Dal sacro al santo. La trascendenza teologica non violenta in Emmanuel Levinas

1. Dal sacro al santo

La trascendenza non è un tema marginale nel pensiero di Levinas. A ben vedere, infatti, l’interesse primario di Levinas non è l’etica ma proprio la «trascendenza». E ciò, nonostante il successo della famosa formula «l’etica è la filosofia prima», con cui è stato sintetizzato il suo pensiero.1 Successo peraltro giustificato, perché, a suo avviso, l’unico luogo possibile della trascendenza è appunto l’etica. La seguente citazione dice, con grande chiarezza, entrambe le cose.

È la significazione dell’oltre, della trascendenza e non l’etica che il nostro studio ricerca. Esso la trova nell’etica.2

È peraltro opportuno leggere anche il seguito della citazione:

Significazione, perché l’etica si struttura come l’uno-per-l’altro; significazione dell’al di là dell’essere, poiché al di fuori di ogni finalità in una responsabilità che sempre si accresce — dis-interessamento in cui l’essere si disfa del suo essere (Ibid.).

Il tenore di questo testo ci permette fin d’ora d’osservare che della trascendenza a Levinas non interessa tanto dare una prova o una dimostrazione razionale, peraltro giudicata impossibile e controproducente, quanto di farne emergere la «significazione»: cioè il modo di darsi o anche di «prodursi», secondo la valenza che a questo termine egli dà fin da Totalità e Infinito3 per indicare sia l’attuarsi sia l’esporsi, rivelarsi; potremmo anche dire: il suo particolarissimo modo di fenomenizzarsi.

Le forme di trascendenza che gli stanno particolarmente a cuore sono due: quella del «volto d’Altri», cioè dell’altro uomo, e quella della «soggettività responsabile», cioè di me medesimo, in prima persona. Entrambe sono però da lui intese ed indagate come voci enigmatiche o «tracce» della trascendenza dell’Infinito, di Dio, l’assolutamente trascendente perché «al di qua» e «al di là» della trascendenza umana, quella del volto come quella del soggetto responsabile. La cadenza di fondo della filosofia di Levinas è quindi non solo la trascendenza umana, ma la trascendenza teologica, significazione ultima della trascendenza umana stessa. Questa, infatti, per un verso è come il «tempio o teatro» (DVI, p. 93), in cui Dio può «prodursi», e per altro verso da Dio è sorretta e giustificata nella sua caratteristica di soggetto creato «separato» o autonomo.

L’itinerario della ricerca di Levinas circa la significazione della trascendenza teologica, può, in prima approssimazione, ben sintetizzarsi nella formula «dal sacro al santo», da lui utilizzata come titolo della raccolta di cinque nuove letture del Talmud pubblicata nel 1977.4 Le varie forme sacrali della trascendenza (come ad es. quella descritta da R. Otto in Il sacro, del 1917, ove il sacro è presentato come il numinoso irrazionale in cui convergono il tremendum e il fascinans)5 implicano una relazione con Dio intesa in termini di «partecipazione» totalizzante, che spersonalizza e paralizza il soggetto umano, e in questo senso gli fa «violenza».6 Così avverrebbe nelle religioni «mitiche», o del «sacro», descritte da Levy Bruhl nei suoi studi sulla religiosità primitiva,7 ma anche nella più diffusa pratica religiosa e nelle stesse correnti misticheggianti della religiosità ebraica, da cui Levinas prende ripetutamente le distanze preferendo, nell’ebraismo, quella corrente spirituale che si nutre soprattutto dello studio dei testi biblico-talmudici.8

In uno dei primi saggi della raccolta Difficile liberté, dal titolo Une religion d’adultes, risalente al 1957,9 egli già chiaramente prospetta il passaggio dal «sacro» al «santo» come l’ideale dell’ebraismo e quindi anche lo scopo dell’educazione religiosa ebraica.

Per l’ebraismo, il fine dell’educazione consiste nell’instaurare un rapporto tra l’uomo e la santità di Dio e nel mantenere l’uomo in questo rapporto. Ma tutto il suo impegno […] consiste nel comprendere questa santità di Dio in un senso che la rompe col significato numinoso di questo termine, quale appare nelle religioni primitive ove i moderni hanno spesso voluto vedere la fonte di ogni religione. Per questi pensatori, il possesso dell’uomo da parte di Dio, l’entusiasmo, sarebbe la conseguenza della santità o del carattere sacro di Dio, l’alfa e l’omega della vita spirituale. L’ebraismo ha disincantato il mondo, l’ha rotta con questa pretesa evoluzione delle religioni a partire dall’entusiasmo e dal sacro. L’ebraismo resta estraneo ad ogni ritorno offensivo di queste forme di elevazione umana. Esso le denuncia come l’essenza dell’idolatria.

Il numinoso o il sacro avvolge e trasporta l’uomo al-di-là dei suoi poteri e dei suoi voleri. Ma una vera libertà è lesa da questi surplus incontrollabili. Il numinoso annulla i rapporti tra le persone facendo partecipare gli esseri, sia pur nell’estasi, ad un dramma che non hanno voluto, ad un ordine in cui si sprofondano. Questa potenza, in qualche modo sacramentale del divino, appare all’ebraismo come offensiva della libertà umana e come contraria all’educazione dell’uomo, che resta azione su di un essere libero. Non che la libertà sia un fine in sé. Ma essa resta la condizione di ogni valore che l’uomo possa raggiungere. Il sacro che mi avvolge e mi trasporta è violenza (DL, pp. 31-32; tr. it. cit., pp. 30-31).

E Levinas rileva la vicinanza di questo ebraismo con l’Occidente, ossia con la filosofia, parimenti gelosa dell’indipendenza umana; fino a rischiare l’ateismo, pur di superare questo concetto numinoso del sacro.

È grande gloria per il creatore aver eretto sui suoi piedi un essere che l’afferma dopo averlo contestato e negato nelle suggestioni del mito o dell’entusiasmo; è grande gloria per Dio aver creato un essere capace di cercarlo o di ascoltarlo da lontano, a partire dalla separazione, dall’ateismo. […] Il monoteismo sorpassa e ingloba l’ateismo, ma è impossibile a chi non ha raggiunto l’età del dubbio, della solitudine e della rivolta (DL, p. 34; tr. it. cit., p. 32).

La critica alla concezione sacrale di Dio in nome dell’autonomia del soggetto umano, è quindi spinta da Levinas fino ad usare provocatoriamente il termine di «ateo» per designare e rivendicare la consistenza propria dell’essere separato dell’io e si concretizza nel contrapporre alla «violenza» spersonalizzante del sacro quella relazione del finito con l’infinito che egli chiama «relazione metafisica»,10 sottolineando che la paradossalità di tale relazione consiste nel fatto — difeso con vigore nella sua originalità, soprattutto contro Hegel — che in essa i termini, pur entrando in relazione, si sciolgono dalla relazione, mantenendo così la loro autonoma consistenza. Il che salvaguardia la trascendenza assoluta di Dio ma anche l’autonomia e la libertà dell’umano, la sua «separatezza».

