La rivoluzione ontologica di Wittgenstein

È quasi trascorso un secolo dalla stesura del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein,1 ciò che si può dedurre, partendo dagli infiniti spunti di riflessione ivi contenuti, è la sua specificità in merito all’ontologia: in un contesto in cui si parlò della «fine della metafisica», qualsiasi sia il significato che questa espressione abbia, in cui la scienza si professava come l’unica forma di sapere certo e assoluto, Wittgenstein propose un’opera di impianto logico-metafisico in cui né la scienza, né le tradizionali categorie filosofiche vennero impiegate, ma assai criticate e in cui il discorso fondamentale divenne il linguaggio. Questo modestissimo contributo vorrebbe solo gettare luce su questa «rivoluzione ontologica», depotenziando sia l’assunto che vede in Wittgenstein un ingenuo realista, sia quello che concepisce il Tractatus come un’apologia allo scientismo.

1. Il panlinguismo

Nel Tractatus viene esplicata una concezione del mondo2 in una relazione serrata con il linguaggio: l’ontologia indaga il presupposto della dicibilità (della sensatezza); essa non consiste in un’analisi di un mondo oggettivo in sé, ma descrive la premessa di un linguaggio avente una struttura logica tale da permettergli di riferirsi a una realtà con la quale è in un rapporto di isomorfismo: i nomi hanno un designato, le proposizioni un senso.

Nell’esporre le teorie del Tractatus costateremo come ogni comprensione del mondo comporti una maggior comprensione del linguaggio; già dai primi assunti ontologici ciò sarà evidente, ma verrà pienamente compreso al termine del nostro percorso. Il mondo altro non è che il correlato del linguaggio; esso coincide con il dicibile in generale, accessibile esclusivamente per mezzo del linguaggio stesso: è possibile parlare solo di un mondo linguistico, all’unica realtà che è possibile riferirsi per mezzo del linguaggio; cioè in generale all’unica realtà su cui si è in grado di asserire qualcosa: non è concepibile un mondo in sé (al di là del linguaggio) e nonostante tutto descriverlo. Mondo e linguaggio sono inscindibili.

Tale concezione «panlinguistica» è riscontrabile fin dall’inizio nel percorso speculativo di Wittgenstein: in una lettera del 2 novembre 1911, indirizzata a Ottoline Morrell, riferendosi a Wittgenstein, Russell scrive: «credo che il mio ingegnere tedesco sia pazzo; ritiene che nulla sia empiricamente conoscibile. — Gli ho chiesto di ammettere che non c’era, nella stanza, un rinoceronte, ma si è rifiutato»;3 si rifiutò perché sosteneva che non si può ammettere l’esistenza di alcunché, eccetto che delle proposizioni4 — non già delle parole, ché come costateremo non hanno un’esistenza a sé rispetto agli enunciati ove possono occorrere.

«Il mondo è tutto ciò che accade.»5

Il mondo è la realtà tutta,6 che coincide con l’insieme dei fatti, non delle cose:7 un elenco dettagliatissimo di tutte le cose dell’universo non consisterebbe in una sua descrizione, ma solo in un elenco dettagliatissimo; posto che l’universo sia infinito e che vi siano infinite cose, questo elenco, pur se infinito, non determinerebbe un universo: «Solo fatti possono esprimere un senso; una classe di nomi non può farlo.»8

Per mezzo di un insieme di nomi non si indica nulla, in essi non v’è descrizione alcuna: l’elencazione degli oggetti in una stanza non coincide con la sua descrizione.9 Solo per mezzo di una proposizione, in quanto articolata,10 è possibile descrivere una situazione11 che è articolata.

Se il mondo si rivela essere un correlato linguistico (di significazione), per mezzo del linguaggio è possibile rappresentare ogni situazione, in quanto i suoi elementi, le proposizioni, sono composti da costituenti, le parole,12 che corrispondono agli oggetti13 e a seconda della relazione in cui occorrono formano una specifica rappresentazione, per mezzo della quale viene comunicato un senso, una situazione possibile.14 Le situazioni, come le proposizioni, risultano necessariamente articolate. Anche nell’ipotesi che l’universo sia infinito, che vi ricorrono infiniti stati di cose, sussisterebbero dei fatti ed esisterebbero delle cose;15 ma gli stati di cose si danno (o non sussistono) in maniera del tutto accidentale.16

2. L’accidentalità

Sviluppiamo ora la suggestiva impostazione che vede nel mondo un mare indistinto di fatti accidentali. L’universo coincide con l’insieme dei fatti, non con la totalità; tale termine indica un qualcosa di organico, ove il tutto determina le singole parti, che prese a sé sono inanimate.17 Al contrario è l’insieme dei fatti, e di essere tutti i fatti,18 che determina il mondo: un universo senza il pianeta Terra è sì immaginabile, ma diverso da questo universo. In una totalità i fatti risulterebbero necessari. È da notare come tale particolare ontologia sia basata sul transeunte, sull’accidentale; non v’è una ragione perché uno stato di cose sussista o non sussista, né è possibile desumere un fatto da un altro fatto:19 i fatti sono indipendenti l’uno rispetto all’altro,20 altrimenti il loro ipotetico essere dipendenti instaurerebbe una necessità.

Tutto ciò che si vede, tutto ciò che si può descrivere, potrebbe essere diverso:21 non v’è ragione alcuna perché sia così o in altra data maniera. Non v’è una ragione per la quale uno stato di cose ricorra o non ricorra: esiste solo una necessità logica.22

Si comprende fin da ora come la logica non appartenga al mondo: la sua natura non risulta accidentale, cioè non si rivela un contenuto del mondo. Per contenuti del mondo si intende ciò che la scienza può indagare: gli stati di cose che sussistono, i fatti. A differenza di ciò che si potrebbe supporre, con l’espressione descrizione scientifica non si intende esclusivamente una descrizione della realtà per mezzo delle scienze naturali, ma la descrizione fattuale del mondo; in questi termini è inerente al linguaggio scientifico anche il linguaggio comune, il quale presenta, e ciò verrà compreso adeguatamente più avanti, il medesimo valore linguistico.

L’ontologia di Wittgenstein è innovatrice; non solo poiché ha a che fare con semplici relazioni, ma in quanto fa di tali relazioni contingenti l’essenza dell’universo.23 L’universo del Tractatus è un universo anti-metafisico: non v’è un essere supremo (un iper-fatto) o una necessità che diriga il tutto ciò che accade (il mondo). «Non v’è un ordine a priori delle cose.»24

Da queste considerazioni si desume che la ragione per la quale uno stato di cose non sussista, in quanto non v’è una necessità — tutto potrebbe essere diverso — non dipende da una proprietà della situazione di non-essere-possibile, situazioni impossibili logicamente non si presentano (uno stato di cose o sussiste o non sussiste), ma dal caso, dall’accidentalità, dalla contingenza.

Non ricorrono iper-fatti: ogni fatto, nella forma, è uguale a un altro, è equivalente. Non risulta esserci una gerarchia tra i fatti; se i fatti vengono descritti per mezzo delle proposizioni25 — le stesse proposizioni sono dei fatti,26 — esse avranno la medesima natura formale: non si presenterà una gerarchia tra le proposizioni.27

«La proposizione è la descrizione d’uno stato di cose»,28 al di là della peculiarità se esso sussista o non sussista, cioè al di là se la proposizione sia vera o falsa (nel caso sia falsa, la proposizione descrive una situazione che come tale è possibile);29 perciò «la realtà dev’essere fissata dalla proposizione sino al sì o no».30

Prima di addentrarci in altre considerazioni, è doveroso precisare che il Tractatus, presentandosi come un’opera logica, si interessa della forma e non del contenuto di ciò che indaga: è analizzata la forma delle proposizioni. Se si ipotizzasse che non sussistino degli stati di cose, che il loro insieme (l’universo) risulti vuoto, cioè che le proposizioni (per mezzo delle quali essi vengono descritti) non si riferiscano a nulla, ciò non scalfirebbe la validità logica delle teorie del testo,31 inerenti la forma delle proposizioni, per mezzo delle quali si descrive la realtà.

Inoltre è bene sottolineare che il testo non è costituito da riflessioni logiche da un lato e filosofiche dall’altro: ogni riflessione sulla logica è di natura filosofica, in quanto con la chiarezza di tale «prassi» vengono risolti adeguatamente problemi filosofici, e ogni ragionamento filosofico, che auspica la serietà, è di natura logica, in quanto tale pratica non si perde in un vuoto chiacchiericcio. La logica consiste in una prassi, non in una scienza, dacché non v’è di essa un sapere, viepiù una sua applicazione, cioè un rischiarire l’elemento logico sempre dato. C’è da aggiungere, non meno importante, la natura essenziale della logica; per comprendere appieno tali problematiche si riporta l’aforisma di Kürnberger che fa da apertura al testo: «Motto: … e tutto ciò che si sa, ciò che non si sia solo udito rumoreggiare e mormorare, può dirsi in tre parole.»32

Il rumoreggiare e il mormorare si riferiscono al chiacchierare, alle semplici opinioni; il tutto ciò che si sa è ciò che si riesce a dominare con una forma adeguata, chiara, non ciò che è confuso; del resto un sapere confuso che valore avrebbe? Le tre parole non si devono intendere alla stregua di un modo di dire, ma come l’espressione emblematica dell’essenzialità che percorre, simile allo scorrere di un lento fiume, tutto il testo.

