Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche, Mimesis, Milano-Udine 2010.
Su Friedrich Nietzsche — sulla sua vita, sulla sua opera e sul significato di quest’ultima per tutta la riflessione filosofica contemporanea — è stato scritto davvero molto: a partire dai primi (ormai classici e più famosi) lavori di Heidegger, Jaspers, Löwith, Fink, Schlechta, etc., passando per l’imprescindibile biografia in tre volumi di Curt Paul Janz, e finendo con le innumerevoli ricerche (di carattere sempre più filologico e specialistico) che, a partire dagli anni ’60, hanno dato vita alla cosiddetta Nietzsche-Renaissance, sembra quasi che sia ormai stato detto tutto riguardo all’opera del filosofo tedesco. In realtà, basterà consultare velocemente i continui aggiornamenti bibliografici per comprendere che, nella densa e varia opera nietzschiana, c’è ancora molto da scoprire — molto ancora «da scavare».
Proprio questo intento di ricerca filologico-ermeneutica è alla base del lavoro di Francesco Barba sul significato della figura paolina in Nietzsche, dal titolo Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche. Tale titolo fa esplicito riferimento all’aforisma 85 de Il viandante e la sua ombra (l’ultimo libro di Umano, troppo umano), nel quale Nietzsche chiama Paolo appunto «der Verfolger Gottes». Ora, se non si fosse a conoscenza di questo preciso riferimento testuale, non sarebbe in realtà così difficile per un lettore poco attento pensare che tale «persecutore di Dio» sia Nietzsche in persona; al che, superato questo piccolo malinteso, un siffatto lettore potrebbe domandarsi con stupore: com’è possibile che l’ateo Nietzsche, autore de L’Anticristo e de Il crepuscolo degli idoli, consideri come persecutore di Dio proprio San Paolo, il quale dopo essersi convertito al cristianesimo divenne un suo strenuo predicatore, a tal punto da poter essere considerato oggi forse il suo reale fondatore? A questa domanda — e a molte altre — risponde esaurientemente il testo di Barba, il quale non si accontenta di esplicitare soltanto l’interpretazione nietzschiana di Paolo ma anche «la via opposta», quella cioè che va da Paolo a Nietzsche, mostrando come una tale tematizzazione «possa indurre a interessanti riletture del pensiero nietzschiano, a ulteriori problematizzazioni dei suoi riposti, così come aiutare a smuovere le sedimentazioni con cui comunemente percepiamo la critica nietzschiana al Cristianesimo».
Il merito e il valore di questo testo è quello di aver affrontato questo tema estremamente circoscritto — il nome Paulus ricorre infatti nell’opera nietzschiana solo 98 volte, stando alla Digitale Kritische Gesamtausgabe — con un quadruplice approccio: storico, biografico, bibliografico e, soprattutto, ermeneutico. Sulla scia dei due unici precedenti lavori sul tema — l’articolo di Salaquarda del 1974 dal titolo Dioniso contro il Crocifisso. La comprensione nietzschiana dell’apostolo Paolo e l’opera più recente (2002) di Havemann, Der “Apostel der Rache”. Nietzsches Paulusdeutung — Barba intende andare oltre quegli interpreti che vedevano nella polemica nietzschiana contro Paolo soltanto «una esagerazione gratuita e del tutto isolata da un contesto più ampio» o, nelle parole di Fink, un’invettiva con «la schiuma alla bocca» (14). In realtà, Paolo è per Nietzsche, in quanto suo «inconciliabile opposto», «una necessità, non perché il filosofo riconosce se stesso nell’apostolo, ma perché vede in lui la più alta negazione degli obiettivi storico-epocali di un nuovo inizio» (17).
