dell’uomo in quanto tale, portatore di sensibilità e razionalità, cioè, secondo l’antica determinazione, in quanto animal rationale. L’umanità è infatti una virtù definita proprio a partire da un elemento sensibile che caratterizza l’animalità dell’uomo (mentre d’altro canto, essendo appunto virtù, ne richiede parimenti la razionalità). È per questo che in sede di fondazione dell’etica l’umanità non poteva ancora comparire, laddove cioè le condizioni della moralità venivano ricostruite a partire dalla natura razionale, applicabile di per sé a qualsiasi ipotetico essere siffatto (così avviene nella Critica della ragione pratica, in particolare A 48-54).
Significa questo che l’umanità è la virtù degli uomini, ma non degli esseri razionali in generale? In un certo senso sì: angeli o Dio non possono esser dotati di «umanità». Ma è anche vero che non ne avrebbero alcun bisogno. Per angeli o Dio non ha neppure senso parlare di imperativi etici, la cui forza consiste tutta e soltanto nella repressione dell’amor di sé che contrasti con essi (Kant lo suggerisce nella Critica della ragione pratica, A 130). La «legge morale sopra di me» può esistere e innalzare all’infinito la mia dignità proprio perché io sono anche una creatura animale, mucchietto di polvere per un po’ vivente tra la sterminata indifferenza degli astri. Dove non ci fosse l’umiltà oggettiva dell’animalità, nulla ci sarebbe neppure da contrastare ed elevare. Insomma: l’umanità è la virtù di tutti coloro per i quali ha senso parlare di virtù.
Questa situazione un poco paradossale sembra avere un ulteriore risvolto importante, sul quale conviene riflettere. Immaginiamo un uomo perfettamente realizzato, dunque «perfettamente umano». Dal punto di vista di Kant, si tratterebbe di un uomo in cui le esigenze della razionalità sono totalmente compiute, in cui il peso della sensibilità è sublimato senza residui. Ma rimarrebbe ancora lo spazio per l’umanità? È lecito dubitarne. In effetti, non ci sarebbe più necessità di un materiale emotivo previo per configurare atti di benevolenza. Lo stesso identico comportamento pratico cui tende l’umanità potrebbe essere spontaneamente esercitato a partire dalle pure esigenze universali della ragione. Detto un poco schematicamente, l’uomo ideale non ha bisogno di nulla di più che della Critica della ragione pratica, anzi in essa solo dell’analitica. Le esigenze dell’umanità scompaiono, rimane la sola esigenza dell’universalità.
Il risultato, malgrado possa somigliare all’ovvia costatazione che il santo non ha bisogno di leggi (punto di vista confermato ed esaltato in una morale autonoma), è invece un poco più inquietante. Nell’uomo perfetto sarebbe ancora sensato parlare di giustizia, di coraggio, di temperanza: questi sarebbero i nomi di un ideale etico già interamente attuato. Ma non di umanità: essa, nella sua peculiare posizione «intermedia» tra sensibilità e razionalità, sarebbe destinata ad annichilarsi completamente in una benevolenza razionale. Con gli stessi effetti? Qui Kant non ci può certo rispondere: glielo impedisce — crediamo — l’acuta coscienza dell’uso puramente regolativo degli ideali.
2. «Nisi forte puniendo citra condignum»
Possiamo però arrischiare una metábasis eis állo génos, rivolgendoci per esempio al discorso teologico di Tommaso d’Aquino. In lui l’ideale viene descritto e analizzato come un dato di fatto, perché corrisponde alla situazione della visione beatifica. Essa ovviamente non è sperimentabile, ma la ragione vi si può esercitare a partire dai medesimi principi che vigono nella vita empirica (il che può dunque in ogni caso essere apprezzato come un esperimento di simulazione). Il passo che più drammaticamente viene incontro al nostro interrogativo si trova in risposta al problema se i beati provino compassione dei dannati: tale compassione sembrerebbe non solo discendere dalla perfetta carità in cui essi vivono, ma anche dalla loro vicinanza al Dio ricco di misericordia.2 La risposta è tuttavia crudamente negativa:
La misericordia, o compassione, può trovarsi in qualcuno in due nodi diversi: nel primo, a mo’ di passione, nel secondo, a mo’ di scelta. Ma nei beati non ci sarà alcuna passione nella parte inferiore se non conseguente alla scelta della ragione. Dunque in loro non ci sarà compassione o misericordia se non secondo la scelta della ragione. Ma la misericordia o la compassione nasce dalla scelta della ragione in questo modo: in quanto uno vuole respingere il male di un altro: dunque non abbiamo una tale compassione per le cose che secondo il giudizio della ragione non vogliamo respingere. Ma i peccatori, finché sono in questo mondo, sono in uno stato tale che possono essere trasferiti dallo stato di miseria e di peccato alla beatitudine senza pregiudizio per la giustizia divina. E dunque la compassione dei beati ha uno spazio per loro: sia secondo la scelta della volontà, in quanto Dio, gli angeli e i beati vengono detti compatirli perché vogliono la loro salvezza; sia secondo la passione, così come gli uomini buoni che esistono nello stato della via li compatiscono. Ma in futuro non potranno essere trasferiti dalla loro miseria. Dunque non potrà esserci compassione verso le loro miserie secondo una retta scelta. E dunque i beati che saranno nella gloria non avranno alcuna compassione verso i dannati (Suppl. q94a2c).
