1. Introduzione
Riguardo all’interpretazione del Tractatus che lo vede quale manuale teoretico che deve essere perciò applicato, crediamo di aver fornito sufficienti ragioni in altre sedi, e che questa non sia un’innovazione. Non a caso, lo stesso Frascolla presenta, in merito ai nomi, ovvero alla denotazione, un’interpretazione simile.1 Ovvero, nella costituzione effettiva del linguaggio, da parte del parlante, nell’«azione linguistica», verrà fissato il valore dei nomi (cosa denotino i nomi), identificando gli oggetti; compiendo ciò, verrà circoscritto lo spazio logico, un luogo – metaforicamente parlando – dove per mezzo delle proposizioni, essendo configurazioni delle possibili forme delle parole, delle loro articolazioni, si esprime un senso. Ecco dunque un esempio dell’attività linguistica che viene presupposta. Si deve tener presente che l’esistenza di questo spazio logico è garantita proprio dalle proposizioni,2 che sono tali poiché articolate3 e per mezzo delle quali si esprime un significato (si descrive uno stato di cose);4 inoltre non stupisce sostenere che lo spazio logico esprima una possibilità di esistenza.5 Partendo dall’assunto che vede il Tractatus un «manuale», per giungere alla considerazione del Mistico quale «risultato» logico, tratteremo da prima come l’applicazione stessa dei principi del Testo possa spiegare la descrizione del non reale, del nuovo, per soffermarsi poi sulla natura dei nomi e dell’a priori cioè sulla logica e, infine, sui limiti del linguaggio, evocando la teoria del Mistico.
2. Descrivere il nuovo
È largamente accettato affermare che uno degli aspetti più peculiari del Tractatus è che fornisce una teoria linguistica che giustifica il perché si comprendano proposizioni che non siano state mai udite o spiegate prima; ciò avviene quotidianamente nella nostra esperienza, pensiamo a come non ripetiamo, agli altri o a noi stessi, sempre le medesime frasi, in analogia, come non si presentano sempre le medesime esperienze. Eppure qualcosa, in questo flusso linguistico, deve essere definito, ovvero la denominazione.6 Amplificando quanto accennato, conoscendo il valore semantico di talune parole, le unità elementari del linguaggio, poiché, come categoricamente Wittgenstein sostiene, l’oggetto e la parola sono dei semplici,7 si può comprendere un enunciato in cui esse occorrano, senza mai averlo udito – è insito nella natura della proposizione la possibilità che per mezzo di essa si comunichi un senso nuovo,8 grazie a ciò che già si sa9 (per l’appunto il valore semantico dei nomi) – in assenza di una spiegazione,10 perché si può già conoscere la situazione che esso rappresenta.11 Per inciso, la questione del come per mezzo di una proposizione si riesca a comunicare un nuovo significato, avendo elementi già noti (i nomi), si rivela di un’importanza cruciale;12 se non venissero stabiliti i nomi o non se ne conoscesse la denotazione, sarebbe impossibile la comunicazione medesima. Inoltre, a voler confermare che il Tractatus più che un’apologia allo scientismo o al realismo, nonostante i termini realtà e scienza siano profusi, si debba intendere quale manuale da applicare, si evochi l’interpretazione che si ha degli oggetti, che non sarebbe da intendersi come semplici in un senso assoluto (atomi? atomi percettivi? punti?) ma in funzione delle effettive procedure del linguaggio e della fondazione della determinazione del senso.13 Lapidariamente Wittgenstein sostiene che un qualsiasi mondo possibile dovrebbe avere in comune con quello reale una forma,14 forma fissa costituita dagli oggetti,15 che formano la sostanza del mondo,16 analogamente in un qualsiasi linguaggio vi devono esserci dei nomi.
Per mezzo di una proposizione si può esprimere un senso indipendentemente dalla sua verità (dai fatti),17 grazie alla particolarità che essa è un’immagine.18 È possibile rappresentarsi una situazione al di là dell’effettività che non ricorra, proprio perché può ricorrere: che la logica inerisca le possibilità di esistenza piuttosto che le regole del pensare, riteniamo, costituisca uno dei contributi maggiormente interessanti all’ontologia compiuti da Wittgenstein. Il possibile, in quanto non contraddice la logica, può essere descritto – oltre che, ovviamente, accadere: sicché il piano linguistico coincide col piano del probabile, oltre che dell’effettivo. È possibile immaginarsi un mondo a più dimensioni, ma non senza nessuna dimensione, in quanto ciò oltrepasserebbe l’ambito della logica, rivelandosi impensabile, dunque non descrivibile, non esistente in un mondo ove esso stesso si costituisce quale corollario alla significazione, cioè come un mondo essenzialmente linguistico. Lo scarto fra l’effettivo e il probabile viene colmato dal linguaggio con cui si descrivono entrambi. Per motivare quanto trattato, grazie alla concezione della logica,19 allora, si risolverebbe la problematica di come sia possibile una descrizione di ciò che non sussiste, del come una proposizione possa rappresentare relazioni che non occorrono.20 Se si riflette, di per sé, uno stato di cose, che ha certe proprietà, ma non sussiste, è qualcosa di problematico;21 tuttavia, la peculiarità che la proposizione consista in un’immagine di stati di cose solo nella misura in cui si riveli articolata logicamente,22 vuole risolvere molti dei dubbi inerenti la significazione.