3. La sostanza: gli oggetti

È stato sostenuto poc’anzi che non v’è un ordine a priori, tuttavia «qualcosa» a priori esiste; anche nell’enunciato della sezione precedentemente riportato ciò viene espresso: non v’è un ordine a priori delle cose. Questo qualcosa, che è a priori, coincide con le cose stesse: se da un lato non si dà un ordine a priori di esse, tuttavia le cose stesse sono «a priori». Le cose, formando la sostanza del mondo,33 esisterebbero in qualsiasi mondo possibile:34 esse coincidono con la forma fissa del mondo.35

La sostanza è ciò che sussiste indipendentemente da ciò che accade.36

È opportuno sottolineare che gli oggetti non possono esistere in-sé (una cosa è tale poiché è in uno stato di cose),37 è essenziale che siano in una determinata congiunzione o situazione, ove congiunzione sta per relazione sussistente (un fatto), mentre situazione per una relazione possibile; pertanto il mondo si rivela essere l’insieme dei fatti, non delle cose, proprio perché esse non esistono senza occorrere in stati di cose, e gli stati di cose che ricorrono (i fatti) determinano il mondo. Ricapitolando: il mondo è l’insieme di tutto ciò che accade (i fatti), non degli enti che in questi accadimenti occorrono (le cose).

La condizione per la quale l’oggetto deve occorrere in stati di cose non consiste esclusivamente in una sua proprietà normativa di esistenza,38 ma coincide anche con ciò che deve essere affinché esso sia conosciuto; le sue possibilità di occorrere in uno stato di cose devono essere conosciute: la cosa è conosciuta quando sono conosciute tutte le sue possibilità di occorrenza in stati di cose.39 Per comprendere un oggetto non è necessario conoscere le sue proprietà esterne, le relazioni in cui esso occorre (che Wittgenstein denomina proprietà esterne), ma è necessario conoscere tutte quelle interne, le relazioni in cui esso può occorrere (le proprietà interne).40 Ciò significa che le condizioni di esistenza della sostanza del mondo, degli oggetti, coincidono con le condizioni di conoscenza degli stessi. Se vengono dati tutti gli oggetti, in quanto ognuno di essi è «come in uno spazio di possibili stati di cose»,41 sono anche date tutte le possibilità di stati di cose.42 Si conosce un oggetto se se ne conosce la forma, in quanto essa coincide con «la possibilità della sua ricorrenza in stati di cose».43

Poiché il mondo, come è stato precedentemente espresso, consiste nel postulato di significazione del linguaggio, si può concludere dicendo che: come le cose non possono non occorrere in stati di cose, così le parole originariamente non possono non occorrere in proposizioni; come si conoscono gli oggetti solo se si conoscono tutte le loro possibilità di relazione, in tal modo si comprende una parola solo se si conoscono44 tutte le proposizioni in cui essa può occorrere;45 infine, come gli stati di cose sono costituiti, per essere considerati tali, da oggetti in una determinata relazione, così anche le proposizioni, intuitivamente lo comprendiamo, esprimono un senso se sono costituite da parole congiunte in una determinata maniera.

Per la comprensione generale di tali problematiche è opportuno soffermarci ancora sulla natura dell’oggetto, e dunque della parola. La parola, poiché non è articolata, è semplice (il nome, in quanto possiede da sé un valore,46 non può essere disgregato mediante definizioni),47 come l’oggetto,48 per mezzo di essa non è possibile esprimere nulla; la parola ha valore solo nel contesto proposizionale, come la cosa è tale in un occorrere di stati di cose. Gli oggetti, formando la sostanza del mondo, non presentano mutamenti; il tempo è una loro forma:49 una relazione in cui occorrono con altri oggetti.

Gli oggetti, non essendo composti, non potendo mutare (un mutamento presuppone una certa complessità), sono atemporali; esistendo in qualsiasi mondo possibile; gli oggetti, per la medesima ragione, non sono estesi e non possiedono un colore:50 lo spazio e la cromaticità sono forme dell’oggetto,51 come il tempo. In questi termini si comprende come sia possibile asserire che non vi sia effettivamente uno scorrere temporale, ma solo relazioni temporali.52

