Consultando un qualsiasi manuale di storia della filosofia contemporanea, molto probabilmente non troveremo mai un capitolo dedicato esclusivamente ad Albert Camus — al massimo il suo nome verrà citato in appendice ad un altro filosofo, Jean-Paul Sartre, che nei sopraddetti manuali invece ha una dimora pressoché stabile. Il perché di questa omissione risiede in un approccio a nostro avviso pregiudiziale alla sua opera, la quale viene spesso ricondotta dagli «addetti ai lavori» sotto le categorie della letteratura piuttosto che sotto quella della filosofia: la poeticità intrinseca del suo scrivere, il suo far coincidere ad ogni concetto un immagine,1 nonché il fatto che solo due delle sue opere sono veri e propri «livres d’idées» — mentre per la parte restante troviamo soltanto romanzi e opere teatrali — sono elementi decisamente estranei al rigoroso linguaggio filosofico dei contemporanei di Camus — linguaggio dominato in gran parte da un approccio analitico e da quel razionalismo di derivazione fenomenologica.
Oltre a ciò, riteniamo vi sia almeno un altro pregiudizio che impedisce una piena lettura del pensiero camusiano: quello secondo cui tale pensiero sia essenzialmente un pensiero nichilista, decadente, pessimista, nient’altro che l’ennesima espressione di quella «filosofia dell’assurdo» o di quel «esistenzialismo crepuscolare» che prima e dopo la seconda guerra mondiale imperversò in Europa — ad esempio con Heidegger, Sartre, ma anche Beckett, Cioran, etc.
Questo saggio si ripropone di dissolvere questi due pregiudizi appena detti, e quindi: 1) da una parte mostrare come l’opera di Camus possa essere letta, senza alcun difficoltà o forzatura, come una coerente e unitaria filosofia — consapevoli del fatto che molto probabilmente lo stesso Camus non avrebbe accettato tale lettura;2 2) dall’altra, mettere in risalto la luminosità e la propositività di un pensiero tutt’altro che nichilista — «al centro della mia opera, c’è un sole invincibile».3 Il nostro sarà un percorso volutamente «a tappe», proprio perché è lo stesso Camus che ha inteso in questo senso4 la sua opera. Di essa infatti dirà, in una nota dei suoi Carnets:
La mia opera avrà tante forme quante sono le tappe sulla strada di una perfezione senza ricompensa. Lo Straniero è il punto zero. Idem il Mito. La peste è un progresso, non dallo zero verso l’infinito, ma verso un complessità più profonda che deve ancora essere definita. Il punto d’arrivo (L’uomo in rivolta, n. d. A.) sarà il santo, ma avrà un valore aritmetico, misurabile come l’uomo.5
1. La mediterraneità come condizione originaria
La prima di queste tappe è la «mediterraneità». Essa è l’armonia originaria, l’equilibrio naturale tra uomo e mondo: è quella condizione solare e luminosa nella quale non cade ancora nessuna «ombra di pensiero». Una condizione pre-riflessiva, pre-concettuale, e dunque silenziosa, di quel silenzio accogliente che solo gli elementi naturali sanno offrire:
Mare, campagna, silenzio, profumi di questa terra, mi riempivo d’una vita odorosa e mordevo il frutto già dorato del mondo, turbato di sentire il suo succo dolce e forte colare lungo le mie braccia. No, non ero io che contavo, né il mondo, ma soltanto l’accordo e il silenzio che fra il mondo e me faceva nascere l’amore. Amore che non avevo la debolezza di rivendicare per me solo, cosciente e orgoglioso di esserne partecipe con tutta una razza nata dal sole e dal mare, viva e saporosa, che attinge la propria grandezza dalla semplicità e in piedi sulle spiagge rivolge il proprio sorriso complice al sorriso splendente dei cieli.6
Traspare chiaramente da queste parole quel senso di unione sensibile tra uomo e mondo nel quale appunto ad essere prevalente non è né l’io, né il mondo in sé, ma piuttosto quel silente e tacito consenso che i due elementi si scambiano senza parole. Il titolo del libro del 1939, Nozze, in cui furono raccolti per la prima volta quelli che Camus definì «saggi solari», può sicuramente aiutarci nella comprensione di tale condizione mediterranea: le «nozze», infatti, sono metafora di quella unione sinergica tra l’uomo che si abbandona al mondo e il mondo che si dà in tutta la sua naturale lucentezza e solarità; sono metafora di quella condizione in cui i due elementi si riuniscono per riconciliarsi in un unico legame che non ha nulla di artificioso né di ricercato, poiché naturale e originario. A tal proposito si legga la seguente nota dei Taccuini del maggio 1936:
Non staccarsi dal mondo. Non si fallisce nella vita quando la si pone in piena luce. Tutti i miei sforzi, in tutte le situazioni, le sventure, le delusioni, tendono a ristabilire i contatti. E anche nella tristezza, quale desiderio di amare e quale ebbrezza alla semplice vista di una collina nell’aria della sera. Contatti con il vero, anzitutto con la natura, e poi con l’arte di coloro che hanno capito, e con la mia se ne sono in grado. Se no, ho pur sempre davanti la luce, l’acqua, e l’ebbrezza, e le labbra umide del desiderio. Una disperazione sorridente. Senza via d’uscita, ma tale da tenere costantemente in esercizio un dominio di sé peraltro vano. L’essenziale: non perdersi e non perdere ciò che di se stessi dorme nel mondo.7
Quel «non staccarsi dal mondo» all’inizio della nota è un vero e proprio «imperativo morale»: bisogna aderire al mondo, al suo lato più vivo e spontaneo, non occasionalmente come se si trattasse di una temporanea tregua nell’esistenza, ma costantemente proprio per condurre un esistenza vera e autentica. La natura viene intesa quindi come elemento catartico, come possibilità di un esperienza originaria dissolvente la coscienza linguistica, che con i suoi continui rimandi e problemi non lascia spazio ad alcun tipo di silenzio:
Spesso mi è stato detto: non esiste nulla di cui essere fiero. Si, qualcosa c’è: questo sole, questo mare, il mio cuore che balza di giovinezza, il mio corpo che sa di sale e l’immenso scenario dove si incontrano l’amore e la gloria nel giallo e nell’azzurro. È per conquistare questo che devo adoperare la mia forza e le mie risorse.
Ma, attenzione, questa capacità catartica degli elementi naturali non è né mistica — «qui tutto mi lascia integro, non abbandono nulla di me stesso» — né divina — «qui gli dei servono da letto»: è in realtà una dimensione di immediata lucidità che non conosce ancora Dio, neanche come mito, semplicemente perché di esso non ve ne ha ancora la necessità. Dire quindi che tale felicità naturale è un ateismo è sicuramente un errore, poiché tale ateismo lo troveremo soltanto successivamente nella storia degli uomini, quando l’idea di Dio sarà già sorta, sarà già stata creata e soltanto allora negata. In questo fragile istante iniziale di gioia naturale che stiamo sforzandoci di descrivere, Dio non ha posto perché non ha posto il suo elemento genetico, che è il male: come mostreremo più avanti, solo successivamente all’esperienza del male — e proprio in risposta ad essa — sorgerà l’idea di Dio. Per ora, essa non esiste. E non esistono neanche problemi filosofici, morali o esistenziali. Se esistono, vengono semplicemente dimenticati: «c’è un tempo per vivere e un tempo per portare testimonianza del vivere. C’è anche un tempo per creare, che è meno naturale. Mi basta vivere con tutto il mio corpo e portare testimonianza con tutto il cuore. Vivere Tipasa,8 portare testimonianza e l’opera d’arte verrà in seguito. C’è in questo una libertà».9
Ci sono essenzialmente due elementi — uno biografico, l’altro filosofico — che hanno determinato tale visione della natura in Camus: da una parte, l’infanzia algerina, dall’altra, la sua rivendicata «grecità». Della prima Camus ha parlato molto, implicitamente nelle sue opere, esplicitamente nei suoi Taccuini e in alcune interviste:
La povertà10 intanto non è mai stata una disgrazia per me: la luce vi spandeva le sue ricchezze. Persino le mie rivolte ne sono state illuminate. Quasi sempre, credo di poterlo dire senza barare, furono rivolte per tutti e perché la vita di tutti fosse elevata nella luce. Non è certo che il mio cuore fosse disposto per natura a questa sorta di amore. Ma le circostanze mi hanno aiutato. Per correggere una indifferenza naturale, venni messo a metà strada fra la miseria e il sole. La miseria mi impedì di credere che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto. Cambiare vita, sì, ma non il mondo, di cui facevo la mia divinità.11
Dal che si deduce che l’infanzia di Camus è sostanzialmente segnata da due fattori complementari: la povertà — oltre alle gravi condizioni familiari, occorre ricordare che Camus intorno ai 17 anni si ammalò di tubercolosi, malattia che lo perseguitò per tutta la vita — e la natura, che quella povertà compensava. Grazie a questa singolare esperienza biografica si comprende il perché Camus non si sia mai abbandonato ad un ingenuo edonismo o ad un esasperato nichilismo — «la mia più costante tentazione, quella contro cui io non ho mai cessato di condurre un estenuante combattimento, è il cinismo»12 — e si comprende anche la continua ossessione di affiancare temi tanto eterogenei quanto apparentemente inconciliabili come «bellezza e povertà», «bellezza e malattia», «bellezza e lotta contra l’ingiustizia». Il saggio Ritorno a Tipasa da questo punto di vista è illuminante, perché ci parla allo stesso tempo dell’infanzia di Camus e dell’appena citato binomio «bellezza-ingiustizia»:
Cresciuto nello spettacolo della bellezza che era la mia sola ricchezza, avevo cominciato nella pienezza. Poi era venuto il filo spinato, voglio dire le tirannie, la guerra, le polizie, il tempo della rivolta. Era stato necessario mettersi in regola con la notte: la bellezza del giorno non era più che un ricordo. […] Tuttavia, in tutti quegli anni (trascorsi lontano da casa a Parigi, n. d. A.), mi mancava oscuramente qualcosa. Quando uno ha avuto una volta la fortuna di amare intensamente passa la vita a cercare di nuovo quell’ardore e quella luce. La rinuncia alla bellezza e alla felicità sensuale che ad essa è legata, il servire esclusivamente l’infelicità, richiede una grandezza che mi manca. Ma, in fin dei conti, niente di ciò che costringe a escludere è vero. La bellezza isolata finisce col far le grinze, la giustizia solitaria finisce con l’opprimere. Chi vuol servire una escludendo l’altra non serve nessuno, né se stesso e, alla fine, serve doppiamente l’ingiustizia.13
Quindi, da una parte, un infanzia passata ad amare intensamente la bellezza del giorno e della natura, dall’altra, l’esilio da quella terra materna e da quella condizione sensuale dettato dall’inizio della notte, metafora del male, sia fisico — si pensi ancora una volta alla sua precaria salute — sia morale ed esistenziale — l’esperienza della prima guerra, anche se toccò marginalmente l’Algeria, lo rese orfano del padre. Ma tale scoperta del «male nel mondo» non fu distruttiva: Camus infatti non sprofondò nella depressione o nel pessimismo, proprio perché, come abbiamo detto in precedenza, non dimenticò mai le suo origini geografiche e spirituali. Prima di definirsi europeo, egli era e si sentiva sempre algerino, perché, se in lui vivevano due anime, la più profonda delle due era sempre quella mediterranea. Certo, in Europa conobbe il male degli uomini, lo sfruttamento, il totalitarismo, la necessità della lotta, ma non per questo rinnegò l’insegnamento della sua terra d’origine:
Non ho potuto rinnegare la luce in cui sono nato e tuttavia non ho voluto rifiutare le servitù di questo tempo. Sarebbe troppo facile contrapporre al dolce nome di Tipasa altri nomi più sonori e più crudeli: per gli uomini d’oggi c’è una strada interiore che io conosco bene per averla percorsa nei due sensi, e va dalle colline dello spirito alle capitali del delitto. […] Visto che poche epoche richiedono come la nostra che si faccia eguali al meglio come al peggio, mi piacerebbe appunto non eludere nulla e conservare intatta una doppia memoria. Si, c’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Per quanto difficile che sia l’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri.14
Bellezza e umiliazione, sole e miseria, mare e povertà: c’è sostanzialmente un binomio di questo tipo dietro la mediterraneità camusiana e, in ultima analisi, dietro l’intera opera. Ma basta solo questo rimando all’infanzia per spiegare tale concezione? Evidentemente no. Come prima preannunciato, ci concentreremo ora sull’altro elemento che influì su tale visione della natura: la grecità. La Grecia, infatti, è per Camus più di un luogo geografico: essa è un ideale filosofico, un modo di vivere, di pensare, di orientarsi nel mondo. Rappresenta quell’ideale originario e originale da cui nacque l’Europa, la quale ben presto da esso si allontanò, voltandogli le spalle, come una giovane figlia che misconosce la sua stessa madre perché forte della propria presunta autonomia. Eppure, proprio perché da essa ci siamo allontanati con tanto disprezzo e con tanta conseguente violenza, non possiamo che rivolgerci di nuovo ad essa, «la Grecia alla quale bisogna sempre ritornare».15
In sostanza sono tre i punti di divergenza tra spirito europeo — incarnato massimamente dalle filosofie tedesche — e spirito greco. Il primo risiede nel differente valore attribuito alla bellezza:
Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa han preso le armi. È la prima differenza, ma risale molto addietro. Il pensiero greco si è sempre trincerato nell’idea di limite. Non ha spinto nulla all’estremo, né il sacro, né la ragione. Ha tenuto conto di tutto, equilibrando l’ombra con la luce. Invece la nostra Europa, lanciata alla conquista della totalità, è figlia della dismisura. Essa nega la bellezza come nega tutto quello che non esalta. E, per quanto in modo diverso, esalta una sola cosa: l’impero futuro della ragione.16
La bellezza universale viene rinnegata, «esiliata» da quella Europa che rincorre superba l’ideale della ragion pura e nient’altro che quello. Ma l’errore, per Camus, non è nella ragione in sé, come se essa fosse un male a priori. Tutt’altro. L’errore consiste piuttosto in quel esasperato razionalismo che si crede capace di tutto, che si crede senza limite, illimitato, ignaro dell’insegnamento della «vecchia Nemesi, dea della misura, non della vendetta. Chi supera il limite, ne è castigato senza pietà».17
Di qui si arriva al secondo punto di divergenza: la questione del limite, della misura. Se i Greci, come si legge nella precedente citazione, vissero nel limite senza spingere mai nulla all’estremo, tenendo conto di tutto, luce e ombra, giorno e notte, l’Europa, bramosa di totalità, volendo fare del mondo un unico eterno giorno, è finita per sprofondare in un unica eterna notte. La misura sta proprio in questo: nel considerare tutto e sempre, e di conseguenza nel non escludere mai un aspetto dell’esistenza (ad esempio, la natura) a discapito di un altro (ad esempio, la ragione), perché, riprendendo le parole di una precedente citazione, «niente di ciò che costringe ad escludere è vero». Ma l’Europa è, da questo punto di vista, il simbolo dell’oblio, e per questo «oggi è indecente proclamare che siamo figli della Grecia».18
Infine, il terzo e ultimo punto di divergenza tra il «nostro» pensiero e quello greco consiste nella così definibile «divinizzazione della storia». Se, come abbiamo detto, l’Europa ha dimenticato la bellezza per ipertrofizzarsi di ragione, è perché in ultima analisi ha deificato «la Storia» obliando ciò che veniva prima di essa: la natura, l’elemento originale. Dirà Camus a riguardo, in una sua pagina di taccuino:
Tutto lo sforzo del pensiero tedesco è consistito nel sostituire al concetto di natura umana quello di situazione umana, e di conseguenza la storia a Dio e la tragedia moderna all’antico equilibrio. L’esistenzialismo moderno spinge questo sforzo ancora più in la e introduce nell’idea di situazione la stessa incertezza che in quella di natura. Non resta più altro che movimento. Ma io, come i greci, credo nella natura.19
Quando Camus parla di «pensiero tedesco» si riferisce, oltre che all’appena citato esistenzialismo (Heidegger), anche e soprattutto al materialismo marxista e all’idealismo hegeliano: se il primo è colpevole di aver abiurato lo spirito e il secondo di essersene ubriacato, entrambi si ritrovano accomunati in quello smisurato ottimismo nel procedere razionale della storia. Camus non crede nella storia, o almeno non vi crede nella misura in cui essa viene divinizzata, disumanizzata, resa un entità a sé capace di agire secondo fini all’uomo sconosciuti, secondo una imprevedibile «astuzia della ragione». Egli crede piuttosto che dietro e alla base dei singoli eventi storici, più che la ragione e gli ideali, ci siano e non possano non esserci che gli uomini — con i loro bisogni materiali e spirituali. Ma se in prima battuta la dimenticanza di tale evidenza sembra essere una semplice ingenuità filosofica, in realtà essa è qualcosa di più di una semplice distrazione del pensiero, perché presto tale meditazione, dapprima solo astratta, ricadrà violentemente sulla terra con la sua furia totalizzante e omicida: «la virtù», infatti, «non può separarsi dal reale senza diventare principio di male».20
Per tutti questi motivi Camus rivendicherà sempre la solarità e l’onestà del pensiero greco contro la cupezza e l’estremismo dello spirito europeo — che «non filosofeggia più a colpi di martello, ma di cannone». L’insegnamento ellenico sarà allora essenzialmente duplice: da una parte il ritorno alla natura, che «è sempre lì» e che «alla follia degli uomini contrappone i cieli calmi e le proprie ragioni»; dall’altra la riconsiderazione del limite e della misura — «ammettere l’ignoranza, rifiutare il fanatismo, por limiti al mondo e all’uomo, il viso amato, la bellezza insomma, è questo il terreno su cui ci ricongiungeremo ai Greci».21
2. Perdere il mondo: l’estraneità
Tale condizione mediterranea, per come l’abbiamo descritta, è però una situazione fragile, destinata presto a infrangersi e a mutare in altro. Se, come abbiamo già detto, in questa fase di armonia naturale l’uomo quasi non si distingue dal mondo in cui abita, se egli appunto in questa spontanea concordanza non si distacca da esso, ci sono però delle «situazioni limite» — per dirla alla Jaspers — che mutano il rapporto tra gli elementi e minano la persistenza dell’uomo in tale stato. La natura, infatti, per come l’abbiamo descritta finora, ha sempre mostrato un volto solare, accogliente e pacifico, ma in realtà — non c’è certo bisogno di dimostrarlo — essa non è solo questo, anzi, si può facilmente sostenere che essa si riveli così ospitale soltanto in minima parte e soltanto in determinati luoghi, ad esempio nell’Algeria di Camus.
Le situazioni limite di cui parlavamo sono quelle in cui l’individuo sperimenta sulla sua pelle il male derivante dalla rottura dell’equilibrio che intercorreva tra sé e il mondo: lì dove regnava l’imperturbabilità di quell’animo abituato a vivere in un ambiente familiare, lì dove ci si sentiva ancora «una docile fibra dell’universo22», sopraggiunge d’improvviso e senza nessuna ragione un evento sconvolgente, capovolgente — sia che si tratti di un fatto naturale, sia che si tratti di un gesto umano. Alla prima categoria di eventi «estranianti» appartiene, ad esempio, quel vento descritto nel saggio Il vento a Djemila:
Ci sono luoghi dove muore lo spirito perché nasca una verità che ne è l’esatta negazione. Quando sono andato a Djemila, c’era vento e sole, ma questa è un’altra storia. Prima bisogna dire che vi regnava un gran silenzio pesante e senza incrinatura — qualcosa come l’equilibrio della bilancia. I gridi degli uccelli, il suono felpato del flauto a tre buchi, uno scalpiccio di capre, suoni venuti dal cielo, tanti rumori di cui erano fatti il silenzio e la desolazione di quei luoghi. […] E ci si trova là, raccolti, messi di fronte alle pietre e al silenzio, man mano che il giorno avanza e le montagne s’ingrandiscono diventando viola. Ma il vento soffia sul pianoro di Djemila. Nella gran confusione del vento e del sole che mescola alle rovine la luce, si forgia qualcosa che dà all’uomo la misura della sua identità con la solitudine e col silenzio della città morta.23
Abbiamo messo in corsivo la parola «silenzio» proprio per sottolineare la sua ossessiva e ripetitiva presenza in questo passo: in meno di una pagina ben quattro volte. Evidentemente non è solo una casualità. Silenziosa, infatti, era la stessa condizione mediterranea che prima abbiamo descritto. Silenziosa perché antecedente l’origine del pensiero e, se non proprio della coscienza, almeno del suo monologo interiore. In tale condizione regnava un mutismo particolare, dettato da una sostanziale imperturbabilità dell’esistenza individuale — esistenza non ancora sconvolta da alcun tipo di accadimento. «Ma il vento soffia su Djemila», ed ecco l’imperturbabilità infrangersi:
Mi sentivo sbattere dal vento come gli alberi d’una nave. Svuotato dall’interno, con gli occhi brucianti, le labbra screpolate, la pelle mi si disseccava fino a non essere più mia. Prima, con la pelle, decifravo la scrittura del mondo. Il mondo vi tracciava i segni della sua tenerezza o della sua collera, riscaldandola con il soffio estivo o mordendola con denti di brina. Ma per tanto tempo strofinato dal vento, scosso per più di un’ora, stordito dalla resistenza, perdevo coscienza del disegno che il mio corpo tracciava. Come i ciottoli dalle maree, io ero levigato dal vento, consumato fino all’anima.24
La terra, fino allora grande ed accogliente madre, perde ora tutta la sua familiarità: il disegno del mondo, fino ad allora dispiegato chiaramente di fronte agli occhi, perde il suo ordine, svanisce, come se quel vento l’avesse soffiato via. Si afferma allora nell’individuo il sentimento della più profonda passività, quello sperimentato nei momenti in cui il mondo con i suoi fatti supera la nostra cifra: l’estraneità. Quella «sottile pellicola di sole» che rivestiva «ogni cosa di un eterno sorriso»25 si è spezzata, rivelando la sua intrinseca fragilità. Quel silenzio dominante, che assicurava la quieta e felice permanenza tra gli oggetti del mondo, ora si è infranto, lasciando il posto ad un assordante incoerenza e inconciliabilità tra l’animo umano e il mondo: ci si distacca dal mondo — e con quale sensazione di disorientamento!
