1. Introduzione
Cosa significa donare? O meglio, cosa significa donare autenticamente? È possibile un dono che non chieda di essere restituito? O forse donare implica necessariamente una restituzione? Quando ad esempio si dona una moneta ad un mendicante, ciò che viene richiesto implicitamente al donatore, oltre al possesso della moneta, è che questi non chieda nulla in cambio. E cioè che doni in maniera dis-interessata, senza un interesse, o per lo meno, senza un interesse palese o immediatamente visibile. Non parleremo di dono se colui che porge la moneta al mendicante, un secondo dopo pretendesse una prestazione di qualche tipo: lucidargli le scarpe, portargli la spesa, lavargli la macchina. Nulla vieta però al donatore di compiacersi per il gesto compiuto, di sentirsi migliore, di ottenere un ritorno non di natura prestazionale, ma di natura strettamente emotiva, senza che il ricevente faccia alcunché. Il disinteresse del donatore si presenterebbe in questo caso come dis-interesse solo in parte: non c’è interesse per la perdita della moneta, nemmeno per non aver ricevuto alcuna prestazione in cambio, c’è però un interesse tutto interiore che viene fuori, e che in qualche modo ripaga della perdita della moneta. In quest’ultimo caso, riformulando la domanda posta sopra, se il dono non chiede nulla in cambio, si può parlare qui veramente di dono? Ebbene il problema strettamente ontologico del dono sta tutto qui, tra un dono che necessariamente chiede un ritorno, anche se in modo non propriamente esplicito, e un dono che aspira ad essere assolutamente gratuito e senza vincoli. Il dono e il vero dono.
2. Il circolo economico del dono
L’etnologo francese Marcel Mauss, nel suo Saggio sul dono, affronta la questione a partire da una prospettiva antropologica. Egli nota come il dono costituisca, soprattutto nelle società arcaiche, uno degli elementi fondanti delle società stesse.1 Le relazioni tra gli uomini nascono per lo più da una catena di scambi che prende avvio proprio con un dono di una delle parti all’altra, la quale si sentirà in obbligo di contraccambiare tale offerta. Ma non sono solo gli oggetti a circolare, dice Mauss, anche lo spirito del donatore viaggia insieme al dono, dando così vita a un legame tra gli individui che va ben al di là del puro scambio economico. Le tappe fondamentali di cui si compone l’atto del donare sono sostanzialmente tre: dare, ricevere e ricambiare.2
Non pochi sono gli esempi offerti da Mauss sull’obbligatorietà del dono in talune situazioni, come ad esempio accadeva per alcune tribù indigene del Nord-ovest americano, nelle quali era obbligatorio per un capo dare dei doni ai membri del proprio clan familiare, pena la messa in discussione e la conseguente perdita della propria autorità sulla tribù e sul villaggio.3 Dall’altro lato l’obbligo di ricevere non è meno forte. Rimanendo sempre nelle comunità indigene del Nord-America, non si ha il diritto di respingere un dono; agire in tal modo equivale ad ammettere che si ha paura di dover ricambiare.4 Ricambiare è infatti altrettanto necessario nell’economia del dono. Nell’analisi fatta da Mauss il dono va concepito depurato da qualsiasi tipo di idealizzazione, per cui non si parla di dono solo quando questo è assolutamente gratuito, unilaterale, senza aspettative di ricambio, in poche parole, disinteressato. Tutt’altro.
Passando dalle tribù indigene alla nostra vita quotidiana, notiamo come molto spesso, quando qualcuno ci fa un regalo, si prova una duplice sensazione: da un lato qualcosa che spinge alla gratitudine verso il donatore; dall’altro un lieve senso di imbarazzo, dovuto al fatto che in quel momento, mentre stringiamo tra le mani quel dono, sentiamo di essere passati in una condizione di debitori nei confronti di chi ha voluto farci il regalo. Il pensiero si rivolge subito al modo in cui cercheremo di «sdebitarci».5 Lo schema di Mauss, di dare-ricevere-ricambiare, è tanto intuitivo quanto estremamente effettivo e reale nella vita di tutti i giorni.
È da notare inoltre che, teoricamente, lo stato di debito provocato dal dono, dovrebbe essere ripagato dal successivo controdono, in modo tale da produrre uno stato di equilibrio. E così è, ma solo in un certo senso. Perché il controdono successivo al dono generà contemporaneamente uno stato di conflitto: ad un dono si associa sempre un debito, e ad un debito sempre un altro dono, e così via potenzialmente all’infinito. L’antropologia ci ha insegnato però come l’equilibrio di un gruppo non nasca per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti controllati. Pensiamo a quanti legami, alleanze, ma anche amicizie possono nascere da uno scambio (conflittuale) di doni, se questo è inserito in un contesto relativamente paritario dove la restituzione è possibile.
Molto spesso si dona semplicemente per soddisfare il proprio piacere di vedere felice un’altra persona: mai dunque, come ci ricorda Mauss, si tratta di un atto squisitamente gratuito. Con il dono si apre così un vero e proprio circolo economico, una economia dove non circola denaro ma una sorta di gratitudine.6 Tale sistema è dunque tutt’altro che altruistico, il guadagno, il ritorno esiste, ma va cercato in un ap-pagamento che non è oggettivamente quantificabile. È una economia che dipende anche molto dalla percezione che ne hanno gli attori sulla scena; quante volte, in una relazione affettiva, ci si sente di aver donato più di quanto si sia ricevuto, o viceversa di aver ricevuto talmente tanto da una persona da non sapere più come sdebitarci: un maestro, un amico, un professore a cui «dobbiamo tanto».
3. Il dono impossibile
Una tesi diametralmente opposta rispetto a quella di Mauss è data dal filosofo Jacques Derrida. L’idea di Derrida è quanto mai semplice nella sua formulazione quanto carica di implicazioni degne di essere pian piano svelate: il dono, ammesso che ci sia, non è testimoniabile o comunque non si rende manifesto; esso è, senza mezzi termini, impossibile. Nell’opera del 1991, Donare il tempo, Derrida affronta la questione del dono tenendo ovviamente sott’occhio il famoso saggio di Marcel Mauss: l’etnologo francese fallisce, secondo il filosofo, perché un saggio sul dono non può cancellare il paradosso che si cela all’interno del dono stesso. È come se Mauss tentando di spiegare tutte le fasi del dono all’interno del circolo economico che viene strutturandosi, descriva qualcosa che solo in modo inesatto si definisce come dono. Affinché ci sia dono, ci dice Derrida, non deve esserci reciprocità, scambio, controdono né debito. Difatti se l’altro mi rende o mi deve qualcosa dopo aver ricevuto il dono, vuol dire che non c’è stato un vero dono. Bisogna che il donatario non restituisca, non rimborsi, non si sdebiti, non abbia mai contratto un debito.7 Il dono deve essere molto semplicemente gratuito e disinteressato, assolutamente privo di qualunque aspettativa di ritorno.