Per mezzo di una parola si designa un oggetto, non lo si esprime: la «definizione» di un nome è la sua designazione; solo per mezzo della designazione si stabilisce il valore della parola. Di un nome non se ne ha un’immagine53 (un oggetto viene rappresentato sempre in un occorrere di stati di cose). Per contrapposizione, per mezzo delle proposizioni non si designano delle situazioni (le situazioni non si possono denominare),54 ma le si descrivono;55 non per mezzo di una proposizione si asserisce che l’oggetto occorra in un certa relazione con altri, ma la possibile occorrenza di tale relazione garantisce la descrizione dell’oggetto in una relazione.56 A quanto detto aggiungiamo che per mezzo delle proposizioni non è possibile stabilire la sintassi delle parole, ma il possibile ordine, forma delle parole ne stabilisce la sintassi nella proposizione: la semantica (la designazione di un oggetto per mezzo di un nome) è un fattore accidentale, la sintassi no. La relazione degli oggetti coincide con l’articolazione delle proposizioni57 e quindi il linguaggio è lo specchio del mondo, secondo la teoria raffigurativa del linguaggio.

4. La teoria raffigurativa

Linguisticamente parlando Wittgenstein non concepisce, e seguendo le teorie del Tractatus ciò è comprensibile, la parola alla stregua di una proposizione; tuttavia non è possibile non constatare che in particolari contesti linguistici — come ad esempio nelle esclamazioni, nei comandi, — una singola parola possa fungere da proposizione. La stessa problematica, se singole parole possano venire considerate alla stregua di proposizioni, è fonte di dibattito nella linguistica. Per non entrare nel merito, e per riportare correttamente il discorso su di un’esegesi critica del Tractatus, bisogna precisare che in esso le proposizioni di cui si analizza il valore consistono in proposizioni descrittive — proposizioni per mezzo delle quali è possibile esprimere un senso, descrivere una situazione, proposizioni inerenti il mondo, — non in particolari contesti linguistici di cui prima è stata accennata l’esistenza. Inoltre, ci sia consentito di sostenere che le proposizioni quali esclamazioni e affini, consistenti in singole parole, che «sembrano» fungere da proposizioni, indicano e implicano l’intera proposizione taciuta: «bottiglia!» può implicare «passami la bottiglia», «guarda una bottiglia!» ecc.; per mezzo della singola parola non si esprime nulla, solo grazie a un contesto proposizionale, pur se taciuto, è possibile esprimere qualcosa: le parole presuppongono sempre proposizioni in cui possono occorrere e, a seconda del contesto proposizionale, pur se vengono taciute, esse vengono necessariamente postulate. «La realtà è confrontata con la proposizione.»58

La teoria raffigurativa59 è una delle teorie cardini del Tractatus. Essa consiste nell’assunto che vi sia un isomorfismo fra il mondo e il linguaggio: a ogni fatto corrisponde una proposizione e a ogni proposizione corrisponde un possibile stato di cose (una situazione). Non è possibile asserire nulla che esuli dalle situazioni, e non sussiste nessuno stato di cose che non possa venir espresso: la possibilità della descrizione del mondo è inglobante,60 con il linguaggio ogni senso può esprimersi.61 Per mezzo di una proposizione è possibile descrivere una situazione in quanto essa condivide la medesima forma (l’articolazione, la forma logica).

«La proposizione è un’immagine della realtà.»62 Le proposizioni sono immagini degli stati di cose, proiezioni di essi (mostrano la medesima articolazione, struttura, forma) e, pertanto, riproiettano i singoli elementi delle situazioni in un modello,63 modello che «consiste nell’essere i suoi elementi in una determinata relazione l’uno con l’altro».64 Tale relazione è la medesima che si instaura nello stato di cose di cui essa è immagine: appartiene all’immagine e fa dell’immagine un’immagine;65 la stessa rappresenta la relazione in cui gli elementi delle situazioni sono in una data maniera.66 La particolarità per la quale una proposizione consiste in un’immagine garantisce la significazione.67

Le condizioni di verità di una proposizione non possono dipendere da altre proposizioni,68 si avrebbe un processo a ritroso infinito, ma dipendono dall’essere essa, la proposizione, una descrizione, un’immagine adeguata, di un possibile «contenuto» del mondo (di un fatto): le condizioni di verità di una proposizione vengono determinate dal suo essere una proiezione di uno stato di cose che può sussistere: la verità di una proposizione dipende dal mondo, ma non il suo senso.

Per comprendere appieno l’impossibilità di desumere la verità di una proposizione da altre proposizioni, è bene soffermarsi ancora sulla natura degli stati di cose che sussistono, sui fatti; ciò inevitabilmente porterà a una miglior comprensione della natura contingente dei contenuti del mondo. Come più volte asserito, non sussistono fatti necessari: un fatto è accidentale. Ciò che accade (un fatto) è possibile intenderlo come ciò che per caso è, come ciò che si presenta, un essere-così. Conoscere a priori la sussistenza di un fatto sarebbe possibile solo se nel mondo esistesse una necessità concatenante tra i fatti, tuttavia, ciò non è possibile: la conoscenza del mondo, la sua descrizione, è sempre a posteriori. La verità, intesa come verificabilità, è solo inerente ai fatti, non può essere vagliata a priori: non è possibile stabilire a priori la descrizione di un fatto.

