Recensione a Guido Cusinato, Periagoge. Teoria della singolarità e filosofia come cura del desiderio

Guido Cusinato, Periagoge. Teoria della singolarità e filosofia come cura del desiderio, QuiEdit, Verona 2014, pp. 436

La ricchezza di questa nuova ricerca di Cusinato si rivela già scorrendo i titoli dei capitoli che strutturano il testo: il problema dell’orientamento nella società liquida; espressività e fenomenologia del sentire; metabolismi del desiderio; filosofia della mente e identità personale; singolarità e teoria dell’individuazione; la persona e il compatico; pratiche di risveglio e sentimenti germinativi; la riduzione fenomenologica; ontologia della cura. È Cusinato stesso a riassumere il senso di questo lavoro: «credo che l’originalità del presente lavoro consista nel focalizzare la connessione fra il processo d’individuazione della singolarità e la cura del desiderio. Con singolarità intendo il risultato di un percorso espressivo di autotrascendimento, unico e indeducibile, motivato dall’inquietudine del cuore. Ciò che caratterizza la mia singolarità non è l’identità di un’essenza […] o di una forma, bensì l’unicità e l’indeducibilità del processo con cui prendo forma uscendo da me stesso» (p. 16). L’esigenza che anima e percorre il testo si condensa infatti nel bisogno di affrontare il problema del riorientamento nella società liquida postmoderna (pp. 33-84).

La parola «riorientamento» indica già il taglio specifico dell’autore: affrontare la conclamata crisi di valori a partire dalla convinzione che il disorientamento non ha l’ultima parola, ma sia anzi l’occasione per ripensare il senso stesso dell’orientamento. Ne emerge una concezione originale della filosofia nella misura in cui non si tratta soltanto, secondo il dettato della cura sui, di pensare la filosofia come nuova forma di terapia esistenziale (più o meno consolatoria o dal taglio estetizzante-spiritualizzante), e neppure, secondo un’impostazione astrattamente teoreticista, solo come costruzione di un sistema, ricostruzione oggettiva di un problema, presentazione storiografica o riflessione sulla conoscenza (pp. 18-23). Piuttosto, è necessario tentare di saldare entrambe queste esigenze: in questo senso, il riorientamento di cui la filosofia si rende protagonista è per Cusinato al contempo quello che produce un’effettiva trasformazione dei soggetti che coinvolge e quello ripensato a partire da un confronto con le sfide teoriche della contemporaneità, comprese quelle poste dalle scienze. Per questo, la filosofia si presenta da un lato come sedimento millenario di pratiche di risveglio, trasformazione e germinazione, dall’altro lato come luogo di costruzione teorica e interrogazione sistematica e radicale.

Si tengono vive le istanze platoniche come quelle aristoteliche. Le prime in modo più esplicito, in quanto Cusinato, reinterpretando Platone come pensatore della cura del desiderio e non dell’idealismo assolutistico, richiama la meraviglia vertiginosa che schiude l’apertura al mondo e le possibilità di trasformazione, contrapponendola a quella epistemologica di Aristotele, che mette in moto la conoscenza più distaccata e sistematica o l’edificazione di una teoria che dia un senso compiuto al mondo (pp. 326-331). