L’uomo senza identità: il superamento del concetto di identità in Emmanuel Levinas

Introduzione

«I morti insepolti nelle guerre e nei campi di sterminio […] rendono tragicomica la cura di sé e illusoria la pretesa dell’animal rationale in un posto privilegiato nel cosmo, la sua capacità di dominare e di integrare nell’autocoscienza la totalità dell’essere»1. È la morte a destituire la coscienza sovrana dalla sua posizione nel presente. È la morte a scavare un’apertura nella soggettività del soggetto. Ma non la morte come fenomeno che costituisce la vita; non un «essere-per-la-morte» come esistenziale;2 ma precisamente la morte di tutti quei morti che non hanno ricevuto sepoltura; di tutti quei morti cui è stata preclusa l’esperienza stessa della morte; di tutti quei morti che la Storia stessa ha votato all’oblio, alla dimenticanza. È la morte di tutte quelle vittime della barbarie, della guerra, dell’esperienza concentrazionaria… in una parola, è la morte dei morti senza nome. Queste sono le morti che, nella loro putredine, nel loro carattere orripilante, rendono tragicomica la cura di un soggetto che si presume al centro del cosmo, la cura di un soggetto che si preoccupa solo di sé, avendo già tracciato un confine chiuso intorno a sé, nel quale stare al sicuro. Sorda nei confronti dell’Altro, questa coscienza appare sorda anche nei confronti di se stessa. Sorda, infatti, all’Altro, il quale, però, non si profila più come «non-io», cioè come «il resto», ovvero come tutto ciò che resta quando io mi sono tolto. Sorda all’Altro che è già dentro di sé; all’Altro che è già in me. «L’autocoscienza stessa si disintegra. La psicanalisi attesta l’instabilità e la fallacia della coincidenza con sé nel cogito […]3». È la stessa psicanalisi a scoprire l’inconscio; a scoprire la presenza di un’istanza che non è complice dell’Io, della parte cosciente; a scoprire un’istanza che, di fatto, attesta già la non coincidenza dell’Io con il Sé; a scoprire l’Altro, la trascendenza.

Afferma Levinas: «La coincidenza con sé in cui, da Cartesio in poi, l’essere è, si rivela agli Altri […] come presa nel gioco e negli inganni di pulsioni, influenze, linguaggi che compongono una maschera chiamata persona […]4». La coscienza cartesiana, coincidente con se stessa, appare come un soggetto mitico, assai lontano dalla realtà. A questa concezione di soggetto, Levinas si oppone: egli mette

in discussione il soggetto autonomo sottoponendolo a una critica aspra e severa. Senza usare mezzi termini ne denuncia il tratto violento, il suo ripetuto gesto di sopraffazione, la volontà di inglobare l’altro fino ad annientarlo. Incapace di uscire da sé, ripiegato sul suo ego, questo soggetto autarchico ha preteso di essere legislatore di se stesso e dell’universo. Preoccupato solo della propria sovranità, smanioso di asserire la sua enfatica identità, di imporre e intimare la sua superba priorità, questo sé detestabile, origine e principio di se stesso, si ritiene assoluto, sciolto e svincolato da qualsiasi responsabilità. Sulla sua coscienza pesano i crimini dell’ultimo secolo. L’atto d’accusa di Levinas è così rivolto alla filosofia moderna che ha celebrato l’epopea del soggetto sovrano che si autopone e si autogoverna.5

Non più, dunque, una coscienza centrata sull’Io, sull’ego, ma una coscienza che si profila come un’«urgenza»6 di una «destinazione» che porta all’Altro, senza mai tornare in se stessa. Questa è precisamente l’urgenza di un soggetto che viene meno a se stesso; di un Io che, se per definizione è l’identità per eccellenza, ora non riesce più a coincidere con se stesso, in questo sfasamento radicale, in questa «alienazione». Alienazione di cui, a ben guardare, gli uomini si erano resi conto già da molto tempo: «ma dal secolo XIX, si era trovato, con Hegel, un senso a questa alienazione, riconosciuta come provvisoria e come tale che avrebbe dovuto portare a un soprappiù di coscienza e di chiarezza al compimento delle cose»7. Cioè, anziché prendere le mosse dalla constatazione di una tale alienazione per arrivare a formulare un pensiero dell’«esteriorità», la storia della filosofia si è impegnata, al contrario, nella formulazione di una coscienza rafforzata; si è impegnata nella formulazione di un pensiero che andasse a rincarare la dose che alla coscienza alienata mancava.

Levinas muove questo tipo di accusa anche nei confronti di un filosofo come Søren Kierkegaard. Se a quest’ultimo va riconosciuto il merito di aver compreso la necessità di sfuggire alla violenza insita nel Neutro, a far problema, secondo l’interpretazione levinasiana, sarebbe proprio la soluzione da egli proposta. Nella paura di perdersi nell’universale, la soggettività kierkegaardiana, infatti, inverte la rotta, tornando a se stessa, rinchiudendosi in una opposizione perentoria a tutto ciò che è altro, a tutto ciò che è esterno o esteriore. Dunque, se il soggetto intende sfuggire alla presa oggettivante del Neutro che violentemente riduce ogni particolare, ogni Altro, al Medesimo, non meno violenta risulta la sua fuga. L’esperienza dell’interiorità, in Kierkegaard, risulta, allora, essere un movimento di violenta opposizione all’Altro che si costituisce come affermazione e riaffermazione di sé. Di nuovo, siamo di fronte ad un soggetto isolato, ripiegato su se stesso, che esclude l’Altro; soggetto, dunque, identico. In altri termini, azzardando un paragone: è come se l’Io, essendo emerso come ipostasi – staccatosi da quel brusio anonimo proprio dell’il y a –, restasse in quella condizione di identità, in quella condizione egoistica ed egologica, senza mai permettere all’Altro la sua venuta; senza mai permettere intrusione alcuna nel suo proprio campo identitario.

Ma la vera scoperta, che conviene articolare ed indagare, è che «l’idea di un io che si identifica ritrovandosi»8 non va affatto a segno. Anzi, l’esperienza stessa di una presunta interiorità «non sarebbe rigorosamente interiore. Io è un altro. L’identità stessa non è uno scacco?9». È con questa domanda provocatoria che il nostro discorso può finalmente prendere il suo avvio – giacché è sotto questo prisma che leggeremo da qui in avanti Levinas; giacché il fatto che l’identità stessa sia uno scacco – o un’illusione – è il punto di partenza, ma anche il punto di arrivo.

Figure del superamento dell’identità: fecondità, paternità e trascendenza

La figura che per prima si vorrebbe mettere in luce in questo paragrafo è una figura che il filosofo francese tratta nelle ultime pagine di Totalità e Infinito. Si tratta della prima di tante figure – prima non in senso cronologico, né in senso logico –10 in cui avviene quello che si potrebbe definire come uno «sfasamento» tra l’io e il sé e che permette al soggetto di aprirsi primariamente all’Altro. È un «luogo», questo, in cui l’io può liberarsi del suo sé, scollandosi da se stesso.

Nel figlio – ci si potrebbe chiedere: perché non nella figlia? – l’io si scopre come altro da sé. Il figlio risulta precisamente la figura dell’io come un altro. Figlio che, per Levinas, è sempre un figlio in relazione ad un padre:11 «la paternità dimora in una identificazione di sé, ma anche in una distinzione nell’identificazione – struttura imprevedibile nella logica formale»12. Non potrebbe darsi un padre senza un movimento identificante e, tuttavia, in quel movimento stesso di identificazione è necessaria una distinzione. Distinzione perché il figlio emerge comunque come singolarità distinta da quella paterna. Ma, una volta di più, con un rinculo per la nostra ragione, il padre comunque si riconosce, pur essendo se stesso, in quella distinta singolarità che è il figlio. Come scrive Levinas, il padre si ritrova «non soltanto nei gesti del figlio, ma nella sua sostanza e nella sua unicità»13. È nella sostanza del figlio che il padre si ritrova o, meglio, è nella sostanza del padre che il figlio si riconosce. La sostanza stessa del soggetto, la ousia – per dirla con Aristotele – dell’io, si scopre essere intimamente qualcosa d’altro; si scopre essere esattamente l’Altro. E ciò che risulta ulteriormente problematico è precisamente il possesso del figlio da parte del padre: si può affermare che mio figlio sia davvero mio? Il padre può possedere suo figlio? Levinas, citando il profeta Isaia, risponde che «mio figlio è l’estraneo (Is 49), ma non è soltanto il mio, perché è me. È me estraneo a sé»14. Mio figlio è estraneo a me, in quanto unicità, in quanto singolarità e, in questo, risulta evidente la distinzione che separa me da mio figlio. E, tuttavia, mio figlio è me ed io sono mio figlio e, proprio per questa ragione, mio figlio non è soltanto mio. Di fatto, «il possesso del figlio da parte del padre, non esaurisce il senso del rapporto che si attua nella paternità»15. C’è qualcosa di più oltre il possesso. Mio figlio è estraneo a sé in quanto è me, in quanto io sono in lui – io sono lui. Emblema della estraneità dell’io a sé, dell’estraneità dell’Altro, che tuttavia già mi riguarda, il figlio si palesa come figura di una rottura, di una fenditura o di una frattura dell’identità dell’io.