3. I nomi e l’a priori
Dando come assodati i principi linguistici di Wittgenstein, possiamo comprendere che non è possibile di una cosa farsene un’immagine, non si può descrivere un oggetto;23 giacché non v’è nell’oggetto quella coincidenza che esiste fra la forma della proposizione e dello stato di cose (come già sostenuto, l’oggetto è il semplice), che permette al primo di essere un’immagine del secondo. L’oggetto non è perciò articolato affatto, esso può essere logicamente solo denominato. Possiamo concludere dicendo che della reale natura dell’oggetto non si può dire nulla; né di esso si può avere una rappresentazione singola. Riflettiamo pensando l’oggetto, in realtà, si pensa sempre l’oggetto in una determinata situazione: «una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è».24 Lapidariamente: la reale natura dei nomi rimane inesprimibile, come la logica. Gli oggetti, che nell’orizzonte linguistico coincidono con i nomi,25 risultano la sostanza del mondo (la forma fissa, come già sostenuto), la logica, cioè le sue osservazioni26 – invece – rappresentano l’armatura di esso.27 Se si potesse descrivere la logica come si descrivono i contenuti del mondo (per mezzo delle proposizioni si possono descrivere stati di cose),28 ciò equivarrebbe a dire, nel serrato discorso di Wittgenstein, che essa stessa sia uno stato di cose e che, pertanto, nella realtà vi siano degli elementi logici; tuttavia non si possono trovare nell’universo oggetti logici. La logica, in quanto non ha elementi che la costituiscono (a differenza dei fatti, che sono il sussistere di stati di cose)29 non risulta descrivibile, né tantomeno denominabile.30 Il concetto di applicazione, di prima evocato, in merito alla denotazione, secondo Anscombe, lo si deve ampliare ulteriormente nell’usare i nomi designati in una proposizione;31 inoltre, dato che gli oggetti nel Tractatus non possono venir identificati per mezzo di una descrizione,32 né essere indicati, poiché il loro darsi è indipendente dai fatti, ciò comporterebbe che non si possa assicurare un riferimento a un nome prima che esso si presenti in una proposizione.33
Quanto precedentemente sostenuto, porta alla constatazione che nel Testo sia proposta una visione olistica del linguaggio, della sua effettività, ove il riferimento non può essere determinato a parte rispetto all’impiego d’una proposizione. Si presenta uno slogan ormai assodato nelle problematiche linguistiche di inizio Secolo: solo nella proposizione il nome possiede un valore. Infine, a coronare il concetto di applicazione delle teorie del testo, evidenziamo che rimane una questione puramente empirica, secondo quanto sostenuto proprio da Wittgenstein, stabilire cosa sia un oggetto e cosa un complesso;34 quest’ultima considerazione enfatizza come la denominazione sia una pratica, un’attività. Non stupisce ora sostenere che un nome ha valore soltanto in una proposizione, come un oggetto esiste solo in uno stato di cose; inoltre, dopo aver tratteggiato la natura dei nomi si comprende perché non esistano elementi logici nel mondo, ovvero oggetti. Per chiarire appieno la problematica si ricordi che la conoscenza dei contenuti del mondo non è mai a priori;35 se nella realtà vi fossero degli oggetti logici la loro conoscenza sarebbe accidentale (non stupisca il sostenere che non v’è nulla nella conoscenza empirica che sia necessario). Neppure delle leggi naturali, che hanno a che fare col generalissimo e non col singolo, il determinato;36 vi può essere, tuttavia, una conoscenza a priori, l’unica conoscenza a priori effettiva consiste nella possibilità d’una forma logica.37 Per concludere questo paragrafo inerente l’applicazione delle teorie e l’essenza dei nomi, in contrapposizione alla natura della logica, possiamo sostenere che affinché per il tramite di un linguaggio ci sia comunicazione, pur se occorreranno elementi accidentali, sussistono altri necessari,38 vale a dire elementi non decisi dal parlante; in analogia nel mondo gli aspetti necessari vengono indicati col termine spazio logico, si dà perciò la logica del mondo.39 Non ci stancheremo mai di ripetere che logica ha a che fare con la struttura degli elementi,40 con la loro possibilità.
4. Mistico e logica
Secondo ciò che asserisce Wittgenstein stesso, e che si inquadra nei nostri discorsi inerenti i limiti del dicibile, il suo pensiero fondamentale è che le costanti logiche non si possono descrivere, ovvero che la logica dei fatti risulta inesprimibile.41 Perciò le considerazioni sulla logica sfociano nei limiti del dicibile: tutto ciò che è nel mondo, può esser descritto, mentre la logica – per le molteplici ragioni addotte precedentemente – rimane inesprimibile.42 Assodato quanto detto, è lecito chiedersi: la logica consiste nel Mistico? V’è un rapporto, e se sì, di che natura esso è? Quanto profuso fa comprendere come nel Tractatus, se ci fossero ancora dei dubbi, non è presente una semantica realistica, mentre gli oggetti, proprio perché rappresentati, garantiscono il valore delle proposizioni;43 dunque pur se descriviamo uno stato di cose inesistente, ove un oggetto non abbia specifiche relazioni reali, è possibile immaginare la situazione descritta poiché conosciamo le eventuali combinazioni del medesimo, vale a dire possiamo comprendere come impiegare un determinato nome – ribadiamo che una proposizione, rigorosamente parlando, descrive una situazione, uno stato di cose probabile: laddove si descrive l’impossibile, in verità, si stanno mal impiegando le parole ovvero le possibilità stesse dei designati evocati. Ora si comprende quale rapporto intercorra fra le eventualità di un oggetto, di un nome, e le caratteristiche di una proposizione e come la descrizione del nuovo o dell’irreale siano possibili. En passant, per comprendere un oggetto non è necessario conoscere le sue proprietà esterne, le relazioni in cui esso occorre, ma si devono conoscere quelle interne, le relazioni in cui può occorrere.44 Sicché una proposizione è compresa proprio perché sappiamo se i nomi impiegati, sono stati giustamente impiegati, altrimenti non risulta una proposizione, ma un miscuglio di parole. I nessi così descritti fra possibilità linguistiche, natura degli oggetti, condizioni di significazione sono senza dubbio elementi qualificanti la visione linguistica di Wittgenstein; riteniamo ora consono tratteggiare la teoria del Mistico. Il termine Mistico evoca probabilmente pensieri e sensazioni estranei alle problematiche logiche e della filosofia del linguaggio, e più confacenti a un discorso artistico, religioso, spirituale. Tuttavia, il Mistico evocato da Wittgenstein si differenzia da intuizioni di questo genere, configurandosi come risultato di un percorso logico, finalizzato alla comprensione delle possibilità linguistiche.