L’articolo seguente inasprisce ancora tale conclusione, osservando che in un certo senso (cioè per accidens) i beati saranno perfino felici delle sofferenze dei dannati. Ora, è interessante notare che l’argomentazione di Tommaso ripete con notevoli somiglianze i termini del problema con i quali Kant aveva occasionato la nostra perplessità: c’è una compassione che parte dall’alto, quella dell’uomo perfettamente realizzato, e quella che parte invece dal basso delle tendenze affettive, che è tipica dell’uomo nella sua concretezza empirica. La seconda (che significativamente Tommaso attribuisce agli «uomini buoni») può evidentemente estendersi di più della prima, perché giunge anche al desiderio delle cose impossibili, od oggettivamente parlando «ingiuste». Ma questo è proprio il segno dell’umanità: e malgrado la semplice e stringente logica del testo della quaestio (come è possibile pensare ad una perfetta beatitudine in cui si condivida una sofferenza altrui, per di più irreparabile?), non è facile fugare l’impressione che lo stato beatifico che viene così descritto sia in fondo uno stato di disumanità. Certamente in esso rimane la condivisione della gioia (la «congratulazione» di cui parlava Kant), ma senza il corrispettivo della compassione, e dunque sottratta alla naturale avventura della fragilità umana, anch’essa pare perdere il suo gusto e scendere al rango di una gelida costatazione intellettuale.
Ma anche Tommaso sembra rendersene conto. Proprio nell’ultima frase dell’articolo, in risposta all’obiezione che vedeva i beati come i più vicini al Dio misericordioso, così afferma:
Dio viene detto essere misericordioso in quanto soccorre coloro che, secondo l’ordine della sua sapienza e giustizia, è conveniente liberare dalla miseria: ma non perché abbia misericordia dei dannati, se non forse punendoli meno di quanto sarebbe giusto (nisi forte puniendo citra condignum) (Suppl. q94a2ad2).
Non viene addotta alcuna ragione — né logica né basata sulla rivelazione — per cui Dio debba punire citra condignum, e non viene addotta perché in fondo non esiste: l’antica argomentazione stoica secondo cui è indegno del sapiente perdonare avrebbe qui il luogo migliore per esercitarsi.3 Dunque questo «forse» è solo la protesta della propria umanità di fronte alla prospettiva di una mancanza di umanità. Si consideri pure la propria animalità un peso dal quale doversi liberare («un corpo corruttibile appesantisce l’anima», diceva già l’ellenizzante libro biblico della Sapienza di Salomone, 9, 15), si consideri pure scopo dell’etica la sussunzione del proprio tessuto emotivo sotto le esigenze della ragione: ma nel momento in cui questo Eldorado di ordine intellettuale fosse raggiunto, la bellezza morale del mondo (così si esprime anche Kant commentando la virtù dell’umanità) ne rimarrebbe ferita.
Il termine «bellezza» è in questa circostanza tutt’altro che abusivo. Nella Critica del giudizio (B 14-16) Kant individua la bellezza come qualcosa di intermedio tra la moralità e il piacere: la prima riguarda gli esseri razionali, il secondo gli esseri animali. Il bello riguarda invece coloro che sono sia animali sia razionali, gli uomini insomma, e proprio per questa sua duplice necessaria attribuzione può svolgere un ruolo mediatore tra le esigenze della moralità e quelle della sensibilità (B 260). In questo senso, l’umanità può essere considerata come la virtù bella per eccellenza, in quanto, prim’ancora di essere suscettibile di una traduzione simbolica in termini estetici, richiede questi ultimi come sua materia prima. Per tutti questi motivi, è difficile ritenere questa bellezza qualcosa come un ideale morale. Se lo è, ciò avviene in un senso unico, perché esso fa riferimento non ad una perfezione più o meno chimerica, ma piuttosto all’equilibrio instabile della vita umana, alla sua fragilità affettiva, alla sua ineliminabile vulnerabilità, e contemporaneamente alla sua fondamentale capacità di commuoversi delle ferite degli altri. Essere umani significa esercitare quella virtù che rinuncia in partenza ad ogni coincidenza con la felicità, perché si vive a partire dalla coincidenza con le gioie e i dolori degli altri.
Quest’ultima osservazione è, ci pare, ricca di conseguenze. Sarebbe forse facile scrivere un’intera storia dell’etica attraverso il prisma del rapporto tra moralità e felicità. In ogni caso, questo è uno degli scogli fondamentali che le diverse teorie morali hanno tentato di aggirare. C’è la strategia platonica, in cui le difficoltà vengono fuggite rifugiandosi in una polis perfetta. C’è la strategia aristotelica, in cui l’esercizio della virtù è direttamente finalizzato all’ottenimento della felicità, pur essendo questa ipotecata dalla condizione umana che richiede anche circostanze accidentali sottratte al controllo immediato dell’uomo (aspetto fisico, beni di fortuna). C’è la strategia stoica, in cui il nodo della mancata coincidenza di virtù e felicità viene tagliato tramite una rieducazione dell’atteggiamento vitale che consideri «indifferente» tutto ciò che non è sotto l’ambito della propria scelta etica fondamentale. C’è la strategia scolastica, in cui il compimento del desiderio di felicità viene affidato ad un Dio premio dei buoni. C’è la strategia kantiana, in cui il senso dell’etica viene raggiunto privando di valore autonomo la ricerca della felicità. In tutte queste direzioni c’è un elemento comune: la distanza tra felicità e virtù non solo viene assunta come uno dei dati di partenza empirici della riflessione morale, ma ne costituisce un perenne antagonista, in una sorta di estenuante duello. L’uno o l’altro dei contendenti sarebbe destinato alla morte dalle regole del gioco, ma il colpo fatale non viene mai vibrato, come se ne mancasse la forza.