E la relazione con l’Altro, che è mio figlio, non si esplica nella modalità del potere, ma, di fatto, nella modalità della fecondità. L’io esce dal mondo del godimento nel quale si era rinserrato, esce dalla sua sfera asettica e sterile, priva di ogni Altro, per entrare, attraverso il rapporto con l’Altro, in un mondo in cui non è più solo. L’io diventa così fecondo, non più sterile; si prepara ad accogliere l’Altro fin nelle sue viscere. Ma questo altro che, a quanto emerge, «io dovrei essere non ha l’indeterminatezza del possibile»16, questo altro, che io sono, ha un volto e mi si fa incontro, come volto, nella sua inestinguibile unicità. E se l’Altro mi viene incontro, in verità, sono io a dovermi mantenere nella traccia di Dio, andando verso gli Altri che sono nella traccia della trascendenza. Ma, «Altri non è un termine: non blocca il movimento del Desiderio. L’altro che il Desiderio desidera è ancora Desiderio, la trascendenza trascende verso colui che trascende – questa è la vera avventura della paternità»17. Questo è l’itinerario del soggetto che, nella paternità, va verso gli Altri; ma va verso gli Altri non nel modo in cui si taglia un traguardo, traguardo oltre il quale la corsa è già terminata; Altri non è un termine, non costituisce la fine. Il movimento risulta infinito e sempre ancora trascendente. A ben guardare, infatti, io non desidero semplicemente gli altri, ma io desidero il Desiderio d’Altri. Ed è qui, scrive Levinas, che il Desiderio si attua: «non soddisfacendosi e confessando così di essere un bisogno, ma trascendendosi, generando il Desiderio»18, generando un figlio. Desiderio che desidera ancora Desiderio. Io desidero di essere desiderato; è la vita che desidera la vita.19 E se anche per Levinas, così come in Lacan, vi è una dimensione di reciprocità, un «desiderio di reciprocità che guida gli amanti verso la voluttà», tuttavia questo desiderio di essere amati non si produce, in Levinas, come un’intenzione positiva: «amare di essere amato non è un’intenzione, non è il pensiero di un soggetto che pensa la propria voluttà […]20». Anzi, «la voluttà trasfigura il soggetto stesso che trae allora la propria identità non [più] dalla sua iniziativa di potere, ma dalla passività dell’amore ricevuto»21. Si tratta, più che di una passione, di un turbamento che sconquassa l’io e che già lo oltrepassa. «Il soggetto nella voluttà scopre di essere il sé […] di un altro e non soltanto il sé di se stesso»22. Tale turbamento non può, evidentemente, essere assunto positivamente da un soggetto che ha l’intenzione di farlo: tale «effeminatezza»23 destituisce «l’io eroico e virile»24, che si abbandona, così, ad una passività. Sarebbe, dunque, la relazione erotica a rovesciare questo io virile ed eroico, questa soggettività «posta» in se stessa e posta come interruzione dell’anonimato dell’il y a. Sarebbe precisamente, ancora una volta, l’Eros a porre fine all’impegno che l’io ha preso con il sé, a porre fine a questo essere-impegnati da sé, con sé. È l’Eros a liberare l’io da questo impegno, impedendo «il ritorno del me a sé»25. Una volta per tutte, «l’io parte senza ritorno»26, dunque, non come Ulisse, il cui scopo appare essere sempre e solo quello del ritorno in patria, pur perdendosi tra le mille peripezie, pur incontrando numerosi personaggi; l’io parte e «scopre di essere il sé di un altro: il suo piacere, il suo dolore è il piacere del piacere dell’altro o il piacere del suo dolore, senza che questo accada per simpatia o per compassione»27. E, tuttavia, il soggetto, pur essendosi sorpreso in questa scoperta di essere altro da sé, resterà comunque se stesso: il soggetto «sarà altro da se stesso pur restando se stesso»28. Ed è esattamente questo duplice movimento di «alterazione ed identificazione attraverso la fecondità»29 ciò che costituisce la paternità.

L’identità che si produce a partire dall’Eros, scrive il filosofo francese, «ci porta al di fuori delle categorie della logica classica»30. Nella storia del pensiero e della letteratura, sostiene Levinas, molte volte questo io, identità per eccellenza, è stato colto come «un io che si profila dietro l’io»31. E molte sono le figure a disposizione per una tale interpretazione: dal daimon di Socrate, al Mefistofele di Faust, passando per l’inconscio di Freud, fino all’universale di Hegel o all’esistenziale «che sostiene l’esistentivo in Heidegger»32. Ma se ciò che il nostro filosofo cerca di raggiungere in queste pagine è l’esposizione di una nozione di soggetto, ciò che vuole evitare assolutamente è «l’affermazione di un io dietro l’io, che è ignoto all’io cosciente e [che] gli crea un nuovo ostacolo»33. Cioè, anche se, come si affermava più sopra, la psicanalisi scopre l’inconscio come istanza che propriamente non è «complice» dell’Ego, tuttavia questo rapporto non deve essere inteso come un conflitto. Il daimon socratico, il Mefistofele o, ancora, l’inconscio freudiano non sono facoltà che si oppongono all’io, in un presunto conflitto dialettico composto di forze uguali e contrarie. Ciò che Levinas vuole, al contrario, avallare è l’ipotesi di un Io che, in quanto se stesso, attraverso la relazione con Altri, «si libera della propria identità»34, potendo essere così altro, ma a partire da se stesso come origine. Ed è proprio attraverso la figura della fecondità che «l’io si spoglia della sua egoità tragica»35, ma senza dissolversi puramente nel collettivo. La perdita dell’identità da parte dell’io non sarebbe, dunque, un puro dissolversi nella massa amorfa della collettività – non significherebbe perdersi semplicemente nell’anonimato. Lo riprenderemo più avanti.

Seguendo il filosofo francese lungo il suo percorso, procediamo, dunque, nel ragionamento: l’io che si spoglia della sua egoità può diventare fecondo; può essere unico. Con le parole di Levinas, «la fecondità attesta un’unità che non si oppone alla molteplicità, ma, nel senso preciso del termine, la genera»36. Ma in che modo, precisamente, l’unità può produrre, generare, la molteplicità? Per Levinas, la storia della filosofia occidentale non è mai arrivata a pensare davvero la trascendenza. Infatti, «nella concezione classica l’idea della trascendenza si contraddice. Il soggetto che trascende porta se stesso nella sua trascendenza. Non si trascende»37. L’essere stesso, in quanto essere, risulta per noi come una «monade». «Il pluralismo, nella filosofia occidentale, si manifesta solo come pluralità dei soggetti che esistono. Non è mai apparso nell’esistere di questi esistenti»38. Il plurale è sempre stato esterno ai soggetti, alla loro esistenza. Non si dà plurale se non nella pluralità delle singole esistenze; mai tale pluralità è stata intesa all’interno del soggetto stesso. L’impegno del pensiero levinasiano emerge ancora una volta anche in questo punto: pensare profondamente e radicalmente la trascendenza. Pensare un’unità che non sia il negativo della molteplicità, ma la sua scaturigine. Ed è precisamente l’erotico, analizzato come fecondità, ad aprire il soggetto ad una trascendenza radicale; è attraverso la sessualità che «il soggetto entra in rapporto con ciò che è assolutamente altro […] con ciò che rimane altro nella relazione senza mai mutarsi in “mio”39». È precisamente nella sessualità a prodursi la pluralità stessa del nostro esistere. Pluralità che, ancora una volta, emerge nella figura della filialità. Perché se è vero che non posso possedere realmente mio figlio – se mio figlio non è una mia proprietà, né di mia proprietà; se, dunque, la mia relazione con mio figlio non può esser descritta a partire dal potere o dalla proprietà, «io non ho mio figlio, sono mio figlio. La paternità è una relazione con un estraneo che pur essendo altri […] è me»40. E, allora, io sono mio figlio. E in questo «io sono» non è da intendersi primariamente l’ego sum cartesiano, soggetto sovrano per eccellenza. «L’unità eleatica» dell’essere viene meno. La trascendenza, così come la molteplicità, vengono scoperte come costituenti l’esistere stesso. In questo nuovo tipo di trascendenza, l’io non porta se stesso in questo trascendere. «La fecondità dell’io è la sua stessa trascendenza»41. È l’esser-fecondo dell’io, è la possibilità per l’io di essere fecondo, di portare dentro di sé l’altro, a rendere ragione di questa trascendenza. Il portare Altri in me è ciò che si rivela qui come vero significato di una vera trascendenza. Io posso trascendermi soltanto se sono fecondo, pronto ad accogliere, pronto per essere oltrepassato, in questo movimento di superamento.

Figure del superamento dell’identità: carezza, maternità e respirazione42

Se, dunque, a questo punto, si è scoperta la relazione erotica come una relazione refrattaria ad ogni fusione degli amanti, allergica ad ogni presa effettiva dell’uno sull’altro, riluttante ad ogni prendere; questo toccare senza pretesa di possesso, questo sfiorare dolcemente senza forza e senza potere, si manifesta, in Totalità e Infinito – nelle stesse pagine dove si articola una Fenomenologia dell’Eros, appena trattate –, in una figura ben precisa.

«La carezza – scrive Levinas – come il contatto è sensibilità. Ma la carezza trascende il sensibile»43. Si apre così l’analisi di questa suggestiva figura: la carezza è ciò che evidentemente passa per la sensibilità corporea, ma trascendendo già il corpo, trascendendo già il sensibile. Trascende se stessa nell’atto stesso del toccare. Ma tale caratteristica, precisa il filosofo, non implica che la carezza sia un modo per trascendere questa realtà o un modo per andare oltre i sensi stessi, in un luogo che stia oltre e che sia più profondo della stessa sensibilità. Se la carezza trascende il sensibile, questo è possibile soltanto nella misura in cui essa «consiste nel non impadronirsi di niente»44. La carezza non è una presa, un prendere per trattenere, per possedere; non solo non è un afferrare, ma mira esattamente a non impadronirsi di niente.