Volgiamo ancora uno sguardo alla logica, essa non è affatto denominabile, non v’è nella nostra esperienza, che la si intenda linguisticamente o meno, un qualcosa di denominabile come logica; ciononostante essa sussiste, più specificatamente coincide con l’orizzonte delle possibilità ovvero le osservazioni logiche consistono in tautologie45 e così che si costituisce la logica del mondo.46 Ora se la logica non risulta né descrivibile, per le precedenti ragioni, né denominabile (dunque non coincide né con uno stato di cose, né con un oggetto), essa sarà un qualcosa di indicibile – posto che il linguaggio risulti la totalità delle proposizioni.47 Certamente se non v’è un’identità fra il Mistico e la logica, identità su cui prima ci siamo interrogati, v’è una certa somiglianza che abbisogna di ulteriori specifiche. Una precisazione, che certamente può sembrare un’ammissione di colpa: la nostra interpretazione della teoria del Mistico non tiene in considerazione molte delle implicazioni che lo stesso Wittgenstein richiama su di essa,48 infatti riteniamo che la teoria del Mistico non richiami esclusivamente considerazioni sull’etica e sull’estetica (che tuttavia possono ampiamente trovare spazio in trattazioni diverse).49
Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è.
La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata –.
Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.50
Con queste abissali parole Wittgenstein tratteggia il Mistico. In linea teorica potrebbe darsi un mondo ove nulla sia, ove nessun stato di cose sussista, in quanto vi sono teorie caratterizzate da insiemi vuoti, ma il mondo che viene compreso come un unico, come un qualcosa di totalizzante, esiste e non ci si può fermare alla semplice constatazione di come si smembra (zerfällt) in fatti.51 Sarà forse balzato agli occhi, il nesso che cercavamo fra logica e Mistico è proprio che entrambi abbiano a che fare con la nozione di mondo; cosicché se la logica mostra l’armatura del mondo, il Mistico lo considera come un tutt’uno, come delimitato. Logica e mistico non sono la stessa cosa, ma si caratterizzano per aver il medesimo «oggetto», ora considerato nelle sue condizioni possibilità, ora come totalità delimitata. In un senso profondo, Logica e Mistico sono dei percorsi, il primo conduce al secondo, in cui il linguaggio mostra i propri limiti. Una considerazione, che forse era auspicabile come premessa, ma che solo ivi potrebbe può far comprendere effettivamente la propria portata: per logica Wittgenstein non intende solo ciò che comunemente si definisce come logica formale, ma anche le considerazioni che da questa si possono dedurre: le tautologie mostrano le impalcature, le possibilità del mondo, pertanto con il termine logica ci si riferisce sia al metodo che all’oggetto, ovvero sia al metodo formale che ai contenuti che da questo metodo si deducono.
5. La totalità e la nozione di mondo
La visione sul mondo come totalità è al di là del tempo, dacché anche il tempo, comunque esso lo si intenda, si costituisce quale possibilità fra gli stati di cose, come una proprietà degli oggetti, come fattualità. Per la comprensione di tali problematiche è opportuno soffermarci ancora sulla natura dell’oggetto, e dunque della parola. La parola, ripetiamo, poiché non è articolata è semplice (non può essere disgregata mediante definizioni)52 come l’oggetto, per mezzo di essa soltanto non è possibile esprimere nulla; la parola ha valore solo nel contesto proposizionale, come la cosa è tale in un occorrere di stati di cose. Gli oggetti, formando la sostanza del mondo, non presentano mutamenti; il tempo perciò consisterà in una loro forma,53 una relazione in cui occorrono con altri oggetti. Gli oggetti, non essendo composti, non potendo mutare (un mutamento presuppone una certa complessità), sono atemporali, esistendo in qualsiasi mondo possibile; per la medesima ragione, non sono estesi e non possiedono un colore:54 lo spazio e la cromaticità – non stupisce – sono forme dell’oggetto, come il tempo.55 In questi termini si comprende come sia possibile asserire che non vi sia effettivamente uno scorrere temporale, ma solo relazioni temporali.56 Certamente parliamo di un mondo essenzialnente linguistico. Va interpretato, pertanto, il Mistico come tentativo di constatare la totalità. La considerazione del mondo non come insieme degli stati di cose, ma come totalità, è la cifra per siglare la teoria del Mistico; la quale non coincide certamente con l’acquisizione di un’onniscienza assoluta in merito alla fattualità, ma nella comprensione del mondo come un tutt’uno, delle sue strutture, ergo – nuovamente – con le sue possibilità ovvero con la logica; sicché mondo e logica divengono pienamente inscindibili.
Assodato che per mezzo delle proposizioni si possono descrivere esclusivamente i possibili fatti (le situazioni), come è possibile considerare il mondo, costituito dall’insieme dei fatti, come un qualcosa di unico e parlarne come di un tutt’uno? Tale visione non può assimilarsi in una semplice constatazione linguistica, ma risulta simile a un sentimento che in un’impostazione così specifica, sfugge al linguaggio, e in cui quest’ultimo si scontra con i propri limiti. È opportuno precisare che la teoria del Mistico non consiste in una teoria riguardante i sentimenti: la visione che viene evocata, del mondo come un tutt’uno, è concepibile come un sentimento per analogia. C’è comunque da precisare che lo stesso Wittgenstein parli del sentimento del Mistico, e – seguendo l’impostazione tradizionale inerente la mistica – l’ineffabile si riferirebbe non tanto al mondo o alla logica, quanto a tale sentimento. Come in un sillogismo le premesse condizionano inevitabilmente la conclusione, così se si accetta l’impostazione che vede gli oggetti quali semplici e solo designabili e che la struttura della proposizione è identica alla struttura di ciò che descrive (e che proprio questa identità garantisce la possibilità della descrizione), avverrà che non tutto il linguaggio sia dicibile vale a dire che alcuni elementi non possano esser detti. Le ragioni per cui postulare l’esistenza del Mistico, dunque, appaiono come molteplici: si presenta l’impostazione della logica (armatura del mondo) come indicibile, delle costanti logiche che non possono esser dette e della totalità che risulta indicibile anch’essa. Pertanto non è affatto vero che il Mistico ha a che fare esclusivamente con i limiti del linguaggio in merito all’etica o del tentativo di costituire delle teorie estetiche; infine potrebbe essere attinente al Mistico la dicotomia dire/mostrare? Tuttavia, prima di addentrarci su quest’ultimo punto, cercheremo di gettar luce sulla nozione di mondo.
Sembrerebbero varie le nozioni di mondo possibili proposte nel Testo; considerando che per il Wittgenstein del Tractatus il solipsismo sia vero57 possiamo porci il quesito se con mondo in queste considerazioni si intenda il mondo di ognuno, la propria vita, o il mondo ove siamo – inevitabilmente – tutti scagliati. In maniera inequivocabile il Filosofo arriva a sostenere che con la morte il mondo non cambi, ma finisca;58 dunque certamente una visione solipsistica viene enfatizzata. L’esperienza, essendo primariamente un’esperienza linguistica, giacché il linguaggio presiede la significazione e dunque il sapere, è esprimibile, ma il mondo non può essere inteso affatto come uno stato di cose, dunque comunicabile, né come un oggetto – si ripresentano le medesime difficoltà che abbiamo riscontrato in merito alla logica. Dato che il mondo è un postulato linguistico della significazione,59 lo si deve ritenere come l’insieme di tutti i fatti dicibili, ma non abbiamo la possibilità di descrivere ogni singolo stato di cose, perciò questa concezione del mondo inerisce al si mostra, non a ciò che si può dire, come gli assunti della logica.
Il nostro mondo, il mondo di ognuno, è condivisibile proprio grazie al linguaggio, ovvero postulando che l’unico mondo descrivibile sia un mondo essenzialmente linguistico, garantito a causa della significazione, il linguaggio stesso fonda la comunicazione con altri individui, che avranno le medesime o simili esperienze linguistiche. Inoltre, più specificatamente, il mondo è il mondo di ognuno proprio in quanto le teorie del Testo devono essere applicate per aver valore, come più volte sostenuto, e nella loro applicazione il mondo è sempre il mondo di un parlante, non un mondo oggettivo al di là del linguaggio; questa è la risposta al quesito di prima (di quale mondo si sta parlando?). Approfondendo, il mondo consiste in tutto ciò che accade, in un regresso empirico infinito dei fatti, che avrebbe sussistenza solo per il darsi degli eventi, eppure delle volte parrebbe che il mondo così come venga inteso da Wittgenstein abbia uno statuto diverso, sia qualcosa di più profondo, quasi una totalità religiosa, religioso – per l’appunto – è il sentimento che lo percepisce. Il mondo si costituisce come un regresso delimitabile di fatti, per quanto questi possano essere virtualmente infiniti. È proprio grazie al sentimento del Mistico che possiamo concepire il mondo come un uno, e non certamente grazie alle scienze naturali che devono comunque postularlo – canonicamente si può asserire, un sapere è sempre un sapere su qualcosa. A comprovare quanto la teoria del Mistico sia specifica, rispetto la visione scientifica, riteniamo opportuno gettar luce sul peculiare rapporto fra le scienze e Wittgenstein, o ancora più specificatamente sull’idea di fondo sbagliata di progresso.
6. Il progresso scientifico illude
Certamente non è possibile in questa sede analizzare l’ampio rapporto e, per dei versi, controcorrente fra Wittgenstein e le scienze naturali o l’atteggiamento scientifico stesso – neppure la matematica, col suo metodo rigoroso, può aiutare nella risoluzione ai problemi filosofici.60 Per dare seguito a queste informazioni, cerchiamo di focalizzarci su alcuni aspetti. Semplificando, per mezzo della scienza naturale non si rivela l’essenza del mondo (la quale, logicamente parlando, rimane non-detta), ma se ne descrivono i contenuti, il come; descrivendoli mostra che il mondo è descrivibile;61 pertanto è un’illusione credere che le leggi scientifiche siano la spiegazione dei fenomeni naturali.62 L’onniscienza è un fraintendimento, non solo perché esiste un qualcosa al di là delle possibilità linguistiche (al dì là del mezzo con cui la scienza ha valore), ma, soprattutto, poiché la visione scientifica è sempre una visione particolare: per mezzo della scienza non si ha una spiegazione inglobante del mondo, ma una sua descrizione su un unico piano, uno fra i tanti modi possibili, attraverso le leggi naturali.63 Per mezzo delle proposizioni scientifiche vengono descritti fatti (ciò che sussiste), quindi tali proposizioni sono verificabili o falsificabili; a differenza delle osservazioni logiche, le leggi scientifiche non si riferiscono al come qualcosa debba accadere, a una sua proprietà normativa, ma a come realmente accade. Le osservazioni logiche, inoltre, proprio per la loro natura di essere tautologie, non dicono nulla sul mondo,64 poiché esso viene descritto da proposizioni che sono tali in quanto articolate e che possono essere o vere o false, ma non entrambe. È importante costatare come nell’ambito scientifico si indaghi su ciò che è accidentale; se v’è qualcosa che ha valore (come i nostri problemi vitali), che non è accidentale, non potrà essere oggetto di indagine scientifica.65
È importante assodare che un ampliamento della conoscenza del mondo, dei fatti, non indica una maggior comprensione della realtà, ma semplicemente una descrizione più ampia (un nuovo aspetto fecondo);66 le teorie scientifiche descrivono l’universo su un unico piano, da una singola prospettiva: «l’autentico merito di un Copernico o di un Darwin non è stato la scoperta di una teoria vera, ma di un nuovo aspetto fecondo».67 La scienza non amplifica per nulla la nostra comprensione della realtà: la scienza, in quanto visione parziale, non può essere il sapere che risponde a ogni possibile interrogativo.68 Che strana presa di posizione degli uomini di scienza: «Questo non lo sappiamo ancora; comunque è possibile saperlo, ed è solo questione di tempo, prima o poi lo sapremo!».69 Come se fosse una cosa scontata. Wittgenstein scrive presa di posizione come se l’uomo di scienza adottasse un atteggiamento e non fosse in possesso di un sapere che gli doni sicurezza assoluta; in questo passo si evince anche la totale fiducia, da parte dell’uomo di scienza, verso il progresso, l’idea incondizionata che esso possa risolvere qualsiasi interrogativo e porti benessere agli uomini. Per Wittgenstein l’idea che con il progresso l’uomo, un giorno, risolverà ogni interrogativo possibile e che dunque tale progresso non ha bisogno di essere giustificato, in quanto secondo questa visione è incondizionato, consiste in una forma di mitologia, di credenza; questa impostazione risulta una delle critiche più aspre del Filosofo alla società moderna.