In questo caso il sentimento dell’estraneità è stato provocato da un accadimento naturale quale il vento, ma in un altro caso, come abbiamo accennato prima, potrebbe essere invece un gesto umano, dell’individuo o altrui. È il caso de Lo straniero. Il protagonista di questo romanzo, Meursault, vive in un sostanziale silenzio per tutta la prima metà del libro: è un impiegato che conduce un esistenza tanto solare quanto anonima, tanto sensuale quanto muta — così muta che neanche la morte della madre interromperà tale silenzio, lì dove ci si aspetterebbe il fragore di un pianto. Egli è capace di passare in tale silenzio un intera domenica affacciato al balcone,26 senza porsi alcun problema su come impiegare il suo tempo. Soltanto quando, con il sole ormai calato, il freddo si farà sentire egli rientrerà in casa, con in testa il disarmante pensiero che «era sempre un’altra domenica passata, che adesso la mamma era seppellita, che avre (bbe) ripreso il lavoro; e (che) tutto sommato non era cambiato nulla».27
Nulla è cambiato, come dire che ogni cosa gli è indifferente. Ogni istante non si distingue da quello precedente: la veglia alla camera mortuaria, il funerale, l’incontro con Maria, il ritorno al lavoro, etc. Tutto scorre quietamente nello stesso silenzio, ma non per questo si può dire che egli sia triste, o felice. Per descrivere l’agire quotidiano di un personaggio simile si possono usare soltanto espressioni neutre del tipo: «egli vive», «egli mangia», «egli fuma» e così via. La felicità, la tristezza, come il matrimonio, il dolore, l’amore, sono concetti non suoi: essi appartengono piuttosto a quella morale comune che lo circonda e che egli ignorerà fino a quando gli sarà possibile. Si leggano queste parole — apparentemente insignificanti, cariche di una certa «ingenua lucidità» — per comprendere fino a che punto si spinga l’indifferenza di Meursault:
La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha domandato se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente («cela m’était égal»), e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla. «Perché sposarmi allora?» mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle di sì. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto: «No». È rimasta zitta un momento e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato: voleva soltanto sapere se avrei accettato la stessa proposta se mi fosse venuta da un’altra donna cui fossi legato allo stesso modo. Io ho detto: «Naturalmente». Allora si è domandata se lei mi amava, e io, su questo punto, non potevo saperne nulla. Dopo un altro istante di silenzio, ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione. Siccome io tacevo, non avendo niente da dirle, mi ha preso il braccio sorridendo e ha detto che voleva sposarmi. Io ho risposto che l’avremmo fatto appena lei avesse voluto.28
In questo passaggio ritroviamo due fondamentali tratti caratteriali di Meursault — elementi che in ultima analisi caratterizzano in generale qualsiasi esistenza «straniera»: il primo è l’ignoranza e il rifiuto di qualsiasi forma di valore o di ideale; il secondo, la sua scoraggiante passività. Il primo è un tratto che permea tutto libro29: in ciò Meursault è un personaggio nietzschiano — in quanto appunto non crede in alcun valore «metafisico» né di «retro-mondo» — ma di un nietzschianesimo immediato e irriflesso. Se egli non crede, non è né per volontà ragionata né per convinzione filosofica, ma per sua disposizione naturale: egli conosce soltanto ciò che «sente», e soltanto a questo si attiene nel suo vivere. «Il ne joue pas le jeu»30: Meursault non sta al gioco. Non sta al gioco perché si rifiuta di mentire — «il refuse de mentir».
Di qui arriviamo al secondo aspetto prima annunciato: la scoraggiante e inalterabile passività di Meursault. Egli è, per sua natura, un personaggio privo di iniziativa: se con il termine «agire» si intende essere attivi, propositivi, allora si può e si deve dire che Meursault non agisce, in alcun modo. Egli è infatti capace soltanto di rispondere a stimoli e richieste esterne, ma mai di iniziare un’azione a partire da una sua volontà precisa. Egli «si limita a rispondere alle domande»31 come un meccanismo ad ingranaggi risponderebbe agli stimoli ad esso esterni. Lasciato a sé, egli rimane in quiete: viene smosso soltanto talvolta da bisogni istintuali come il mangiare e il bere, o il fumare.
Meursault è dunque il simbolo della passività e dell’indifferenza32: è, sin da subito, lo straniero per eccellenza. Ma per tutta la prima parte del libro non ne è consapevole. A condurlo sulla soglia della sua personale presa di coscienza è uno di quegli eventi estranianti di cui parlavamo prima. Invitato da Raimondo a passare una domenica al mare, Meursault si ritrova nel mezzo di un regolamento di conti tra il suo compagno e degli arabi. Lo scontro finirà con il ferimento di Raimondo. Successivamente, dopo un altro scontro — stavolta però sventato — Meursault si ritroverà a passeggiare da solo sulla spiaggia, sotto il sole caldo che non gli dà tregua: decide allora di andarsi a rinfrescare alla fonte dietro le rocce, lì dove avevano incontrato prima gli arabi, lì dove incontra la sua futura vittima. Il tono della narrazione è tesissimo: gli occhi di Meursault bruciano per il sale, il sudore e il sole. I due parlano un linguaggio animale, fatto solo di sguardi e di gesti, e in effetti l’intera scena è la narrazione di uno scontro fra animali. Quando l’arabo improvvisamente sfodererà il suo coltello, perché il suo rivale si era avvicinato a lui di un passo, e quando il riflesso di tale coltello abbaglierà gli occhi di Meursault, la risposta di quest’ultimo non sarà né riflessiva né ragionata, ma istintiva, immediata, incosciente: un primo colpo di pistola seguito da altri quattro, sparati con quella rivoltella che prima Raimondo aveva dato a Meursault, ma della quale quest’ultimo già si era dimenticato. Le parole che narrano il fatto non possono essere più significative per noi:
Quella spada ardente (il riflesso del coltello sugli occhi, n. d. A.) mi corrodeva le ciglia e frugava nei miei occhi doloranti. È allora che tutto ha vacillato. Dal mare è rimontato un soffio denso e bruciante. Mi è parso che il cielo si aprisse in tutta la sua larghezza per lasciare piovere fuoco. Tutta la mia persona si è tesa e ho contratto la mano sulla rivoltella. Il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura ed è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è cominciato. Mi sono scrollato via il sudore ed il sole. Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia devo ero stato felice. Allora ho sparato quattro volte su un corpo inerte dove i proiettili si insaccavano senza lasciare traccia. E furono come quattro colpi secchi che battevo sulla porta della sventura.33
Ecco la rottura dell’equilibrio mediterraneo — dell’«equilibrio del giorno». Ecco il suono secco e violento che distrugge lo «straordinario silenzio» in cui aveva vissuto fino ad allora Meursault. Nel nostro percorso, questo è il punto che sancisce il drammatico passaggio dalla mediterraneità all’estraneità,34 e con esso, dall’incoscienza alla coscienza. Infatti, se è vero che questi spari di Meursault sono atti irriflessi ed involontari, come irriflessi ed involontari sono stati tutti i suoi gesti finora, è vero anche che soltanto dopo di essi ci sarà spazio per il primo — e unico — gesto consapevolmente proprio. Si tratta dello sfogo veemente e incontrollato a quel prete che insistentemente voleva «salvarlo», ora che era stato condannato a morte e mancava poco alla sua esecuzione. Dopo una serie di silenzi e di brevi risposte, Meursault esplode:
Allora, non so per quale ragione, c’è qualcosa che si è spezzato in me. Mi sono messo a urlare con tutta la mia forza e l’ho insultato e gli ho detto di non pregare e che è meglio ardere che scomparire. L’avevo preso per la sottana. Riversavo su di lui tutto del mio cuore con dei sussulti misti di collera e di gioia. Aveva l’aria così sicura, vero? Eppure nessuna delle sue certezze valeva un capello di donna. Non era nemmeno sicuro di essere in vita dato che viveva come un morto. Io, pareva che avessi le mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e di questa morte che stava per venire. Si, non avevo che questo. Ma perlomeno avevo in mano questa verità come essa aveva in mano me. Avevo avuto ragione, avevo ancora ragione, avevo sempre ragione. Avevo vissuto in questo modo e avrei potuto vivere in quest’altro. Avevo fatto questo e non avevo fatto quello. Non avevo fatto una tal cosa mentre ne avevo fatta una tal altra. E poi? Era come se avessi atteso sempre quel minuto… e quell’alba in cui sarei stato giustiziato. Nulla, nulla aveva importanza e sapevo bene il perché. […] Mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo.35
Con queste parole36 il personaggio di Camus afferma esplicitamente il nichilismo del reale e, contemporaneamente, la sua ineludibile estraneità ad esso. Ne prende finalmente coscienza: fino ad allora si era limitato a vivere in tale sentimento tacitamente e inconsciamente. Ma, attenzione, questa che abbiamo chiamato «affermazione nichilista» è in realtà tutt’altro che una affermazione: essa è una vera e propria negazione, una «verità negativa»,37 che distrugge senza alcuna volontà di creare, e Camus stesso ne è consapevole.38 Per questo, allo stesso modo in cui, filosoficamente parlando, bisogna andare oltre Nietzsche — «la coscienza più acuta del nichilismo», il filosofo con il quale «per la prima volta il nichilismo diviene cosciente»39 — occorre, nel proprio vivere, superare Meursault e la sua estraneità.
Per esso, il silenzio del mondo è divenuto vuoto e assordante, lì dove prima gli garantiva quella familiarità vitale e quella felicità sensuale. Ma non si torna indietro in alcun modo: una volta perduto il mondo, non c’è possibilità di ritorno a nessun tipo di «età d’oro» o di «stato di natura». L’uomo estraniatosi al mondo non può che tentare di riappropriarsi del mondo stesso secondo un’altra direzione, perché un’esistenza fino a questo punto «straniera» è una condizione impossibile in cui mantenersi.
3. Un’impossibile riappropriazione: l’assurdo
Qual è, dunque, quell’imponderabile sensazione che priva lo spirito del sonno necessario alla vita? Un mondo che possa essere spiegato, sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l’uomo si sente un estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’attore e la scena, è propriamente il senso dell’assurdo.40
Abbiamo iniziato questo terzo capitolo direttamente con una citazione da Il mito di Sisifo — il libro che maggiormente affronteremo parlando dell’assurdo — proprio per sottolineare subito quella svolta linguistica e metodologica che compie Camus in questa opera: non ci troviamo più, infatti, all’interno di quella narrazione romanzesca in prima persona caratteristica de Lo straniero, e nemmeno all’interno di quel tono autobiografico tipico dei Saggi solari, ma piuttosto siamo di fronte ad un linguaggio in terza persona che riflette un’esigenza non più solamente descrittiva e narrativa, ma autenticamente filosofica e chiarificatrice. E d’altronde, l’intento è fin dalle prime pagine più che chiaro.41 Preferiamo comunque non approfondire troppo tale discorso meta-testuale, quanto più concentrarci sul testo in sé e sul concetto di assurdo che in esso viene discusso.
Finora abbiamo affrontato due tappe del percorso filosofico camusiano, la mediterraneità e l’estraneità, esemplificando il passaggio dalla prima alla seconda condizione come un distaccarsi dell’uomo dal mondo. In questo distacco, l’uomo, che prima possedeva con familiarità il suo ambiente vitale, perde il mondo. Seguendo la metafora, l’assurdo — terza tappa del percorso — è appunto l’umano e impossibile tentativo di riappropriazione del mondo: il reale deve essere di nuovo compreso, spiegato, chiarificato, reso familiare; il male, che come abbiamo visto è l’elemento fondamentale che conduce all’estraneità, va giustificato in qualche modo, perché è impossibile mantenersi saldi di fronte alla sua incomprensibilità.
Camus, in sostanza, individua due ben definite — e tra loro collegate — vie d’uscita dall’estraneità: da una parte, quello che potremmo definire il «ritorno al mondo» — dove con tale espressione si intende quell’atto che tenta di rendere nuovamente familiare il mondo stesso attraverso una comprensione razionale di esso; dall’altra, il suicidio, inteso come affermazione dell’impossibilità del sopraddetto «ritorno al mondo». Analizziamo le due alternative, iniziando dall’ultima.
Il suicidio è il riconoscimento esplicito e radicale della «vittoria del mondo» sul nostro tentativo di condurre un’esistenza sensata e coerente in esso. «Uccidersi», scriverà Camus nelle prime pagine del Mito, «è confessare: confessare che si è superati dalla vita o che non la si è compresa».42 In sostanza, è l’affermazione di una impossibilità, quella di non poter vivere in un modo tale che «ne valga la pena».