Ma se gli uomini, come ben ha spiegato Mauss, in modo del tutto istintivo tendono a sentirsi responsabili di dover ripagare un dono ricevuto, tendono ad avere la sensazione di aver contratto un debito che apre al circolo economico, significa addirittura che, affinché ci sia un vero dono – nella prospettiva derridiana – bisogna che il ricevente non riconosca il dono come dono. Se lo riconosce come dono, se il dono gli appare come tale, questo semplice riconoscimento è sufficiente per annullare il dono e aprire il circolo del dare-ricevere-ricambiare, ossia la struttura odisseica del racconto economico. Quando il dono non è un vero dono, e quando dunque diviene economia, esso come Ulisse, deve far ritorno a casa. Ma se c’è ritorno, o anche solo l’aspirazione al ritorno, non si parla più di un vero dono. Non solo al ricevente, ma anche al donatore il dono non dovrebbe apparire come tale: una volta identificato, esso cessa di essere autentico. Come già visto c’è una ritorno indiretto sotto forma di gratitudine che si innesca una volta che si sia semplicemente riconosciuto di aver donato qualcosa. Insomma, affinché ci sia dono è necessario una sorta di oblio; è necessario non solo che il ricevente e il donatore non abbiano né memoria, né coscienza, né riconoscimento: è necessario anche che lo si dimentichi immediatamente e che questo oblio si assolutamente radicale.8
Derrida dice che una fenomenologia del dono è praticamente impossibile. Questo perché se la fenomenologia (husserlianamente intesa) si occupa esclusivamente delle cose che appaio nel modo in cui appaiono, allora è evidente che una fenomenologia del dono non può in alcun modo darsi. Difatti, come detto, se il dono appare, ossia si rende manifesto e riconoscibile a qualcuno come dono, esso cessa di essere un dono. Il dono per rimanere tale deve cadere in un oblio che non ne consente la manifestazione e l’apparizione. Il paradosso del dono sta tutto qui dunque, nella sua capacità di risultare contemporaneamente qualcosa che è ma anche qualcosa che non è: essere e non essere insieme.
Esso è, nella misura in cui va concepito come un’esperienza; il suo oblio e la sua dimenticanza benché debbano cancellare ogni traccia, non possono portare a concepire il dono come qualcosa di inesistente. Affinché ci sia un evento — e il dono lo è – è necessario anche che qualcosa accada, e che dunque non si confonda l’oblio con il niente. Dall’altro lato esso però risulta anche molto vicino al non essere, per il semplice fatto che nel momento stesso in cui il dono si manifesta esso cessa di essere tale per i motivi che abbiamo ampiamente spiegato.
4. La falsa moneta
Il discorso di Derrida non si esaurisce però con questa semplice presa di coscienza dell’impossibilità fenomenologica del dono. Egli, accanto al Saggio sul dono, legge e commenta un racconto di Baudelaire, intitolato La moneta falsa. La trama è breve così come l’intero racconto che dura poco più di una pagina: usciti dal tabaccaio, e sistemato il resto nelle tasche, due amici incontrarono lungo la strada un povero che gli tese il berretto tremando. Entrambi offrirono qualche spiccio ma uno dei due notò che l’offerta dell’altro era stata molto più ricca della propria.
L’offerta dell’amico fu molto più ricca della mia, e gli dissi: «Avete ragione; dopo il piacere d’essere meravigliato, il piacere più grande è quello di meravigliare». «Era la moneta falsa» mi replicò tranquillamente, come per giustificare la prodigalità. Ma nel cervello mio misero, sempre intento a cercare mezzodì alle quattordici (di che faticosa facoltà m’ha fatto regalo la natura!) entrò d’un tratto l’idea che una simile condotta non fosse scusabile se non col desiderio di produrre un evento in quella esistenza del povero diavolo, forse anche di venir a sapere quante conseguenze diverse, funeste o non funeste, possono nascere da una moneta falsa nella vita d’un mendicante.9
Il titolo del racconto è quanto mai eloquente. Il protagonista è la moneta falsa. Qui troviamo la riproposizione dell’esempio fatto all’inizio del nostro saggio, e cioè una persona che dona un soldo ad un povero mendicante. Ma abbiamo a che fare con un vero dono? Qui più che mai possiamo affermare che non si tratta in alcun modo di un dono, perché ciò che viene dato al pover’uomo non è una moneta, ma una moneta falsa. Non c’è da stupirci se Derrida prenda in prestito questo racconto per parafrasare l’idea di dono finora esposta. L’uomo che dona una falsa moneta è la metafora dell’uomo che dona sempre un falso dono. La moneta è falsa così come il dono sarà sempre in un certo senso falso. Certo, al mendicante si sarebbe potuta porgere una moneta vera, come ha del resto fatto l’amico, ma mai si sarebbe potuto dare un dono vero. Se il dono vero è quello che mai e poi mai chiede un ritorno, perché l’amico, che pure aveva donato una moneta autentica, riflette sul piacere che provoca il meravigliare un’altra persona, in questo caso il piacere che provoca meravigliare un mendicante porgendogli del denaro? Perché anche in questo caso c’è un’apertura economica, c’è un ritorno sotto forma di piacere che ripaga del dono appena dato. Ma tutto questo dovrebbe ormai essere chiaro.