Essa non afferra nulla, non si appropria di nulla, non si sazia di nulla. Non mira a un ente, neppure futuro, ente che sarebbe già troppo legato all’essere, che sarebbe già di troppo, ma a ciò che non è ancora, a un avvenire “mai abbastanza avvenire” – forse l’avvenire del desiderio mai soddisfatto o l’avvenire di un altro a-venire che è il figlio.45

La carezza, dunque, cerca, ricerca, fruga. Ma cerca precisamente ciò che è ancora «a-venire», ciò che non è ancora, ciò che è di là da venire. Cerca ciò che non c’è o che non c’è mai stato; cerca l’assenza o, forse, cerca l’Assente, lo Scomparso. Come se, volendo scoprire la vera immagine di Dio, si violasse la parte più interna e più sacra del tempio, il sancta sanctorum, e, aprendo la stanza, si scoprisse il vuoto; come se si scoprisse l’assenza di un’effige mai realizzata. Ecco, la carezza cerca ciò che propriamente non c’è o non c’è mai stato. Cerca quell’effige inesistente e, per questo, trascendente. E si ritrova qui, ancora una volta, nella figura della carezza, come nel fatto di amare di essere amati, una mancanza di intenzionalità: la carezza, infatti, «non è un’intenzionalità di svelamento»46; non si tratta, qui, del soggetto libero ed autonomo che vuole scoprire, conoscere, indagare, s-velando heideggerianamente ciò che è coperto. Quella della carezza è un’intenzionalità «di ricerca: cammino nell’invisibile»47. La carezza va ricercando «qualcosa che è “men che nulla”, che sta come rinchiuso e sopito al di là dell’avvenire che si offrirebbe all’anticipazione»48. La carezza è già implicata in un intrico con la dimensionalità propria di un’assenza, di una trascendenza che è assenza, di una evanescenza che prima ancora di esser toccata è già svanita. È un’altra figura, un altro modo, per dire, o per mostrare, la passività intrinseca del soggetto; per dire, o per mostrare, l’intrinseco fallimento di un soggetto virile, potente, che afferra e trattiene. Da una parte, infatti, la carezza è il fallimento della presa e dell’impossessarsi: fallimento insito nella sua stessa sostanza, nel suo stesso modo di costituirsi; dall’altra, essa «insegna a non afferrare, a non appropriarsi, a non agguantare. Come se la mano che accarezza non fosse la stessa mano che può afferrare e dominare il suo oggetto, l’oggetto che tocca. Come se questo toccare fosse già una presa troppo vigorosa. Troppo virile»49. Essa, una volta di più, de-pone il soggetto nel suo porsi come libero; va al di là, «cerca al di là del consenso o della resistenza di una libertà»50. Gli dice e gli ridice, ricordandogliela, la sua essenziale passività. Fallimento dell’atto – inteso come agire –,

la carezza non agisce, non si impadronisce di possibili. Il segreto che essa viola non la informa come un’esperienza. Esso turba la relazione dell’io con sé e con il non-io. Un non-io amorfo trascina l’io in un avvenire assoluto in cui esso evade e perde la sua posizione di soggetto. La sua “intenzione” non va più verso la luce, verso il sensato. Totalmente passione, essa compatisce la passività, la sofferenza, l’evanescenza della tenerezza com-mossa [la tendre, nda G.P.]51.

Il segreto violato dalla carezza incrina il rapporto dell’io con sé, lo spacca in due come farebbe una forza di repulsione. È qui che la carezza decreta l’impossibilità di una coincidenza dell’Io con Sé, rompendo, di fatto, l’identità dell’io. L’io, trascinato dal non-io, perde la sua «posizione», cioè perde il fatto di essersi erto. Esso crolla sotto il suo stesso peso. Non si dà più intenzione, intenzionalità, in quanto l’intenzione è propriamente questo «movimento del prendere, dell’appropriarsi»52. La ricerca non è più quella di un «sensato», ma, semmai, essa si dirige verso l’invisibile. Se, infatti, «fenomenologicamente, la luce che riempie il nostro universo – al di là di ogni spiegazione fisico-matematica – è la condizione del fenomeno, cioè del senso»53, precisamente l’«intenzione» della carezza non va più verso la luce, cioè non si dirige più verso il sensato, verso ciò che ha senso.

La luce rende […] possibile questo avvolgimento dell’esterno da parte dell’interno che è la struttura stessa del cogito e del senso. Il pensiero è sempre chiarezza o l’alba di una chiarezza. Il miracolo della luce è la sua stessa essenza: attraverso la luce, venendo da fuori, l’oggetto è già nostro nell’orizzonte che lo precede; proviene da un fuori già appreso, e per questo è come se provenisse da noi, come se fosse ordinato dalla nostra libertà.54

La luce è esattamente ciò che rende possibile questo possesso, questa appropriazione: è la condizione stessa del movimento di quel soggetto cartesiano che prende ed apprende, di quel soggetto che, liberamente, pretende di scoprire e di conoscere, in un atto che è già una riduzione dell’Altro al Medesimo. Di fatto, il cogito abbisogna di un movimento di riduzione e di adattamento alle sue categorie per comprendere il differente, il diverso. Se qualcosa è altro da sé, cioè differente o divergente, per poterlo prendere ed apprendere, esso deve necessariamente «avvolgere» l’esterno, per portarlo al suo interno e per poterne, infine, disporre. La carezza, al contrario, – emblema dell’opposizione a tale movimento oggettivante – è «totalmente passione». «Passione» che, sin nella sua etimologia, rimanda alla sofferenza, al passus; al pathos come patire e, dunque, già a una passività; passività che essa compatisce; evanescenza della «tenerezza com-mossa». E, infatti, «la carezza si dirige così verso il modo di mantenersi tra l’essere e il non-ancora-essere, il modo del tendere, del tendere verso/a, del tendere a “la tendre” (la tenera), sottolinea Derrida in Toccare. In una parola, alla femminilità»55. Movimento del tendere, che racchiude in sé già una tensione; un tendere alla «femminilità», in netta opposizione, dunque, al movimento dell’impossessarsi che si costituisce come potente e virile. Figura dolce e delicata come quella del toccare un «men che nulla», del tendere verso un «cammino nell’invisibile»; tensione al di fuori, oltre il soggetto stesso; superamento in una trascendenza radicale; tocco che già si ritira nell’atto stesso del toccare; movimento che si esaurisce nello stesso gesto di allungare la mano per sfiorare, ma non per prendere; movimento del tendere al «femminile». E se «chi accarezza è sempre indicato al maschile, mentre chi è accarezzato è sempre espresso al femminile»56, il soggetto maschile che tende la mano per accarezzare è un soggetto che, in ogni caso, non si può identificare con la potenza e la forza proprie della virilità. Il soggetto che accarezza è un soggetto, per così dire, «effeminato» e passivo.

Ma, in questa sede, si tralascia volutamente tutta la questione delle cosiddette «figure del femminile» nell’opera di Emmanuel Levinas e le relative critiche, non certo per mancanza di interesse, ma perché questo discorso ci porterebbe verso percorsi troppo lontani dall’economia della presente trattazione.57 Così, se in Totalità e Infinito, l’apertura del soggetto passa per l’Eros e per la figura della carezza – apertura del soggetto che è già un’evasione dall’essere –, quando ci troviamo di fronte a quell’opera del 1974 che è Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tale apertura, tale evasione dall’essere, passa per la straordinaria figura della maternità. Quasi di colpo, la madre assurge fenomenologicamente ad emblema di una soggettività del tutto esposta all’Altro. Se l’esperienza della maternità rivela un concreto portare l’altro dentro di sé, con questa figura Levinas intende teorizzare tutta la pesantezza e tutta l’esposizione e la passività di un soggetto che, pur non avendolo scelto, si ritrova ad avere l’altro nella propria pelle.

Il corpo materno, più di ogni altro, sa infatti che cosa significa sanguinare per un altro, offrire la propria carne per dargli la vita, soffrire per partorirlo, sostituirsi a lui fino alla morte. Così la maternità – il corpo materno – è il “modo” di colei che non possiede nulla ma che dona tutto, di colei che si nega ogni dimensione del proprio: sangue dato all’altro, sangue sempre perduto e mai riavuto. Senza aver scelto questa perdita, questa offerta, il corpo femminile è dunque votato a portare l’altro, è votato an-archicamente, pre-originariamente all’altro. Votato all’altro da sempre, esso è allora un corpo “più passivo di ogni passività” […]58.

An-archicamente il corpo femminile è rivolto verso l’altro, il corpo femminile è il corpo del «per-l’altro» per eccellenza. Ma ciò non significa giustificare l’inchiodamento delle donne alla sfera della cura dell’Altro; non significa relegare le donne ad una dimensione del prendersi cura dell’Altro, tra l’altro, con un discorso che sembrerebbe far leva sulla costituzione biologica del corpo femminile. Il fatto che il corpo femminile non abbia scelto di esser predisposto all’accoglienza di un’altra vita dentro di sé significa precisamente che il corpo femminile non si è costituito semplicemente per accogliere l’altro – come se lo scopo di un corpo siffatto fosse soltanto quello di generare dei figli –, ma significa che in quel «passato», che è il passato della Creazione, si è posta la condizione di possibilità di una possibile gestazione, di un possibile portare in grembo un figlio. Condizione di possibilità che, tuttavia, proprio in quanto tale, proprio in quanto «ontologica» – oserei dire –, è propria della costituzione di ogni essere umano. Perché, se soltanto un corpo femminile può portare effettivamente e concretamente l’altro dentro di sé, tuttavia, la possibilità di dedicarsi integralmente all’altro – occorre sottolinearlo con forza – non sembra essere appannaggio soltanto delle donne. Ogni soggetto, infatti, per Levinas, uomo, donna – o altro – che sia, è chiamato ad assumere questo peso; è chiamato precisamente ad assumere su di sé il peso dell’altro; è chiamato, in ultima istanza, a curarsi dell’altro, quale che sia il suo genere. La figura della maternità, l’esperienza di una gravidanza, dunque, è qualcosa che può riguardare sì soltanto un corpo femminile, ma in questo riguardarlo, si rivolge già all’intera umanità, con tutte le sue singolarità. Riguarda tutti noi e si rivolge precisamente a noi, a me, insegnandoci a portare l’altro dentro di noi, ad «avere-l’altro-nella-propria-pelle». Perché tutti proveniamo da quel corpo femminile, qualunque sia il nostro genere. Perché siamo tutti figli.59

Una volta di più, la maternità insegna l’impossibilità per l’Io di fare corpo con Se stesso: ma, stavolta è letteralmente l’altro che si trova in me a decretare questo scacco. L’altro mi riguarda perché è dentro di me, nelle mie «viscere»; l’altro in me sancisce la rottura dell’identità dell’Io con il Sé.

La maternità, nel suo essere integralmente per l’altro, nella sua vita che è luogo in sé dato all’altro, nella sua pazienza infinita, permette di accedere al senso di un’esistenza dedicata interamente alla vita dell’altro. “Avere-l’altro-nella-propria-pelle” o portarlo “al collo come una balia porta un bambino lattante”, sono due immagini che dicono “l’essere-per-l’altro” della soggettività incarnata pensata da Levinas.60

Il soggetto, come si diceva, uomo o donna61 che sia, è un soggetto «per-l’altro», un soggetto che è soggetto all’altro, un soggetto, una volta per tutte, esposto. Ed è nell’ultima figura che tale apertura, tale es-posizione del soggetto si fa più radicale, più profonda. Soggetto che, proprio a causa di questa «essenziale» esposizione, si articola in un «altrimenti detto». Altrimenti detto che non è un detto altrimenti: non si tratta, infatti, di un modo alternativo di dire l’articolazione di una soggettività che, apertasi all’altro, dovesse richiudersi di nuovo su di sé. Un semplicemente «detto altrimenti» sarebbe come un’onda che, con la sua forza, dovesse agitare il fondale marino senza stravolgere davvero la situazione, lasciando tutto com’era, una volta che l’acqua, da torbida, tornasse ad essere limpida. Al contrario, «altrimenti detto» è proprio il tentativo più nobile di Levinas di formulare una radicale uscita dall’essere, di concepire un altrimenti del pensiero, un «altrimenti che essere». Altrimenti che essere e non essere altrimenti. Di conseguenza, anche la soggettività del soggetto che viene fuori da queste pagine è una soggettività totalmente esposta all’altro, totalmente aperta; culmine di un itinerario che, a partire dalla carezza, passato poi per la maternità, giunge ora alla figura della respirazione: ultima istanza, atto estremo con cui «di lui, del soggetto, non resta che un soffio, un respiro»62. Dell’identità del soggetto non resta che un puro alito, non resta che un’entità gassosa, impercettibile, evanescente, che si disperde nell’atmosfera del nostro globo, le cui molecole risultano scomposte, slegate, frammentate. È l’identità stessa che si frantuma, o meglio, si dovrebbe dire, identità che è già una frantumazione, che è già un frammentarsi. Come il soggetto che propriamente non si apre, ma è costituito da questa radicale apertura. Questo soggetto è un soggetto che, ormai aperto, rimanda già all’altrimenti che essere; soggetto che, essendo la stessa apertura, crea un «vuoto»63 nello spazio, «riempito d’aria invisibile»64. «Vuoto dello spazio» che non è possibile percepire se non

nella carezza del vento o nella minaccia della tempesta – non-percepito, ma che mi penetra fino alle pieghe della mia interiorità – che questa invisibilità o questo vuoto siano respirabili o orribili – che questa invisibilità, non-indifferente, mi assilli, prima di ogni tematizzazione, che il semplice ambiente s’imponga come atmosfera a cui il soggetto si arrende e si espone fino al polmone […] – tutto ciò significa una soggettività che soffre e che si offre prima di prendere piede nell’essere – passività, totalmente un sopportare. […] L’esposizione precede l’iniziativa – che un soggetto volontario prenderebbe – di esporsi. […] Il senza quiete della respirazione, l’esilio in se stesso, l’in sé senza quiete, non è un’impossibilità di risiedere che si farebbe già movimento da qui a là; è un ansito, un fremito della sostanzialità, un al di qua del Qui.65

Tutto questo significa una soggettività che si offre pur non avendolo scelto; è una passività pura, un puro sopportare senza averlo scelto. È un’esposizione, ancora una volta, an-archica, senza principio, al di qua dell’archè, non scelta, posta in un passato che è quello immemorabile della Creazione. Soggetto esposto senza averlo scelto, semplicemente per il fatto di essersi costituito come tale. Esposto a un esterno, all’esterno, all’atmosfera, all’aria che da fuori entra dentro di me arrivando fino ai miei polmoni. Aria che mi permea, che mi nutre, che mi dà ossigeno, che permette la vita. Se la maternità è la figura del dare la vita all’altro, per l’altro; la respirazione è la figura del prendere il nutrimento, la vitalità, dall’altro. Dall’altro che, come un figlio nel grembo materno, è in me, nei miei polmoni; dall’altro che, in questo caso, è l’aria. La respirazione è «l’esilio in se stesso», ma non semplicemente come un’impossibilità di risiedere staticamente, ma come messa in questione della stessa sostanzialità. Ancora qui si rivela l’«altrimenti detto» che è proprio un «altrimenti che essere»: ad esser messo in dubbio è quel sostrato stesso, sotteso già dalla radice sub- del latino substantia o del greco hypokeimenon; sostanzialità messa in questione, che rivela questo fondamento, questo star-sotto. La respirazione è quella figura che non si preoccupa di rivelare semplicemente un altro luogo; è qualcosa che è radicalmente «al di qua del Qui», oltre ogni luogo, al di qua da ogni localizzazione che implicherebbe già una situazione, un «esser-situati».

«Apertura di sé all’altro […] la respirazione è trascendenza a guisa di de-clausura; essa rivela tutto il suo senso solo nella relazione con altri, nella prossimità del prossimo, che è responsabilità per esso, sostituzione ad esso»66. Così, la respirazione è qualcosa che fa esplodere l’Io e la sua identità: è l’aria che entra nei miei polmoni e che io non riesco a contenere. E, dunque, l’Altro, nella sua incombenza, disintegra l’Io; lo fa propriamente a pezzi. Respiro che è come respirare il respiro dell’Altro, di Altri. Solo con l’aria che io inspiro posso realmente avere l’Altro dentro di me. Solo inspirando posso essere ispirato dall’Altro; solo così posso esser nutrito dall’Altro. Il soggetto è, allora, un soggetto al di fuori, completamente esposto, senza riparo alcuno, privato di tutto, della sua stessa soggettività, della sua stessa identità. «Nel deserto di sé, là dove l’Io e tutte le declinazioni del proprio tacciono, il respiro, da solo, risuona»67. Non resta che il rumore, o il silenzio, di un respiro, dell’atto della respirazione. Questo «silenzio desertico» fa avvertire che l’unico «rumore percepito è lo pneuma, il ruah (in ebraico “spirito”, “soffio”) di Dio. Di un Dio che si allontana, di un Dio discreto, di un Dio silenzioso e che tuttavia si fa sentire in questo stesso respiro […]68».

Ecco che, giunti al termine di questo lungo itinerario, di questo passaggio «al di là», si è scoperto un soggetto completamente spogliato, nudo di una nudità più radicale di ogni altra nudità. Un soggetto completamente esposto, senza un tetto, senza un guscio, senza un riparo: soggetto esposto alle intemperie come un randagio senza padrone che, vagabondando sotto la pioggia, crepa di fame e di solitudine. Si è già scoperto un soggetto senza più identità, non più libero, non più sovrano e gaudente; soggetto esposto all’altro, per l’altro; soggetto passivo di una «passività più passiva di quella stessa della recettività»69; soggetto che è ormai soggetto a tutto; all’Altro; ad Altri. Resta soltanto il Sé a garantire una possibile istanza attraverso cui riconoscere gli altri e noi stessi; attraverso cui riconoscere e riconoscersi. «L’inversione dell’Io in sé, la de-posizione o la de-stituzione dell’Io, è la modalità stessa del dis-interessamento a mo’ di vita corporea, votata all’espressione al dare, ma votata e non votantesi: un sé malgrado sé, nell’incarnazione come possibilità stessa dell’offerta, della sofferenza e del trauma»70. Tale «inversione» è il passaggio stesso da un inter-essamento nell’essere a un dis-inter-essamento: termini in cui bisogna sentire tutto il peso di questo esse – l’essere in latino. Passaggio da una «perseveranza nell’essere», nell’esse, a un «altrimenti che essere», a un «al di là». Soggetto disinteressato perché pensato altrimenti che perseverante nell’essere; soggetto che, attraverso la sensibilità del suo corpo, si offre all’altro, ma malgrado sé: non ha scelto di darsi, di esser-votato all’altro, eppure si ritrova già ordinato all’altro, ordinato dall’altro. Soggetto più «vulnerabile» che mai, è come «perseguitato» dall’altro. «L’Io, da capo a piedi, sino nelle midolle delle ossa, è vulnerabilità»71. Vulnerabilità che risulta essere, da queste pagine, un «assillo» che gli altri mi danno. Perché, di fatto, l’identità del sé differisce dall’identità dell’Io: «l’identità del sé non pone limiti al subire»72. «In altre parole, la vulnerabilità sarebbe un’esposizione all’“essere percosso”, a “esser preso a schiaffi”, un’esposizione alla persecuzione insomma, ma al di là di ogni ricerca volontaria di sofferenza o umiliazione, al di là di ogni masochismo»73. Soggetto votato e offerto alla persecuzione, ma malgrado sé: infatti, il soggetto di Levinas, benché vulnerabile, benché disposto ad offrire l’altra guancia, non è un soggetto masochista. Tutto questo va al di là della sua libera iniziativa, va al di là della sua scelta, al di là anche della stessa non-libertà. Il soggetto di Levinas è un soggetto votato all’altro an-archicamente. La sua è una persecuzione da parte dell’altro pre-originaria, anteriore ad ogni passato pensabile e possibile. Si tratta, evidentemente, della costituzione stessa della soggettività del soggetto. Non si danno alternative da scegliere liberamente, non esistono «bivi esistenziali» di fronte a cui il Dasein si troverebbe sempre già implicato: l’ossessione per l’altro, dell’altro, è un’ossessione an-archica.

L’Io può essere messo sotto accusa, ad onta della sua innocenza, con la violenza, certo, ma anche, ad onta della separazione in cui lo lasciano l’esclusivismo e l’insularità dello psichico, dagli Altri, che pur come tali lo “assillano” tuttavia, che prossimi o lontani, gli addossano, irrecusabile come un trauma, una responsabilità per la quale non aveva preso alcuna decisione, ma alla quale non può più sfuggire, chiuso in se stesso. […] Soggetto indeclinabile, precisamente, in quanto ostaggio insostituibile degli Altri […]74.

Il soggetto è preso in ostaggio, malgrado sé, responsabile per l’altro senza averlo chiesto, né scelto.

Il superamento del concetto di identità

L’articolazione della relazione con il prossimo, della relazione tra il soggetto e l’Altro, si compie nel segno di una responsabilità a cui non è possibile sottrarsi; responsabilità del soggetto per il prossimo che implica precisamente un «rispondere di altri»75, un rispondere delle «libere iniziative dell’altro»76, che, tuttavia, sfuggono al mio controllo. Da qui deriverebbe l’estrema passività del soggetto, che, propriamente, «subisce» l’altro; da qui la «suprema passività dell’esposizione ad Altri»; da ciò, anche, il «rovesciamento» dell’intenzionalità – prerogativa di un soggetto autocosciente; da ciò, infine, «l’abbandono della soggettività sovrana ed attiva della coscienza di sé, indeclinata, come il soggetto al nominativo dell’apophansis»77. Soggetto che non si costituisce più come Io, che non significa più come un nominativo; soggetto che diventa ora «declinabile», in quanto de-posto dalla sua posizione statica che lo inchiodava ad un nominativo di prima persona singolare. Soggetto posto di colpo, nell’istante di un boato, all’accusativo. E, con un gioco di parole: soggetto declinato all’accusativo o, precisamente, soggetto «sotto accusa», accusato dall’altro di una colpa mai commessa, di una responsabilità irrecusabile ed infinita nei confronti di questo Altro. Soggetto che non dice più «Io»; finalmente divaricato rispetto a quell’ego dell’«ego sum» cartesiano; «non un io posto al nominativo nella sua identità, ma di colpo costretto a: posto all’accusativo, di colpo responsabile e senza alcuna possibilità di scampo»78. Soggetto che si descrive, ora, come Sé; soggettività che «è un se-stesso insostituibile»79.