L’umanità non costituisce da sola un sistema morale, né può surrogarne meccanicamente le deficienze. È certo tuttavia che in essa il duello viene interrotto. Mentre l’edificio dell’etica pare costantemente messo sotto accusa dalla mancata coincidenza tra virtù e felicità, l’umanità si alimenta proprio di tale frattura. Tutti i tentativi teorici per ricondurla nell’alveo dell’eudemonismo sembrano destinati al fallimento (solo in un senso paradossale si potrebbe dire: son felice di condividere la tua sofferenza). Ma di questi fallimenti, puramente concettuali, nulla sa la vita, la quale trova nell’umanità, con la sua materia di compassione, qualche cosa così originario che non ha bisogno di ulteriore giustificazione.4
3. Tra umanesimo e umanità
Il tema dell’«umanità» non pare a prima vista aver giocato un significativo ruolo nella riflessione filosofica contemporanea: la sua flebile presenza lo pare piuttosto accomunare alla sorte generalizzata che ha incontrato il discorso morale sulle virtù. È tuttavia curioso osservare che il tema dell’umanesimo ha dato il titolo a tre piccole opere che costituiscono le pietre miliari di uno dei dibattiti più importanti dell’ultimo mezzo secolo: L’esistenzialismo è un umanismo di Jean-Paul Sartre, la Lettera sull’umanismo di Martin Heidegger e Umanesimo dell’altro uomo di Emmanuel Levinas.5 Quanto la somiglianza lessicale con l’umanità non sia però una pura coincidenza, lo cercheremo caso per caso.
Si può dubitare che sia stata una sorte felice per la conferenza di Sartre rimanere sintetizzata e discussa in gran parte per la formula secondo cui nell’esistenzialismo «l’esistenza precede l’essenza» (pp. 27-28). Lo stesso titolo in realtà fa riferimento non al problema della caratterizzazione metafisica di una posizione filosofica, ma della sua capacità di essere al servizio dell’uomo (tra l’altro, la conferenza originaria di Sartre portava il titolo in forma interrogativa, e non affermativa come esso risulta nella successiva pubblicazione). Ciò risulta chiaramente dalle battute iniziali. Sartre ricorda anzitutto le consuete critiche all’esistenzialismo: indurre all’inazione, indugiare sui lati peggiori dell’uomo, dimenticare la solidarietà, impedire qualsiasi criterio di giudizio sulle azioni. Contro tali accuse la conferenza intende mostrare che l’esistenzialismo è appunto un umanismo:
Molti potranno meravigliarsi che si parli qui di umanismo. Vedremo in qual senso l’intendiamo. In ogni caso possiamo dire subito che intendiamo per esistenzialismo una dottrina che rende possibile la vita umana e che, d’altra parte, dichiara che ogni verità e ogni azione implicano sia un ambiente, sia una soggettività umana (p. 21).
Già questa affermazione preliminare suggerisce quel carattere circolare che costituisce ad un tempo la forza e la problematicità dell’«umanismo» qui presentato: la vita umana diventa in generale possibile quando si riconosce che è la soggettività umana l’elemento originario in tutto ciò che si può ritenere vero e buono. La prova della forza dell’esistenzialismo non si misura dunque sulla base di una conformità esterna, di una coerenza con una realtà o (addirittura) con princìpi già dati, ma piuttosto con la sua capacità di essere interprete di una realtà umana (réalité humaine è la traduzione che Sartre usa per il Dasein di Heidegger), rivendicata in tutta la sua originarietà. Su queste premesse è molto facile respingere l’umanesimo ingenuo «che considera l’uomo come fine e come valore superiore» (p. 83): in questo non soltanto si pretende di dare un giudizio sull’uomo che sarebbe metodologicamente legittimato solo da un punto di vista esterno, ma si fraintende proprio la libertà specificamente umana, quella che gli presenta la sua stessa vita come qualcosa da inventare e realizzare, piuttosto che come una realtà da celebrare.
Ma ha tutto ciò qualcosa a che fare con il tema dell’umanità? Un legame certamente si intravede nel momento in cui Sartre, riprendendo il punto di partenza di Descartes, fa subire ad esso una curvatura peculiare in cui la presenza dell’altro diventa indispensabile per l’ottenimento della verità. Lo stesso concetto di soggettività sarebbe vuoto e in fondo contraddittorio se non fosse definito in riferimento ad un’alterità e quindi anche al suo rapporto dialettico con essa. La discussione più accurata e sottile sul tema va certamente cercata in L’essere e il nulla (pt. 3, cap. 1), ma anche nella conferenza del 1943 gli accenni sono molto chiari:
La soggettività che raggiungiamo a titolo di verità non è una soggettività rigorosamente individuale, dato che abbiamo dimostrato che nel «cogito» non si scopre soltanto sé stessi, ma anche gli altri. Con l’«io penso», contrariamente alla filosofia di Descartes, contrariamente alla filosofia di Kant, noi raggiungiamo noi stessi di fronte all’altro e l’altro è tanto certo per noi quanto noi siamo certi di noi medesimi. In questo modo l’uomo, che coglie sé stesso direttamente col «cogito», scopre anche tutti gli altri, e li scopre come la condizione della propria esistenza (pp. 62-63, sott. nostra).