7. Il Mistico come risultato: l’enigma non v’è
Si deve tener presente che risulta problematico considerare i termini come aventi valore solo a partire dalla denominazione, poiché seppur è vero che l’articolazione dei fatti – presupposta dall’articolazione delle proposizioni – può essere giustificata con l’isomorfismo, alcuni termini, presenti nel Testo, quali mondo, realtà, proprio per la loro particolarità, non potrebbero essere denominati; ed è a ciò che vuole rispondere il Mistico, ovvero alla constatazione che vi siano delle sfere del linguaggio che non possano venir denominate, ma appunto si mostrerebbero. La determinazione del mondo come un tutt’uno, come già ribadito, non consiste in una visione empirica d’insieme, né in una logica organica; non empirica in quanto non è possibile verificare ogni singolo elemento della realtà e avere di essa una delimitazione, non logica poiché con quest’ultima non risultano oltrepassabili i limiti del linguaggio coincidenti con quelli del mondo, ma essa li può solo mostrare. Dunque, lo svolgere della dicotomia dire/mostrare conduce al Mistico: la constatazione che la logica mostri l’armatura del mondo, che il linguaggio mostri i suoi limiti e che il Mistico mostri il mondo inteso quale totalità delimitata sigilla non l’equazione dire/mostrare=logica=Mistico, ma una coappartenenza indissolubile e la cui natura non è facilmente descrivibile giacché, se lo fosse, si tratterebbe di accidentalità, di fattualità. Il Mistico si rivela il risultato di un percorso volto alla comprensione delle possibilità linguistiche, di un’analisi sul dicibile. Tale analisi si scontra con la concezione del mondo come di un tutt’uno. Il Mistico è il sentire il darsi del mondo e che questo sia uno. La totalità non può venir comunicata, né descritta – manifesto è nel Tractatus che ciò che può essere descritto possa essere comunicato – ma viene sentita, sentita nella consapevolezza dei limiti del linguaggio e nella certezza che la logica mostri l’armatura del mondo, per vederlo rettamente.70
Se si vuole svolgere il discorso, per mezzo del linguaggio si possono descrivere esclusivamente relazioni, che sono tali in un tempo; qualcosa di atemporale non solo non può venir descritto, ma non risulta parte del mondo, in cui regna l’accidentalità (e la temporalità). Per questo, tutti gli oggetti come stanno, cioè senza che in essi occorra la forma della relazione temporale (o qualsiasi altra relazione), costituiscono la sostanza, ciò che permane, coincidendo con la divinità.71 Con l’ausilio del linguaggio tutti i possibili stati di cose sono descrivibili; ma non si è in grado di dire «cosa» le cose siano, né il perché esistano. Nelle parole magistrali di Wittgenstein, che riportiamo: «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è».72 Avendo assodato quanto esposto, si potrebbe intendere che nel Tractatus siano esposte due ontologie distinte: una inerente al mondo fattuale, l’altra al mondo ineffabile.73 Tuttavia non vi sono due ontologie, ma due diverse concezioni del mondo: una inerente gli elementi del mondo (il punto di vista fattuale), l’altra il mondo concepito come un tutt’uno. Inoltre, si può sostenere nel Tractatus non vi sia alcuna traccia di una forma di platonismo, in cui il mondo dei fatti coinciderebbe con un mondo apparente, mentre il vero mondo consisterebbe in quello del Mistico. «L’inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato».74 Con il termine inesprimibile – ciò che è colmo di mistero – si intende quello sfondo, il mondo inteso come orizzonte, come un tutt’uno, nel quale i singoli elementi (i fatti e le proposizioni), hanno valore per mezzo di tale visione d’insieme. «Ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere».75
Una prima erronea impressione che si può avere leggendo le sezioni che trattano della teoria del Mistico è che il non dicibile si identifichi con essa,76 come sostenne Russell;77 ciononostante, considerando più attentamente il testo, si evince invece che il Mistico rientri nel non-dicibile, ma non tutto il non-dicibile deve essere identificato con il Mistico: la problematica fondamentale di questa teoria non consiste nella constatazione che v’è qualcosa di incomunicabile, che, seguendo Russell, potrebbe venir comunicato traducendolo da un linguaggio a un altro, con l’ausilio di un metalinguaggio,78 ma la certezza che il sentimento del mondo come di un qualcosa di delimitato, come visione sub specie aeterni, è ineffabile, non solo incomunicabile. Sintetizzando, rispetto alla problematica del Mistico, l’ausilio di un metalinguaggio non è una soluzione, ma un fraintendimento. Il sentimento del mondo come un tutt’uno nasce dalle implicazioni logiche, svolte, nel Testo. Rispondendo a quanto precedentemente richiesto, la teoria del Mistico non spiega – e le sue finalità sono lungi dal volerlo fare – quale rapporto intercorre fra la nozione del mondo empirico come l’insieme di ciò che accade, indagabile, che costituisce l’ambito di tutto ciò che può essere detto (in quanto definito), in assenza di chiaroscuri, e del mondo come l’ineffabile, che non è «parte» del mondo empirico, che si mostra come il mondo sub specie aeterni, che non inerisce la contingenza dei fatti, né svela la natura di essi.79
È sufficientemente chiaro che il sentimento del mondo visto come un tutt’uno non coincide con l’acquisizione di un’onniscienza assoluta in merito alla fattualità. Esso si mostra come il mondo che, per mezzo di un peculiare sentimento (del Mistico), è visto interamente. Se veramente la teoria del Mistico ha, per così dire, una finalità, essa, a nostro avviso, consiste nel ricordare che il mondo descrivibile (dei fatti), non solo è contingente, ma non si rivela essere neppure l’unica nozione di mondo possibile. Lapidariamente, la nozione di mondo come l’insieme dei fatti differisce dalla considerazione del mondo come di un tutt’uno, tuttavia nel processo di analisi del mondo fattuale, nel suo postularlo quale corollario alla significazione, si comprende che – e ciò, ripetiamo, non può essere comprovato – che la concezione del mondo come unica entità, già presente nelle primissime battute del Testo, sia di per sé il sentimento del Mistico, di poi svelato nelle sue caratteristiche più proprie. È ormai comprensibile che i costituenti del mondo ineffabile non sussistono e non non-sussistono, ma esistono, sono; di questi costituenti non si può avere esperienza in senso stretto, poiché ogni esperire è esperire qualcosa di accidentale, che potrebbe essere diverso; questi costituenti si osservano, si vedono, in quanto si mostrano. Perciò, in merito alla logica vi sono osservazioni logiche e non già proposizioni (enunciati descrittivi). Svolgendo il discorso, se l’armatura del mondo viene mostrata dalla logica, essa non è dicibile per mezzo del linguaggio il quale abbisogna di questa armatura per sussistere e avere un qualche valore. Ciò non toglie affatto a noi la possibilità di intuire che vi sia un mondo, una totalità, e le forme di possibilità che deve avere.