Se l’Io è sembrato, infatti, essere l’emblema dell’identità, il Se stesso – liberatosi una volta per tutte dalla pesantezza dell’Io che, come una zavorra, lo teneva inchiodato – non perde assolutamente il suo essere particolare: al contrario, il se stesso si costituisce e si articola come un’«insostituibile unicità». Ognuno di noi è, infatti, un’insostituibile unicità, nella sua singolarità incedibile ed inalienabile. Ed è qui, in questo preciso passaggio, che si colloca il «definitivo» superamento dell’identità da parte di Levinas: la nostra singolarità, la nostra irripetibilità, non si fonda affatto su di una presunta identità, ma precisamente su di un’«elezione»: eletti ad essere responsabili per l’altro uomo, che è a sua volta un’altra singolarità; eletti an-archicamente a rispondere dell’altro. Perché soltanto io posso rispondere alla chiamata dell’altro, accogliendo l’ingiunzione del suo volto, in questo movimento di «torsione» con cui guardo l’altro nei suoi occhi; occhi che mi ricordano e mi ridicono la mia responsabilità nei suoi confronti; occhi che mi ricordano il comandamento «non uccidere». In questo si costituisce la mia unicità: soltanto io sono stato eletto per compiere questa impresa. Io e non un altro.

«Passività dell’esposizione in risposta ad un’assegnazione che mi identifica come l’unico, non tanto riconducendomi a me stesso, quanto spogliandomi di ogni quiddità identica e, di conseguenza, di ogni forma, di ogni investitura che si nasconderebbe ancora nell’assegnazione»80. Se si può ancora parlare di identità, è precisamente di una identità del Sé, che a sua volta si costituisce come unicità e, quindi come elezione, ciò di cui si dovrebbe parlare. Ed è soltanto «spogliandomi di ogni quiddità identica», soltanto rinunciando ad ogni identità egoica – e dunque egoistica – che posso scoprirmi come unicità.

A ben guardare, infatti, quello scacco dell’identità di cui parla Levinas non risiede, forse, proprio nel fatto che il soggetto, nella paura di perdersi nell’anonimato dell’il y a, rivendica a tutti i costi un’identità? Tale identità non lo riduce, forse, a qualcosa di altro, assoggettandolo comunque a qualcosa che è esterno ad esso – posto che l’identità richiede un movimento di identificazione? Non si trova in questa pretesa di identità un radicale abbaglio? Non è forse vero, in ultima istanza, che, rivendicando un’identità, il soggetto rinuncia al proprio Sé – già troppo implicato ed inchiodato all’io –, rinunciando così alla sua stessa singolarità, che, sola, potrebbe garantirgli un posto unico nell’Universo? Dunque, con l’intento di non perdersi nell’anonimato, il soggetto – pretendendosi identico, completamente «inter-essato» nell’esse – si ritrova posto in scacco dalla sua stessa identità, che lo riassorbe in questo stesso anonimato, dissolvendolo in un oceano sconfinato. Perché «la singolarità non può aver trovato posto in una totalità»81. Ecco allora che il soggetto risulta spogliato di ogni quiddità identica, di ogni identità. Ma

è necessario che la spoliazione continui […] fino a strapparsi da sé, che l’uno assegnato si apra fino a separarsi dalla propria interiorità legata all’esse – è necessario che si dis-interessi. Questo sradicamento da sé, in seno alla propria unità, questa assoluta non-coincidenza, questa dia-cronia dell’istante significa come l’uno-penetrato-dall’altro. Il dolore, questo rovescio della pelle, è nudità più nuda di ogni spoliazione: esistenza di sacrifici imposti – sacrificata piuttosto che sacrificantesi, poiché precisamente costretta alle avversità o alla dolenza del dolore – che è senza condizione. La soggettività del soggetto è la vulnerabilità, esposizione dell’affezione, sensibilità […]82.

Si tratta di essere esposti alle ferite, al dolore; si tratta di esser nudi, esposti all’affezione. Si tratta, in una parola, di essere esposti a tutto. Essere esposti e non esporsi: si gioca qui tutta la pesantezza della passività. I «sacrifici» sono imposti – l’esistenza è sacrificata più che sacrificantesi. Non si tratta, infatti, di un soggetto che, attivamente, sceglie di sacrificarsi per altruismo, per salvare l’altro, per sollevare l’altro da ogni possibile sofferenza. Non si tratta di un soggetto masochistico, né altruista. È in ballo la costituzione stessa della soggettività. In questo esser-esposti c’è un rischio che il soggetto corre: soffrire senza ragione, gratuitamente. Ma, d’altra parte, tale possibilità si rende necessaria, in quanto

se il soggetto non corresse questo rischio, il dolore perderebbe la sua dolenza stessa. La significazione come l’uno-per-l’altro, senza assunzione dell’altro da parte dell’uno, nella passività, suppone la possibilità del puro non-senso invadente e minacciante la significazione. Senza questa follia ai confini della ragione, l’uno ritornerebbe in se stesso e, nel cuore della sua passione, ricomincerebbe l’essenza. Ambigua avversità del dolore! Il per-l’altro (o il senso) arriva fino all’attraverso-l’altro, fino a soffrire per una scheggia che brucia nella carne, ma per niente. Solo così il per-l’altro – passività più passiva di ogni passività, enfasi del senso – si astiene dal per-sé.83

Soltanto così il pensiero si assicura di non ricadere nelle grinfie dell’essere, solo così si assicura di non essere risucchiato da quella famosa Seinsfrage. Soltanto sfidando questa «ambigua avversità del dolore», rischiando di avere una scheggia che brucia nella carne, ma senza motivo, possiamo invertire l’essenza: «non negazione dell’essenza, ma dis-interessamento, un “altrimenti che essere” che se ne va in “per-l’altro”, che brucia per l’altro, consumando le basi di ogni posizione per sé […]. L’inversione dell’Io in Sé, la de-posizione o la de-stituzione dell’Io, è la modalità stessa del dis-interessamento […]84». Non si tratta di negare l’essenza, ma di superarla. E tale superamento passa necessariamente per la responsabilità che il soggetto è chiamato ad assumersi, responsabilità sempre già ordinata dall’altro, verso l’altro; responsabilità che si configura come «il luogo in cui si pone il non-luogo della soggettività e dove si perde il privilegio della questione: dove?85».

«La soggettività nel suo essere stravolge l’essenza sostituendosi ad altri»86. Essa si muta in significazione, in quanto significa come l’uno-per-l’altro e tale significazione «precede l’essenza»87. La significazione stessa della soggettività del soggetto appare essere precisamente l’uno-per-l’altro. Ed è questo per-l’altro che fa saltare l’essenza, come in un corto circuito. Il soggetto, chiuso, per costituzione, in sé e per sé, significa ora per l’altro. Significazione come senso e, dunque, come direzione che va verso l’altro e che si mantiene nella sua traccia, che sarebbe la traccia di Dio.

Sostituzione-significazione. Non rinvio di un termine a un altro […], ma sostituzione come soggettività stessa del soggetto, interruzione dell’identità irreversibile dell’essenza all’interno dell’incarico che mi incombe senza possibilità di rinuncia e dove l’unicità dell’io assume soltanto un senso: dove non è più questione dell’Io, ma di me. Il soggetto che non è più un io, ma che sono io, non è suscettibile di generalizzazione, non è un soggetto in generale, e tutto ciò costringe a passare dall’Io all’io che sono e non ad un altro. In effetti l’identità del soggetto dipende qui dall’impossibilità di sottrarsi alla responsabilità, alla presa su di sé dell’altro.88

Il soggetto non è più espresso da un termine generale, non è più un Io, ma, ricondotto e ridotto al suo sé, passa all’io unico che esiste nella sua singolarità. Soggetto senza identità; soggetto che si fa da parte, che si ritrae, che si contrae, per far posto all’alterità dell’altro.

Ci si potrebbe perfino azzardare a pensare che questa “anacoresi” o ritrarsi, o contrazione di sé, questa kenosi del soggetto insomma – che è “un’anacoresi nella sua pelle” […] – sia il riflesso e la risposta umana alla contrazione pre-originaria di Dio che, nel linguaggio cabalistico, porta il nome di tsimtsum. Come se l’“anacoresi” fosse un altro modo per dire lo tsimtsum, ma non quello di Dio, bensì quello dell’uomo: il contrarsi in sé per fare posto all’altro, un “ritrarsi in sé che è un esilio in sé”, ritrarsi per offrire all’altro un luogo su cui posare il capo.89

Il paragone risulta, dunque, lecito: anche nel momento della Creazione, infatti, Dio si contrae, creando tutto ciò che deve essere creato. Ma, per essere ancora più precisi, a creare l’essere dal nulla – a creare gli enti ex nihilo – è il movimento stesso di Dio; è questo stesso contrarsi da parte di Dio che lascia essere gli enti nel loro essere. E, a ben guardare, è ancora alla Creazione che si deve risalire per spiegare tale responsabilità da cui il presente discorso era cominciato. Perché se «dare, essere-per-l’altro […], significa strappare il pane dalla propria bocca, nutrire la fame dell’altro del mio proprio digiuno»; se, ancora, «l’esposizione è l’uno-nella-responsabilità e, per questo, nella sua unicità […]90»; tutto questo è, per il soggetto, malgrado sé. Responsabilità che il soggetto non ha voluto, né scelto; responsabilità già ordinata an-archicamente e, cioè, senza alcun principio o inizio; condizione posta in quel passato di cui l’uomo non può aver memoria, passato più passato di ogni passato, passato della Creazione, dell’elezione.