Si può chiamare ateismo questa separazione talmente completa che l’essere separato si mantiene assolutamente solo nell’esistenza, senza partecipare all’Essere dal quale è separato. […] Si vive al di fuori di Dio, a casa propria, si è io, egoismo (TI, pp. 56-57).

La relazione metafisica è l’alba di un’umanità senza miti. Ma la fede epurata dai miti, la fede monoteistica, presuppone, a sua volta, l’ateismo metafisico (TI, p. 75). Porsi di fronte all’assoluto da atei, significa accogliere l’assoluto epurato dalla violenza del sacro (TI, p. 75).

Ma vale la pena di leggere più compiutamente questo testo di Totalità e infinito, ricchissimo per il nostro tema, ove è bene caratterizzato il senso della purificazione della trascendenza divina dalla «violenza del sacro» in nome della sua «santità».

Nella dimensione di maestosità in cui si presenta la sua santità — cioè la sua separazione — l’infinito non brucia gli occhi che si fissano su di lui. Parla, non ha il formato mitico che non sarebbe possibile affrontare e che terrebbe prigioniero l’io nelle sue reti invisibili. Non è numinoso: l’io che l’avvicina non è né annientato dal suo contatto, né trasportato fuori di sé, ma resta separato e mantiene le distanze. Solo un essere ateo può porsi di fronte all’altro e subito assolversi da questa relazione. La trascendenza si distingue da un’unione con il trascendente, per partecipazione. […] L’idea dell’infinito, la relazione metafisica è l’alba di un’umanità senza miti. […]

Porre il trascendente come straniero e povero significa impedire alla relazione metafisica con Dio di attuarsi nell’ignoranza degli uomini e delle cose. […] La sua epifania consiste nel sollecitarci attraverso la sua miseria nel volto dello straniero, della vedova, dell’orfano. […]

Non può esserci alcuna «conoscenza» di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini. Altri è proprio il luogo della verità metafisica, indispensabile al mio rapporto con Dio. Non ha affatto il ruolo del mediatore. Altri non è l’incarnazione di Dio, ma appunto attraverso il suo volto, nel quale è disincarnato, la manifestazione della maestosità nella quale Dio si rivela. […] La relazione etica si definisce, a differenza di qualsiasi relazione con il sacro, escludendo tutti quei significati che essa prenderebbe all’insaputa di chi la mette in atto. […] Tutto ciò che non può essere ricondotto ad una relazione interumana rappresenta non la forma superiore ma una forma più che mai primitiva della religione (TI, pp. 75-77, con corr. alla tr.).

Passare «dal sacro al santo» significa, quindi, cercare d’intendere Dio non più sullo sfondo di una realtà numinosa che comprime e spersonalizza l’uomo con la sua potenza, che gli fa violenza, bensì sullo sfondo delle relazioni etiche interpersonali, in termini «etici», ossia ad un tempo come l’assolutamente altro, separato, «santo» — secondo il significato ebraico primario di santità come separatezza — ma anche come il Bene assoluto, all’origine della bontà delle relazioni umane e accessibile solo a partire dalle relazioni umane. «La dimensione del divino si apre a partire dal volto umano» (TI, p. 76). Ne segue che, secondo Levinas, i concetti teologici sono vuoti senza il riferimento all’etica, così come per Kant i concetti sono vuoti senza il riferimento all’intuizione empirica.

2. Dall’ontologia all’etica

La preoccupazione di salvaguardare l’autonoma consistenza del soggetto umano, presente nello svincolare l’idea di Dio da quella del sacro, dalla violenza del sacro, guida Levinas anche nella critica — più specificatamente filosofica — all’ontologia quale orizzonte ultimo del senso e quindi anche come orizzonte sul cui sfondo pensare Dio. Egli si trova certamente in sintonia con le critiche di Heidegger all’onto-teologia, che finirebbe per pensare Dio come ente tra gli enti, sia pur come l’ente sommo, l’ens perfectissimum, nel pieno oblio della differenza ontologica tra enti ed essere. Ma ritiene che si debba andare oltre lo stesso invito, rivolto da Heidegger alla teologia, di pensare e dire Dio sullo sfondo della riscoperta della verità dell’essere nella sua differenza dagli enti.11 Per salvaguardare la trascendenza santa di Dio è necessario, a suo avviso, cercare di pensare Dio «senza l’essere» (come dirà Marion), andando cioè oltre l’essere, nell’altrimenti-che-essere, come si sostiene, quale tesi centrale, nell’opera Altrimenti che essere (1974);12 tesi ripresa e sviluppata nel saggio Dio e la filosofia (1975), ripubblicato nella raccolta Di Dio che viene all’idea (1982), di cui costituisce il centro. Qui leggiamo:

Se l’intellezione del Dio biblico — la teologia — non raggiunge il livello del pensiero filosofico, non è perché essa pensa Dio come ente senza esplicitare innanzitutto «l’essere di questo ente», ma perché, tematizzando Dio, essa lo conduce nel percorso dell’essere, proprio mentre il Dio della Bibbia significa in maniera inverosimile — cioè senza analogia con un’idea sottomessa ai criteri, senza analogia con un’idea esposta all’intimazione di mostrarsi vera o falsa — l’al di là dell’essere, la trascendenza. […]

Il problema che di conseguenza si pone e su cui ci concentreremo consiste nel domandarsi se il senso equivale all’esse dell’essere, cioè se il senso che in filosofia è senso non sia già una restrizione del senso, se non sia già una derivata, o una deriva del senso, se il senso equivalente all’essenza — alle gesta dell’essere, all’essere in quanto essere — non sia già accostato all’interno della presenza che è il tempo del Medesimo; supposizione che può giustificarsi solo tramite la possibilità di risalire a partire da questo senso, che si presume condizionato, ad un senso che non si direbbe più in termini di essere, né in termini di ente (DVI, p. 78).

Perché — ci possiamo domandare — quest’impegno di Levinas a liberare Dio da «ogni contaminazione con l’essere», mostrando che l’essere — più propriamente le «gesta dell’essere», secondo quella verbalità dell’esse che Heidegger avrebbe avuto il merito di risvegliare — non può essere inteso come l’orizzonte ultimo del senso e quindi come il luogo in cui Dio può propriamente venire all’idea? Fondamentalmente perché, a suo avviso, già l’uomo, l’essente uomo, non può essere pensato sullo sfondo dell’essere senza venire spersonalizzato nel c’è (il y a) anonimo (come si sostiene già in Dall’esistenza all’esistente, del 1947) ,13 senza essere subordinato ad una totalità da cui trarrebbe ogni suo senso perdendo la propria singolarità irriducibile (come si sostiene in Totalità e infinito, del 1961), senza essere ridotto alla pur grandiosa funzione di momento indispensabile nel dramma della manifestazione che compete all’essenza stessa dell’essere (come spiegato in Altrimenti che essere, del 1974). E se l’ontologia, concepita quale orizzonte ultimo del senso, risulta «violenta» per l’uomo,14 tanto più essa risulterà violenta per Dio; più propriamente per l’autentica significazione di Dio e quindi per un’autentica relazione dell’uomo per Dio.