Il retroterra fenomenologico di Sartre fa sospettare gli echi delle Meditazioni cartesiane di Husserl, ma la tonalità qui assunta è comunque differente: l’altro riceve una connotazione direttamente etica. La condizione che sono gli altri è per Sartre non solo quella «universalità umana» che sostituisce il concetto astratto e in fin dei conti teologico di natura (p. 64), ma anche il punto di riferimento che definisce immediatamente ogni mio atto umano come un impegno, o un disimpegno, nei confronti dell’umanità intera: «Io costruisco l’universale scegliendomi, lo costruisco comprendendo il progetto di ogni altro uomo, di qualunque epoca egli sia» (p. 67). L’«umanità», nel senso dell’insieme delle peculiarità caratterizzanti l’uomo, è dunque un universale in perenne costruzione (p. 66), perché la sua materia è costruita da quella che potremmo definire una solidarietà trascendentale, che caratterizza ogni mio impegno come destinato all’umanità intera. Tutto ciò non riguarda soltanto le grandi decisioni storico-sociali (le uniche che interessavano agli oppositori marxisti di Sartre), ma anche ogni opzione nel campo dei rapporti umani, dell’affetto e dell’amore.
Il tema dell’umanità viene in questo modo sfiorato — ma non molto di più. La condizione umana è costituita per Sartre dai «limiti a priori» della situazione umana (p. 65), quelle «necessità» che ne contraddistinguono lo svolgimento, nei confronti dei quali i progetti umani sono «il tentativo di superar[li], o di farli arretrare, o di negarli, o di adattarvisi» (pp. 65-66). Ma in tutto ciò non c’è, o almeno sembra non esserci, lo spazio per quella originaria capacità di commuoversi per l’altro, nella gioia e nel dolore, che non è un limite, ma proprio ciò che solo può incrinare il limite maggiore e più tragico: non, come dice Sartre, «la necessità […] di esistere in mezzo ad altri» (p. 65), ma esattamente al contrario la necessità di esistere dentro sé stessi, il fatto che il tessuto del mio corpo, del mio sentire, del mio pensare si presenta con una evidenza così violenta e irrefutabile. Sullo sfondo di essa gli altri sono certamente il passaggio obbligato per la verità, come Sartre riconosce, ma una verità che implica sempre, in forme ora serene ora dolorose, la lacerante esperienza dell’abbandono del proprio io e della sovrana identità con sé. Una «trascendenza», questa, ben più abissale di quella di cui parla Sartre come caratteristica dell’umanesimo esistenzialista (p. 85), che non è altro che la capacità di oltrepassare un oggetto alla luce di un progetto, un progetto che dall’inizio alla fine è interamente mio.6
4. Un nuovo (anti-)umanesimo
È in effetti significativo che la replica di Heidegger raccolga del discorso di Sartre solo l’impianto giustamente riconosciuto come «metafisico». Le argomentazioni di fondo sono così note che ci basta accennare alla loro struttura fondamentale: se per «umanismo» s’intende la preoccupazione che l’uomo sia umano, sia ricondotto cioè alla sua essenza, il grande limite dell’umanismo storico, da Heidegger identificato soprattutto con quello romano e poi rinascimentale, è consistito nel non aver pensato abbastanza proprio che cosa l’uomo sia, nell’averne avuto, in un certo senso, un’opinione troppo bassa. L’uomo è stato infatti inteso anzitutto come animal rationale, cioè a partire dall’animalità, e non invece a partire dal fatto che egli è interpellato dall’essere. Nell’umanismo storico si rispecchierebbe così il peculiare destino di «dimenticanza dell’essere» realizzato nella «metafisica»: una certa interpretazione degli enti (qui natura, storia, società, animalità) si imporrebbe lasciando non interrogata la verità dell’essere stesso.
Ma pensare l’uomo non come animal rationale, ma come Dasein (Esserci), non significa quindi «aggiungere» qualcosa in più al concetto di uomo, ma piuttosto spostare il punto visuale, capovolgere la prospettiva: l’uomo non più padrone degli enti (dominati concettualmente e poi dunque tecnicamente), ma piuttosto «pastore dell’essere». Sentendosi in dovere di chiarire se, in fin dei conti, questa prospettiva possa o no denominarsi «umanistica», Heidegger può coerentemente così argomentare:
Ma […] tale pensiero non pensa proprio l’humanitas dell’homo humanus? Non pensa questa humanitas in un significato così decisivo come nessuna metafisica ha mai pensato e può mai pensare? Non è, questo, «umanismo» nel senso più estremo? Certo. È l’umanismo che pensa l’umanità dell’uomo a partire della vicinanza dell’essere, ma nello stesso tempo è l’umanismo in cui in gioco non è l’uomo, ma l’essenza storica dell’uomo nella sua provenienza dalla verità dell’essere. […] Nel caso decidessimo di mantenere la parola, «umanismo» significa che l’essenza dell’uomo è essenziale per la verità dell’essere, così che, di conseguenza, ciò che importa non è più appunto l’uomo, preso semplicemente come tale. Noi pensiamo così un umanismo di una specie strana. La parola finisce per dare una denominazione che è un «lucus a non lucendo» (pp. 295-298).