Se questa responsabilità entra propriamente nell’essere senza che nessuno l’abbia scelta, tuttavia, non può essere scambiata per violenza esercitata nei confronti del soggetto. Il «senza scelta», infatti, è anteriore a qualsiasi opposizione dialettica nell’alternativa libertà/non-libertà.

Se la questione della libertà o della non libertà, richiede una presenza nei confronti della quale, o per la quale, la libertà stessa possa agire, allora appare con chiarezza come la trascendenza dell’elezione non possa essere affrontata all’interno della struttura determinata dalla libertà, in quanto io non sono mai stato presente all’atto della mia elezione. Prima di essere libero di, o di essere libero da, ero già; una precedenza condiziona la stessa libertà, rimanendone fuori.91

C’è una precedenza che resta fuori anche dall’ordine temporale: se il tempo viene, infatti, creato, non si può definire quel momento in cui sono stato eletto – eletto come responsabile per l’altro –, come un tempo anteriore o «passato», in quanto la nozione di anteriorità presuppone già una temporalità che, in quel momento, non era ancora venuta alla luce. L’elezione precede il tempo; essa ne è, anzi, la condizione stessa. E se non ho avuto modo di prendere parte al momento della Creazione, se non ho scelto la mia elezione, io sono sempre già in ritardo. In ritardo perché il soggetto nasce in un mondo in cui ci sono sempre già gli altri, prima di lui; in ritardo perché il soggetto, quando viene al mondo, è sempre l’ultimo arrivato. Arriva in ritardo, in un mondo già abitato. Il ritardo sembrerebbe, allora, dipendere proprio dalla relazione stessa che il soggetto intrattiene con il suo prossimo, che intrattiene con l’altro. Io vengo dopo ogni altro, sono in ritardo sull’altro, in questo s-fasamento pre-originario. È così che si può affermare che

il prossimo mi concerne prima di ogni assunzione, prima di ogni impegno consentito o rifiutato. Sono legato ad esso – che tuttavia è il primo venuto […]. Mi ordina prima di essere riconosciuto. Relazione di parentela al di fuori di ogni biologia, “contro ogni logica”. Il prossimo mi concerne non in quanto appartenente al mio stesso genere. Esso è precisamente altro. La comunità con il prossimo comincia nel mio obbligo nei suoi riguardi. Il prossimo è fratello.92

L’altro che pure è mio fratello,93 resta altro. Fratello – in questa prossimità che si configura come l’essere-obbligato-all’altro, in ragione del mio ritardo originario. L’altro è mio fratello al di là del sangue, al di là di ogni biologia. E, ancora, in questo approssimarmi, «io sono di colpo servitore del prossimo, già in ritardo, e colpevole di ritardo. Sono come ordinato dal di fuori – traumaticamente comandato […]94». Colpevole perché, in fondo, «esso mi reclamava prima che io venissi. Ritardo irrecuperabile. “Aprii… era scomparso”95». Tuttavia, questa colpa non è da intendersi cristianamente, come se fosse un peccato originale di cui il soggetto, già solo per il fatto di esser nato, si sarebbe macchiato: al contrario, ancora una volta, questa è una colpa al di là della colpa stessa. «Il Sé, il perseguitato, è accusato, al di là della sua colpa, prima della libertà e, per questo, di un’inconfessabile innocenza. Non si deve pensare allo stato del peccato originale – è, al contrario, la bontà originale della creazione»96. Questo mio ritardo originario, questa mia esposizione, questo mio subire, «disfano ciò che è l’identità in me»97. La prossimità dell’altro, il fatto di essere in presenza di Altri, si rivela propriamente come «disordine». Essa viene, infatti, a turbarmi, ad accusarmi, fino a far saltare la mia identità. La prossimità «non entra [inoltre] in questo tempo comune degli orologi che rende possibile gli appuntamenti»98. Anzi, la prossimità «apre la distanza della diacronia senza presente comune in cui la differenza è passato non recuperabile […], ma in cui questa differenza è la mia non-indifferenza all’Altro. La prossimità è disordine del tempo memorabile»99. L’Altro fa esplodere il tempo.

L’altro è precisamente il diverso, lo strano, lo strambo; il fatto che egli sia mio fratello non significa che siamo uguali, o che apparteniamo allo stesso genere. L’altro parla un’altra lingua, ha un altro odore, ha usi e costumi diversi, conosce un altro cielo; l’altro è il meno privilegiato rispetto a me, è lo straniero, è il povero, l’orfano o la vedova. L’altro è «l’Estraneo» che porto in braccio, il «non autoctono, sradicato, apolide, non-abitante, esposto al freddo e al caldo delle stagioni»100. «Niente, in un senso, è più ingombrante del prossimo. Questo desiderato non è forse l’indesiderabile stesso?101». Cosa abbiamo in comune io e l’altro, se siamo così diversi? È il riconoscimento del mio obbligo nei suoi riguardi che mi avvicina al prossimo, pur differente. È nel riconoscimento del ritardo radicale, dello sfasamento originario – è nel riconoscimento del mio privilegio –, che io e l’altro siamo prossimi; che io e l’altro possiamo essere fratelli – che possiamo essere sorelle. L’uguaglianza, in fondo, è inseparabile dalla responsabilità: «non la si può staccare dall’accoglienza del volto di cui essa è un momento»102. Orbene, se in Heidegger «la socialità si ritrova tutta intera nel soggetto solo»103, in Levinas, tale «socialità» pone il soggetto di fronte ad una radicale esteriorità, lo pone fuori di sé, di fronte al diverso. «“Altri” in quanto “altri”, non è solo un alter ego. Esso è ciò che io non sono: è il debole mentre io sono il forte; è il povero, “la vedova e l’orfano”104». «Lo spazio intersoggettivo è inizialmente asimmetrico»105. È esattamente in questa radicale asimmetria che ha luogo la trascendenza; è in questo scarto tra me e ciò che io non sono – tra me e l’alterità dell’altro – che «il soggetto, pur conservando la sua struttura di soggetto, ha la possibilità di non ritornare fatalmente a se stesso, di essere fecondo e […] di avere un figlio»106. E la differenza tra me e il mio prossimo si riduce a non-indifferenza nei suoi confronti, perché «dove sarei potuto rimanere spettatore, io sono responsabile, vale a dire, parlo. Non c’è più teatro, il dramma non è più gioco scenico. Tutto è serio»107.

L’elezione sarebbe, così, un lampo di tempo senza possibilità di ritorno, una diacronia refrattaria ad ogni sincronizzazione. E se io non ho scelto il prossimo, il prossimo ha sempre già scelto me, in questa mia esposizione che mi precede, che è anteriore al mio stesso apparire. Sono stato eletto come responsabile per la sofferenza e per il dolore di Altri; sono stato chiamato per rispondere delle azioni di Altri. Questo è ciò che mi rende unico, questa è la mia unica possibile «identità». «“L’esteriorità non è una negazione, ma una meraviglia”. Autrui non ha un significato negativo, nei limiti ch’esso mi impone io ritrovo la meraviglia della creazione e, in questa meraviglia, il luogo a cui sono chiamato: unico di fronte ad Unico»108. È esattamente l’unico ciò che si tira fuori da ogni sistema e da ogni totalità, nella sua intrinseca impossibilità di essere riassorbito, nel suo rifiuto di esser reso oggettivo e omogeneo. L’unico, nella sua singolarità, mai neutro, sempre già implicato in un ambiente; responsabile di tutto ciò che accade, in quanto «il Sé è Sub-jectum: è sotto il peso dell’universo»109; l’unico si sostituisce all’altro: totalmente espiazione per l’altro. È la mia unicità, intesa come impossibilità di sottrarmi a questa an-archica elezione, a rendermi singolare, a garantirmi un Sé. «Ora, nell’avvicinarmi a un altro, quando un altro si trova, di colpo, sotto la mia responsabilità, “qualcosa” è andato oltre le decisioni che avevo liberamente preso, si è insinuato in me senza che lo sapessi, alienando, così, la mia identità»110. «Uno senza identità», uomo senza più identità, «ma unico nella requisizione irrecusabile della responsabilità»111. L’identità esplode, svanendo, a tal punto e così radicalmente che soltanto

eccezionalmente, e per abuso di linguaggio, [l’io] si può chiamare Me (Moi) e Io (Je). […] Non c’è nulla che si chiami io (je); io (je) è detto attraverso colui che parla. Il pronome nasconde già l’unico che parla, lo sussume sotto un concetto, ma così facendo designa solo la maschera o la persona dell’unico […]112.

In una delle pagine più importanti di Altrimenti che essere, ci si imbatte, quasi di colpo, in una nota a margine di fondamentale importanza: massima punta da cui svetta tutta la ricchezza che tale argomentazione ci lascia in eredità; sommità su cui culmina il definitivo superamento del concetto di identità. Scrive Levinas:

La singolarità del soggetto non è l’unicità dell’apax. Essa non dipende infatti da una qualità distintiva qualsiasi come le impronte digitali che ne farebbe un unicum incomparabile e che, principio di individuazione, procurerebbe a questa unità un nome proprio e, a questo titolo, un posto nel discorso. L’identità del se-stesso non è l’inerzia di una quiddità individuata grazie ad una differenza specifica ultima inerente al corpo o al carattere, né grazie all’unicità di una congiuntura naturale o storica. Essa è nell’unicità del convocato.113

La singolarità che ciascuno di noi è, questa ec-cezionalità, non è in alcun modo paragonabile a quell’unicità costituita dall’hapax legomenon – ovvero quella parola o espressione che viene detta una sola volta e di cui non si conosce che un solo esempio, o una sola attestazione, in un’opera o in un’intera lingua. Ebbene, la nostra singolarità non può fondarsi nemmeno su una determinata caratteristica che ci distinguerebbe da qualunque altro essere umano.