In Totalità e infinito, più in particolare, la critica all’ontologia totalitaria diviene anche critica della concezione monolitica dell’essere parmenideo, che pensa la perfezione dell’essere in termini di completa unità. Una concezione che sfocia nella visione dell’Uno divino come autosufficiente e soddisfatto di sé, che penserebbe soltanto se stesso e nei cui confronti gli esseri molteplici e separati sarebbero come una decadenza dall’essere vero e proprio, una limitazione dell’essere. A tale paradigma ontologico parmenideo, Levinas contrappone il paradigma (ontologico) della creazione, da intendersi non tanto come produzione causale da parte di un artefice sommo, quanto, appunto, come situazione di «separatezza» degli esseri creati nei confronti dell’essere divino infinito e, al tempo stesso, d’effettiva relazione di specifica dipendenza.

L’ideale di un essere attuato dall’eternità e che pensa solo a se stesso non può servire da paradigma ontologico di una vita, di un divenire, capaci di un Desiderio sempre rinnovato, di società. […] Il fatto che ci possa essere qualcosa che è più dell’essere o al di sopra dell’essere si traduce nell’idea di creazione che, in Dio, supera un essere eternamente soddisfatto di sé (TI, p. 223).

Un Bene al di là dell’essere e al di là della beatitudine dell’Uno — ecco come si potrebbe enunciare un concetto rigoroso della creazione (TI, p. 301).

All’ontologia monolitica parmenidea, violenta nei confronti dell’uomo e nei confronti di Dio, Levinas contrappone prima, in Totalità e infinito, un’ontologia pluralista e relazionale pensata in termini etici, e poi, in Altrimenti che essere, addirittura un trascendere etico del soggetto responsabile che la rompe con l’orizzonte stesso dell’essere, avventurandosi, appunto, nell’altrimenti che essere, ove soltanto si trova la significazione ultima del senso. Una significazione non più esprimibile in termini di essere ma solo in termini di dis-inter-esse, cioè d’uscita dall’essere, d’evasione etica dall’essere; ove anche la terminologia ontologica è forzata a trasformarsi in terminologia etica, come nel caso della «differenza» ontologica che si trasforma in «non in-differenza» etica. Per questo Levinas sostiene, e questo fin da Totalità e infinito, che la vera e propria «filosofia prima», ovvero l’origine e l’orizzonte ultimi del senso, non è l’ontologia ma l’etica.15 E, di conseguenza, che non è possibile pensare Dio, il senso primo ed ultimo della realtà (o meglio, della «significazione»), in termini di essere ma solo in termini etici, di trascendenza etica.

3. La non violenza della relazione etico-teologica

Pensare Dio in termini etici non aprirà però la strada ad una nuova forma di violenza sull’uomo? Evitata la violenza della trascendenza religioso-sacrale e della trascendenza metafisico-ontologica, non si cadrà nella violenza dell’imperativo etico eteronomo, che s’imporrebbe alla libertà umana come semplice trascrizione secolarizzata del Dio numinoso che dal monte Sinai imponeva la sua legge tra tuoni, lampi e fulmini?16

Fin dalla prima frase di Totalità e Infinito Levinas mostra di essere ben cosciente di questo rischio, che peraltro Nietzsche aveva ampiamente denunciato, soprattutto in riferimento all’etica imperativa di Kant. «Tutti ammettono facilmente — osservava — che la cosa più importante è sapere se non si è vittime della morale» (si l’on n’est pas le dupe de la morale = se non si è presi in giro, burlati, dalla morale) (TI, p. 19).

L’avvertenza estrema di questo rischio è ben presente sia nella descrizione della fenomenologia del «volto», che comanda in modo incondizionato di «non uccidere», ma anche d’«amare incondizionatamente» (fenomenologia svolta soprattutto in Totalità e Infinito), sia nella descrizione della soggettività umana, responsabile fino alla «soggezione» ad altri, alla «sostituzione» e alla «espiazione» per i loro delitti, nel «dis-inter-esse» più completo (fenomenologia svolta soprattutto in Altrimenti che essere). A tale rischio egli cerca sempre di sfuggire con vigile attenzione.

Nella fenomenologia del volto tale attenzione si concentra nel rilevare come nel «volto» d’Altri noi sperimentiamo la coincidenza paradossale d’Altezza (Maestà o Signoria) e di miseria, nudità, vulnerabilità.

D’Altezza, per l’incondizionatezza del comando, che vale senza attendere o pretendere la reciproca, e quindi nella più completa asimmetria; e cresce all’infinito senza trovare mai compimento o soddisfazione, come nel dinamismo del desiderio della bontà. Due caratteristiche, l’incondizionatezza e l’infinizione, che permettono di rilevare nel volto d’Altri la «traccia» dell’Infinito, dell’Altissimo, la dimensione del divino. La «curvatura dello spazio intersoggettivo», che situa Altri più in alto di me, «separato — o santo — volto» — osserva Levinas — «significa l’intenzione divina d’ogni verità»; per questo egli si azzarda a dire: «questa «curvatura dello spazio» è, forse, la presenza stessa di Dio» (TI, pp. 299-300).

Ma la particolare significazione teologica di tale traccia dell’Altissimo, che si può riscontrare nel volto d’Altri, rischierebbe di presentarsi come violenta se la Maestà del volto non coincidesse con la sua miseria, nudità, vulnerabilità; in altre parole, se non si offrisse indifesa al possibile oltraggio fino all’omicidio. Come una compiuta fenomenologia del volto può mettere in luce, la cogenza dell’interpellazione etica che mi giunge dal volto non è violenta, anzi è all’origine della relazione pacifica tra gli uomini, anche perché, lungi dall’imporsi con la forza della sua potenza, s’impone per la sua stessa impotenza, miseria, vulnerabilità.

L’infinito paralizza il potere con la sua resistenza infinita all’omicidio, che, dura ed insormontabile, risplende nel volto d’Altri, nella nudità totale dei suoi occhi, senza difesa, nella nudità dell’apertura assoluta del Trascendente. Si tratta d’una relazione non con una resistenza grandissima, ma con qualcosa di assolutamente Altro: la resistenza di ciò che non ha resistenza — la resistenza etica (TI, pp. 173; 204).