Ciò che però ci interessa di più osservare è che in tale nuovo «umanismo» quella sorta di solidarietà trascendentale di Sartre non può trovare alcun posto, meno ancora che nella prospettiva inaugurata da Essere e tempo, qui interpretata e superata. Gli spunti di Sartre in tale direzione vengono ignorati, e anche il confronto con il marxismo, che avrebbe forse potuto aprire qualche spiraglio in proposito, è lasciato ad uno stato scheletrico. La parte finale della Lettera, dedicata al problema dell’etica, offre forse un chiarimento definitivo in proposito: l’etica costituita da indicazioni di comportamento (quelle in cui necessariamente appare l’incontro con gli altri!) non è abbastanza «originaria», perché lascia impensato il tema della «dimora» dell’uomo. Ma quando si cominci a pensare la verità dell’essere, conformemente al senso dello «strano» umanismo che Heidegger propone, si è perfino alle spalle della distinzione tra teoresi e prassi (p. 309), perché lo stesso pensiero, in un senso del resto non troppo dissimile dalla vita teoretica aristotelica, costituisce il maggior compito e compimento dell’uomo (un tema, questo, che una elegante inclusio anticipa nella prima pagina della Lettera). Che in tutto questo gli altri, e tanto più il sentimento di vicinanza nei loro confronti, non possano giocare alcun ruolo non meraviglia. Il senso dell’etica appare scaraventato in una profondità così abissale dove la commozione avrebbe ancora bisogno di ere per poter apparire.7
Ma è sicuro che pensare l’uomo a partire dall’animalità sia un limite e un difetto? Le dichiarazioni di Heidegger in proposito (pp. 277, 279) sono così rapide da risultare sospette, e la loro aura convincente deriva paradossalmente tutt’intera proprio dal carattere «umanistico» che esse posseggono. Concedere ripetutamente l’«esattezza» della determinazione di animal rationale non è di molto profitto quando contemporaneamente se ne denuncia non solo la povertà, ma anche l’incapacità (seppure destinalmente determinata) di raggiungere quella «provenienza» che è anche il «futuro essenziale» dell’uomo (p. 277). In questo modo (così ci aveva avvertito già Kant) lo spazio per l’umanità intesa come originaria capacità di provare compassione e simpatia scompare, e così anche per riconoscere alla vita etica una bellezza diversa da quella di una rapita contemplazione poetica.
5. È necessario l’«altro uomo»?
È contro questo umanismo di Heidegger, o anti-umanismo se si preferisce, che Levinas lancia il suo atto di accusa dalle pagine della piccola raccolta Umanesimo dell’altro uomo e in particolare dell’articolo «Umanesimo e an-archia». Con una sorta di atto cavalleresco, Levinas concede che la posizione di Heidegger può essere intesa anche come una risposta al fallimento dell’uomo «nelle guerre e nei campi di sterminio»: proprio i morti insepolti metterebbero in primo piano l’impossibilità di continuare a considerare l’uomo come il saggio re dell’universo, pacifico e perfetto nella sua coscienza: «il mondo fondato sul cogito appare umano, troppo umano — al punto da far cercare la verità nell’essere, in una oggettività, in un certo senso, superlativa, pura di ogni ombra di «ideologia», senza più tracce umane» (p. 96). È così che il tradizionale rapporto di tipo gnoseologico tra l’uomo e la verità andrebbe invertito:
Non è l’uomo che, per non so quale vocazione propria, inventa o ricerca o possiede la verità. È la verità che suscita o possiede l’uomo (senza dipendere da lui). […] Se anche poi l’esistenza dell’uomo — l’esserci — consistesse nell’esistere in vista della sua stessa esistenza, sta di fatto che questa ex-sistenza si vota alla custodia o all’illuminazione o all’occultamento o all’oblio dell’essere — che non è un ente — e son questi movimenti e cangiamenti repentini che suscitano e situano l’umano (p. 99).
Levinas è convinto che questo antiumanesimo «non ha tutti i torti» (p. 113). Contemporaneamente, però, vi vede il pericolo che in esso l’uomo diventi un mezzo, «necessario all’essere per potersi riflettere o mostrare nella sua verità» (p. 102). Più che un pericolo, si tratta di una necessità, dal momento che il primato, in modo non diverso da quanto avviene nel pensiero concettualizzante che proprio Heidegger vuole retrocedere, viene assegnato ad un impersonale, ad un «neutro», in questo caso l’essere. Il difetto fondamentale non consisterebbe insomma nello spodestamento di un uomo-soggetto (sul che si deve consentire), e neppure nell’evocazione di una dimensione anonima originaria, ma piuttosto nell’assoggettamento ad un mistero privo di volto e non passibile di acquisire un volto. È per questo motivo che Levinas crede necessario andare alla ricerca di un senso differente dell’umanesimo, che non tenti di riparare la sconfitta dell’uomo ma piuttosto proprio da essa prenda le mosse:
A questo punto, è lecito domandarsi: l’umanesimo non potrebbe trovare un senso (un senso «alla rovescia», è vero, ma il solo autentico qui) alla libertà medesima, partendo proprio da quella passività dell’uomo in cui sembra che appaia la sua inconsistenza? Non è possibile ritrovare tale senso, senza essere rigettati per questo verso l’«essere dell’ente», verso il sistema, verso la materia? (p. 102).
Assumere come punto d’inizio la passività dell’uomo significa liberarlo dalla eterna fichtiana costrizione di essere creatore di sé stesso (p. 103), individuare un senso della soggettività che venga prima della libertà e della non libertà (p. 104), che risulta da un dovere che mi viene attribuito nei confronti degli altri prim’ancora che io possa prenderne coscienza (p. 104). Il titolo dell’operetta di Levinas è forse ancor più efficace delle sue argomentazioni nel descrivere il senso della sua proposta: di fronte al fallimento dell’umanesimo dell’uomo e all’ancora più grave ambiguità dell’antiumanesimo, l’unica via di uscita è un umanesimo dell’altro uomo, in cui cioè il punto di riferimento centrale non sia più né l’uomo con la sua libertà, né l’essere con il suo appello, ma piuttosto il prossimo, con la responsabilità che egli addossa prima d’ogni rappresentazione, valutazione, scelta, prima insomma d’ogni scelta morale, quando anzi il problema dell’«etica» ancora non si è affacciato come uno fra i tanti.