Prima il problema del senso o non-senso della vita non si poneva, perché l’individuo, trovandosi in una condizione animale, era tutt’uno con il suo mondo: «se fossi albero tra gli alberi o gatto fra gli animali, questa vita avrebbe un senso o piuttosto questo problema non sussisterebbe, perché farei parte del mondo. Io sarei quel mondo».43 Ma ormai ci siamo distaccati da esso, e il mondo è per noi ora un estraneo:
Scendiamo ancora di un gradino (rispetto all’assurdo, n. d. A.) ed ecco l’estraneità: accorgersi che il mondo è “denso”, intravedere fino a che punto una pietra sia estranea e per noi irriducibile, con quale intensità la natura, un paesaggio possano sottrarsi a noi. Nel fondo di ogni bellezza sta qualcosa di inumano, ed ecco che le colline, la dolcezza del cielo, il profilo degli alberi perdono, nello stesso momento, il senso illusorio di cui noi li rivestivamo, più distanti ormai che un paradiso perduto. L’ostilità primitiva del mondo risale verso di noi, attraverso i millenni. Per un secondo non lo comprendiamo più, [sia] perché per secoli non avevamo capito in esso [nient’altro] che le figure e i disegni che gli avevamo antecedentemente attribuiti, sia perché ormai ci mancano le forze per servirci di tale artificio. Il mondo ci sfugge poiché ritorna sé stesso. Le scene travisate dall’abitudine, ridiventano ciò che sono e si allontanano da noi.44
A questo punto dell’esistenza, dunque, dobbiamo ricostruire il senso di essa secondo un’altra dinamica fondamentale — che non sia più quel contatto armonico con la natura che vigeva nella mediterraneità. Oppure dobbiamo abdicare a questo compito e, in ultima analisi, alla nostra stessa vita. Questo rifiuto di «rifare il senso» è appunto il suicidio. Dirà Camus in apertura del capitolo Il suicidio filosofico: «Il vivere sotto un tal cielo soffocante, richiede che se ne esca o che vi si rimanga. Si tratta di sapere come se ne esca nel primo caso e perché si resti nel secondo. Io così definisco il problema del suicidio […]».45 Se tale «cielo soffocante» è appunto il mondo a cui siamo estranei, allora l’uscirne è il suicidio, il rimanervi — almeno per ora — il comprenderlo.
Ci concentreremo ora proprio su questo secondo aspetto. Iniziamo innanzitutto col mostrare cosa ci sia alla base di questa necessità improcrastinabile di comprendere il mondo e, allo stesso tempo, il perché dell’impossibilità di mantenersi nell’estraneità. Alla base di questa necessità c’è un sentimento, tanto semplice quanto profondo e ineliminabile, che Camus chiamerà ora «esigenza di familiarità», ora «brama di chiarezza», ora «nostalgia di unità», etc. Si legga a riguardo il seguente passo del Mito:
Il profondo desiderio dello spirito, anche nei suoi più evoluti processi, si ricongiunge al sentimento incosciente dell’uomo di fronte al proprio universo: è esigenza di familiarità, brama di chiarezza. Comprendere il mondo, per un uomo, significa ridurre quello all’umano, imprimergli il proprio suggello. L’universo del gatto non è l’universo del formichiere. La lapalissiana verità che «tutti i pensieri sono antropomorfici» non ha altro significato. Parimente, lo spirito che cerca di capire la realtà, non può ritenersi soddisfatto se non quando la riduca in termini di pensiero. Se l’uomo riconoscesse che anche l’universo può amare e soffrire, si riconcilierebbe con questo. Se il pensiero scoprisse, nei mutevoli specchi dei fenomeni, eterne relazioni che potessero sintetizzarli e sintetizzarsi esse stesse in un unico principio, si potrebbe parlare di una felicità dello spirito, di cui il mito dei beati sarebbe soltanto una ridicola contraffazione. Questa nostalgia di unità, questa brama di assoluto spiega lo svolgimento del dramma umano nella sua essenza.46
La molteplicità nella quale siamo «gettati» e alla quale siamo estranei va ricondotta dal pensiero al di sotto di una nuova unità che ci renda ogni aspetto del reale profondamente familiare: v’è in noi un istinto primordiale che ce lo impone — un istinto ineludibile. Ma tale istinto è tanto ineliminabile quanto inappagabile, perché v’è una inconciliabilità di fondo tra la «stoffa» del nostro pensiero e quella del mondo: se l’uomo è condannato alla parola, il mondo invece permane in un inespressivo silenzio; se il primo si muove tra gli schemi della ragione, il secondo invece è semplicemente al di là di qualsiasi razionalità o irrazionalità; se il primo è per eccellenza il simbolo della mutevolezza emotiva e dell’incostanza, il secondo simboleggia altrettanto bene l’immutabilità e l’indifferenza.
In questa eterogeneità, in questa distanza tra i due elementi, sta l’irrevocabile e umana impossibilità di comprendere il mondo: l’uomo che ha perso il mondo, non può riappropriarsene. L’assurdo sta in questa impossibilità: è questa impossibilità. Esso nasce appunto «dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo».47 L’uomo vorrebbe com-prendere ciò che per essenza è in-comprensibile: egli domanda e parla a un qualcosa che non è in grado di rispondergli — poiché per sua natura muto. Tra l’uomo e il mondo si instaura una perpetua tensione: il primo parla e domanda, il secondo non ascolta né risponde, semplicemente perché non può. Questa condizione di incomunicabilità, di separazione tra i due termini è appunto la condizione assurda. Camus dirà appunto che tale condizione «è essenzialmente un divorzio, che non consiste nell’uno o nell’altro dei elementi comparati, ma nasce dal loro confronto», sicché «distruggere uno dei termini, è distruggerla interamente». Da ciò consegue che «non può esistere assurdo al di fuori dello spirito umano» come «non può neppure esistere assurdo al di fuori di questo mondo».48
La storia del pensiero raramente ha riconosciuto e affermato tale condizione assurda, poiché ha sempre presupposto tacitamente una sorta di «principio di trasparenza del mondo», nonché di comunanza di quest’ultimo con il pensiero umano. Non ha mai creduto che tutte quelle forme e idee che egli rintracciava nel mondo in realtà fossero delle sue creazioni e proiezioni. Camus, allievo — seppur critico — di Nietzsche, afferma insieme a quest’ultimo il millenario «male platonico» da cui l’umanità è affetta, e sostiene con amarezza l’impossibilità di un senso preesistente all’uomo, lì dove il suo «maestro» invece faceva lo stesso ma con esaltazione e fervore. Si mettano a confronto i seguenti due passi, rispettivamente di Camus e di Nietzsche, nei quali si afferma, con toni opposti, la sostanziale indifferenza del mondo e l’insolvibile e caotico nichilismo del reale:
Posso tutto confutare, in questo mondo che mi circonda, mi urta o mi trasporta, salvo questo caos, questo caso imperante e questa divina equivalenza, che nasce dall’anarchia. Non so se il mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco questo senso e che, per il momento, mi è impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione? Io posso comprendere soltanto in termini umani. Ciò che tocco e che mi resiste, ecco quanto comprendo. E queste due certezze, la mia brama di assoluto e di unità e l’irriducibilità del mondo a un principio razionale e ragionevole, so anche che non posso conciliarle. Quale altra verità posso conoscere senza mentire, senza far intervenire una speranza che non ho e che non significa nulla entro i limiti della mia condizione?
- Stiamo all’erta! Guardiamoci dal pensare che il mondo sia un essere vivente. In che senso dovrebbe svilupparsi? Di che si nutrirebbe? Come potrebbe crescere e aumentare? Sappiamo già a stento che cos’è l’organico: e dovremmo reinterpretare quel che è indicibilmente derivato, tardivo, raro, casuale, percepito da noi soltanto sulla crosta terreste, come un essere sostanziale, universale, eterno come fanno coloro che chiamano l’universo un organismo? Di fronte a ciò sento disgusto. Guardiamoci bene dal credere che l’universo sia una macchina: non è certo costruito per un fine: gli rendiamo un onore troppo alto con la parola «macchina». […] Il carattere complessivo del mondo è invece caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane. […] L’universo non è perfetto, né bello, né nobile e non vuol diventare nulla di tutto questo, non mira assolutamente ad imitare l’uomo!
Come si denota chiaramente dal confronto dei due testi, ciò che era per Nietzsche una scoperta esaltante da gridare all’umanità intera, è invece diventato per Camus un dato di fatto con cui fare i conti. Se il primo avvertì solo la necessità di distruggere tutte le illusioni «umane, troppo umane», filosofando con il martello e riducendo la verità in cenere, il secondo ebbe invece l’onere di ricostruire a fatica su tali ceneri: in sostanza, Nietzsche per primo riconosce e pone il nichilismo con grande lucidità; Camus, con altrettanta lucidità, tenta di superarlo — e lo supererà, come mostreremo più avanti.
Ma stiamo parlando appunto di un superamento dell’assurdo nichilista, non di una sua negazione: la tensione tra l’esigenza di familiarità umana e il silenzio irragionevole del mondo rimane sempre e comunque, non viene mai dimenticata — lì dove molti uomini pur di uscirne la negarono, compiendo il famoso «salto mortale». Ad esempio Chestov, filosofo russo poco conosciuto ma citato da Camus, dirà che da tale condizione assurda «la sola vera via di uscita è proprio là dove, secondo il giudizio umano, non v’è alcuna. Altrimenti, perché avremmo bisogno di Dio? Non ci si rivolge a Dio che per ottenere l’impossibile. Quanto al possibile, gli uomini soli vi bastano».49 Camus di fronte all’impossibile e allo sconosciuto si ferma, in nome di una lucidità umana superiore. Chestov — come Kierkegaard, d’altronde — invece vi si tuffa: la sua nozione di assurdo non è nient’altro che «un trampolino per l’eternità» e il suo salto non è che «un modo di sottrarsi» ad esso. In ultima analisi, dunque, la differenza sostanziale tra una tale «filosofia del salto mortale» e un pensiero lucidamente assurdo sta nel diverso atteggiamento nei confronti della trascendenza: «per Chestov la ragione è vana; ma, al di là di questa, vi è qualche cosa. Per uno spirito assurdo, la ragione è vana; ma non vi è nulla al di là di essa».
Non per questo Camus condannerà in toto la ragione: come abbiamo già detto, il vero problema infatti non è la ragione in sé, ma quella forma di razionalismo che la divinizza. D’altronde
il nostro desiderio di comprendere, la nostra nostalgia di assoluto non sono spiegabili proprio che nella misura in cui noi possiamo comprendere e spiegare molte cose. È vano negare assolutamente la ragione. Essa ha un ordine proprio, nel quale risulta efficace, e che è appunto quello dell’esperienza umana. Partendo di là noi volevamo rendere tutto chiaro. Se non lo possiamo, se l’assurdo sorge in simile circostanza, è proprio al punto d’incontro di questa ragione, efficace ma limitata, e dell’irrazionale sempre rinascente.50
Camus, al contrario di Lutero,51 di Kierkegaard e di Ignazio di Loyola, il fondatore della compagnia dei Gesuiti, non vuole nessun «sacrificio dell’intelletto».52 Per lui la ragione, lungi dall’essere nulla, ha invece un preciso dominio di operatività, oltre il quale non può e non deve andare: si ritorna alla questione del limite e della misura di cui abbiamo parlato in precedenza. Le parole che Camus usa in questo caso sono perfette, tanto che le citeremo per esteso:
Questo — si dice — passa la misura umana, bisogna dunque che sia sovrumano. Ma questo “dunque” è eccessivo. Qui non vi è affatto certezza logica e neppure probabilità sperimentale. Tutto quanto posso dire è che, in realtà, ciò passa i miei limiti. Se anche non ne traggo una negazione, almeno non voglio fondare nulla sull’incomprensibile. Voglio soltanto sapere se posso vivere con ciò che so e con ciò soltanto. Mi si dice ancora che l’intelligenza deve sacrificare il proprio orgoglio e che la ragione deve inchinarsi. Ma se pure riconosco i limiti della ragione, non la nego fino a tal punto, poiché ammetto i suoi poteri relativi. Voglio solamente restare in quella via di mezzo, in cui l’intelligenza può mantenersi chiara. Se è quello il suo orgoglio, non vedo una sufficiente ragione per rinunciarvi.53
Qui sta tutta la lucidità e l’onestà di Camus, tutto il suo realismo e il suo rispetto della finitudine umana. Egli è consapevole come pochi dell’inconciliabilità fondamentale tra ciò che l’uomo desidera e ciò che la verità è — «cercare ciò che è vero, non significa cercare ciò che è desiderabile»54 — ma non per questo abdicherà alla vita, né sprofonderà nelle tenebre del nichilismo. Egli, al contrario di quanto si possa pensare, è animato nel suo pensare da un amore assoluto per la verità: come Meursault, infatti, si rifiuta di mentire, ma, al suo contrario, egli vive ricercando quel senso capace di «capovolgere» il nichilismo del reale.