Un pensiero corretto a priori sarebbe un pensiero, la cui possibilità ne condizionasse la verità.69 «Noi potremmo sapere a priori che un pensiero è vero solo se dal pensiero stesso (senza la mediazione d’un termine di confronto) se ne potesse conoscere la verità.»70 In queste sezioni, in verità, si evoca il pensiero, non il linguaggio; tuttavia nel Tractatus la problematica pensiero-linguaggio viene risolta concependo la proposizione come proiezione della situazione,71 la quale è pensabile,72 cioè il pensiero contiene la possibilità di uno stato di cose che esso pensa:73 uno stato di cose è pensabile significa che è possibile farsene un’immagine, la quale viene espressa per mezzo del linguaggio.74 «Nella proposizione il pensiero s’esprime in modo percepibile mediante i sensi.»75 «Il pensiero è la proposizione munita di senso.»76

La difficoltà delle indagini filosofiche è causata dalla particolarità che «il linguaggio traveste il pensiero»:77 è fondamentale comprendere che il pensiero non è indipendente dal senso della proposizione.

Si può concludere affermando che la validità di una proposizione consiste nel riferirsi a uno stato di cose possibile, la sua veridicità a uno che sussiste. Non è possibile la dimostrazione della veridicità di una proposizione partendo dalla veridicità di altre proposizioni,78 in quanto se i fatti sono indipendenti, le proposizioni, per mezzo delle quali essi vengono descritti, avranno la medesima indipendenza, oltre che la stessa accidentalità.

Ricapitolando: non esiste un sapere necessario, la stessa logica non è una dottrina.79 Inoltre, il mondo è determinato da tutto ciò che può accadere in maniera casuale; ciò che accade è un fatto, un sussistere di stati di cose, oggetti che sono semplici (se non fossero tali si avrebbe una scomposizione indefinita e infinita). Gli oggetti semplici, le cose, costituiscono la sostanza del mondo e si aggregano, a seconda della loro forma, in varie composizioni o configurazioni possibili, ma la scelta di tale composizione è indipendente dalla scelta di altre aggregazioni; tale concezione del mondo è rispecchiata da una teoria del linguaggio anch’essa articolata in tal modo.

Ora è possibile comprendere appieno che l’ontologia di Wittgenstein non risulta coincidere con una descrizione di un mondo oggettivo in sé, ma l’analisi di una premessa che permette al linguaggio di non essere autistico, di riferirsi a un qualcosa (il mondo), con il quale «condividerà» la medesima forma nelle sue proposizioni, che gli permette di descriverlo:80 alle proposizioni corrispondono i fatti, ai nomi le cose. Il mondo risulta essere un postulato necessario affinché tramite le proposizioni si possa esprimere un senso e la proposizione è tale se per mezzo di essa, ed esclusivamente di essa, senza l’ausilio di altre proposizioni, è possibile comunicare un senso.

Nella nostra ricapitolazione sull’ontologia di Wittgenstein è doveroso fornire un ulteriore chiarimento: tale ontologia non si rivela un’«apologia» alla casualità, in essa non v’è esplicata una dottrina cosmologica del Caos; tutti gli assunti sulla contingenza dei fatti devono essere interpretati come condizionati dall’essere essi proiettati dalle proposizioni.

In altri termini, proprio in quanto le condizioni di validità di una proposizione non sono derivabili da altre proposizioni — né è possibile stabilire la loro verità l’una per mezzo dell’altra, — si comprende che i fatti, descritti per mezzo di cotali proposizioni, avranno la medesima indipendenza. Non si ricorderà mai abbastanza che la concezione del mondo di Wittgenstein, non solo nel Tractatus, ma in tutti i suoi scritti, riguarda un mondo-linguistico, ogni esperire qualcosa è un esperire per mezzo del linguaggio:

Credo che il mio ingegnere tedesco sia pazzo; ritiene che nulla sia empiricamente conoscibile. Gli ho chiesto di ammettere che non c’era, nella stanza, un rinoceronte, ma si è rifiutato. Si è rifiutato di ammettere l’esistenza di qualsiasi cosa, fuorché delle proposizioni.81