L’identità del se-stesso proviene esclusivamente dall’unicità del convocato; «convocazione a rispondere senza indietreggiare, che convoca il sé come sé»114. Se-stesso che si ipostatizza come un «intrigo an-archico», non-libero; se-stesso che non è nato dalla sua propria iniziativa; «provocato come insostituibile, come votato, senza dimissioni possibili, agli altri»115. Esposto alle ferite e agli oltraggi; tutt’altro che tranquillo nella sua dimensione gioiosa e pacata, propria di ogni godimento; esiliato e spogliato; perseguitato; «uno e unico di colpo nella passività»116. «Eccomi» è tutto quel che, all’io, è rimasto da dire; «eccomi» come risposta all’appello dell’altro che mi convoca e da cui sono già stato reclamato. È in questa mia sostituzione all’altro che l’identità «si inverte» – che la relazione del sé all’altro si sovverte. Levinas inverte i termini

togliendo al sé l’arché della priorità che si è dispoticamente accaparrato. Prima del sé, in un passato immemoriale, c’è già sempre l’altro che lo convoca, che lo interroga, a cui è chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria, cioè valutando se dire sì oppure no, bensì semplicemente volgendosi, senza possibilità di scelta, senza condizione. Perché il sé può esistere solo in quel volgersi, in quell’esodo incessante. Prima del sé viene l’altro. Prima della libertà viene la responsabilità. E quest’ultima, poiché è senza principio e senza comando, è una responsabilità anarchica.117

Ma l’Altro che mi chiama, che è in me – l’Altro nel Medesimo –, non produce un’alienazione: io sono come «ispirato» dall’Altro, senza che quest’Altro mi faccia diventare qualcun altro.

Più ritorno a Me, più mi spoglio – sotto l’effetto del trauma della persecuzione – della mia libertà di soggetto costituito, volontario, imperialista, più mi scopro responsabile; più sono giusto, più sono colpevole. Io sono “in sé” attraverso gli altri. Lo psichismo è l’altro nel medesimo senza alienare il medesimo.118

Io sono «in sé» attraverso gli altri, per gli altri; identità del sé, non di un Io: precisamente «identità non di un’Anima in generale, ma di me […]119». Fallimento dell’identità dell’Io. Si deve qui annunciare una grave disfatta: la bandiera bianca si issa, inalberata come emblema di una perdita.

La defezione o già la disfatta dell’identità dell’Io – ciò che può dirsi a rigore, avvenimento del Se-stesso – precede ogni avvenimento subito o prodotto da un soggetto. Al di qua che si esprime precisamente nel termine anarchia. Identità disfatta fino alla fine, senza rifarsi nell’altro, al di qua della trans-sustanziazione in un’altra trasformazione e della “messa al posto di un altro”, poiché non riposante in altri, ma rimanente in se-stesso senza riposo; requisizione senza possibilità di fuga che, in quanto insostituibile, è unicità.120

Io de-posto, de-caduto o – osando un poco – de-ceduto; all’Io subentra il se-stesso che viene a ricordarmi e a confermarmi la mia elezione. Al di qua di ogni decisione volontaria del soggetto, la disfatta dell’identità è precisamente anarchica. Inutile, dunque, rivendicare questa identità ormai perduta. Il se-stesso resta in se stesso, ma «senza riposo»; questo conferma la mia elezione, la mia insostituibilità. Perché «nessuno può sostituirsi a me che mi sostituisco a tutti»121.

Non più un’identità esterna al soggetto, costruita, eretta come archetipo a cui guardare, a cui rivolgersi, in cui identificarsi; non più «coscienza di sé che si raggiunge nel presente»122; non più concetto a cui tendere; non più, infine, categoria in cui «incasellarsi». L’identità superata risulta ora essere una identità «pre-originale», un’identità «anarchica», che è «più antica di ogni inizio»; «esposizione estrema alla convocazione attraverso Altri, già compiuta prima della coscienza e della libertà, convocazione entrata in me per effrazione […]123». Dal latino effractus, participio passato di effringĕre – propriamente rompere – l’effrazione rinvia direttamente allo scasso, al furto, alla rapina. Io vengo completamente travolto – subisco incessantemente la rottura che mi fende. Rotto e scassato in molti pezzi, ridotto a brandelli, il soggetto viene derubato della sua identità. L’io non può più dire «io». Quando il soggetto resta compatto in se stesso; quando l’io non si lascia fendere, barricato nella sua roccaforte dell’interiorità; è proprio in quel momento che la follia identitaria prende il sopravvento – è proprio in quel momento che l’illusione identitaria sfodera il doppio taglio della sua sciabola, soffocando il Sé, decretando la vittoria dell’Io. Credendo di aver vinto, il soggetto perisce, asfissiato sotto il peso della sua stessa identità.

Questo superamento dell’identità permette esattamente la «sovversione dell’essenza» stessa. Si può affermare, una volta per tutte e senza paura, con Levinas, che la defezione dell’identità è il dis-inter-essamento stesso dell’essenza.124 È ciò che fa saltare propriamente l’essenza; è precisamente quel sentiero che porta al di là dell’essenza, in un luogo metafisico. Il superamento dell’identità, o la sua defezione, è ciò che apre all’«altrimenti che essere»; è ciò che permette questo disinteressamento del soggetto – ma anche della filosofia. Con il superamento dell’identità si apre uno spiraglio per quell’«altrimenti detto» che si mantiene completamente «al di fuori», con cui si concluderà quell’opera straordinaria che è Altrimenti che essere o al di là dell’essenza; con cui si concluderà anche il lungo itinerario della filosofia levinasiana125 che, alla ricerca del senso, partita da un desiderio di evasione dall’essere, colpisce ora nel segno, conquistando l’obiettivo anelato. Soggetto pensato al di fuori dell’essere, in quanto «ec-cezionale» ed «es-pulso» nella sua responsabilità. Ma non tanto propriamente «al di fuori dell’essere», quanto uscente dall’essere: «l’uno nell’uno-per-l’altro non è un essere al di fuori dell’essere, ma significazione, evacuazione dall’essenza dell’essere per l’altro […]126». Non semplicemente un «al di fuori», ma una radicale esteriorità: evacuazione, evasione.

Conclusione

Non-essenza dell’uomo, se possibile, meno che nulla. “Può darsi, scrive ancora Blanchot, come si usa dire, che 'l’uomo passi'. Passa e anzi è sempre già passato, nella misura in cui è stato sempre appropriato alla sua scomparsa… Non c’è motivo, dunque, di rinnegare l’umanesimo, a condizione di riconoscerlo laddove i suoi modi son meno ingannevoli, mai nelle zone dell’interiorità del potere e della legge, dell’ordine, della cultura e della magnificenza eroica…127”.

Uomo senza identità. Umano senza essenza: quale scacco per la Ragione dover affermare un essere senza essenza, un «men che nulla» nell’essere. L’essere umano, in effetti, passa e, dice Maurice Blanchot, «è sempre già passato»; condannato a passare, nella sua breve vita incarnata; destinato a transitare; espulso. Esiliato, inseguito, perseguitato addirittura fin dentro la propria abitazione, fin dentro la propria dimora; perché, come è evidente, nessuno può essere padrone a casa propria. «Il se-stesso deve essere pensato al di fuori di ogni coincidenza sostanziale di sé con sé e senza che la coincidenza sia, come vuole il pensiero occidentale che unisce soggettività e sostanzialità, la norma che già guida ogni non-coincidenza […]128». Con Levinas viene, infatti, reciso ogni legame con ciò che rimaneva di quel soggetto inconcusso della modernità, con quello hypokeimenon che, sostrato, era già un fondamento. «A non ritorna, come nell’identità, ad A, ma indietreggia al di qua del suo punto di partenza»129. Andata senza ritorno: cammino, o itinerario, che termina al di qua del punto di partenza; traguardo spostato all’indietro rispetto allo stesso inizio.

«L’identità del soggetto qui si mette in risalto non attraverso una quiete su di sé, ma attraverso un’inquietudine che mi insegue fuori dal nucleo della mia sostanzialità»130. Superamento dell’identità; identità «nuova» che mi es-pone; identità al di fuori del sé: fuori dal nucleo, precisamente «al di fuori»; in altri termini, identità che mi viene fornita dall’Altro. Identità che si costituisce come significazione dell’uno-per-l’altro, come esposizione, come convocazione in questo esser-unico nel rispondere alla chiamata. Proprio la responsabilità, in effetti, produce una alienazione nel soggetto; e, tuttavia, questa alienazione «non svuota il Medesimo della sua identità, ma ve lo assoggetta, con una convocazione irrecusabile […]131».

Tutta qui si gioca la tensione del ragionamento levinasiano: il soggetto non ha più un’identità e, tuttavia, resta sui generis. Il fatto di non avere un’identità non produce alcuna spersonalizzazione: il soggetto senza identità non è il soggetto «atomizzato» della società di massa di Leo Löwenthal; non è il soggetto heideggeriano che, immerso nella «chiacchiera», vive nell’inautenticità della dittatura del Si e che, avendo perso il suo Sé, si diverte «come ci si diverte» o che trova scandaloso «ciò che si trova scandaloso»132. Il soggetto non-identico non è una goccia d’acqua che si fonde nell’oceano, perdendo il suo proprio essere, il suo proprio sé. Al contrario, l’operazione levinasiana del superamento dell’identità si rivela come necessaria, proprio per evitare che il soggetto venga risucchiato dalla presa oggettivante dell’essere che tutto livella; proprio per evitare che il soggetto non venga riconosciuto come unico, perso tra la massa, perso in quell’oceano in cui non è più è possibile distinguerlo. In breve, il superamento dell’identità appare necessario per affermare l’uomo nella sua singolarità, nel suo essere unico. La defezione dell’identità è, in ultima istanza, una vittoria per la singolarità di ogni soggetto: così, si va profilando l’opportunità di pensare una realtà soggettiva, pur rinunciando al concetto di identità. Questo attaccamento all’identità, questo voler a tutti i costi rivendicare un’identità, è precisamente l’ossessione di un soggetto

isolato ed eroico che è prodotto dallo Stato con le sue virili virtù. Esso va incontro alla morte per puro coraggio e quale che sia la causa per cui muore. […] L’esistenza eroica, l’anima isolata può costituirsi la sua salvezza cercando per se stessa una vita eterna come se la sua soggettività potesse non rivoltarsi contro di essa ritornando a sé in un tempo continuo, come se, in questo tempo continuo, l’identità stessa non si affermasse come un’ossessione, come se, nell’identità che dimora in seno ai più stravaganti avatara, non trionfasse “la noia, frutto dell’insipida incuriosità che prende le proporzioni dell’immortalità”133.

Quale altro scacco, dunque, per la Ragione esser costretta a pensare un altrimenti che l’identità per riaffermare la singola identità di ogni singolo soggetto! Ed è per questo – è precisamente per questa messa in scacco della Ragione – che si rende necessaria la formulazione di un altrimenti del pensiero; che si rende necessaria la formulazione di una Ragione altra rispetto a quella della tradizionale ontologia.