Ora, arrivati alla conclusione del capitolo, tenteremo di ricapitolare quanto detto riguardo all’assurdo. Siamo partiti dal sentimento d’estraneità, e abbiamo detto che da esso l’uomo vuole e deve uscirne, o attraverso la rinuncia assoluta (il suicidio), o attraverso una ricomprensione del reale (il «ritorno al mondo»). Constatata l’estremità del primo gesto e l’impossibilità del secondo, ciò che rimane è una ineliminabile tensione tra l’umana esigenza di familiarità e il silenzio irragionevole del mondo, ovvero l’assurdo. Lungi dall’uscirne attraverso un salto mortale che lo neghi, ciò che va descritta al meglio è la condizione umana in esso, al fine di assumere quella consapevolezza necessaria per slanciarsi verso la rivolta, perché — lo ricordiamo ancora una volta — Il mito di Sisifo è «un punto di partenza»,55 non di arrivo. Lo è nella misura in cui in esso non vi sono punti di riferimento, né valori da perseguire, poiché tutto si allinea secondo una «divina equivalenza»: «l’assurdo, considerato come regola di vita, è dunque contraddittorio», «ci lascia in un vicolo cieco».56 Sisifo, il simbolo dell’esistenza assurda, è costretto al suo gesto senza fine proprio a causa di questa in-differenza del mondo: egli, come l’uomo nietzschiano, essendo «giunto alla libertà della ragione, non può sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante — non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste».57
Ma Sisifo è ancora un uomo irrimediabilmente solo, isolato su quel monte che è al tempo stesso la sua prigione e la sua felicità: egli vive il nichilismo senza rimedio né volontà di trasvalutazione. Verrà il tempo che anch’egli conoscerà gli altri uomini e il loro male, e allora lascerà il suo masso e il suo insensato gesto, per correre a rubare il fuoco agli dei e portarlo agli uomini. Sisifo si farà Prometeo: la rivolta si instaurerà nell’assurdo.
4. Opporsi al male della creazione: la rivolta
È lo stesso Camus a suggerire tale continuità tra la condizione assurda e la rivolta che in essa sorge: dirà nella per noi fondamentale introduzione a L’uomo in rivolta che «i due ragionamenti sono legati», e che «questo saggio si propone di proseguire, di fronte all’omicidio e alla rivolta, una riflessione iniziata intorno al suicidio e alla nozione d’assurdo».58 Niente di più chiaro: ma — domandiamoci — perché e come i due ragionamenti si legano? Anche qui Camus è esplicito. Eravamo arrivati nel precedente capitolo ad una conclusione in parte negativa: se è vero che Il mito di Sisifo si concludeva con le parole «bisogna immaginare Sisifo felice», altrettanto vera in Camus è la consapevolezza che quella felicità non è né definitiva né tanto meno pienamente possibile in un epoca come la nostra. A renderla di difficile attuabilità, o quanto meno cinica e anacronistica, è infatti proprio lo sviluppo incontrollato e imprevisto delle condizioni sociali e degli eventi storici: perché non siamo più «ai tempi ingenui in cui il tiranno radeva al suolo qualche città a propria maggior gloria, in cui lo schiavo aggiogato al carro del vincitore sfilava per le città festanti, e il nemico veniva gettato alle belve davanti al popolo adunato», bensì ai tempi dei «campi di schiavi sotto il vessillo della libertà», dei «massacri giustificati dall’amore per l’uomo o dal sogno di una super-umanità». Se di fronte ai primi «la coscienza poteva essere salda, e chiaro il giudizio», di fronte all’atrocità e all’insensatezza dei secondi il giudizio stesso si trova disarmato.
Sisifo, figlio dell’assurdo, non può più ignorare il male del mondo, e per questo grida la sua rivolta: «grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta. La prima e sola evidenza che mi sia data così, all’interno dell’esperienza assurda, è la rivolta».59 Camus, lontanissimo da Descartes, si scopre inaspettatamente cartesiano, almeno nel metodo: al centro dell’assurdo — l’equivalente camusiano del dubbio metodico — egli scopre un evidenza fondamentale, quella della rivolta, che con «il suo cieco slancio rivendica l’ordine in mezzo al caos e l’unità al cuore stesso di ciò che fugge e scompare». La rivolta si instaura nell’assurdo opponendo alla sua irragionevolezza una richiesta esplicita di giustizia.
Se il suicidio era al centro della riflessione sull’assurdo, lo era nella misura in cui l’uomo assurdo era ancora rinchiuso nel suo solipsismo: ora che gli eventi lo hanno forzatamente aperto al male altrui, il suo pensiero si concentra sulla eventuale legittimità dell’omicidio. La questione infatti è la seguente: «si tratta di sapere se l’innocenza, dal momento che agisce, non può impedirsi di uccidere. […] Non sapremo niente finché non sapremo se abbiamo il diritto di uccidere quest’altro che ci sta davanti o di acconsentire a che venga ucciso».60 Ora, la riflessione sull’assurdo aveva sancito l’illegittimità del suicidio, poiché ammetteva «la vita come il solo bene necessario». Ma allora, se ciò è riconosciuto come vero, «come serbare per sé il beneficio esclusivo di un simile ragionamento? Dall’istante in cui questo bene è riconosciuto come tale, è un bene di tutti gli uomini. Non si può dare coerenza all’omicidio ove la si rifiuti al suicidio. Uno spirito compenetrato dall’idea dell’assurdo ammette indubbiamente l’omicidio per fatalità: non potrebbe accettare l’omicidio di ragionamento».
Insomma, l’assurdo «ha fatto tabula rasa», senza lasciare apparentemente nessuna via d’uscita da sé, e invece è proprio dalla condanna del suicidio raggiunta nel Mito che Camus parte per uscire dall’assurdo stesso. Il suo intento è dunque il seguente: constatare se e cosa all’interno della condizione assurda può essere considerato come punto di leva per una uscita da tale condizione nichilista, e da ciò ricavare le conseguenze per una coerente e universale condotta di vita, lì dove il Novecento è stato per eccellenza il secolo dell’irrazionalismo e della più incoerente atrocità, del dostoevskiano «tutto è possibile». La riflessione, proprio per questo, ha inizio con il riconoscimento, per adesso ancora indefinito, dell’esistenza di una frontiera:
Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual’è il contenuto di questo “no”? Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”, “fin qui si, al di là no”, “vai troppo in là” e anche “c’è un limite oltre il quale non andrai”. Insomma, questo no afferma l’esistenza di una frontiera. […] Egli afferma, insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare al di qua della frontiera. Dimostra, con caparbietà, che c’è in lui qualche cosa per cui “vale la pena di… ”, qualche cosa che richiede attenzione. In un certo modo, oppone all’ordine che l’opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere.61
Come per il Cartesio della seconda meditazione metafisica, anche qui troviamo una iniziale negazione che, ritornando su se stessa, si trasforma in una esplicita affermazione, seppur in origine indefinita: Cartesio trae dal dubbio totale la consapevolezza che tale dubitare implica necessariamente l’esistenza del soggetto dubitante; Camus, invece, trae dalla negazione pronunciata dal soggetto oppresso rispetto all’ordine che l’opprime, l’affermazione dell’esistenza di una «frontiera valoriale» secondo la quale è appunto possibile la negazione stessa. «La rivolta, in senso etimologico, è un voltafaccia. In essa, l’uomo che camminava sotto la sferza del padrone, ora fa fronte. Oppone ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Non tutti i valori trascinano con sé la rivolta, ma ogni moto di rivolta fa tacitamente appello a un valore».62
Affermata l’esistenza di tale valore, il passo successivo è la sua determinazione contenutistica. Esso è innanzitutto un passaggio dal solipsismo in cui versava l’individuo nella condizione assurda al senso di comunanza con gli altri simili nella rivolta:
Vediamo dunque che l’affermazione implicita in ogni atto di rivolta si estende a qualche cosa che eccede l’individuo in quanto lo trae dalla sua supposta solitudine e gli fornisce una ragione d’agire. […] L’analisi della rivolta conduce almeno al sospetto che esista una natura umana, come pensavano i Greci, e contrariamente ai postulati del pensiero contemporaneo. Perché rivoltarsi se non si ha, in se stessi, nulla di permanente da preservare? È per tutte le esistenze a un tempo che insorge lo schiavo quando giudica che, da un determinato ordine, viene negato in lui qualche cosa che non gli appartiene esclusivamente, ma che è luogo comune in cui tutti gli uomini, anche quello che l’insulta e l’opprime, hanno pronta una comunità. […] L’individuo non è dunque, in se stesso, quel valore che egli vuole difendere. Occorrono almeno tutti gli uomini per costituirlo. Nella rivolta, l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica.63
Ma tale solidarietà metafisica non rivendica nulla di trascendente né di divino: essa richiede interventi concretamente umani, in nome di un valore immanente all’uomo stesso. È una solidarietà che sorge sulle ceneri della morte di Dio, e quindi non può far appello a nessun ideale oltre-mondano né a nessuna ricompensa nell’aldilà: essa fa riferimento semplicemente a quel sentimento incarnato nell’individuo che è un evidenza originale ed innegabile. E se l’individuo reclama giustizia per qualcun altro di fronte al male, non lo fa certo per una «comunione di interessi» — infatti «possiamo trovare rivoltante l’ingiustizia imposta ad uomini che consideriamo nostri avversari»64 — né per guadagnarsi la salvezza ultraterrena: il suo è un gesto umano e volontario, non una risposta ad un ordine divino. In effetti, a questo stadio di rivolta, l’uomo, credente o meno che sia, non fa più appello a Dio:
Se nel mondo religioso non si trova il problema della rivolta, si è che in verità non vi si trova alcuna problematica reale, tutte le risposte essendo date in una volta. […] L’uomo in rivolta è l’uomo che sta prima o dopo l’universo sacro, e si adopera a rivendicare un ordine umano in cui tutte le risposte siano umane, cioè razionalmente formulate. Da quell’istante, ogni interrogazione, ogni parola è rivolta, mentre nel mondo religioso, ogni parola è rendimento di grazie.65
Quindi occorre evitare, ora come prima, di definire il pensiero camusiano come un pensiero ateo,66 almeno nella misura in cui con il termine «ateismo» si intende la negazione esplicita e sprezzante di Dio: tale pensiero si ritrova piuttosto in quell’ateismo definito da Levinas come quella «posizione anteriore sia alla negazione che all’affermazione del divino» — ateismo per il quale «si vive al di fuori di Dio, a casa propria».67
Ma, tornando alla rivolta, occorre sottolineare come essa, proprio in quanto slegata da qualsiasi forma di eternità divina, non sia uno stato permanente ed immodificabile nel quale l’uomo è situato da sempre, a prescindere dal suo sforzo e dal suo volere: al contrario, essa si definisce nei limiti di una certa contingenza spazio-temporale, secondo la quale essa sorge soltanto in alcuni luoghi e in determinate epoche — in base al configurarsi delle condizioni esistenziali e sociali — e soltanto nell’animo di determinati «uomini avvertiti che abbiano coscienza dei propri diritti». La rivolta, dunque, sorge soltanto dove vi sono uomini coscienti che la reclamano: essa non esiste da sempre ma è solo in quanto è voluta. Ma non per questo essa è relativa: nel momento in cui un uomo si rivolta, lo fa in nome di un sentimento universale, comune ad ogni uomo ovunque — il rifiuto istintivo di ogni forma di male, il bisogno imprescindibile di senso. Nel momento in cui tale rivendicazione dovesse cadere o mutare in interesse particolare, la rivolta stessa si annullerebbe:
La solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta, e questo, reciprocamente, solo in tale complicità trova giustificazione. Saremmo dunque in diritto di dire che ogni rivolta che s’autorizzi a distruggere questa solidarietà perde con questo il nome di rivolta e coincide in realtà con un assenso omicida. Allo stesso modo questa solidarietà, fuori dall’universo religioso, prende vita soltanto sul piano della rivolta. Il vero dramma della rivolta del pensiero è allora annunziato. Per essere, l’uomo deve rivoltarsi, ma la sua rivolta deve rispettare il limite che scopre in se stessa: limite nel quale gli uomini, venendo a raggiungersi, cominciano ad essere. Il pensiero informato alla rivolta non può dunque prescindere dalla memoria: esso è tensione perpetua. Seguendolo nelle opere e negli atti, dovremo dire, ogni volta, se rimanga fedele alla sua primitiva nobiltà oppure, per stanchezza e pazzia, se ne scordi, in un’ebbrezza di tirannia o di servitù.