  1. Il Tractatus logico-philosophicus venne pubblicato nel 1921 con il titolo di Logisch-philosophische Abhandlung. L’opera fu completata nell’estate del 1918. Tuttavia Wittgenstein si imbatté in serie difficoltà per trovare un editore che pubblicasse il suo lavoro. Solo nel 1921 venne pubblicato in Germania, nell’ultimo numero della rivista Annalen der Naturphilosophie, in un’edizione colma di refusi, che ebbe poco successo. Sarà l’edizione inglese del 1922, accompagnata da un’introduzione di Russell, che renderà Wittgenstein famoso. Fu tale introduzione l’unica ragione che persuase il direttore degli Annalen, Wilhelm Ostwald, a pubblicare l’opera di Wittgenstein, all’epoca un autore sconosciuto, nella sua rivista. I traduttori dell’edizione del 1922, anche se non citati, furono P. Ramsey e C.K. Ogden, la cui traduzione fu rivista dallo stesso Autore. Per considerazioni inerenti le edizioni degli scritti di Wittgenstein editi o non e sul suo modo di lavorare v. Rosso, Wittgenstein edito ed inedito. Nell’anno successivo alla sua pubblicazione (cioè nel 1922), su consiglio di Moore, l’opera porterà il nome, dal sapore spinoziano, di Tractatus logico-philosophicus; Wittgenstein manifestò qualche dubbio sul nuovo titolo per l’edizione inglese, che, tuttavia, preferì a quello proposto da Russell (Philosophical Logic). ↩︎

  2. Utilizziamo i termini realtà, mondo, universo come sinonimi. La ragione del perché venga utilizzato il termine realtà in luogo di mondo è riscontrabile nella sezione 2.063 del Tractatus. Le sezioni del Tractatus sono contrassegnate da numeri decimali; in merito alla struttura dell’opera e all’insolita numerazione v. Bazzocchi, L’albero del Tractatus. Non utilizziamo il termine proposizioni per indicare il termine Sätze (nel testo tedesco originale), per le medesime ragioni di Frascolla che in merito asserisce: «parlo di «sezioni» e non di «proposizioni», a dispetto del fatto che nella nota esplicativa possa in apertura del Tractatus Wittgenstein parli proprio di «proposizioni» (Sätze), per due ragioni. La prima è che le osservazioni corrispondenti ai numeri decimali sono costituite spesso da più proposizioni; la seconda è che il Tractatus ha per oggetto la natura della proposizione e, quindi, parla delle proposizioni. Se si chiamassero «proposizioni» quelle che chiamerò, invece, «sezioni», ci si troverebbe inevitabilmente a dover fare affermazioni del tipo «nella proposizione 4.05 Wittgenstein sostiene che la realtà è confrontata con la proposizione», il che non gioverebbe certo alla chiarezza dell’esposizione» (Frascolla, Il Tractatus, p. 27). Per quanto riguarda l’utilizzo del termine universo al posto di mondo, da un lato la nostra intuizione può motivarlo, dall’altro Wittgenstein stesso utilizza il termine universo come sinonimo di mondo: cfr. Wittgenstein, Note, p. 267. ↩︎

  3. Russell, Logical and Philosophical Papers, p. XXV (dall’Introduzione); traduzione dell’autore del presente scritto. ↩︎

  4. Cfr. ibidem↩︎

  5. Wittgenstein, Tractatus, §1. ↩︎

  6. Cfr. ivi, §2.063. ↩︎

  7. Cfr. ivi, §1.1. Nel contesto dell’ontologia del Tractatus utilizziamo i termini oggetto e cosa come sinonimi, in merito: cfr. ivi, §2.01; ciò è valido anche per i corrispettivi plurali. ↩︎

  8. Ivi, §3.142. ↩︎

  9. Tale esempio, come quelli che presenteremo più in avanti, ha una valenza esplicativa, non già logica-filosofica. ↩︎

  10. Cfr. ivi, §3.141. ↩︎

  11. Verrà utilizzato, nel presente scritto, il termine situazione in luogo di ciò che è possibile che sussista, mentre fatto in ciò che propriamente sussiste. Una situazione è uno stato di cose che può sussistere, un fatto uno stato di cose che sussiste (cfr. ivi, §2). ↩︎

  12. Utilizziamo i termini nome e parola come sinonimi; questa scelta l’applichiamo anche ai loro plurali. ↩︎

  13. Cfr. ivi, §3.203; cioè li designano↩︎

  14. Nell’ambito della dissertazione inerente al Tractatus utilizziamo i termini proposizione, rappresentazione e immagine come sinonimi (questa uguaglianza linguistica è possibile in quanto Wittgenstein, come vedremo più avanti, concepisce la proposizione alla stregua di un’immagine); tale decisione si applica inevitabilmente anche per i plurali dei medesimi termini. ↩︎