Sarebbe facile suggerire che con la sua controproposta Levinas in fondo recepisce lo schema formale dell’argomentazione di Heidegger, mutandone però il contenuto: è certo che l’uomo non viene «abbastanza» pensato quando è concepito a partire dalla soggettività, per altro dimostratasi fallimentare nel banco di prova della storia; a questo pensiero autocentrato va sostituita la prospettiva di un appello esterno, che compare prim’ancora che abbia senso e sia possibile una considerazione «ontica» dell’uomo: ma ora non è più — appunto — l’essere, ma l’altro, quello che altrove Levinas identifica con l’idea dell’infinito, l’idea che trae la sua forza tutta quanta dalla possibilità e necessità di rendere contenuto della mente ciò che mai in realtà può diventarlo, in un movimento in cui il pensiero pensa più di quanto possa pensare.8
Mutare i contenuti significa ovviamente mutare radicalmente la proposta, e sarebbe d’altra parte un esercizio qui superfluo attardarsi a mettere in luce il debito di Levinas nei confronti di Heidegger. Ciò che però qui c’interessa notare è che della posizione di Heidegger l’aspetto più discutibile viene accolto con una disinvoltura che pare eccessiva. L’uomo, abbiamo già visto, non può essere pensato a partire dalla sua animalitas. Levinas in poche righe spiega che «opporre all’universalità della ragione che non è un ente i tesori di affettività sepolti nel corpo e nel cuore dell’uomo, è ancora appigliarsi all’idea del riposo che suggerisce come supporto la sostanza» (p. 100). Ma è lecito chiedersi perché mai l’idea di sostanza debba di per sé, indipendentemente da ogni contenuto, essere fuggita con sospetto, e ancor più radicalmente se sia davvero opportuno intenderla come un supporto anonimo (alla maniera di Locke) piuttosto che, aristotelicamente, come il coagularsi delle possibilità e attualità che costituiscono il singolo irripetibile vivente. Commentando questa diffidenza nei confronti dell’animalità che provocherebbe «la ricaduta e la dissoluzione dell’ente, strappato all’anonimato dell’essere, nella Natura» (p. 100), Levinas riconosce alla critica all’umanesimo il merito di aver posto in luce «l’“impossibilità” di parlare dell’uomo in quanto individuo di un genere» (p. 147, nt. 7). Ma ci si può chiedere se il concetto di «genere» non venga usato in maniera anfibologica, traendolo cioè dal piano esistenziale in cui si costituisce solo ed esclusivamente nel legame delle «generazioni» (con tutto lo spessore di sentimento, emozione e partecipazione che ciò comporta) per poi intenderlo nel senso di un vuoto universale concettuale, all’interno del quale ovviamente l’individualità umana risulta scolorata e dissolta.
In altre parole e concludendo: se l’umanesimo di Levinas (con le cui intenzioni per altro è possibile simpatizzare fino in fondo) è costretto a ricorrere ad un fondamento obliquo nell’altro uomo, ciò sembra accadere perché l’elemento di soluzione pure preso in considerazione viene poi troppo rapidamente scartato: vale a dire, ripetiamo, «i tesori di affettività sepolti nel corpo e nel cuore dell’uomo», che certamente individuano pure una «passività», ma di un genere diverso da quello della soggezione di una responsabilità e piuttosto allineata con la percezione partecipe e impegnata della realtà. È questa una realtà che prende le mosse dalla propria esistenza carnale in tutta la sua fragilità, in una parola dalla propria natura animale, quella che solo (torniamo ancora una volta alla preziosa definizione testimoniata da Kant) paradossalmente permette che nell’esistenza umana ci sia qualcosa come l’umanità.9
Malgrado tutte le incertezze teoretiche che comporta, ci sembra che essa debba rimanere tema di riflessione. Heidegger attribuisce al mondo romano la prima formulazione dell’humanitas, ma sbaglia quando la presenta come il semplice corrispettivo della paidéia ellenistica: l’humanitas latina traduceva anche la philanthropía greca. L’educazione intellettuale, con la conseguente capacità di percepire e vivere i propri limiti, non può in tale parola disgiungersi dalla possibilità originaria di provare affetto per l’altra persona. L’ideale dell’uomo umano si sottrae così al piano culturale (e forse élitario) per diventare un progetto globale di esistenza, in cui l’«originario» non è soltanto situato in una lontananza metafisica (forse oggi sentita ancora più lontana), ma anche in ciò che c’è di più vicino, ciò che è scritto già nella propria carne. È questo originario che, forse anche solo in un atto di poesia, ci fa sperare che anche in Dio, nel momento della perfezione escatologica, la commozione vinca la sua perfezione.10
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La definizione riportata incidentalmente nella Critica del giudizio non è facilmente assimilabile: «Umanità (Humanität) significa da una parte l’universale sentimento di partecipazione (Teilnehmungsgefühl), dall’altra la facoltà di poter comunicare sé stesso intimamente e universalmente, le quali proprietà connesse assieme costituiscono la felicità (Glückseligkeit) appropriata all’umanità (Menschheit), per la quale essa si distingue dalla limitatezza delle bestie» (par. 60, A 258 / B 262: ma la prima edizione reca «socievolezza» [Geselligkeit] anziché «felicità»). La particolare declinazione che viene data all’aspetto propriamente virtuoso dell’umanità, qui inteso come capacità di comunicarsi agli altri, sembra al servizio dell’immediato contesto: Kant sta infatti discutendo i motivi dell’assenza di una «metodologia del gusto» e della sua sostituzione tramite l’educazione delle facoltà dell’animo, in particolare nel loro versante morale. In questa prospettiva è naturale che proprio l’«arte della reciproca comunicazione» venga messa in risalto come premessa per il gusto, «senso universale dell’uomo» (allgemeiner Menschensinn). Se la particolare curvatura del discorso di Kant lo porta un po’ lontano dalla linea argomentativa che stiamo seguendo, è però interessante notare che l’intera discussione viene introdotta allo scopo di offrire una probabile (vermutlich) spiegazione dell’uso del vocabolo humaniora per indicare la formazione preliminare dell’animo effettuata in un curriculum di studi. Questo incrocio dei significati culturale e morale della humanitas è in effetti caratterististico della latinità e costituisce un punto cruciale sul quale brevemente torneremo in conlusione. ↩︎