Nello specifico, l’opera è strutturata in capitoli dedicati ognuno ad uno preciso periodo della vita di Nietzsche, nonché al grado di comprensione (e di critica) del Cristianesimo e della figura paolina ad esso associati. Il primo capitolo si occupa del giovane Nietzsche, prima studente nella rigida scuola reale di Pforta (1858-64), poi ancora studente di teologia (ma per un anno appena) all’università di Bonn. Una delle tesi più interessanti che in questo capitolo — e in quelli successivi — viene delineata è quella secondo cui per Nietzsche non ci sarebbe stata «una rottura improvvisa e netta con la teologia», ma soltanto «un cambiato rapporto con il Cristianesimo a causa della teologia e delle sue implicazioni», sicché sin da questo punto è necessario a fini metodologici distinguere nel pensiero nietzschiano «religione, Cristianesimo e teologia» (21). L’allontanamento del giovane Nietzsche dalla religione è, infatti, dovuto a motivi di carattere filologico-teologico, più che ad un semplice rigetto dell’ambiente familiare: come messo in luce da Cataldi Madonna e come ripreso da Barba, l’assidua frequentazione dei testi classici e della religione pagana che essi veicolavano, unita all’apprendimento e utilizzo del metodo storico-critico, produsse in Nietzsche «la progressiva emancipazione dalla educazione religiosa ricevuta nel proprio ambiente familiare e l’acquisizione di un atteggiamento più distaccato, se non addirittura di radicale opposizione, nei confronti della religione rivelata», sicché, sintetizza Barba, «il consolidamento di una maggiore coscienza storico-critica andava necessariamente ad intaccare la fede giovanile con la precisione del metodo» (23). Al fine di avvalorare questa tesi, ma anche di mostrare nello specifico quale fosse il background storico-accademico-culturale nel quale si sviluppò la critica nietzschiana, il lavoro di Barba segnala minuziosamente tutti gli incontri e le letture di Nietzsche di quel periodo, in particolare la lettura de La vita di Gesù e della Storia della chiesa di Karl August von Hase, il fondamentale incontro con il professore di filologia Friedrich Wilhelm Ritschl, gli incontri con i teologi Krafft, Schlottmann, Schenkel ed Ullmann.
Il più importante fra tutti gli incontri fu però quello con David Frierich Strauss e la sua opera Vità di Gesù, a cui tutto il capitolo III è dedicato. Con tale opera, infatti, Strauss segnò un passo decisivo per la teologia, «una vera rivoluzione» (54): la vita di Gesù viene analizzata alla luce di un razionalismo di derivazione hegeliana e spiegata nei termini di una mitologia, tanto che sembra quasi che «della vita di Gesù non rimanga in piedi quasi nulla» (54). Ora, come rileva adeguatamente Barba, per Nietzsche questa interpretazione rivoluzionaria della figura di Gesù è fondamentale sotto due aspetti: da una parte, lo straussiano intendere il vangelo di Giovanni come una «consapevole creazione di una leggenda» sarà un fondamentale presupposto per l’interpretazione nietzschiana della «falsificazione paolina», della sua «trasmissione di una dottrina (falsamente) cristiana» (56); dall’altra, questa distruzione dell’unità scritturale, nonché il fatto di distorcere a tal punto la figura del Cristo, porta Nietzsche verso dubbi e ripensamenti del Cristianesimo stesso, poiché — come egli stesso ebbe a dire al suo amico Deussen — «se rinunci a Cristo, devi anche rinunciare a Dio» (58). Nietzsche in questa fase tenterà ancora una (sempre più dubbiosa) riconciliazione del suo Cristianesimo — si legga a tal proposito la fondamentale lettera del 5 novembre 1865 alla madre e alla sorella — proprio perché è convinto che «il Cristianesimo originario, non quello attuale, edulcorato, sbiadito […] non permette di essere “vissuto a metà”, così en passant, oppure perché è di moda» (58). Ma tale tentativo di riconciliazione è destinato a fallire presto, sicché Nietzsche, trovandosi di fronte al bivio tra «una fede scientifica» e una «teologia irreligiosa» (un «Cristianesimo falso, culturale»), sceglierà la prima opzione (61). In una lettera alla sorella datata 11 giugno 1865 dirà: «nel nostro indagare cerchiamo forse la tranquillità, la pace, la felicità? No, soltanto la verità, fosse anche quella più spaventosa […] A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga» (61). Proprio come «discepolo della verità» Nietzsche intraprese il suo cammino lontano dalla teologia.
Barba continua minuziosamente il suo percorso fino ad un’altra tappa fondamentale per la sua ricerca, quella della prima significativa comparsa di Paolo negli appunti nietzschiani del marzo-aprile 1865, contenuto nel più ampio capitolo IV (Gli appunti nietzschiani «Zum Leben Jesu»). In questi appunti Nietzsche analizza secondo il suo metodo storico-critico la vita di Gesù e, fatto nello specifico per noi più interessante, quella di Paolo, in particolare l’evento della sua conversione sulla via di Damasco: Nietzsche confronta le varie ricostruzioni dell’evento, mettendo in rilievo le varie incongruenze della visione mistica paolina, così che egli finisce per porre dei dubbi sulla reale attendibilità di essa. In queste appunti Nietzsche, affrontando il problema «in chiave scientifica» e mettendo in atto una «critica distanziante» (77), si comporta — e su questo crediamo di non fraintendere Barba — da vero e proprio «psicologo di Paolo», facendo sua una lettura già formulata in precedenza dalla teologia a lui contemporanea, ovvero quella del «Paulus-Saulus epilepticus» — sulla tradizione di questo motivo si veda l’intero terzo paragrafo del capitolo IV (pg. 78-85).