  15. Cfr. ivi, §4.2211. ↩︎

  16. Cfr. ivi, §5.634. ↩︎

  17. Come avviene in un organismo o nella concezione hegeliana dello Spirito Assoluto. ↩︎

  18. Cfr. ivi, §1.11. Non se ne possono trovare altri non facenti parte dell’insieme stesso. ↩︎

  19. Cfr. ivi, §2.062. ↩︎

  20. Cfr. ivi, §2.061. ↩︎

  21. Cfr. ivi, §5.634. ↩︎

  22. Cfr. ivi, §6.37. ↩︎

  23. Sulla particolare natura dell’ontologia di Wittgenstein, alcuni studiosi si soffermarono su di un’impostazione «eraclitea», cioè su una concezione del mondo concepito non più come totalità di cose, ma un susseguirsi di eventi; di questo avviso è Popper, v. Popper, Back to the Pre-Socratics. Altri collocano tale ontologia in un contesto «einsteiniano»: il termine accadere, presupponendo lo spazio e il tempo, mostra come Wittgenstein abbia assimilato i risultati della teoria della relatività del 1905 di Einstein; il mondo si rivela essere non più la totalità degli oggetti, ma l’insieme degli eventi: spazio e tempo non sono più considerabili scindibili. Per il rapporto di «discepolato» fra Einstein e Wittgenstein v. M. Kusch, Wittgenstein and Einstein’s Clocks, in E. Ramharter, (Hg.) Ungesellige Geselligkeiten/Unsocial Sociabilities, Parerga, Berlin 2011, pp. 203-218 e C. Penco, The influence of Einstein on Wittgenstein’s Philosophy, in Philosophical Investigations vol. 33 n. 4 (2010), pp. 360-379. Infine diversi studiosi, scorgendone proprio il lato innovativo, a cui prima abbiamo accennato, hanno desunto delle importanti conseguenze nell’ambito del linguaggio stesso; ci riferiamo in particolar modo a Black che sostiene: «nei confronti della metafisica tradizionale, la principale innovazione dell’ontologia wittgensteiniana sta nel considerare l’universo (il ‘mondo’) alla stregua di un aggregato di fatti, non di cose (1, 1.1). Questa novità distingue nettamente Wittgenstein da Aristotele, Spinoza, Cartesio, insomma da tutti i ‘filosofi classici’ che vengono in mente per primi, non escluso il primo Russell. I metafisici, quando sono alla ricerca di verità supremamente generali riguardo all’universo, solitamente credono di star indagando un’entità nominabile, ovvero, nel linguaggio del Tractatus, una cosa: una cosa supremamente importante, certo, una summa rerum, contenente come sua parte tutto ciò che è reale, ma pur sempre una cosa. Wittgenstein rompe nettamente con questa tradizione. Sin dall’inizio, egli respinge la concezione tradizionale dell’universo come qualcosa cui ci si possa riferire mediante un nome» (Black, Manuale, pp. 35-36). ↩︎

  24. Wittgenstein, Tractatus, §5.634. ↩︎

  25. Cfr. ivi, §4.023. ↩︎

  26. Cfr. ivi, §2.141. ↩︎

  27. Cfr. ivi, §6.4. ↩︎

  28. Ivi, §4.023. ↩︎

  29. Una proposizione per mezzo della quale si descrive un qualcosa di impossibile, non si configura come una proposizione, ma come un insieme di parole non rispecchianti le leggi «grammaticali». ↩︎

  30. Ibidem. ↩︎

  31. Esistono teorie valide con un insieme di elementi vuoti: le teorie senza estensioni. ↩︎

  32. Ivi, p. 21. ↩︎

  33. Cfr. ivi, §2.023. ↩︎

  34. Cfr. ivi, §2.022. ↩︎

  35. Cfr. ivi, §2.023. ↩︎

  36. Ivi, §2.024. ↩︎

  37. Cfr. ivi, §2.011. ↩︎

  38. Ad esempio, il suono non può non avere un’altezza; può non avere una determinata altezza, così una cosa può non occorrere in un particolare stato di cose (in cui può anche occorrere), ma non può non occorrere in nessuno stato di cose. ↩︎

  39. Cfr. ivi, §2.0123. ↩︎

  40. Cfr. ivi, §2.01231. ↩︎

  41. Ivi, §2.013. ↩︎

  42. Cfr. ivi, §2.0124. ↩︎

  43. Ivi, §2.0141. ↩︎

  44. Adoperiamo il verbo conoscere non qual sinonimo di sapere, ma nell’accezione del saper-riconoscere: conosco una parola se sono in grado di riconoscere, in una proposizione, se essa sia adeguata, cioè se sono in grado di ri-conoscerla, in quel contesto, come valida. ↩︎