Nell’interessante saggio Giudaismo e kénosi, del 1985,17 ma anche già nel saggio Dall’etica all’esegesi, del 1982,18 e, prima ancora, nel saggio Un Dieu Homme?, del 1968,19 nella miseria e nudità del volto Levinas vedrà addirittura, con chiari e dichiarati accenti anche cristiani, la traccia dell’umiltà del divino che si abbassa fino a noi, discende nell’uomo, nelle nostre idee, soprattutto nei piccoli e poveri, per farsi servire ed amare in loro, fino a preferire d’essere soggetto all’arbitrio della violenza altrui piuttosto che apparire come violento.20

In Totalità ed infinito, Levinas non giungeva ancora ad individuare, nella nudità e miseria del volto, la traccia della kénosi del divino quale alternativa estrema non solo al sacro violento e all’autosufficiente beatitudine dell’Uno, ma anche ad un’etica imperativa di natura violenta. Ma era già ben attento a mettere in luce come l’imperativo etico che mi giunge eteronomamente dal volto d’altri, sintesi di Maestà e di miseria, lungi dal violentare la libertà umana l’instaura, qualificandola con l’investitura nobiliare della responsabilità.

La presenza d’Altri — eteronomia privilegiata — non si oppone alla libertà ma l’investe (TI, p. 87). L’Altro, assolutamente altro — Altri — non limita la libertà del Medesimo. Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica. La relazione con l’altro in quanto volto guarisce dall’allergia. Essa è desiderio, insegnamento ricevuto e opposizione pacifica del discorso (TI, p. 202).

La tesi della libertà che nasce in quanto «investita dalla responsabilità», implica, per Levinas, che non esista una libertà umana originariamente infinita e neutra rispetto al bene e al male. Se si desse una tale libertà — come in epoca moderna è stato ampiamente sostenuto — ogni comando eteronomo le farebbe inevitabilmente violenza, costringendola entro limiti non suoi. Se invece la libertà umana nasce e si coglie nella sua natura più profonda, proprio in virtù dell’incontro con il volto d’altri, come fin dall’origine «investita» o qualificata dalla responsabilità per altri, si può comprendere come l’imperativo etico non la comprima ma l’instauri. In un certo modo come sostiene Kant, per il quale imperativo categorico e libertà si richiamano a vicenda, in quanto il primo evidenzia la seconda, ne è la ratio cognoscendi, e la seconda rende possibile il primo, ne è la ratio essendi. A ciò si aggiunge che per Levinas la responsabilità, che investe originariamente la libertà, per natura sua s’accresce senza posa, all’infinito, secondo il dinamismo proprio del desiderio della bontà, e quindi testimonia, in questa sua stessa infinizione, la presenza dell’infinito in lei. Una presenza paradossale, come quella che Cartesio descrive a proposito dell’idea dell’Infinito, che è bensì in noi ma che noi, esseri finiti, non possiamo in alcun modo contenere o adeguare; e proprio per questo tale idea testimonia della trascendenza assoluta dell’infinito che ne sta all’origine.

Sulla testimonianza dell’infinito da parte della soggettività responsabile dell’uomo, Levinas ritornerà più ampiamente in Altrimenti che essere, coniugandolo con i temi dell’ispirazione e della profezia. In quest’opera viene in primo piano non più la trascendenza del volto altrui, ma la trascendenza della stessa soggettività umana, responsabile d’altri nel più completo «dis-inter-esse» e per questo già oltre l’essere, già trascendenza rispetto all’essere. Nella descrizione fenomenologica di questa responsabilità disinteressata, in cui consiste la soggettività dell’uomo, il vero e proprio humanum che è in noi, che noi siamo, Levinas si spinge fino all’uso di una terminologia talmente estrema o iperbolica, da rischiare la compromissione con l’etica sacrificale, che esige e pratica il sacrificio di un soggetto umano — quale capro espiatorio — per la salvezza di molti.21 Una terminologia che ha stupito lo stesso Ricœur, tanto da fargli pensare che in Levinas non si rendesse ragione alle positive capacità di agire e d’accoglienza inerenti alla soggettività umana, fino a lasciarla passivamente indifesa in balia di Altri come suo possibile carnefice.22

A mio avviso questa deriva pericolosa non solo è del tutto estranea agli intenti di Levinas, ma è da lui positivamente esclusa. La passività del soggetto responsabile, descritta in termini di sensibilità, prossimità, sostituzione fino all’espiazione, va letta, infatti, sullo sfondo del concetto ebraico dell’elezione, che in Altrimenti che essere viene in primo piano rispetto alla categoria della creazione, che campeggiava in Totalità e Infinito. Ora l’elezione — come impronta caratteristica d’ogni soggetto umano, dato che l’elezione d’Israele è da intendersi, per Levinas, come rappresentativa dell’elezione d’ogni uomo — dice di una scelta pre-originaria o anarchica da parte del Bene; che è Bene proprio perché in modo del tutto gratuito, prima che io potessi sceglierlo, già mi ha scelto alla responsabilità disinteressata per altri, senza alcun limite che non sia quello che deriva dalla presenza del terzo, cioè di tutti gli altri volti che già urgono nel volto del fratello più prossimo. Anche l’elezione, quindi, lungi dal violentare la mia libertà, l’instaura, la rende possibile per quello che veramente è, liberandola dai vincoli di una soggettività egoisticamente e vitalmente accentrata su se stessa, dallo statuto di un’esistenza individuale solitaria.

Quest’anteriorità della responsabilità in rapporto alla libertà significherebbe la Bontà del Bene: la necessità per il Bene di eleggermi per primo, prima che io sia in grado di eleggerlo, cioè di accogliere la sua scelta. È questa la mia susceptio pre-originaria (AE, p. 155).

La bontà è nel soggetto l’an-archia stessa; in quanto responsabilità per la libertà dell’altro, anteriore ad ogni libertà in me, ma anche anteriore alla violenza in me che sarebbe il contrario della libertà, perché se nessuno è buono volontariamente, nessuno è schiavo del Bene (AE, p. 173).

L’elezione alla responsabilità non fa, quindi, in alcun modo violenza alla libertà. Sia perché la costituisce come tale e non le sopraggiunge in un secondo tempo, sia perché la libertà, originariamente investita dal bene e quindi buona in radice, può rifiutarsi di fare il bene, di essere concretamente responsabile d’altri. Ma così essa decade dal bene nel male, che non è originario come il bene, ma sempre inferiore, posteriore al Bene. E non va dimenticato che, per Levinas, l’elezione alla responsabilità fino alla dedizione totale all’altro si rivolge sempre e solo a me in prima persona, come «unico», ed io non posso predicarla e tanto meno imporla ad altri, perché ciò sarebbe predicare il «sacrificio umano».23

In verità, il tema dell’elezione da parte del Bene, di chiara ispirazione biblica, non è presente in Levinas quale premessa teologica, bensì quale rimando fenomenologico a partire, appunto, dall’analisi dell’anarchia della soggettività disinteressatamente responsabile.