In queste poche righe comprendiamo che non ricorre un iper-fatto, non v’è una proposizione più valida di un’altra, tutte le proposizioni presentano la medesima forma, lo stesso valore; non poteva essere diversamente. Se qualcosa che ha valore v’è, deve essere fuori dalla realtà, fuori dal mondo, fuori dallo spazio e dal tempo, fuori da tutto ciò che è accidentale, fuori da tutto ciò che per caso è, ché un valore non può essere accidentale,80 fuori da tutto ciò che un linguaggio possa comunicare in quanto dicibile. Per mezzo del linguaggio può descriversi solo ciò che per caso è, ciò che è accidentale, non si può esprimere ciò che ha valore; un qualcosa che ha valore deve essere fuori di ogni avvenimento,81 ché ogni avvenimento è accidentale e descrivibile adeguatamente con il linguaggio: per mezzo delle proposizioni non si può esprimere nulla che sia più alto di quello che possono descrivere;82 un valore non potrà essere espresso dalle proposizioni, che, avendo la stessa accidentalità dei fatti, risultano contingenti. Per queste ragioni, non vi possono essere propriamente proposizioni logiche, esse risulterebbero trascendentali: al di là del mondo e dunque del dicibile. Ricapitolando: col linguaggio certe cose possono essere espresse, altre no, altre sono «visibili», nella proposizione stessa. Ad esempio, rievocando alcune concezioni del Testo, l’affermazione i fatti atomi sono tutti i fatti non consiste, seguendo l’impostazione del Tractatus, in un iper fatto, ergo non può considerarsi nemmeno una proposizione avente un significato, tuttavia ciò viene mostrato proprio dalla natura del linguaggio.
Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore.
Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale.
Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale.
Dev’essere fuori del mondo.83
Interpretiamo la nozione di senso del mondo come ciò che permette la significazione stessa; dunque, nell’ambito di una considerazione logica-linguistica del Tractatus, il senso del mondo coinciderebbe con le esigenze della logica. Senza logica non vi può essere alcuna comunicazione. Il silenzio del Mistico non è indotto da forze esterne, ma è il risultato dell’analisi di ciò che è dicibile. Per concludere, non vi sono ragioni necessarie affinché nella realtà qualcosa sia necessario. La stessa proposizione è un fatto: è un fatto che descrive un fatto. Le proposizioni essendo dei fatti hanno il medesimo valore, risultano accidentali (se fossero necessarie sarebbero qualcosa di al di là del mondo: in esso tutto è accidentale). Ribadiamo, ciò che rende qualcosa non accidentale, e che è non accidentale, deve essere fuori dal mondo. Un interrogativo che non si può formulare, poiché gli elementi su cui ci si interroga non appartengono al mondo, non potrà trovare neppure una risposta: non si avrà una situazione a cui ci si possa riferire, l’enigma non v’è.84 La domanda e la risposta a un interrogativo sono proposizioni, dunque dicibili. La formulazione di una domanda include la premessa che ci si possa riferire a quel che si indaga: la domanda rispecchia in qualche modo il fatto indagato. D’una risposta che non si può formulare, non può formularsi neppure la domanda:85 l’enigma non v’è; se una domanda può porsi, v’è anche la risposta.86
Proseguendo con queste considerazioni, non stupisce sostenere che lo scientismo, proprio perché la scienza ha un campo di indagine inerente solo ai fatti, solo al mondo, è inesatto: vi è qualcosa di ineffabile, per l’appunto il Mistico,87 che non può essere indagato. Di contro anche lo scetticismo, come lo scientismo, risulta un atteggiamento errato; esso non è inconfutabile, ma insensato, se si vuole dubitare ove indagare non si può, dubitare ove le domande e le risposte non possono essere formulate: «Ché dubbio può sussistere solo ove sussista una domanda; domanda, solo ove sussista una risposta; risposta, solo ove qualcosa possa essere detto».88 Concludiamo sostenendo che Wittgenstein, nel suo Tractatus, traccia un limite al linguaggio, nella sfera del dicibile, che è tale poiché non ambiguo; il nostro percorso, per quanto riguarda l’analisi del Tractatus, deve far comprendere appieno che quello che si può dire, lo si può dire chiaramente, mentre «su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere».89
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Cfr. P. Frascolla, Il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Introduzione alla lettura, Roma 2006, passim. ↩︎
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Dalla proposizione munita di senso; cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (da adesso in poi citato come TP), in Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino 2009, pp 1-110, §3.4. ↩︎
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Cfr. Ivi, §3.141. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.023. Una proposizione è tale poiché dice qualcosa sul mondo, essendo o vera o falsa; cfr. L. Wittgenstein, Note sulla logica, in Tractatus logico-philosophicus, op.cit., pp. 243-263, p. 246. ↩︎
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Cfr. Ivi, §3.411. Per quanto concerne la questione ontologica e logica, caratterizzati dalla questione della possibilità, riteniamo rivelatorie le considerazioni di Frascolla; v. P. Frascolla, L’interpretazione dell’ontologia del Tractatus: un criterio generale di valutazione, in L. Perissinotto (a cura di), Un filosofo senza trampoli, Milano 2010, pp. 11-24. ↩︎
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Il Tractatus fornisce una teoria semantica, giustificata dalla condizione che una proposizione per essere tale è o vera o falsa. Come si constaterà, non si riveleranno essere proposizioni le tautologie e le contraddizioni, entrambe casi limiti. I nomi, che in una proposizione sono posizionati secondo un ordine, e questa articolazione fornisce alla medesima il proprio valore, sono in una relazione per essi possibile, relazione medesima attuabile per gli oggetti cui i nomi sono correlati. Questa relazione costituisce una proposizione, ovviamente la proposizione ove gli oggetti sono in quella data relazione. ↩︎