  45. Se conosco una parola devo poter riconoscerne il giusto impiego in tutte le proposizioni (per l’equivalenza fra il conoscere e il riconoscere vedasi la nota precedente del presente scritto). ↩︎

  46. Cfr. ivi, §3.261. ↩︎

  47. Cfr. ibidem↩︎

  48. Cfr. ivi, §2.02. ↩︎

  49. Cfr. ivi, §2.0251. ↩︎

  50. Cfr. ivi, §2.0232. ↩︎

  51. Cfr. ivi, §2.0251. ↩︎

  52. Cfr. ivi, §6.3611. ↩︎

  53. Cfr. Wittgenstein, Quaderni, (3.10.14) p. 137. ↩︎

  54. Cfr. Tractatus, §3.144. ↩︎

  55. Cfr. ibidem↩︎

  56. Cfr. ivi, §3.1432. ↩︎

  57. Cfr. ivi, §3.21. ↩︎

  58. Ivi, §4.05. ↩︎

  59. Per un maggior approfondimento v. Kenny, Wittgenstein, pp. 73-91. Interessante è l’approccio di Frascolla che si sofferma sugli aspetti generali della natura delle immagini, v. Frascolla, Il Tractatus logico-philosophicus, pp. 31-85. Infine, per un’analisi sulle implicazioni filosofiche-linguistiche di questi assunti v. Gargani, Wittgenstein↩︎

  60. Cfr. Tractatus, §4.023. ↩︎

  61. Cfr. ivi, §4.002. ↩︎

  62. Ivi, §4.01. ↩︎

  63. Cfr. ivi, §2.12. La concezione di Wittgenstein dei modelli è fondamentale per l’esplicazione dei rapporti pensiero-linguaggio e linguaggio-realtà: «la proposizione è un modello della realtà quale noi la pensiamo» (ivi, §4.01). Per quanto riguarda l’uso dei modelli uno dei maestri di Wittgenstein, secondo quanto egli afferma (cfr. Wittgenstein, Pensieri diversi, (1931) p. 47), fu Boltzmann, padre della teoria statistica della meccanica, propugnatore dell’uso di modelli di tipo matematico per la descrizione della realtà. Una delle idee centrali di Boltzmann fu di descrivere un sistema fisico localizzandolo in una cornice logica, di varie dimensioni di significato fisico (spaziali, temporale, di temperatura ed ecc.), che influenzò Wittgenstein nell’elaborazione di una cornice logica linguistica che localizzasse qualsiasi oggetto, e di conseguenza il nome che lo designa, attraverso la sua posizione nello spazio logico, «ove» la proposizione riproietta la situazione descritta. Altro autore nel quale si possono rinvenire le tracce di una genesi della teoria raffigurativa è Hertz, in particolar modo in merito ai modelli dinamici (cfr. Wittgenstein, Tractatus, §4.04) alla «pensabilità» come una conformità a una legge (cfr. ivi, §6.361), e alla considerazione degli oggetti come le masse invisibili (cfr. Wittgenstein, Quaderni, (6.12.14) p. 170); anche quest’ultimo fisico viene ricordato da Wittgensten stesso come uno dei suoi maestri (cfr. Wittgenstein, Pensieri diversi, (1931) p. 47). In merito allo scritto Pensieri diversi: nei manoscritti di Wittgenstein si trovano numerose annotazioni che, sebbene siano spesso di molto aiuto alla comprensione delle problematiche trattate, non appartengono direttamente all’elaborazione delle opere filosofiche; da queste notazioni nascono i Pensieri diversi, curati da Georg Henrik. ↩︎

  64. Wittgenstein, Tractatus, §2.14. ↩︎

  65. Cfr. ivi, §2.1513. ↩︎

  66. Cfr. ivi, §2.15. ↩︎

  67. Cfr. ivi, §4.03. ↩︎

  68. Cfr. ivi, §2.0211. ↩︎

  69. Ivi, §3.04. ↩︎

  70. Ivi, §3.05. ↩︎

  71. Cfr. ivi, §3.11. ↩︎

  72. Cfr. ivi, §3.02. ↩︎

  73. Cfr. ibidem↩︎

  74. Cfr. ivi, §3.12. ↩︎

  75. Ivi, §3.1. ↩︎

  76. Ivi, §4. ↩︎

  77. Ivi, §4.002. ↩︎

  78. Cfr. ivi, §6.1263. ↩︎

  79. Cfr. ivi, §6.13. ↩︎

  80. Cfr. ivi, §2.16. ↩︎

  81. B. Russell, Logical and Philosophical Papers, p. XXV (dall’Introduzione). ↩︎