  1. Emmanuel Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, 1ª ed., il Melangolo, Genova 1985, pp. 95-96. ↩︎

  2. Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, 8ª ed., Longanesi, Milano 2015. ↩︎

  3. Emmanuel Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 96. ↩︎

  4. Ibidem↩︎

  5. Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, 1ª ed., Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 147. ↩︎

  6. Silvano Petrosino, Emmanuel Levinas. Le due sapienze, 1ª ed., Feltrinelli, Milano 2017. ↩︎

  7. Emmanuel Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 120. ↩︎

  8. Ibidem↩︎

  9. Ivi, pp. 120-121. ↩︎

  10. Cfr. nt. 42 del presente articolo. ↩︎

  11. È interessante notare che, nelle pagine di Fenomenologia dell’Eros di Totalità e Infinito, in cui Levinas tratta le figure del figlio e della paternità, la maternità non è minimamente tenuta in considerazione. È come se Levinas tracciasse un filo immaginario che fa discendere direttamente la filialità dalla paternità. La maternità farà la sua entrata in scena soltanto in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza – opera successiva rispetto a Totalità e Infinito↩︎

  12. Emmanuel Levinas, Totalità e Infinito, 2ª ed., Jaca Book, Milano 2019, p. 275. ↩︎

  13. Ibidem↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. Ibidem↩︎

  16. Ivi, p. 276. ↩︎

  17. Ivi, p. 277. ↩︎

  18. Ibidem↩︎

  19. Come non notare la vicinanza, in questo passo, tra Levinas e Jacques Lacan. A tal proposito, cfr. Massimo Recalcati, La forza del desiderio, 1ª ed., Qiqajon, Magnano 2014. ↩︎

  20. Emmanuel Levinas, Totalità e Infinito, p. 279. ↩︎

  21. Ibidem↩︎

  22. Ibidem↩︎

  23. Ibidem↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. Ivi, p. 280. ↩︎

  26. Ibidem. ↩︎

  27. Ibidem↩︎

  28. Ivi, p. 281. ↩︎

  29. Ibidem↩︎

  30. Ibidem↩︎

  31. Ibidem↩︎

  32. Ibidem↩︎

  33. Ibidem↩︎

  34. Ibidem↩︎

  35. Ivi, p. 282. ↩︎

  36. Ibidem↩︎

  37. Ivi, p. 283. ↩︎

  38. Ibidem↩︎

  39. Ivi, p. 285. ↩︎

  40. Ivi, p. 286. ↩︎

  41. Ibidem↩︎

  42. Si seguirà esplicitamente il percorso suggerito in Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, 1ª ed., Marietti, Genova-Milano 2010, pp. 142-173. Si vorrebbe precisare e sottolineare che la scelta di trattare il tema della maternità dopo quello della paternità è una scelta di chi scrive. Questa scelta non dipende affatto da una presunta precedenza logica che la paternità deterrebbe rispetto alla maternità; la paternità, ai fini di un discorso in cui vengono trattate le figure del superamento dell’identità, non è in alcun modo più importante o prioritaria rispetto alla maternità. Si è scelto di partire dalla paternità soltanto per conferire a questa prima parte del discorso una leggera sistematicità e, soprattutto, per agevolare la lettura e accompagnare chi legge nel percorso di questo ragionamento. Così, si è scelto di raggruppare trascendenza, fecondità e paternità, da un lato, e carezza, maternità e respirazione dall’altro. Altrimenti, se si fosse seguita la trattazione delle pagine di Totalità e Infinito sulla Fenomenologia dell’Eros, si sarebbe dovuto trattare la carezza, insieme alla paternità e alla trascendenza, rendendo più confuso tutto l’assetto del discorso. Ogni scelta riguardante l’esposizione dei concetti levinasiani richiede una attenzione ben precisa. Ciò che viene prima non ha sempre precedenza – logica o di importanza – rispetto a ciò che viene dopo. Anzi, a dirla tutta, in questo specifico caso, sono proprio queste tre figure che stiamo per trattare – queste figure che in questo discorso abbiamo scelto di porre dopo – ad esser dei potenti «dispositivi» per il superamento definitivo del concetto di identità. Forse anche più potenti rispetto alle prime. Anche per questo si è scelto di trattarle subito prima del paragrafo in cui si supererà una volta per tutte l’identità – perché crediamo che esse aprano la via ad un discorso che si fa via via più radicale – perché crediamo che carezza, maternità e respirazione, con la loro radicalità, ci avvicinino in modo significativo al nostro obiettivo finale. ↩︎

  43. Emmanuel Levinas, Totalità e Infinito, p. 265. ↩︎

  44. Ibidem↩︎

  45. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, p. 151. ↩︎

  46. Emmanuel Levinas, Totalità e Infinito, p. 265. ↩︎

  47. Ibidem↩︎

  48. Ibidem↩︎

  49. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, p. 151, corsivo mio. ↩︎

  50. Emmanuel Levinas, Totalità e Infinito, p. 265. ↩︎

  51. Ivi, pp. 266-267. ↩︎

  52. Id., Dall’esistenza all’esistente, 1ª ed., Marietti, Bologna 2019, p. 39. ↩︎

  53. Ivi, p. 41. ↩︎

  54. Ibidem↩︎

  55. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, cit. alla nt. 25, p. 152. ↩︎

  56. Ibidem↩︎

  57. Sarebbe molto interessante ripercorrere le varie critiche mosse nei confronti di Levinas in merito al concetto del «femminile» e alle sue figure, così come appaiono nella sua opera. Ma con un atto di umiltà, ci permettiamo di rinviare a Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, op. cit. e a Catherine Chalier, Le figure del femminile in Levinas, 1ª ed., Morcelliana, Brescia 2020. La lettrice/il lettore perdonerà ulteriormente chi scrive se, per questioni di coerenza, la questione del «femminile» sarà lasciata da parte, anche nell’analisi della maternità che segue, benché essa sia determinante nel discorso che il filosofo francese sviluppa. ↩︎

  58. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, p. 157. ↩︎

  59. Si riprende esplicitamente una tesi contenuta in Eva Feder Kittay, La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, 1ª ed., Vita e Pensiero, Milano 2010. ↩︎

  60. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, p. 156. ↩︎

  61. Il binarismo uomo/donna è una pura semplificazione e che, tuttavia, andrebbe assolutamente superata, soprattutto in un discorso che cerca di affermare l’importanza di ogni singolarità. ↩︎

  62. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, p. 169. ↩︎

  63. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, 2ª ed., Jaca Book, Milano 2018, p. 223. ↩︎

  64. Ibidem↩︎

  65. Ibidem↩︎

  66. Ivi, pp. 224-225. ↩︎

  67. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, p. 172. ↩︎

  68. Ibidem↩︎

  69. Emmanuel Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 97. ↩︎

  70. Id., Altrimenti che essere, p. 64. ↩︎

  71. Id., Umanesimo dell’altro uomo, p. 127. ↩︎

  72. Ibidem↩︎

  73. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, p. 186. ↩︎

  74. Ibidem↩︎

  75. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, p. 60. ↩︎

  76. Ibidem↩︎

  77. Ibidem↩︎

  78. Ivi, p. 105. ↩︎

  79. Ibidem↩︎

  80. Ivi, p. 62. ↩︎

  81. Id., Totalità e Infinito, p. 249. ↩︎

  82. Id., Altrimenti che essere, cit. p. 63. ↩︎

  83. Ivi, p. 64. ↩︎

  84. Ibidem↩︎

  85. Ivi, p. 15. ↩︎

  86. Ivi, p. 18. ↩︎

  87. Ibidem↩︎

  88. Ivi, pp. 18-19, corsivo mio. ↩︎

  89. Orietta Ombrosi, L’umano ritrovato, p. 223. ↩︎

  90. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, p. 71. ↩︎

  91. Silvano Petrosino, La verità nomade. Introduzione a Emmanuel Levinas, 2ª ed., Jaca Book, Milano 2018, p. 88. ↩︎

  92. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, p. 108. ↩︎

  93. Perché fratello e non sorella? ↩︎

  94. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, p. 108. ↩︎

  95. Ivi, p. 111. ↩︎

  96. Ivi, p. 153. ↩︎

  97. Ivi, p. 111. ↩︎

  98. Ibidem↩︎

  99. Ibidem↩︎

  100. Ivi, p. 114. ↩︎

  101. Ivi, p. 110. ↩︎

  102. Id., Totalità e Infinito, p. 219. ↩︎

  103. Id., Dall’esistenza all’esistente, p. 86. ↩︎

  104. Ivi, p. 87. ↩︎

  105. Ibidem↩︎

  106. Ivi, p. 88. ↩︎

  107. Id., Umanesimo dell’altro uomo, p. 110. ↩︎

  108. Silvano Petrosino, La verità nomade, p. 147. ↩︎

  109. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, p. 145. ↩︎

  110. Id., Umanesimo dell’altro uomo, p. 125. ↩︎

  111. Id., Altrimenti che essere, cit. p. 68. ↩︎

  112. Ivi, p. 72. ↩︎

  113. Ivi, cit. alla nt. 9, p. 131. ↩︎

  114. Ivi, p. 132. ↩︎

  115. Ibidem↩︎

  116. Ibidem↩︎

  117. Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, pp. 147-148. ↩︎

  118. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, p. 141. ↩︎

  119. Cit. alla nt. 18, ibidem↩︎

  120. Ivi, cit. alla nt. 20, pp. 146-147. ↩︎

  121. Ivi, p. 159. ↩︎

  122. Ivi, p. 182. ↩︎

  123. Ibidem↩︎

  124. Cfr. Ivi, p. 192. ↩︎

  125. Senza concludersi davvero, visto che Levinas continuerà a scrivere fino a poco prima della sua scomparsa, avvenuta nel 1995. ↩︎

  126. Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, p. 204. ↩︎

  127. Ivi, p. 134. ↩︎

  128. Id., Altrimenti che essere, p. 142. ↩︎

  129. Ivi, p. 143. ↩︎

  130. Ivi, p. 178. ↩︎

  131. Ibidem↩︎

  132. Martin Heidegger, Essere e tempo, p. 158. ↩︎

  133. Emmanuel Levinas, Totalità e Infinito, p. 315. ↩︎