Il problema della trascendenza e di Dio, e il problema della soggettività irriducibile all’essenza, irriducibile all’immanenza essenziale, procedono insieme (AE, p. 22).

Procedono assieme proprio perché la seconda, la soggettività responsabile, rimanda alla trascendenza di Dio almeno in due direzioni:

  1. verso il passato immemorabile, cui la passività assoluta del soggetto responsabile rinvia, senza possibilità di ricomprendere tale passato nel presente della sua attività cosciente e libera, anche solo col ricordo di averlo avuto un tempo presente. Il Bene, infatti, mi ha già da sempre scelto, prima che intervenga una qualsivoglia attività cosciente o gesto di libertà.
  2. verso il futuro infinito della Bontà: perché il soggetto responsabile rinvia all’infinito in virtù del «senza fine» (AE, p. 175) del suo obbligo, che lungi dal diminuire con l’assolvimento, si «accresce infinitamente» (AE, p. 179). La Bontà non è, infatti, un bisogno che si può appagare!

Per esprimere la natura di questo duplice rinvio, Levinas ricorre — come già abbiamo accennato — alle categorie della testimonianza, dell’ispirazione, della profezia.

  • la testimonianza in contrapposizione allo «svelamento», che a suo avviso non può che riportare ogni alterità all’immanenza del soggetto.24
  • l’ispirazione-profezia, per indicare che Dio viene all’idea e/o alla parola non come il tema di un discorso, ma parlando nella parola stessa del soggetto che dice «Eccomi!» al prossimo, l’«Eccomi!» della disponibilità totale, dell’esposizione, della sostituzione.25

Né la testimonianza né l’ispirazione-profezia sono da intendere, secondo Levinas, come dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio, bensì come modalità del suo manifestarsi.

Il soggetto come ostaggio non è stato né l’esperienza, né la prova dell’Infinito, ma la testimonianza dell’Infinito, modalità di questa gloria, testimonianza che nessun svelamento ha preceduto (DVI, p. 97).

L’infinito non ha dunque gloria che attraverso la soggettività, attraverso l’avventura umana dell’approssimarsi all’altro, attraverso la sostituzione all’altro, attraverso l’espiazione per l’altro (AE, p. 185).

Circa la particolare «significazione» della trascendenza di Dio, testimoniata dalla soggettività umana, ritorna anche in Altrimenti che essere, come pure negli scritti successivi, la paradossale tensione d’Altezza e d’umiliazione che abbiamo già visto caratterizzare la trascendenza divina significata nella trascendenza del volto.

Anzitutto l’Altezza o separatezza straordinaria della trascendenza in cui il Bene si mantiene. Esso, infatti, non solo non deve essere pensato come ciò che può essere oggettivato o tematizzato nei nostri discorsi, come ciò che in qualche modo può darsi direttamente, ma neppure come quel termine ultimo del desiderio umano che, platonicamente, ne costituirebbe come il «riempimento» o soddisfacimento adeguato. Anche in questo caso, infatti, il Bene rischierebbe di essere per così dire riportato entro l’immanenza dell’orizzonte della soggettività umana. Secondo Levinas, il Bene si mantiene nella sua assoluta trascendenza, separatezza, santità, perché, lungi dall’attirare a sé il desiderio metafisico umano per soddisfarlo — come nell’eros platonico — lo volge verso il prossimo, il non desiderabile per eccellenza, e solo così lo mantiene nel dis-inter-esse (trascendente) della bontà e si mantiene nella sua assoluta trascendenza separata o santa.

Nella trascendenza dell’Infinito cosa ci suggerisce il termine Bene? Perché il disinteressamento sia possibile nel Desiderio dell’Infinito, perché il Desiderio al di là dell’essere, o la trascendenza, non sia un assorbimento nell’immanenza che così farebbe il suo ritorno, occorre che il Desiderabile o Dio resti separato nel Desiderio; come desiderabile — prossimo ma differente — Santo. Questo è possibile solo se il Desiderio mi ordina a ciò che è il non-Desiderabile, all’indesiderabile per eccellenza, ad altri. Il rinvio ad altri è risveglio, risveglio alla prossimità la quale è responsabilità per il prossimo, fino alla sostituzione ad esso. […] Amore senza Eros (DVI, p. 91) .26

La possibilità del Desiderio metafisico autentico, dell’«amore senza eros», suppone quindi che la natura del Bene, «la bontà del Bene», consista nell’inclinare il movimento che esso suscita «per allontanarlo dal Bene ed orientarlo verso altri e così solamente verso il Bene» (DVI, p. 92). L’Infinito, nella sua separatezza o santità, è quindi Bene in senso eminente e precisissimo perché: «non mi riempie di beni, ma mi costringe alla bontà, migliore dei beni da ricevere» (DVI, p. 92).27 Si tratta di una «costrizione» che, come già abbiamo visto, non si contrappone alla libertà del soggetto, non la violenta, ma la suscita fin dall’inizio come libertà segnata dall’«investitura» del Bene, dall’elezione del soggetto da parte del Bene alla responsabilità per altri, prima ancora che si possano compiere le scelte concrete in cui si gioca il suo confermarsi nel bene o lo scadere nel male.

Questa specialissima trascendenza etico-teologica non violenta del Bene si chiarisce e precisa ulteriormente se si pensa che la soggettività umana, quale «tempio o teatro» (DVI, p. 99) della trascendenza stessa di Dio, è proprio la soggettività che in Altrimenti che essere è intesa come «soggezione, sopportazione, sostituzione, ostaggio, espiazione», termini che rimandano chiaramente alla famosa figura, descritta da Isaia (cfr. Isaia 53), del «servo di Jahvé» che porta su di sé i «nostri peccati». Nello sfondo di una soggettività di questo tipo, in cui il subire violenza «a causa di altri» trapassa in subire «per altri», e quindi in «espiazione per altri» (AE, p. 139), anche la trascendenza teologica, senza nulla perdere della sua Altezza, paradossalmente ne mostra il vero volto trapassando in condivisione della sofferenza umana fino ad assumerla su di sé per espiarla.

Nei saggi sopra citati, Un Dieu-Homme?, del 1968, Dall’etica all’esegesi, del 1982, Giudaismo e kénosi, del 1985, oltre al tema dell’umiliazione di Dio, che ci aiuterebbe a pensare la trascendenza del volto nudo e indifeso d’Altri, Levinas introduce anche il tema della discesa di Dio nella sofferenza degli uomini, fino ad assumerla su di sé in quella particolare forma di «sostituzione» che consiste nell’assumere il peso o responsabilità dei loro peccati, fino ad espiarli in vece loro; e così ci aiuterebbe a scoprire anche il vero senso della trascendenza della soggettività umana. Si badi, ciò non ha nulla di mitico o sacrificale. Non si tratta, infatti, di redimere i peccati pagando un certo qual debito di sofferenza dovuto come pena alla giustizia divina, quanto di accettare di portare su di sé, con amore disinteressato ed accogliente, la cattiveria altrui senza ributtarla su altri, senza farla portare ad altri, e, solo così, di estinguerne la virulenza.