Dunque, in definitiva, la rivolta, per quanto possa essere affermata da un uomo solitario, si erge sempre per tutta l’umanità — altrimenti non è rivolta. Essa a questo di peculiare: dà un senso al sentimento individuale proprio nella misura in cui, mostrandone la comunanza col quello altrui, lo rende universale. Se l’io sapesse che è solo a soffrire in questo modo, persevererebbe nell’estraneità. Ma anche gli altri soffrono come lui, e allora egli trova momentaneamente placata la sua ansia di familiarità:
Ecco il primo progresso che lo spirito di rivolta fa compiere ad una riflessione da principio compenetrata dell’assurdità e dell’apparente sterilità del mondo. Nell’esperienza assurda la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti. Il primo progresso di uno spirito intimamente straniato sta dunque nel riconoscere che questo suo sentirsi straniero lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella sua totalità, soffre di questa distanza rispetto a se stessa e al mondo. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva. In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo.68
Giunto a questo stadio di consapevolezza, l’uomo non è più solo, come lo era Sisifo sul suo monte: egli ha trovato la possibilità del senso proprio perché, al contrario di Sisifo, si è aperto all’altro, all’umanità. Da questo momento in poi ogni sua parola sarà una parola di rivolta pronunciata in nome di essa.
Nella parte centrale de L’uomo in rivolta Camus mostrerà come è possibile rintracciare nella letteratura, nella storia della filosofia e nella storia tout-court gli inizi — e i tradimenti — della rivolta. In questi capitoli (La rivolta metafisica, La rivolta storica, Rivolta e arte) si analizzano atti e pensieri che anticiparono l’idea della rivolta — seppur finendo sempre in qualche modo con il tradirla. Noi in questa sede non possiamo trattare, per ragioni di spazio, tale argomento, e quindi passeremo ora ad analizzare l’ultima parte del libro, Il pensiero meridiano, nel quale Camus approda ad un punto di svolta definitivo rispetto alla negatività assurda finora trattata.
Il pensiero meridiano è, in sostanza, la «proposta di senso» camusiana: esso sorge sulle fondamenta dell’assurdo, ne conserva sempre vivo il ricordo senza dimenticarlo mai. Tale pensiero tiene conto — senza affatto smentirla o negarla — di tutta la riflessione che, a partire dalla mediterraneità, ci ha condotto fin qui: ed infatti, in maniera più o meno manifesta, sarà possibile rintracciare nella nostra descrizione tutte le già affrontate tappe dell’opera di Camus.
Iniziamo innanzitutto con il descrivere il pensiero meridiano per via negativa, affermando cosa esso non sia. Esso non è uno storicismo, né una «filosofia dell’eternità»: se il primo è colpevole di divinizzare la storia e di asservirsi ciecamente ad essa nel cambiamento violento della realtà, la seconda invece accetta supinamente l’apparente ingiustizia di tale realtà, affermando l’esistenza di una giustizia divina di ordine superiore; se lo storicismo accetta la violenza e l’abnegazione della libertà al fine di ristabilire la giustizia «dall’alto», una filosofia dell’eternità sposa integralmente la non-violenza perché convinta che la giustizia sia già in atto, e che la libertà umana sia nelle mani di Dio.
Il pensiero meridiano si pone come terza via tra lo storicismo e il teismo: esso è consapevole dell’ingiustizia, ma non vuole che il suo contrastarla ne generi di altra; combatte il male e la violenza, ma con mezzi capaci di non spargere altro ingiustificabile sangue; non accetta l’omicidio come mezzo per un fine più elevato perché è proprio contro l’omicidio che esso si scaglia. Insomma, il pensiero meridiano si pone come una perpetua tensione tra poli opposti lì dove gli altri due pensieri descritti si pietrificavano arbitrariamente su uno solo: esso non sceglie la giustizia assoluta perché distruggerebbe la libertà, ma altrettanto ragionevolmente non sceglie la libertà assoluta perché ingiusta, omicida e nichilista.
Per esso il male è l’unica realtà certa ed ingiustificabile, lì dove lo storicismo e il credo in Dio concludono sempre con la sua giustificazione. Si può dire, infatti, che un’intera tradizione di pensiero — — quella marxista-storicista in particolare — abbia giustificato sempre i suoi mezzi violenti e oppressivi in base ad un presunto fine utopico superiore. Con il pensiero meridiano la situazione si capovolge:
Quando il fine è assoluto, cioè, storicamente parlando, quando si ritiene certa la sua realizzazione, si può arrivare a sacrificare gli altri. Quando non lo è, si può sacrificare soltanto se stessi, come posta di una lotta per la dignità comune. Il fine giustifica i mezzi? È possibile. Ma chi giustificherà il fine? A questo interrogativo, che il pensiero storico lascia in sospeso, la rivolta risponde: i mezzi.
Il pensiero meridiano, come si evince da tutte queste parole, è un pensiero della misura, e non a caso il penultimo capitolo de L’uomo in rivolta si intitola proprio Misura e dismisura: «la misura non è il contrario della rivolta. La rivolta è essa stessa misura: essa, la ordina, la difende e la ricrea attraverso la storia e i suoi disordini».69
Questa legge della misura si estende anche a tutte le antinomie del pensiero in rivolta. Né il reale è interamente razionale, né il razionale del tutto reale. […] Non si può dire che nulla ha senso poiché con ciò si afferma un valore consacrato da un giudizio; né che tutto abbia senso poiché la parola tutto non ha significato per noi. L’irrazionale limita il razionale che a sua volta gli conferisce la propria misura. Qualche cosa, infine, ha un senso che dobbiamo conquistare sul non-senso. Allo stesso modo, non si può dire che l’essere sia soltanto sul piano dell’essenza. Dove cogliere l’essenza se non sul piano dell’esistenza e del divenire? Ma non si può dire che l’essere sia soltanto esistenza. Ciò che sempre diviene non ha la possibilità di essere, occorre un inizio. L’essere non può esperimentarsi se non nel divenire, il divenire è nulla senza l’essere. Il mondo non consiste in una fissità pura; ma non è soltanto movimento. È movimento e fissità. La dialettica storica, per esempio, non fugge indefinitamente verso un valore ignoto. Gira intorno al limite, primo valore. Eraclito, inventore del divenire, dava tuttavia un confine a questo perpetuo scorrere. Questo limite era simboleggiato da Nemesi, dea della misura, fatale ai dismisurati. Una riflessione che volesse tenere conto delle contraddizioni contemporanee dovrebbe chiedere ispirazione a questa dea.
Siamo ritornati alla dea Nemesi, che avevamo già incontrato all’inizio della nostra riflessione — e questo non fa che avvalorare la tesi seconda la quale l’opera di Camus sia in sostanza un’unica e ininterrotta meditazione, che tiene conto di ogni sua tappa senza negarne nessuna. L’ultima di queste tappe — almeno di quelle che Camus è riuscito a raggiungere prima della sua prematura morte — non è ancora un punto di arrivo, ma piuttosto un ennesimo slancio: il suo nome è, infatti, Oltre il nichilismo. Alla domanda «posso vivere con ciò che so e con ciò soltanto?» posta dall’uomo assurdo nel Mito, l’incipit di questo capitolo risponde affermativamente:
Esistono dunque, per l’uomo, un’azione e un pensiero possibili a quel livello medio che gli è proprio. Ogni tentativo più ambizioso si rivela contraddittorio. […] Oggi, nessuna saggezza può pretendere di dare di più. La rivolta cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che prendere un nuovo slancio. L’uomo può signoreggiare in sé tutto ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che, i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo maggiore, l’uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore nel mondo. Ma ingiustizia e e sofferenza perdureranno, e, per limitate che siano, non cesseranno di essere scandalo. Il “perché” di Dimitri Karamazov continuerà a risuonare, l’arte e la rivolta non moriranno se non con l’ultimo uomo.70
«Diminuire aritmeticamente il dolore nel mondo»: questo è l’unico compito possibile per l’uomo — un compito tanto nobile quanto necessario. In esso, però, non vedremo mai all’opera tutti gli uomini, perché alcuni di essi preferiranno aspettare la loro sempre ipotetica vita oltremondana, mentre altri rimarranno fiduciosi in quell’astuzia della ragione che si suppone operi nella storia. Ma di sicuro a tale compito non potranno sottrarsi «coloro che non trovano quiete né in Dio né entro la storia», coloro i quali «si dannano a vivere per quelli che, come loro, non possono vivere, per gli umiliati».71
In questa categoria di uomini Camus avrebbe voluto vedere un giorno quegli europei reduci delle due guerre mondiali, di Auschwitz e di Hiroshima: egli auspicava infatti un passaggio da quella ragione totale «che non ama più la vita» a quella ragione della misura sempre consapevole dei limiti che la vita stessa impone. Per questo dirà nel 1951, con un profetismo rivelatosi ai nostri occhi purtroppo errato, che «al di là del nichilismo, noi, tutti, tra le rovine, prepariamo una rinascita. Ma pochi lo sanno».72
Tutto il possibile insegnamento era il seguente: occorre rispettare la realtà con i suoi i limiti e la sua misura, senza escludere nulla, perché l’uomo «si serve nella sua totalità o non lo si serve per nulla»;73 occorre ritornare alla luce, dove gli uomini e il mondo restano «il nostro primo e ultimo amore»; bisogna, infine, «imparare a vivere, a morire e, per essere uomo, rifiutare di essere dio».
Ognuno dice all’altro che non è Dio; qui termina il romanticismo. In quest’ora in cui ognuno di noi deve tendere l’arco per rifare la prova, per conquistare, entro e contro la storia, quanto già possiede, la magra messe dei suoi campi, il breve amore di questa terra; nell’ora in cui nasce infine un uomo, bisogna lasciare l’epoca e i suoi furori adolescenti. L’arco si torce, il legno stride. Al sommo della più alta tensione scaturirà lo slancio di una dritta freccia, dal tratto più duro e più libero.74
Così si conclude L’uomo in rivolta, ma non la sua lezione: infatti, tutte queste regole di condotta morale che abbiamo ritrovato qui, alla fine del nostro cammino nell’opera di Camus, saranno personificate magistralmente dal dottor Rieux e da tutti gli altri personaggi de La peste, il romanzo che, a parer nostro, è la miglior e più essenziale espressione di tutta la filosofia camusiana.