Il capitolo V si occupa invece delle Ulteriori problematizzazioni del metodo storico durante la svolta alla filologia — una svolta che, come mostra ancora una volta Barba, non è per Nietzsche una «rottura completa rispetto al proprio passato» e alla teologia: nonostante tale svolta, infatti, il lavoro del neo-filologo risulta essere ancora caratterizzato in gran parte da un riferimento a temi religiosi e teologici — testimonianza di ciò sono gli appunti di quel periodo. Ciò che realmente cambiò per Nietzsche fu l’approccio a tali problemi: egli decise, infatti, di abbandonare la pregiudizialità e fragilità della teologia in nome della (presunta) obiettività della scienza e del metodo storico-critico. Ma — è questa la rinnovata tesi di Barba — «la decisione di Nietzsche per la filologia potrebbe essere compresa come essa stessa una scelta teologica», o detto diversamente, «l’allontanamento dalla teologia [fu] una scelta che si compie dall’interno della teologia [stessa] » (41). Come controprova di questa intuizione viene riportata una nota autobiografica di Nietzsche stesso, il quale afferma: «della teologia presi nota soltanto nella misura in cui mi attirava il lato filologico della critica evangelica e dello studio delle fonti neotestamentarie […] . Vale a dire, in quel tempo mi illudevo ancora che la storia e il suo studio fossero in grado di fornire una risposta diretta a certi problemi religiosi e filosofici» (41).
Fondamentale in questo passaggio alla filologia e al metodo storico-critico fu la figura di Franz Overbeck. A tale passaggio cardine per il pensiero e la vita stessa di Nietzsche è dedicato l’intero VI capitolo, dal titolo Overbeck, Nietzsche e la fine del Cristianesimo. Qui Barba mette in mostra la vicinanza intellettuale del teologo Overbeck e del neo-filologo Nietzsche attraverso un calzante parallelo delle loro due Antrittsvorlesungen, rispettivamente su L’origine e la giustificazione di una considerazione puramente storica degli scritti neotestamentari e su Omero e la filologia classica. L’idea fondamentale di Overbeck è la seguente: la teologia — che nasce nel momento in cui muore il «Cristianesimo come religione» (113), proprio in quanto vuole salvarlo dal suo indebolimento — non può più esimersi dall’utilizzare il metodo storico-critico; ma adottando questo approccio la teologia stessa finisce inevitabilmente per dichiarare, da una parte, «l’inutilizzabilità della Scrittura», dall’altra, «l’impossibilità di accedere nuovamente al Cristianesimo come religione» (115). La teologia fallisce nel tentativo di «creare una interiore armonia tra la nostra fede e la nostra coscienza scientifica» (116). L’influenza per Nietzsche di questa idea particolare sarà — è quasi superfluo dirlo — enorme.
Con il VI capitolo si conclude la macro-sezione dedicata alle esperienze biografiche, teologiche e filologiche del giovane Nietzsche prima del vero e proprio confronto con Paolo. A partire dal VII capitolo (San Paolo e Nietzsche) l’autore incomincia il suo «accesso diretto e non mistificatorio ai luoghi paolini nel pensiero nietzschiano», tracciando sin da ora il «fertile paradosso ermeneutico» che si configurerà nel prosieguo dell’opera. Esso sostiene la tesi secondo la quale «Paolo attiverebbe luoghi del pensiero nietzschiano a partire dallo stesso Nietzsche in modo affatto suggestivo e significativo, in un circolo interpretativo che esige che da Nietzsche si comprenda il suo Paolo; al contempo potrebbe risultare che Paolo si configuri come il continuo riproblematizzarsi del pensiero nietzschiano, come una delle sue più intime potenzialità o interne potenziali incrinature» (139).