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È evidente che il contesto rende molto più difficile il tema della compassione rispetto a quello della simpatia o congratulazione. Pure nei confronti di quest’ultima va tuttavia osservato che Tommaso ne restringe drasticamente l’ambito, notando come la necessità dell’amicizia osservata da Aristotele non va in realtà estesa al contesto della beatitudine perfetta. Anche un unico beato non sarebbe meno tale per il fatto che tutto il resto dell’umanità è dannata («Se parliamo della perfetta beatitudine che ci sarà in patria, non è necessariamente richiesta la compagnia di amici per la beatitudine, perché l’uomo ha tutt’intera la pienezza della sua perfezione in Dio […] Se ci fosse una sola anima a godere di Dio, sarebbe beata pur non avendo un prossimo da amare», II.1, q4a8c, ad3). Ricordiamo che la maggior parte delle osservazioni che citiamo sono tratte dal Supplementum, e non sono quindi rigorosamente di mano di Tommaso, pur rispecchiandone il pensiero. Passi paralleli sono comunque reperibili nel Commento alle Sentenze. ↩︎
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Le più chiare riflessioni in proposito le troviamo nel neostoicismo di Seneca, ma il loro andamento le rende del tutto coerenti con i princìpi dell’antico stoicismo: «Si perdona a colui che doveva essere punito; ma il saggio non fa nulla di ciò che non deve fare e non tralascia mai nulla di ciò che deve fare; perciò, non condona la pena che deve infliggere» (De clementia, II, 5.1). Che poi questa affermazione venga immediatamente seguita da una precisazione in favore della clemenza, concettualmente un po’ bizzarra, introduce un elemento di riflessione parallelo a quello che stiamo considerando nella Summa: «Ma quel risultato che tu vuoi ottenere con il perdono, te lo procurerà per una via più conforme al bene: il saggio, infatti, risparmierà il colpevole, si prenderà cura di lui, lo correggerà; farà le stesse cose che farebbe se perdonasse, ma non perdonerà, poiché chi perdona riconosce di aver trascurato qualcosa che si doveva fare» (II, 5.2). Il contesto politico in cui sono inserite queste osservazioni e l’intero trattatello di Seneca renderebbe del resto necessario un ordine di considerazioni del tutto diverso, altrettanto fecondo. ↩︎
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Tra questo senso di umanità, che potremmo definire «affettivo», e quello che invece ne raccoglie l’afflato universale (un senso questo ben presente anche in Kant, dal quale abbiamo preso le mosse) non esiste contraddizione. Il punto fondamentale ci sembra che consista nel notare che l’umanità universale è costituibile effettivamente e storicamente solo nella catena delle generazioni, la cui realtà implica proprio quel complesso di compassione e simpatia che definisce l’umanità come virtù. Lo intuiva già Aristotele quando individuava nell’affetto coniugale e in quello parentale (Etica Nicomachea, VIII.12, rispettivamente 1162 a17-22 e 1161 b16-24) le due forme originarie di quell’eros che nell’uomo virtuoso si rifrangono poi nell’amicizia intesa come realizzazione di una comunità in cui la giustizia non è più necessaria: «Se si è amici non c’è nessun bisogno di giustizia, mentre quelli che sono giusti hanno in più bisogno di amicizia e il massimo delle cose giuste sembra essere la capacità di essere amici (to philikón)» (VIII.1, 1155 a26-28). Ma anche più esplicitamente pure l’austero stoicismo avanzava considerazioni simili, considerando l’amore per l’umanità la prosecuzione universalizzante dell’istinto di appropriazione (oikéiosis) parentale: «Credono che sia importante comprendere che avviene per natura che i figli siano amati dai genitori; da questo inizio cerchiamo l’inizio della comune società del genere umano. […] Anche negli animali si può osservare la forza della natura: quando osserviamo la sofferenza nel procreare e nell’allevare i piccoli, ci sembra di udire la voce della natura stessa. Dunque, come è evidente che noi per natura fuggiamo il dolore, così appare che siamo spinti dalla natura stessa ad amare quelli che abbiamo generato. Da ciò nasce che anche la comune preoccupazione degli uomini per gli uomini sia naturale, cosicché è necessario che un uomo non sembri estraneo ad un altro uomo per il fatto stesso che è uomo (ob id ipsum, quod homo sit)» (Cicerone, De finibus, III, 62-63, in SVF III.340). ↩︎
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Jean-Paul Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946; trad. it. di Giancarla Mursia Re, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Torino s.d.; Martin Heidegger, Brief über den Humanismus (1946), in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a.M. 2ª ed. 1978, pp. 311-360; trad. it. di Franco Volpi, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 267-315; Emmanuel Levinas, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972; trad. it. di Alberto Moscato, Umanesimo dell’altro uomo, il melangolo, Genova 1985. Citeremo queste tre opere sempre con il numero di pagina dell’edizione italiana. ↩︎