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Cfr. TP, §2.02. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.027. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.03. Logica e possibilità, nella visione di Wittgenstein, sono in qualche modo intercambiabili. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.02. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.021. ↩︎
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In merito v. M. Bastianelli, Oltre i limiti del linguaggio. Il kantismo nel Tractatus di Wittgenstein, Milano 2008. ↩︎
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In merito v. A.G. Gargani, Linguaggio ed esperienza in Ludwig Wittgenstein, Firenze 1966, in particolare pp. 78-87 oltre che cfr. D. Marconi, Il mito del linguaggio scientifico. Studio su Wittgenstein, Milano 1971, pp. 32-37. ↩︎
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Cfr. TP, §2.022. ↩︎
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Cfr. Ivi, §2.023. ↩︎
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Cfr. Ivi, §2.02. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.061. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.06. Si ha così la teoria raffigurativa, teoria cardine del Tractatus e che consiste nell’assunto che vi sia un isomorfismo serrato fra il mondo e il linguaggio: le proposizioni sono immagini della realtà (cfr. Ivi, §4.01), degli stati di cose, proiezioni di essi (mostrano la medesima articolazione, struttura, forma) e, pertanto, riproiettano i singoli elementi delle situazioni in un modello (cfr. Ivi, §2.12) articolato (cfr. Ivi, §2.14). Sulla teoria raffigurativa, v. D. Pears, La teoria dell’immagine di Wittgenstein e le teorie del giudizio di Russell, in M. Andronico, D. Marconi, C. Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, Genova-Milano 2010, pp. 63-86 e M. Dummett, Frege e Wittgenstein, in M. Andronico, D. Marconi, C. Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, op.cit., pp. 229-240. ↩︎
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Che la logica sia fondamento o cifra per la comprensione del Tractatus non è opinabile, ciononostante è interessante come per alcuni critici essa sia stata ben presente in tutto il filosofare di Wittgenstein; è il caso di S.S. Grève, Logic and Philosophy of Logic in Wittgenstein, in «Australasian Journal of Philosophy» 96 (2018), pp. 168-182. ↩︎
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Cfr. Q, (30.9.14) p. 136. ↩︎
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Cfr. Ivi, (23.9.14) p. 134. ↩︎
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Cfr. Ivi, (3.10.14) p. 137. ↩︎
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Quando esponiamo le teorie del Testo, presupponiamo di fondo una certa coerenza, ciononostante le esigenze contraddittorie e le fasi diverse del lavoro negherebbero per alcuni questo assunto proprio sulla questione degli oggetti; in merito v. G. Frongia, Wittgenstein. Regola e sistema, Milano 1983, pp. 27-38. ↩︎
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TP, §3.221. ↩︎
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Cfr. Ivi, §3.22. ↩︎
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Le proposizioni della logica non sono vere e proprie proposizioni, articolate in nomi e rispecchianti uno stato di cose, viepiù consistono in osservazioni che mostrano le proprietà del linguaggio e dunque del mondo. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.124. ↩︎
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Cfr. Ivi, §3.144. ↩︎
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Cfr. Ivi, §2. ↩︎
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Parliamo spesso di denominazione, tuttavia è bene precisare che Wittgenstein non abbia trattato nel Testo – più specificatamente – di definizione ostensiva; ma alcuni critici la ritengo un presupposto implicito al Testo, ad esempio McGuinness: cfr. B.F. McGuinness, Il cosiddetto realismo del Tractatus di Wittgenstein, in M. Andronico, D. Marconi, C. Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, op.cit., pp. 101-113. ↩︎
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In merito v. G.E.M. Anscombe, Introduzione al Tractatus di Wittgenstein, Roma 1966. ↩︎
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Cfr. TP, §3.261. ↩︎
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Cfr. B.F. McGuinness, Il cosiddetto realismo, op.cit., p. 107. ↩︎
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Cfr. N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein, Milano 1974, p. 118. ↩︎
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Cfr. TP, §5.634. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.3432. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.33. ↩︎
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Cfr. Ivi, §3.342. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.22. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.3751. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.0312. ↩︎
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Tralasciamo una considerazione non ovvia, a più riprese viene detto che il mondo e la logica non siano dicibili, siano inesprimibili, eppure vengono ampiamente trattati; ciò è l’inevitabile conclusione di una teoria linguistica che sì spiega cosa sia descrivibile e come, trattando la natura degli oggetti che abbiamo evocata e la teoria raffigurativa, ma che non si possa di poi applicare a ciò che non è costituito da oggetti e che – tuttavia – garantisce l’espressione: le condizioni del linguaggio non possono esser dette, sigillo dell’impostazione di Wittgenstein. ↩︎
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Cfr. Ibidem. ↩︎
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Cfr. Ivi, §2.01231 ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.1. Nel testo Wittgenstein utilizza l’espressione proposizioni logiche, noi preferiamo denominarle osservazioni, in merito v. la nota 26 del presente scritto. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.22. ↩︎
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Cfr. Ivi, §4.001. ↩︎