Il VII capitolo parte con l’analisi del suddetto aforisma di Umano, troppo umano su San Paolo come «persecutore di Dio», ovvero «come il costruttore di un sistema che si distingue in odio grazie all’invenzione, alla fine della vendetta, dell’immortalità e quindi della possibilità della dannazione eterna» (143). Senza riportare per intero l’aforisma nietzschiano, possiamo affermare che la figura di Paolo si caratterizza già in queste poche righe come «un tipo essenzialmente potente, capace cioè non solo di “creare” Dio, ma di piegarlo alle proprie esigenze» (144), ma tutto ciò sempre in nome della sua «vanità» e volontà vendicativa. Egli, infatti, costruisce «secondo Nietzsche una teologia della crudeltà a partire dal sacrificio di Dio» (144). In ciò, in questa sua capacità di «porre una nuova direzionalità alla storia» a partire da una specifica «interpretazione valoriale» (142), risiede la «grandezza» dell’apostolo — nel bene e nel male. Paolo — «che nonostante tutto è rimasto Saulo: il persecutore di Dio» — è in tutto e per tutto un Umwerter — un Umwerter che si trova però agli antipodi di Nietzsche, poiché spinto dal risentimento verso la vita, nonché da «una crudele e insaziabile vanità» (143).
Il VII capitolo analizza successivamente un altro importante (e molto più lungo) aforisma, il 68esimo di Aurora, in cui Nietzsche ritorna nello specifico ad essere «psicologo di Paolo» nella misura in cui «porta sino alle estreme conseguenze il “metodo psicologico”, declinandolo in genealogico» (154). In questa prospettiva «l’elemento patologico non solo offre a Nietzsche la possibilità di una più ampia comprensione di Paolo, ma, dalla prospettiva nietzschiana, spiega la natura stessa dell’idea religiosa che si affaccia a Paolo nella visione durante il viaggio a Damasco» (154). Paolo è, infatti, nietzschiana «malato», «patologicamente debole» come debole è il suo stesso pensiero, in quanto «non mosso da volontà di potenza e quindi segno di un malcontento e di una insofferenza verso la “terra” contro la quale» l’apostolo «desidera vendetta» (155). Questo «Pascal giudeo» — così lo definisce nell’aforisma Nietzsche — è in definitiva — per la sua opera di trasvalutazione che «solo qualche dotto conosce» — «der erste Christ», «il primo cristiano, l’inventore della cristianità! » (162). Paolo e gli apostoli sono allora — come sottolineerà Barba in conclusione del capitolo — «gli inventori di Gesù»: in particolare Paolo «non solo falsifica Gesù, ma in un certo senso lo «crea», chiamando Cristo ciò che di più forte sente in sé» (171).
L’VIII capitolo dal titolo L’Anticristo — il più lungo di tutto testo — perso insieme con il conclusivo Nietzsche come Anticristo, è quello in cui Barba utilizza più a fondo il suo metodo ermeneutico: una volta raccolti tutti i testi nietzschiani riferenti a Paolo, egli mette definitivamente in mostra il significato ermeneutico del secondo per il primo. È interessante allora constatare come Paolo — nonostante possa sembrare a prima vista soltanto uno dei tanti «nemici» nietzschiani — sia in realtà un vero e proprio (deleuziano) «personaggio concettuale», ovvero un personaggio intrinsecamente vitale per la stessa filosofia nietzschiana. Questo perché lo stesso Cristianesimo cui Nietzsche indirizza la sua Fluch millenaria è in realtà quello di Paolo, e non quello di Gesù — si veda a tal proposito il paragrafo quarto del capitolo VII dal titolo Gesù o Paolo? . Paolo — come già detto in precedenza — «tende al raggiungimento di “obiettivi personali” attraverso la croce», sicché «la croce [stessa] diviene allora un mezzo, il mezzo anzi, necessario per l’attuazione della [sua] trasvalutazione» (165): la prospettiva che così si inaugura è definitivamente capovolgente e di capitale importanza per la comprensione dell’intera polemica nietzschiana.
In definitiva, il volume di Francesco Barba, che a prima vista potrebbe sembrare di carattere «specialistico» e «particolareggiato», è in realtà un punto di riferimento molto importante per comprendere i reali presupposti filosofici e filologici della critica nietzschiana al Cristianesimo: soltanto a partire da questa complessa ed articolata visione sarà infatti possibile comprendere come le parole del «Nietzsche-Anticristo» e «persecutore del Cristianesimo», lungi dall’essere semplici bestemmie, inutili maledizioni o «sogni di un visionario», siano in realtà i necessari «colpi di martello» da cui sorgerà poi l’aurora di un nuovo pensiero epocale — la tappa obbligata che l’Occidente contemporaneo non può più in alcun modo evitare di percorrere.