Il problema dell’uomo-Dio comporta, da una parte, l’idea dell’umiliazione che s’infligge l’Essere supremo, della discesa del Creatore al livello della creatura, cioè dell’assorbimento nella passività più passiva dell’attività più attiva. D’altro lato il problema comporta, come producentesi da parte di questa passività spinta nella Passione al suo limite ultimo, l’idea d’espiazione per gli altri, cioè della sostituzione: l’identico per eccellenza, ciò che non è intercambiabile, ciò che è unico per eccellenza, sarebbe la sostituzione stessa (EN, p. 69).

E dopo aver osservato che queste idee, originariamente teologiche e valevoli incondizionatamente per la fede cristiana, ed in certa misura per la fede ebraica, hanno anche una portata filosofica che può essere mostrata fenomenologicamente, si dice:

Io penso che l’umiltà di Dio permette, fino ad un certo punto, di pensare la relazione con la trascendenza in termini diversi da quelli dell’ingenuità o del panteismo; e che l’idea di sostituzione — secondo una certa modalità — è indispensabile alla comprensione della soggettività (EN, p. 70).

Per un verso, quindi, l’idea cristiana — ma presente anche nella sensibilità giudaica — di Dio che si fa sostituzione dell’uomo peccatore per espiare in sua vece, può servire, una volta riscattata fenomenologicamente, per meglio comprendere la soggettività umana. Per altro verso, la comprensione fenomenologica della soggettività umana in termini di sostituzione, può meglio farci comprendere la natura non violenta, anzi assolutamente salvifica, della trascendenza divina.

4. Trascendenza nel modo della traccia e dell’enigma

La non violenza della trascendenza teologica si mostra, secondo Levinas, non solo nel suo contenuto significativo, nella sua «significazione», ma anche nella modalità stessa del suo significare, cioè d’esibire il proprio significato senza imporlo come un dato di fatto incontrovertibile o come un fenomeno che viene ad intromettersi tra gli altri fenomeni della nostra vita quotidiana o delle nostre indagini scientifiche.

Come abbiamo visto, la trascendenza divina mi «visita»28 attraverso la trascendenza del volto dell’altro, che implora ed esige a partire dalla sua signoria e miseria, ed anche attraverso la trascendenza della testimonianza profetica della soggettività responsabile dell’uomo, che si dice nel suo stesso dire-esporsi ad altri. Ma in entrambi i casi essa non s’impone come un fenomeno dato tra altri fenomeni, bensì lasciando nei fenomeni — che pur sconvolge — solo una traccia del suo passaggio, una traccia che mi parla solo nel modo dell’enigma.

La fenomenologia della traccia e dell’enigma, che Levinas sviluppa soprattutto nei celebri saggi La traccia dell’altro, del 1963 ed Enigma e fenomeno, del 1965, è quanto mai ricca.29 Qui mi limiterò al modo di darsi dell’enigma, partendo dagli esempi che egli adduce per chiarire il suo pensiero.

Hanno bussato e non c’è nessuno alla porta. Hanno davvero bussato? […] Un diplomatico fa una proposta esorbitante ad un altro diplomatico, ma i termini della proposta sono tali che, se si vuole, niente è stato detto. L’audacia si allontana e si spegne nelle parole stesse che la sostengono e l’infiammano […]. Un innamorato fa un’avance, ma il gesto provocatore o seduttore, se si vuole, non ha interrotto la decenza dei discorsi e del comportamento e se n’allontana con la stessa leggerezza con cui vi è penetrato. Un Dio si è rivelato su una montagna o in un roveto che non si consuma o si è fatto dare testimonianza in alcuni Libri. E se quei libri ci provenissero da sognatori? Cacciamo dalla mente l’appello illusorio! L’insinuazione stessa c’invita a farlo. Dipende da noi o, più esattamente, dipende da me accettare o respingere questo Dio senza audacia (EDE, pp. 241-242).

Come si vede da questi esempi, si tratta, nell’enigma, 1) di un «modo di manifestarsi senza manifestarsi», per semplice «accenno», ritraendosi subito dall’ambito del fenomeno dopo averlo scompigliato, e 2) di un modo di significare che può essere riconosciuto solo «se si vuole», liberamente, dato che non s’impone con la propria presenza disvelata, bensì come «mantenendo l’incognito». La scelta del termine «enigma» (nel senso greco di «detto oscuro», o «allusivo»), fatto valere in contrapposizione al termine «fenomeno», vuole appunto indicare queste due caratteristiche del particolare modo di significare della trascendenza: né per presenza disvelata che s’impone, né per dimostrazione razionale inoppugnabile.

Per chiarire ulteriormente questo particolare contrasto tra senso significato nell’enigma e dato fenomenico del senso, Levinas si rifà, a questo punto, al concetto kierkegaardiano di «verità perseguitata»: specialissimo «modo della verità» non violenta, che va ben oltre quello della «verità universalmente evidente» o incontrovertibile.

Il Dio di Kierkegaard che si rivela solo per essere perseguitato e misconosciuto, che si rivela solo nella misura in cui è inseguito (pourchassé) […] diventa il luogo stesso della verità. […] «Verità perseguitata», non è soltanto «consolazione» religiosa, ma il disegno originario della trascendenza (EDE, pp. 247-248) .30

La verità della trascendenza divina si offre, quindi, senza mai imporsi; scompiglia il mondo dei nostri fenomeni d’essere, in cui ci troviamo come a nostro agio, senza mai lasciarsi afferrare dalle nostre categorie e ricondurre all’oggettività del nostro ordine scientifico-concettuale; ci parla attraverso l’appello del volto altrui e la testimonianza profetica del soggetto responsabile, ma con un dire che può essere udito solo da un «orecchio all’agguato», incollato alla porta del linguaggio per ascoltare la significazione del suo dire enigmatico e per ospitarlo a proprio rischio e pericolo; senza possibili garanzie «scientifiche», e proprio per questo in piena libertà.

Si potrebbe, quindi, dire che la soggettività levinasiana, «compagna dell’enigma e della trascendenza» (EDE, p. 250), è una forma di libera «coscienza credente», che si affida alla trascendenza nel momento stesso in cui s’impegna a testimoniarla nell’esporsi, in completo dis-inter-esse, all’appello del volto altrui. E in questo suo affidarsi alla trascendenza essa non perde se stessa né subisce violenza, ma realizza la propria realtà più profonda, quell’elezione al Bene che in radice la costituisce.