«Un romanzo come manifesto di una filosofia?» domanderà qualcuno. Si, risponderebbe Camus, perché in fondo «un romanzo non è mai altro che una filosofia tradotta in immagini».
5. La peste: «filosofia tradotta in immagini»
Scritto in contemporanea con L’uomo in rivolta, ma pubblicato ben quattro anni prima di esso (nel 1947), il romanzo La peste riprende temi e riflessioni del saggio sulla rivolta al fine di trasporli e condensarli in immagini letterarie: in effetti, è possibile sostenere che un’opera completi l’altra, poiché tra le due si crea un legame di chiarificazione reciproca; ma, ovviamente, i piani delle diverse esposizioni non vanno confusi. In questo capitolo, ciò che vogliamo tentare di fare è di rintracciare concisamente ne La peste i temi della rivolta — concentrandoci sulla descrizione del dottor Rieux — e quindi avviarci a trarre delle brevi conclusioni che pongano le basi per una rivalutazione di quella che ormai non esitiamo più a chiamare «filosofia camusiana».
Come d’obbligo quando si affronta un romanzo, inizieremo con un piccolo riassunto della trama. Ci troviamo ad Orano, in Algeria, in un periodo indefinito tra il 1940 e il 1949. In questa piccola città sul mare, la vita scorre quietamente senza imprevisti, fino al giorno in cui a sconvolgere le vite degli Oranesi verrà la peste, portata non si sa da chi, ma segnalata dall’iniziale e inspiegabile morte di centinaia di topi per le strade di tutta la città: l’intero romanzo tratterà, in sostanza, dei diversi atteggiamenti dei personaggi rispetto alla peste, che li ha costretti in quarantena dentro la città dalla quale è vietato uscire; c’è chi cercherà di sfuggirle, chi la accetterà come una punizione divina, chi in essa si pascerà perseguendo un cinico egoismo, chi invece — è il caso del dottor Rieux — lotterà senza eroismi75 contro di essa.
Proprio di quest’ultimo personaggio e del suo rispettivo atteggiamento nei confronti della peste noi ci occuperemo più approfonditamente, poiché esso rappresenta l’alter ego di Camus, come da una sua nota di taccuino si evince chiaramente.76 Il dottor Rieux è per Camus il principale di quelli che la coppia filosofica Deleuze-Guattari definirebbe «personaggi concettuali»77: in esso si incarnano alla perfezione tutti i concetti della rivolta, come in Meursault si incarnavano quelli dell’estraneità.
Il primo aspetto che caratterizza Rieux è il suo «credere ai flagelli», ovvero il suo considerare il male in tutta la sua evidenza e concretezza, lì dove i suoi concittadini «erano degli umanisti: [e quindi] non credevano ai flagelli»78: a Richard, che gli domanda se abbia la certezza assoluta che si tratti di un’epidemia di peste, egli risponde: «lei pone male il problema: non è una questione di vocabolario, è uno questione di tempo». Dal che si evince un secondo aspetto del personaggio: egli pone al di sopra di ogni «ragione teoretica» capace di spiegare il male, la necessità di quella «ragion pratica» che richiede prima di tutto che tale male venga contrastato. Nel caso del romanzo, tale ragion pratica coincide con l’esigenza improrogabile di contrastare la peste senza domandarsi il perché essa esista: in uno dei tanti e indimenticabili dialoghi del libro, Rieux esclamerà: «non posso nello stesso tempo guarire e sapere! E allora guariamo il più presto possibile: è la cosa che più importa».79 Guarire, alleviare il dolore, ma certo non eliminare il male metafisico che è insanabilmente al cuore della realtà: perché la sua gramigna sostanzialità supera i nostri limitati poteri di azione, sicché l’uomo può soltanto prevenirlo prima o tentare di curarlo poi, senza mai aver la possibilità di sottrarvisi totalmente.
Per comprendere questi primi due punti — l’evidenza del male e la «priorità della cura» rispetto alla «comprensione del dolore» — consigliamo la lettura di uno dei dialoghi fondamentali del romanzo,80 quello tra il solito Rieux e Tarrou, altro personaggio fondamentale che aspira con tutte le sue forze a divenire un «santo senza dio».81 In esso, Rieux arriva a pronunciare le seguenti parole: «se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace». Parole a cui Tarrou risponderà ricordando la provvisorietà di tali vittorie contro il male. Ma Rieux, consapevole di ciò, risponderà a sua volta che questa provvisorietà «non è una ragione per smettere la lotta».
Possiamo trarre da quest’ultima affermazione un terzo aspetto della «filosofia della rivolta» di Rieux, quello della rinuncia — ancora una volta senza eroismi — ad una felicità appagata o, per dirlo in altro modo, ad un condotta soddisfatta della propria vita etica.82 Quando Rambert83 decide di rimanere e di arruolarsi nelle file dei volontari di Rieux — perché ha capito che, se non «c’è vergogna nel preferire la felicità», ce ne può essere invece «nell’essere felici da soli» — , Tarrou gli fa notare che «se volesse condividere le sventure degli uomini non avrebbe mai avuto più tempo per la felicità» e che avrebbe dovuto scegliere. Ma quando successivamente Rambert chiede a Tarrou e Rieux se anche loro, come appena detto, avessero «rinunciato alla felicità», quest’ultimo gli risponde a fatica prima con un confuso «mi scusi, Rambert, ma io non lo so. Resti con noi, se lo desidera», per poi dire «nulla al mondo vale che ci distolga da quello che si ama. E tuttavia me ne distolgo anch’io, senza poterne sapere la causa».84
Arrivati a questo punto, vogliamo concludere questo breve capitolo mettendo in risalto un quarto e fondamentale — ma di sicuro non ultimo — aspetto della personalità di Rieux: il suo rifiuto di Dio, che non è di certo un ateismo, quanto più un agnosticismo che non nega né attesta l’esistenza divina ma che rifiuta la divinità in nome di una «fedeltà alla terra» e al male tutto terreno degli uomini. Quando padre Paneloux gli dirà che forse «dobbiamo amare ciò che non possiamo capire», abdicando alla ragione per gettarsi in una fede consapevolmente paradossale, egli, scuotendo la testa, risponde: «No padre, io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati». E gli ricorda che, contro la peste, «noi lavoriamo insieme per qualcosa che riunisce oltre le bestemmie e le preghiere», cosi che neanche Dio può separarli in quel momento di cooperazione contro il male — cooperazione oltre ogni credo.
Ed è proprio a partire da questa ultima affermazione che vogliamo avviarci verso una conclusione, consapevoli che ci sarebbe molto altro da dire se solo lo spazio lo permettesse.
6. Conclusioni
Sperando di essere riusciti in quanto ci eravamo riproposti all’inizio del saggio — ovvero mostrare la «filosofia camusiana» in tutta la sua solarità — vogliamo ora tentare in breve e schematicamente di riassumere quello che riteniamo possa essere il lascito di Camus.
6.1. L’ingiustificabilità e la sostanzialità del male: «il male è, e non può non essere»
Padre Paneloux nelle sue due prediche — in particolare nella prima — opera una tuonante giustificazione del male portato dalla peste, sostenendo che esso sia una punizione divina per l’arroganza e la fede lassista degli Oranesi. La sua prima predica si apre addirittura con le parole: «Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei, voi lo avete meritato». Ora, la posizione di Paneloux è evidentemente metafora di quell’altra posizione — teista, religiosa, credente — che nella storia del pensiero si è sforzata, sin dai suoi albori, di giustificare agli occhi degli uomini il male: a partire dalle forme più primitive — il male come vendetta degli dei adirati, oppure la sua reductio in mysterium — fino a quelle più complesse e filosofiche — il male come privatio boni, come non-essere, come evento all’interno di un disegno divino, come momento di unione mistica con un Dio sofferente, come prodotto del libero arbitrio umano, etc. — il pensiero «credente» non ha potuto fare a meno di costruire in qualche modo un «alibi divino» per l’ingiustificata e irrimediabile presenza del male nel mondo.
Camus è agli antipodi di questa posizione «giustificazionista»: egli afferma, da una parte, l’evidenza e la sostanzialità del male, dall’altra, la sua incomprensibilità e ingiustificabilità.85 Le sue opere ci insegnano che quando si esperisce il male non si può dubitare di tale esperienza, poiché essa è vissuta sempre in prima persona con un evidenza immanente e indubitabile. Con echi parmenidei, potremmo affermare seguendo questo ragionamento che «il male è, e non può non essere». Dunque non resta che combatterlo o perirne:
molti nuovi moralisti andavano allora dicendo nella nostra città che nulla, nulla sarebbe servito e che bisognava mettersi in ginocchio. E Tarrou, e Rieux, e i loro amici potevano rispondere questo o quello, ma la conclusione era sempre quella a loro nota: bisognava lottare in questo o in quel modo e non mettersi in ginocchio. Tutta la questione era di impedire al maggior numero possibile d’uomini di morire e di conoscere la separazione definitiva. Per questo non c’era che un solo mezzo: combattere la peste. Questa verità non era ammirevole, ma soltanto logica.86
6.2. La responsabilità del bene, la necessità della cura: il «sole invincibile» di Camus
Il male, dunque, persiste autonomamente nella sua essenza insensata e tumorale, sordo ai lamenti umani, cieco al sangue versato irreparabilmente. Ma è questa l’«ultima parola»? No. Camus insegna — e noi non riteniamo di fraintenderlo — che nel cuore del reale, oltre e contro il male, ci sia l’uomo e la sua capacità di amare. Egli è l’unico responsabile del bene, l’unico essere che con la sua rivolta è capace di porre rimedio quanto più possibile ad una condizione intrinsecamente ingiusta e dolorosa. Sicché, anche nel buio più totale delle guerre e degli olocausti, deve sempre riemerge dal fondo degli animi abbattuti quel «sole invincibile» capace di scacciare le tenebre del male — siano esse connaturate al reale, siano esse prodotte dagli uomini stessi.
In definitiva, dunque, se c’è un sentimento che permea tutta l’opera di Camus, lungi dall’essere il risentimento, o peggio il pessimismo, questo è senza dubbio l’amore: amore contemporaneamente profondo e incolmabile quanto lucido e realista; amore di chi si rifiuta di mentire e, allo stesso tempo, di darsi per vinto.