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Apparentemente ne L’essere e il nulla (pt. 3, cap. 3) un ruolo molto più rilevante è giocato dall’amore, di cui non si fa cenno in queste pagine. In realtà è facile costatare come anche quest’ultimo sia lì visto molto di più nella prospettiva del limite e dello scacco che in quella di una impossibile fusione. Resta sempre il sospetto che anche nei sentimenti più solari si nasconda sempre non il pericolo, ma la dissimulazione di un conflitto che prima o poi, fatalmente e dialetticamente, esplode. ↩︎
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Heidegger esprime la sua distanza da Sartre respingendo la formula di questi secondo cui (nell’uomo) l’esistenza precede l’essenza, giudicandola una tesi metafisica, seppure nel senso del rovesciamento della tesi filosofica consueta da Platone in poi (p. 281). In questo senso, è come se Heidegger rifiutasse un confronto basato su una coppia concettuale che egli giudica prodotta proprio dal destino di oblio dell’essere. Tale rifiuto è ovviamente lecito, ma forse oscura un po’ il fatto che nelle sue argomentazioni Heidegger riproduce proprio quella mentalità «teologica» che Sartre voleva anzitutto colpire con il suo capovolgimento. Un uomo interpellato anzitutto dall’essere, non produttore ma ascoltatore della parola, è isomorfo ad un uomo interpellato anzitutto da Dio. Certamente Heidegger distingue i piani, affermando che l’apparizione di Dio o degli dèi è condizionata da quella del «sacro» e questa a sua volta dall’esperienza della verità dell’essere, ma ciò non toglie che l’interpretazione del suo pensiero come «ateo» viene respinta con fastidio (pp. 302-303), e soprattutto che, una volta che i termini fossero re-interpretati (forse un po’ arditamente), nel discorso di Heidegger l’essenza (il reclamo dell’uomo da parte dell’essere) precede (è più originaria di) l’esistenza (la determinazione ontica dell’uomo). La proposta di Heidegger potrebbe insomma essere definita come ultra-teologica, lasciando ovviamente indeciso se questo «ultra» sia lecito e possibile. ↩︎
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Tale prospettiva è spesso evocata nel pensiero di Levinas, ma nel modo forse più lineare si può ricavare dall’articolo che costituisce il nucleo programmatico di Totalità e Infinito: «L’idea dell’infinito è […] la sola che permette di conoscere quel che si ignora. Essa è stata messa in noi. Non è una reminescenza, ma l’esperienza nell’unico senso radicale del termine: una relazione con quel che è esteriore, con l’Altro, in modo che questa esteriorità non possa essere integrata nell’Identico. Il pensatore che ha l’idea dell’infinito è più di sé stesso, e questa dilatazione, questo eccesso non ha origine all’interno dell’io, come nel famoso progetto dei filosofi moderni, nel quale l’io, creando, supera sé stesso» («La philosophie et l’idée de l’infini», Revue de métaphisique et de morale, anno 62 (1957), pp. 241-253; trad. italiana di Fabio Ciaramelli, in Emmanuel Levinas e Adriaan Peperzak, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 1989, pp. 31-46, cit. a p. 39). Poco oltre ancora più drasticamente Levinas sostiene che «l’idea dell’infinito è il rapporto sociale». ↩︎
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Tra i pericoli di un’emarginazione troppo rapida dell’animalità nella considerazione filosofica dell’uomo va anche annoverata la facilità di strategie radicali di contestazione. Un caso emblematico e recente è quello di Peter Sloterdijk, che ha inteso rispondere alla Lettera sull’umanismo di Heidegger con una conferenza sulle Regole per il parco umano (Regeln für den Menschenpark, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999), in cui, riecheggiando intenzionalmente alcune espressioni di Platone e Nietzsche, il problema della convivenza sociale e del presunto tramonto della filosofia nella sua funzione «addomesticante» viene riformulato come un problema «zoologico». Anche dopo che tali riflessioni vengano alleggerite della tara del linguaggio provocatorio, rimane il fatto che esse possono avere gioco facile solo dopo che, magari con la buona intenzione di una nobilitazione, la natura umana viene così allontanata dal resto del cosmo da misconoscere una «animalità» che si rivela proprio nella capacità di simpatia e di compassione. L’origine dell’imbarazzo nel vedere radicata questa in un sottofondo biologico comune dovrebbe essere oggetto di analisi storica; certo è che esso difficilmente può essere addebitato alla tradizione ebraico-cristiana, nella quale per esempio le ultime parole di Gesù su Gerusalemme paragonano il gesto divino della raccolta escatologica al gesto «materno» di una chioccia verso i suoi pulcini (Ev. Matth., 23, 37-39). ↩︎
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«Disse R. Jochanan in nome di R. Josè: Da dove risulta che il Santo, Egli sia benedetto, prega? Da quanto fu detto: “Io li porterò verso il mio Monte Santo e li renderò gioiosi nella Casa della mia preghiera” (Is., 56, 7); non fu detto “loro preghiera”, ma “mia preghiera”, da qui si rileva che il Santo, Egli sia benedetto, prega. Come prega? Disse Rab Zutrà, figlio di Tobia, in nome di Rab: “Possa essere la volontà mia che la mia misericordia vinca la mia ira, e la mia misericordia si sovrapponga ai miei attributi e che io usi con i miei figli l’attributo della misericordia, e che io mi trattenga di fronte a loro dall’usare la misura della legge”» (TB Berakhot, 7a; traduzione italiana di Eugenio Zolli, Talmùd babilonese. Il Trattato delle Benedizioni, a cura di Sofia Cavalletti, Utet, Torino 1982; TEA, Milano 1992, p. 100). Così, con un affascinante controsenso, la tradizione ebraica. ↩︎