In conclusione vorrei osservare come anche la «scrittura» di Levinas, i testi che egli ha prodotto, possono essere intesi come testi-traccia, testi-enigma alla seconda potenza, cioè tracce di tracce, enigma d’enigmi. Nel loro dire e disdire affannoso, sempre ritornante e sempre ritraentesi come le onde sulla spiaggia del mare, come pure nelle esasperazioni iperboliche del linguaggio, che si spingono fino alla trasfigurazione dei termini ontologico-filosofici in termini etici, d’appello etico (come ad esempio nel caso del termine heideggeriano «differenza» ontologica che diviene «non in-differenza» etica), i testi di Levinas non intendono imporsi per il rigore dimostrativo o convincere con l’abilità retorico-dialettica, quanto offrirsi come un invito a sciogliere con lui, come lui, le tracce enigmatiche della trascendenza. Un invito che ci viene offerto come un dono, che solo se vogliamo possiamo riconoscere come tale e liberamente accogliere/ospitare in noi stessi, divenendone a nostra volta testimoni.

Relazione tenuta al Convegno internazionale Visage et infini. Analisi fenomenologiche e fonti ebraiche in Emmanuel Levinas, Roma 24-27 maggio 2006. Gli atti sono pubblicati nel volume a cura di Irene Kajon, Emilio Baccarini, Francesca Brezzi, Joëlle Hansel, Emmanuel Levinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, Giuntina, Roma 2008.


  1. Cfr. ad esempio, il titolo delle due raccolte di saggi: E. Levinas — A. Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Guerini e Associati, Milano 1989; E. Levinas. L’éthique comme philosophie première, Atti del colloquio di Cerisy-la-Salle, 23 agosto — 2 settembre 1986, a cura di J. Greisch — J. Rolland, La Nuit Surveillée, Cerf, Paris 1993. ↩︎

  2. Cfr, E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, a cura di S. Petrosino, trad. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, p. 92n (d’ora in avanti citato con sigla DVI). ↩︎

  3. Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, a cura di A. Dall’Asta, con introd. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 19902, p. 23 (d’ora in avanti citato con sigla TI). ↩︎

  4. Cfr. Du Sacré au Saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, Minuit, Paris 1977; tr. it. Dal Sacro al Santo. Cinque nuove letture talmudiche, a cura di O.M. Nobile Ventura, con introd. di S. Cavalletti, Città Nuova, Roma 1985. ↩︎

  5. Cfr. R. Otto, Das Heilige, 35ª ed., Beck, München 1936 (orig. 1917), tr. it. Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, a cura di E. Buonaiuti, Feltrinelli, Milano 1966. ↩︎

  6. Nel saggio Éthique et esprit, risalente al 1952 (cfr. E. Levinas, Difficile liberté. Essais sur le judaïsme, 3ª ed., «Le Livre de Poche», Albin Michel, Paris 2003, pp. 15-26; tr. it. a cura di S. Facioni, Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004, p. 17-25, sigla DL), la violenza, che viene esclusa solo da quel complesso campo che tiene strettamente uniti ragione, linguaggio ed etica: il campo dello spirituale, è descritta nei suoi svariati aspetti come segue: «La violenza non si trova solo in un palla di bigliardo che ne urta un’altra, nell’uragano che distrugge un raccolto, nel padrone che maltratta lo schiavo, in uno stato totalitario che avvilisce i suoi cittadini, nelle conquiste di guerra che asserviscono gli uomini. È violenta ogni azione in cui si agisce come se si fosse soli ad agire: come se il resto dell’universo ci fosse solo per ricevere l’azione; è violenta, di conseguenza, anche ogni azione che noi subiamo senza esserne in tutto dei collaboratori. Quasi ogni causalità è in questo senso violenta: la fabbricazione di una cosa, la soddisfazione di un bisogno, il desiderio e anche la conoscenza di un oggetto. Ed anche la lotta e la guerra in cui altri è cercato nella debolezza che tradisce la sua persona. Ma la violenza è anche, per buona parte, nel delirio poetico e nell’entusiasmo ove noi non offriamo che una bocca alla musa che se ne serve per parlare; nel timore e nel tremore ove il sacro ci strappa da noi stessi; essa è nella passione, sia pure dell’amore, che porta al fianco la ferita di una perfida freccia» (DL, pp. 20-21; tr. it. cit., p. 21). ↩︎

  7. Levinas ha dedicato a Lévy-Bruhl il significativo saggio Lévy-Bruhl et la philosophie contemporaine, in «Revue Philosophique de la France e de l’Étranger», cxlvii (1957), n. 4, pp. 556-569, ora anche in Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991, pp. 53-65, con ampi riferimenti soprattutto alla fondamentale opera sulla mentalità primitiva (cfr. L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, tr. it. di Carlo Cignetti, con un saggio di Giuseppe Cocchiera, 2ª ed., Einaudi, Torino 1971). ↩︎

  8. Il che non toglie che, come ultimamente ha rilevato Catherine Chalier, nel volume La trace de l’infini. Emmanuel Levinas et la source hébraique, Cerf, Paris 2002, pp. 56, 64 e passim, Levinas s’ispiri anche a testi chassidici. ↩︎

  9. Cfr. Levinas, Difficile liberté, cit., pp. 27-46; tr. it. cit., pp. 27-41. ↩︎

  10. Per «metafisica», un termine che Levinas ricupera e rivaluta, anche in contrapposizione ad Heidegger e al suo primato dell’ontologia (cfr. il celebre par. La metafisica precede l’ontologia, di TI, pp. 40-45), egli intende essenzialmente il rapporto (di desiderio/aspirazione come di conoscenza, se potesse darsi, e di dipendenza creaturale e/o etica) con l’esteriorità o la trascendenza radicale; trascendenza rispetto all’orizzonte immanente della soggettività, da un lato, e, dall’altro, rispetto al suo corrispettivo intenzionale, la totalità oggettuale ed anche ontologica, cioè il mondo. Cfr.: «L’aspirazione all’esteriorità radicale, detta per questa ragione metafisica…» (TI, p. 27). «“La vera vita è assente”. Ma noi siamo al mondo. La metafisica sorge e si mantiene in questo alibi. Essa è rivolta all’“altrove”, e all’“altrimenti”, e all’“altro”… Il desiderio metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso l’assolutamente altro» (TI, p. 31). ↩︎

  11. Si ricordi anche solo il seguente celebre passo della Lettera sull’umanismo: «Solo a partire dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo a partire dall’essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità. Solo alla luce dell’essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la parola “Dio”» (Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, tr. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 303). ↩︎

  12. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, con introd. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983 (sigla AE). ↩︎

  13. Cfr. E. Levinas, De l’existence à l’existant, Vrin, Paris l9782 (orig. 1947); tr. it. Dall’esistenza all’esistente, a cura di F. Sossi, con una premessa di P.A. Rovatti, Marietti, Casale Monferrato 1986. ↩︎

  14. Cfr. le celebri sferzanti espressioni usate in Totalità e infinito: «L’ontologia come filosofia prima è una filosofia della potenza… dell’ingiustizia… porta, fatalmente, al dominio imperialista, alla tirannia…» (TI, p. 44). ↩︎