Un altro aspetto su cui vale la pena fermarsi, che si schiude dalla lettura sempre di questo racconto, è quella del legame che sussiste tra dono e tempo. L’impossibilità fenomenologica del dono, se ci riflettiamo bene, è la stessa impossibilità fenomenologica del tempo. L’altro nome del dono, in molte lingue tra cui anche l’italiano, è quello di «presente». Il dono è un presente. Dunque, così come risulta impossibile cogliere il presente nel momento in cui appare, allo stesso modo è impossibile cogliere il dono. O meglio, certo che possiamo cogliere il presente, ma mentre lo cogliamo questo è già defluito nel passato, divenendo un’altra cosa. Allo stesso modo possiamo cogliere l’essenza del dono, ma nel momento stesso in cui la cogliamo, essa cessa di essere tale divenendo un’altra cosa, un falso dono, una falsa moneta. La pretesa di donare autenticamente, di cogliere il dono nella sua purezza, assomiglia molto alla pretesa di cogliere l’istante del tempo nella sua immediatezza. Ora il discorso non vuole in alcun modo deviare dal suo intento, che è quello di parlare del dono. D’altronde l’idea di un presente incoglibile nella sua istantaneità è un tema che non ha certo bisogno di Derrida per essere esplicitato: forse il filosofo che meglio di tutti affronta questo tema, coniugando efficacia e semplicità argomentativa, è Agostino nelle sue Confessioni.
Notiamo però come, tanto con il dono quanto con il tempo, restiamo intrappolati in una strana forma di follia, una follia che ci obbliga a cercare l’impossibile: riprendendo in mano il brano di Baudelaire, tutto avviene come se cercassimo «mezzodì alle quattordici». Cercare mezzogiorno alle quattordici non significa altro che torturarsi l’anima per trovare ciò che, per definizione, non può trovarsi dove lo si cerca, e soprattutto nel momento in cui lo si cerca.10 La testa dell’amico, e del resto anche la nostra, è sempre intenta a cercare mezzogiorno. Il problema è che cerchiamo mezzogiorno solo quando questo è passato e sono ormai le quattordici. Cerchiamo il presente quando questo è già defluito nel passato. Cerchiamo il dono quando questo ha smesso di essere tale perché è divenuto un mero oggetto inserito nel circolo economico. Non solo. Ma perché proprio mezzogiorno? Esso non va considerato come un momento qualsiasi; significa sognare ad un’ora qualunque e sempre troppo tardi (alle quattordici è già troppo tardi) un’origine senza ombra, senza negatività dialettica.11
5. Dono e vita
Ma perché tanta importanza alla questione del dono? Una prima motivazione, che ci interessa francamente poco, è la seguente: la questione del dono, pur non essendo il centro della filosofia derridiana, rappresenta una facile via d’accesso al suo pensiero. E di vie facili, a quanto pare, ce ne sono poche quando si parla di Derrida. L’occhio di Derrida – l’occhio che decostruisce tutto ciò che osserva – è sempre diretto alla ricerca dell’impossibile. Nel caso del dono, questo impossibile è dato dalla sua stessa essenza, per il fatto che il dono è impossibile da riconoscere; se c’è non si vede. Questa ricerca dell’impossibile non è sempre facile da cogliere nei suoi scritti. Qui invece, è accessibile poiché si sta parlando di un gesto, il donare, che appartiene a tutti noi, che occupa gran parte delle nostre vite. Una ricerca dell’impossibile che non va considerata come amore verso l’oscuro, l’ignoto, l’inconoscibile. Non c’è in alcun modo la tentazione di cedere alle lusinghe della beata ignoranza che sa di non poter mai sapere. È piuttosto la tragedia di una ricerca sottilissima e raffinatissima, che tenta di scorgere l’origine, l’ essenza e la causa delle cose, salvo trovarsi sempre impantanata in un’aporia costitutiva. Costitutiva di cosa? Della vita. È sempre e solo la vita il grande tema della filosofia, e dunque anche della filosofia di Derrida.