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In merito al Tractatus, Wittgenstein scrisse a Ficker: «il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro l’etica viene delimitata, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etica è da delimitare rigorosamente solo in questo modo. In breve, credo che tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto semplicemente col tacerne» (Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, Roma 1974, p. 72). Per un approfondimento a riguardo dell’etica e dell’estetica nel Tractatus, v. J. Bouveresse, Wittgenstein: la rime et la raison, Paris 1973; P.M.S. Hacker, Insight and Illusion, London 1972, pp. 67-76; H.O. Mounce, Wittgenstein’s Tractatus: An Introduction, Oxford 1981, pp. 93-100 e J.C. Edwards, Ethics Without Philosophy: Wittgenstein and the Moral Life, Tampa 1982, pp. 14-73. ↩︎
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È il caso dell’impostazione critica di Wittgenstein stesso che fra il settembre del 1929 e il dicembre del 1930, di fronte ai componenti dell’associazione The Heretics a Cambridge, tiene una conferenza (v. Wittgenstein, Sull’etica in Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano 2005), in cui il Mistico è inteso quale impossibilità di una conoscenza sull’etica (in merito v. F. Rella, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Milano 2001) e di salvaguardia del valore-etico (in merito v. P. Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, Milano 2007). Tale conferenza ripropone l’impostazione etica del Tractatus, interpretata sotto l’ottica dell’uguaglianza unilaterale fra Mistico e 'mondo etico'; portando esempi esplicativi e chiarendo da subito le intenzioni dell’autore. Riportiamo un passo esaustivo: «Supponiamo che uno di voi fosse onnisciente, e conoscesse, quindi, tutti i movimenti di tutti i corpi nel mondo, vivi o morti, e conoscesse anche tutti gli stati mentali di tutti gli esseri umani che siano mai vissuti, e supponiamo che quest’uomo abbia scritto tutto ciò che sa in un grosso libro, che conterrebbe dunque l’intera descrizione del mondo: quel che voglio dire è che questo libro non conterrebbe nulla che noi potremmo chiamare un giudizio etico o qualcosa che logicamente implichi un tale giudizio». (E p. 9); in questi termini una totale interpretazione del Mistico come “teoria sull’incomunicabilità dell’etico, in quanto superiore al dicibile” è pienamente giustificabile da ciò che lo stesso Wittgenstein afferma non solo nel Tractatus; tuttavia, come a breve vedremo, interpretiamo il Mistico primariamente quale constatazione dell’indicibilità del mondo inteso come di un tutt’uno, cioè da un punto di vista dell’indicibilità della totalità. ↩︎
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TP, §§6.44-6.45. ↩︎
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Cfr. Ivi, §1.2. ↩︎
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Cfr. Ivi, §3.261. ↩︎
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Cfr. Ivi, §2.0251. ↩︎
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Cfr. Ivi, §2.0232. ↩︎
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Cfr. Ivi, §2.0251. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.3611. ↩︎
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Cfr. Ivi, §5.62. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.431. ↩︎
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In merito v. G. Petrella, La rivoluzione ontologica di Wittgenstein, in «Dialegesthai» 18 (2016); l’ontologia riguarderebbe aspetti del pensiero e del linguaggio, v. B.F. McGuinness, Il cosiddetto realismo, op. cit.. L’ontologia di Wittgenstein, inoltre, è stata interpretata come l’espressione delle condizioni del mondo che deve avere affinché ci sia comunicazione; in merito v. J. Bouveresse, Wittgenstein, op. cit., p. 41, A.G. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Roma-Bari 1973, pp. 34-39 oltre che H.O. Mounce, Wittgenstein’s, op.cit., pp. 16-21. ↩︎
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Wittgenstein, Osservazioni sui fondamenti della matematica, Torino 1988, Parte V, par. 19. p.233. ↩︎
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Cfr. TP, §6.342. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.371. ↩︎
-
Cfr. Ivi, §6.342. ↩︎
-
Cfr. Ivi, §6.121. ↩︎
-
Cfr. Ivi, §6.52. ↩︎
-
Cfr. PD, (1931) p. 46. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
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Cfr. TP, §6.52. ↩︎
-
PD, (1941) p. 83. ↩︎
-
Cfr. TP, §6.54. ↩︎
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Cfr. Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus, op.cit., pp. 129-239, (1.8.16) p. 224. ↩︎
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TP, §44. ↩︎
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Sussiste una certa scuola di pensiero, infatti, ineffabilista; in merito agli studi wittgensteiniani si faccia riferimento a S. Bronzo, La lettura risoluta e i suoi critici: breve guida alla letteratura, in J. Conant e C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, Roma 2010, pp. 269-315. ↩︎
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Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano 1980, (1931) p. 43. ↩︎
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Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, Torino 1999, (§54a) p. 35. ↩︎
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In merito Hadot è estremamente perspicace: «in questa prospettiva si potrebbe [il corsivo è nostro] pensare che il termine “mistico” debba essere esteso a tutti i casi in cui ci scontriamo con i limiti del linguaggio» (P. Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, p. 15); “rimproverando” Russell di aver considerato valida l’eguaglianza Mistico=limiti del linguaggio (cfr. Ivi, p. 46). ↩︎
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Cfr. TP, dall’Introduzione di B. Russell, p. 19. ↩︎
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Cfr. Ibidem. ↩︎
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In merito a tale rapporto una spiegazione non v’è, né potrebbe esservi. ↩︎
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Cfr. Ivi, §6.41. ↩︎
-
Cfr. Ibidem. ↩︎
-
Cfr. Ivi, §6.42. ↩︎
-
TP, §6.41. ↩︎
-
Cfr. Ivi, §6.5. ↩︎
-
Cfr. Ivi, §6.51. ↩︎
-
Cfr. Ivi, §6.5. ↩︎
-
Cfr. Ivi, §6.522. ↩︎
-
Ivi, §6.51. ↩︎
-
Ivi, §7. ↩︎