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«Si può pensare solo per immagini. Se vuoi fare il filosofo, scrivi romanzi». Albert Camus, Taccuini, II ed. Bompiani, Milano 2004, libro I, p. 14. ↩︎
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«La mia opera non è filosofia». Ma, a nostro avviso, questo fu per Camus soltanto un modo per distinguere la sua «filosofia» da quell’altro modo di intendere la filosofia allora dominante — l’esistenzialismo. Citato in Jan Sperna Weiland, Albert Camus tra filosofia e letteratura, disponibile all’indirizzo URL: http://www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp?d=313. ↩︎
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Albert Camus, L’estate e altri saggi solari, I ed. Bompiani, Milano 2003, p. 163-4. ↩︎
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In occasione dell’assegnazione del Premio Nobel, Camus disse: «Avevo un piano preciso quando ho cominciato la mia opera: volevo prima di tutto esprimere la negazione. Sotto tre forme. Romanzesca: e fu Lo straniero. Drammatica: Caligola, Il malinteso. Ideologica: Il mito di Sisifo. Prevedevo il positivo sempre sotto tre forme. Romanzesca: La peste. Drammatica: Lo stato d’assedio e I giusti. Ideologica: L’uomo in rivolta. Intravedevo già un terzo stato di questo piano relativamente al tema dell’amore». Tratto dalla introduzione di Roger Grenier ad Albert Camus, Opere, I ed. Bompiani, Milano 1988, pp. VIII-IX. ↩︎
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Albert Camus, Taccuini, libro II, p. 26 (corsivo mio). ↩︎
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Albert Camus, Nozze a Tipasa, in L’estate e altri saggi solari, p. 9, (corsivo mio). ↩︎
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Albert Camus, Taccuini, libro I, p. 25-6 (corsivo mio). ↩︎
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Tipasa, città algerina sul mar mediterraneo, luogo di svolgimento del saggio in questione (Nozze a Tipasa). ↩︎
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Albert Camus, Nozze a Tipasa, in L’estate e altri saggi solari, pp. 5-8 per l’interno capoverso (corsivo mio). ↩︎
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«La famiglia Camus si reputava di origine alsaziana. Lucien Auguste, cantiniere salariato, figlio di immigrati francesi in Algeria, aveva sposato Catherine Hélène Sintès, di tre anni più anziana di lui, di origine spagnola delle Baleari, sorda e balbuziente per un incidente subito nella prima infanzia e analfabeta. Da questa unione nacquero Lucien Jean Etienne, nel 1910, e tre anni dopo Albert, a Mondovi, nei pressi della città di Bona, dove era vissuto sant’Agostino. Lucien Auguste morì nella battaglia della Marna nel 1914, lasciando la famiglia priva di adeguato sostentamento. Catherine Hélène andò a vivere in un piccolo appartamento a Belcourt, quartiere popolare di Algeri, con i figli presso la mamma e un fratello handicappato. Vivono con un piccolo vitalizio erogato dallo Stato e con i proventi del lavoro a ore come domestica svolto da Catherine Hélène». Tratto da Aniello Montano, Camus. Un mistico senza Dio. Edizioni Messaggero Padova, 2003, p. 33-4. ↩︎
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Albert Camus, Il rovescio e il diritto, in Opere, a cura e con introduzione di Roger Grenier, Milano 1988, p. 6. ↩︎
-
Marcello Del Vecchio, La fenomenologia dell’assurdo in Albert Camus, Firenze 1979, p.277. ↩︎
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Albert Camus, Ritorno a Tipasa, in L’estate e altri saggi solari, p. 95-6 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 99. ↩︎
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Albert Camus, Incontro con Albert Camus, in L’estate e altri saggi solari, p. 168. ↩︎
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Albert Camus, L’esilio di Elena, in L’estate e altri saggi solari, p. 79. ↩︎
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Ivi, p. 80 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 81. ↩︎
-
Albert Camus, Taccuini, libro II, p. 149-150. ↩︎
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Albert Camus, L’uomo in rivolta, IV ed. Bompiani, Milano 2005, p. 323. ↩︎
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Albert Camus, L’esilio di Elena, in L’estate e altri saggi solari, p. 81-82 per l’intero capoverso . ↩︎
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Giuseppe Ungaretti, I fiumi, in Tutte le poesie, Mondadori, I ed. 2005, p. 43. ↩︎
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Albert Camus, Il vento a Djemila, in L’estate e altri saggi solari, p. 11 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 12. ↩︎
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Albert Camus, Taccuini, libro I, p. 12. Ma anche in Il rovescio e il diritto, p. 50. ↩︎
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Albert Camus, Lo straniero, XXIII ed. Bompiani, Milano 2008, pp. 27-31. ↩︎
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Ivi, p. 31. ↩︎
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Ivi, pp. 55-6. ↩︎
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Al suo principale che gli offre la possibilità di cambiare vita andando a lavorare per lui a Parigi, egli risponde che «non si cambia mai vita, che del resto tutte le vite si equivalgono» e che la sua, così com’era, non gli dispiaceva affatto; oppure al suo vicino di casa Raimondo, conosciuto da poco, il quale gli dice di essere per lui «un vero amico», egli risponde semplicemente con un inespressivo «sì». Ma gli esempi da fare sarebbero sicuramente di più. ↩︎
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Questo è quanto dirà Camus riguardo al suo personaggio nella prefazione ad un’edizione americana del libro. ↩︎
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Albert Camus, Taccuini, libro II, p. 28. ↩︎
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«Ça m’était égal» - «per me era uguale»: è questa una delle frasi più ricorrenti di Meursault. ↩︎
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Ivi, p. 75-6 (corsivo mio). ↩︎
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E non a caso, nella struttura del libro, questo è il punto che sancisce la fine della prima parte e l’inizio della seconda. ↩︎
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Ivi, pp. 148-150 (corsivo mio). ↩︎
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Camus, in una nota dei suoi Taccuini, descriverà questo passaggio come «un luogo privilegiato dove si riuniva finalmente quell’individuo descritto così disperso». ↩︎
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«Meursault per me non è dunque un relitto, ma un uomo povero e nudo, amante del sole che non lascia ombre. Lungi dall’essere privo di sensibilità, una passione profonda, perché tenace, lo anima, la passione dell’assoluto e della verità. Si tratta di una verità ancora negativa, la verità di essere e di sentire, ma senza la quale nessuna conquista su se stessi e sul mondo sarà mai possibile». Parole di Albert Camus per una prefazione ad un’edizione americana de Lo straniero, tratte dalle Note ai testi di Jean Grenier contenute nel volume Albert Camus. Opere, I ed. Bompiani, Milano 1988. ↩︎
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Si veda la sopracitata prefazione all’edizione americana de Lo straniero. ↩︎
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Albert Camus, L’uomo in rivolta, p. 77. ↩︎
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Albert Camus, Il mito di Sisifo, VII ed. Bompiani, Milano 2008, p. 10 (corsivo mio). ↩︎
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Si veda la premessa al Mito. ↩︎
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Ivi, p. 9. ↩︎
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Ivi, pg 48. ↩︎
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Ivi, p. 17. Ho preferito usare degli accorgimenti nella traduzione, al fine di rendere il testo più comprensibile, evidenziando le aggiunte con delle parentesi. ↩︎
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Ivi, 29. ↩︎
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Ivi, p. 19-20. ↩︎
-
Ivi, p. 28. ↩︎
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Ivi, 31. ↩︎
-
Ivi, p. 34. Corretta dall’autore una piccola omissione nell’edizione del Mito citata (manca il termine «che»: il senso della frase ne risulta sconvolto, «non ci si rivolge a Dio per ottenere l’impossibile»). In Opere, il passo è scritto correttamente. ↩︎
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Ivi, p. 35, anche per le precedenti. ↩︎
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«La ragione è direttamente opposta alla fede; perciò si deve abbandonarla; nei credenti essa dev’essere uccisa e sepolta». Citato in Jacques Maritain, Tre riformatori. (Lutero, Cartesio, Rousseau), Morcelliana, 1928, p. 49. ↩︎
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Ivi, p. 37. ↩︎
-
Ivi, p. 39. ↩︎
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Idem. ↩︎
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Si legga la premessa al Mito. ↩︎
-
L’uomo in rivolta, p. 11-2. ↩︎
-
Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, XI ed. Adelphi, Milano 2006, aforisma 638, p. 304-5. ↩︎
-
L’uomo in rivolta, pp. 6-7, per l’intero capoverso. ↩︎
-
Ivi, p. 12. ↩︎
-
Ivi, pp. 6-8, per l’intero capoverso. ↩︎
-
Ivi, p. 17. ↩︎
-
Ivi, p. 18. ↩︎
-
Ivi, p. 20. ↩︎
-
Ivi, p. 21. ↩︎
-
Ivi, p. 25. ↩︎
-
In un intervista resa poco prima di morire, Camus afferma: «Io non credo in Dio, è vero. Ma non per questo sono ateo. Sarei anche d’accordo con Benjamin Constant nel trovare l’irreligione qualcosa di volgare e […] di logoro». «Le monde», 31 agosto 1956. ↩︎
-
Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, VI ristampa Jaca Book, Milano 2006, p. 57. ↩︎
-
L’uomo in rivolta, p. 26-7. ↩︎
-
Ivi, p. 329. ↩︎
-
Ivi, p. 331. ↩︎
-
Ivi, p. 332. ↩︎
-
Ivi, p. 333. ↩︎
-
Taccuini, libro II, p. 155. ↩︎
-
L’uomo in rivolta, p. 335. ↩︎
-
Rieux: «Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa». Albert Camus, La peste, XXIV ed. Bompiani, Milano 2004, p. 197. ↩︎
-
«L’uomo non è innocente e non è colpevole. Come uscirne? Ciò che Rieux, io, voglio dire, è che bisogna guarire quel che si può guarire — nell’attesa di sapere o di vedere. È una posizione d’attesa, e Rieux dice: “non so”». Citato in Note ai testi di Roger Grenier, in Albert Camus, Opere, p. 1317. ↩︎
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«I personaggi concettuali […] operano i movimenti che descrivono il piano di immanenza dell’autore e intervengono nella creazione stessa dei concetti. Così, anche quando sono “antipatici”, appartengono pienamente al piano che il filosofo traccia e ai concetti che crea: essi segnalano allora i pericoli insisti in questo piano, le cattive percezioni, i cattivi sentimenti o anche i movimenti negativi che ne derivano, introducendo dei concetti originali il cui carattere di ripulsa resta una proprietà costituente di questa filosofia. […] Il destino del filosofo è quello di diventare il proprio o i propri personaggi concettuali, così come loro divengono altro da ciò che sono storicamente, mitologicamente o correntemente (il Socrate di Platone, il Dioniso di Nietzsche, l’Idiota di Cusano). Il personaggio concettuale è il divenire o il soggetto di una filosofia, è ciò che sta per il filosofo, al punto che Cusano o anche Descartes dovrebbero firmarsi “l’Idiota”, così come Nietzsche si firma “l’Anticristo” o “Dioniso crocifisso”». Gilles Deleuze, Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, III ed. Einaudi, Torino 2002, p. 53-4, ma a riguardo leggere l’intero III capitolo del libro. ↩︎
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La peste, p. 30. ↩︎
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Ivi, p. 162. ↩︎
-
Ivi, pp. 95-100. ↩︎
-
Ivi, p. 197. ↩︎
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Riteniamo di poter affiancare, almeno su questo tema, Camus a Levinas. Come non intravedere quanto meno delle concordanza tra i due, quando ad esempio il filosofo franco-lituano afferma che «la fame d’altri risveglia gli uomini dalla loro sonnolenza di satolli e fa loro passare la sbornia del sussiego. La nuova trascendenza è il rifiuto di credere a una pace in altri a causa di un’armonia qualsiasi nella totalità; la certezza che nulla può ingannare la fame dell’altro uomo»? Tratto da Secolarizzazione e fame, disponibile all’URL http://www.kainos.it/numero7/emergenze/Levinas.html ↩︎
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Giovane giornalista trovatosi impossibilitato a ritornare dalla propria amata a causa della peste, ma disposto ad evadere a qualunque costo pur di rivederla. ↩︎
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La peste, p. 161-2. ↩︎
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«[…] ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema (dell’uomo, n.d.A.), bensì il fatto che il grido della domanda “a che scopo soffrire?” restasse senza risposta. L’uomo, l’animale più coraggioso e più abituato al dolore, in sé non nega la sofferenza; la vuole, la ricerca persino, posto che gli si indichi un senso di essa, un “perché” del soffrire. L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità - e l’ideale ascetico offrì a essa un senso!» Contrariamente a quanto ci si aspetti, la citazione non è di Camus, ma di Nietzsche. Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, XV ed. Adelphi, Milano 2008, p. 156. ↩︎
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Ivi, p. 102. ↩︎