Ed è proprio la vita la principale motivazione di questo saggio. Parlare del dono per spiegare Derrida, come detto, non è fondamentale. Ciò che ci interessa, e che riteniamo più importante, è piuttosto parlare del dono (in Derrida) per parlare della vita. L’economia del dono sopra esposta, ossia la dinamica del dare-ricevere-ricambiare, è resa possibile dall’apertura del tempo: solo se c’è apertura verso il futuro c’è il tempo per poter ricambiare. L’economia del dono è anche l’economia del tempo. Ma il dono, se vuole essere un vero dono, deve essere aneconomico, e dunque per lo stesso motivo atemporale. Deve cioè essere autenticamente un «presente», ossia un dono che viene fatto nel presente per il presente, dove qualunque tipo di ritorno è escluso. Il dono è reso impossibile proprio dal fatto che è impossibile per il presente rimanere tale. Se il presente fosse sempre presente si chiamerebbe eternità, o morte.
L’economia del dono, oltre ad essere l’economia del tempo, è anche e soprattutto l’economia della vita. Se non ci fosse questa apertura del tempo non ci sarebbe nemmeno la vita: essa sarebbe per l’appunto, o vita eterna o vita morta. Affinché ci sia vita è necessaria un’apertura verso il futuro, e dunque la possibilità di restituzione. In altre parole la stessa condizione di possibilità che rende esistente un dono, ossia l’apertura del tempo, è anche la stessa condizione di possibilità della sua morte: da un lato è solo nel tempo che può esserci un dono, ma dall’altro lato, nel momento in cui è inscritto nel tempo, il dono smette di essere un vero dono.
Un dono autentico per essere tale deve essere talmente disinteressato da non richiederne in alcun modo la restituzione, tale da rimanere intrappolato nel presente. Ciò significa che solo qualcosa di eterno o qualcosa di morto può donare? No, solo una «vita» può donare.12 Ecco dunque il senso profondo del donare derridiano. Un dono che restando vincolato all’economia del tempo e della vita, assuma dentro di sé insieme la sua istanza mortifera e la sua nascosta salvezza. La salvezza del dono sta nel suo assoluto disinteresse, nel suo essere sciolto dal vincolo temporale, ma questo, come detto, coincide anche con la sua morte. È la vita stessa che per essere tale deve temporalizzarsi, aprirsi nel tempo, diventare in un certo senso economia. Parlare del dono per parlare della vita significa comprendere come ciò che le rende possibili è anche ciò che le destina alla morte. Una vita e un dono che aspirano all’autenticità, ma che allo stesso tempo assumono l’intrinseca aporeticità del loro essere restando sospesi tra la vita eterna e la morte.
6. Categorie per pensare il futuro
Queste considerazioni sono nate in risposta ad un ciclo di seminari dal titolo «Categorie per pensare il futuro»,13 tenutosi, nel 2017, presso l’università di Roma «Tor Vergata». Speranza, Giustizia, Dialogo, Differenza, Roconoscimento, Felicità, Fiducia, Pluralismo, Relazione e Progetto sono state le categorie attraverso le quali si è tentato di pensare – e quindi forse ri-pensare – il futuro. A queste ne aggiungiamo un’altra, quella del Dono. Pensiamo il futuro a partire dalla categoria del dono.