  15. «La morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima» (TI, p. 313). Quest’affermazione costituisce, in qualche modo, la tesi di fondo della prima grande opera di Levinas, Totalità e Infinito, del 1961. Non si dimentichi, però, che nella citazione il termine di «filosofia prima» è usato da Levinas non più nel senso aristotelico di scienza delle strutture ultime dell’essere, e quindi di ontologia, bensì nel senso cartesiano e husserliano di scienza del darsi ultimo del senso o dell’intelligibilità delle cose. ↩︎

  16. Così, ad esempio, sosteneva G. Vattimo, Il rischio della metafisica, «Aut-Aut», n. 273-274, 1996, pp. 22-23. ↩︎

  17. Ora in E. Levinas, À l’heure des nations, Minuit, Paris 1988, pp. 133-151; tr. it. a cura di Silvano Facioni, Jaca Book, Milano 2000, pp. 131-149 (sigla HN). ↩︎

  18. Ivi, pp. 127-131; ed. it. cit., pp. 125-129. ↩︎

  19. Ora in Levinas, Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991, pp. 69-76 (sigla EN). Ivi già si leggeva: «Il problema dell’uomo-Dio comporta, da una parte, l’idea dell’umiliazione che s’infligge l’Essere supremo, della discesa del Creatore al livello della creatura, cioè dell’assorbimento nella passività più passiva dell’attività più attiva. D’altro lato il problema comporta, come producentesi da parte di questa passività spinta nella Passione al suo limite ultimo, l’idea d’espiazione per gli altri, cioè della sostituzione: l’identico per eccellenza, ciò che non è intercambiabile, ciò che è unico per eccellenza, sarebbe la sostituzione stessa». E dopo aver osservato che queste idee, originariamente teologiche e valevoli incondizionatamente per la fede cristiana, hanno anche una portata filosofica che può essere mostrata fenomenologicamente, si dice: «Io penso che l’umiltà di Dio permette, fino ad un certo punto, di pensare la relazione con la trascendenza in termini diversi da quelli dell’ingenuità o del panteismo; e che l’idea di sostituzione — secondo una certa modalità — è indispensabile alla comprensione della soggettività» (EN, pp. 69-70). ↩︎

  20. Oltre a molteplici passi biblici e talmudici, Levinas rimanda, in particolare, ai testi cristiani di Paolo nella Lettera ai Filippesi, 2, 6-8 e del Vangelo secondo Matteo, 25, 31-46. ↩︎

  21. Cfr., per la delineazione e la critica di questa etica sacrificale, le famose opere di R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972; tr. it. La violenza e il sacro, a cura di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1982; Id., Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978; tr. it. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, a cura di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983; Id., Le bouc émissaire, Grasset, Paris 1982; tr. it. Il capro espiatorio, a cura di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987. ↩︎

  22. Cfr. la critica che Ricœur rivolge a Levinas in Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; tr. it. Sé come un altro, a cura e con introduzione di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993. ↩︎

  23. Una preziosa precisazione in tal senso si trova in una nota di Altrimenti che essere in cui si legge: «L’Io della responsabilità è me e non un altro, io a cui si vorrebbe accoppiare un’anima gemella dalla quale si esigerebbe sostituzione e sacrificio. Ora, dire che Altri deve sacrificarsi agli altri, sarebbe predicare il sacrificio umano» (AE, p. 159). E nella Prefazione del 1981 a ADV, p. 66 si legge: «La grande idea etica — la più grande — dell’esistenza per il prossimo s’applica senza alcuna riserva a me stesso, l’individuo o persona che io sono. Ma essa non può essere pensata fino ad esigere l’esistenza di un popolo martire». Nonostante la forte insistenza sulla sostituzione sacrificale quale struttura stessa dell’Io, in Levinas non si trovano quindi tracce della «mentalità sacrificale» con cui si giustifica il sacrificio di alcuni — gli altri — per il bene di tutti. ↩︎

  24. Celebre, su questo tema, il saggio di Levinas, Vérité du dévoilement et vérité du témoignage, in La testimonianza (Archivio di filosofia), Cedam, Padova 1972, pp. 101-110, rielaborato come quinto capitolo di AE. ↩︎

  25. «L’Infinito non è davanti al suo testimone, ma come al di fuori o “all’inverso” della presenza, già passato, fuori presa: retro-pensiero (arrière pensée) troppo alto per spingersi in prima fila. “Eccomi, in nome di Dio”, senza riferirmi direttamente alla sua presenza. “Eccomi” tout court! Nella frase in cui Dio viene per la prima volta a mescolarsi con le parole, Dio è ancora assente. Essa non si enuncia in alcun “io credo in Dio”. Testimoniare Dio non è precisamente enunciare questa parola stra-ordinaria, come se la gloria potesse dimorare in un tema e porsi come tesi o farsi essenza dell’essere. Segno dato all’altro di questa significazione stessa, l’“eccomi”, mi significa in nome di Dio al servizio degli uomini che mi riguardano, senza aver niente con cui identificarmi, se non con il suono della mia voce o con la figura del mio gesto — con il dire stesso» (AE, p. 187). ↩︎

  26. Il tema era già presente in Altrimenti che essere, anche se in questo saggio trova una tematizzazione più esplicita. Si veda, ad esempio, questo passo: «Che nella sua bontà, il Bene declini il desiderio che suscita inclinandolo verso la responsabilità per il prossimo, questo preserva la differenza nella non-indifferenza del Bene che mi elegge prima che io lo accolga; questo preserva la sua illeità al punto da escluderla dall’analisi, tranne la traccia che essa lascia nelle parole» (AE, p. 155). ↩︎

  27. In Totalità e Infinito, si parlava, in modo analogo, della paternità come del «dono del potere del dono» (TI, p. 277). ↩︎

  28. Per la centralità della categoria della «visitazione» cfr. il saggio La traccia dell’altro, del 1963, citato nella nota seguente. ↩︎

  29. I due saggi, pubblicati per la prima volta rispettivamente in «Tijdschrift voor Filosofie», XXV (1963), pp. 605-623 e in «Esprit», XXIII (1965), pp. 1128-1142, sono stati inseriti nella seconda edizione di En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, pp. 187-216 e sono stati tradotti nella raccolta La traccia dell’altro, a cura e con postilla di F. Ciaramelli, Pironti, Napoli 1979, pp. 25-65. e poi in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, a cura di F. Sossi, Cortina, Milano 1998, pp. 215-251 (sigla EDE). ↩︎

  30. Sul tema kierkegaardiano della «verità perseguitata» si veda il saggio dedicato a Kierkegaard con il titolo di Esistenza ed etica in Nomes propres, Fata Morgana, Paris 1976, pp. 99-109; tr. it. Nomi propri, con introd. e note a cura di F.P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 81-89. ↩︎