C’è qualcosa di contraddittorio, se vogliamo anche di provocatorio, nel parlare in questa maniera del dono in riferimento ad un ciclo di seminari che ha come titolo «Categorie per pensare il futuro». Osservando il dono insieme a Derrida emerge come questo, per essere tale, debba essere autenticamente un «presente», senza sguardo rivolto al ritorno, alla restituzione, all’ap-pagamento, insomma senza sguardo rivolto al futuro. Ma qui si vuole parlare di futuro, e soprattutto se ne vuole parlare a chi ne ha ancora tanto: ai giovani. Parlare del dono in questi termini risulterebbe tutto il contrario di un discorso sul futuro: sembrerebbe piuttosto invitare i giovani a donare se stessi unicamente al presente, senza la minima preoccupazione per l’avvenire. Sembrerebbe come un’esortazione a smettere di inseguire sogni che vadano più in là di un progetto giornaliero, perché donare il proprio tempo con l’intento di avere qualcosa in cambio significherebbe donare il proprio tempo in modo inautentico. Sarebbe un invito ad essere ebbri del presente, ad ubriacarsi, per citare un passo di Baudelaire. Di cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi. E in effetti tutto questo oltre a sembrare, è. Il vero nodo della questione sta però da un’altra parte. Consiste nel farsi carico del paradosso del donare che ho tentato di descrivere in questo saggio. La vita di ogni uomo ha bisogno di un tempo donato in vista di uno scopo: non possiamo assecondare l’idea che un lavoro non vada ri-pagato in qualche modo, o che, in una relazione, il tempo speso con una persona non sia valso a nulla. L’economia della vita è fatta di investimenti e di ricavi, e la più grande moneta che si ha a disposizione è il proprio tempo. La restituzione non solo è auspicabile ma è necessaria: altrimenti perché studiare? Perché lavorare? Perché stringere amicizie? Perché innamorarsi? Andare incontro all’assenza di scopo vuol dire in qualche modo andare incontro alla morte. Una vita senza scopo è una vita che non merita di essere vissuta, è una vita depressa e infelice. Ma eccolo qui il paradosso. Una vita che non merita d’essere vissuta è anche però una vita che non sia mai stata ebbra del presente, che non abbia mai avuto la sensazione d’essere piena, colma, sazia; una vita che almeno per pochi istanti, si sia donata senza aspirazione al ritorno. Certo che doniamo noi stessi pretendendo qualcosa in cambio; ma una vita non degna di essere vissuta è anche una vita che non abbia mai esperito l’illusione che ciò che si è ricevuto, o si è dato, sia stato completamente gratuito e in-condizionato, senza condizioni. Questo vale in amore, nel lavoro, e in tutte quelle cose in cui si dona del tempo. Questo è il paradosso che si voleva mettere in luce. Pensare al paradosso del dono ci obbliga a pensare al paradosso che riguarda il nostro futuro. Non possiamo donare noi stessi per qualcosa senza intravedere prospettive di ritorno nel futuro: farlo significherebbe imboccare la via della morte. Dall’altro lato siamo chiamati a donare noi stessi nel presente, disinteressatamente e gratuitamente, per provare ad essere così tanto pieni di vita da riuscire ad aprire la strada all’eterno.
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Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino 2002, Introduzione. ↩︎
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Ivi., p. 65. ↩︎
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Ivi., p. 66. ↩︎
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Ivi., p. 70. ↩︎
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Cfr, ivi., Introduzione. ↩︎
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Hochshild parla a tal proposito di «economia della gratitudine» nella sua opera The Economy of Gratitude. ↩︎
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J. Derrida, Donare il tempo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 15. ↩︎
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Ivi., p. 28. ↩︎
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C. Baudelaire, La moneta falsa in Lo spleen di Parigi, Feltrinelli, Milano 2015. ↩︎
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J. Derrida, Donare il tempo, cit., p. 35. ↩︎
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Ivi., p. 37. ↩︎
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Ivi., pp. 103-104. ↩︎
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https://mondodomani.org/filosofiatorvergata/informazioni/sft/ ↩︎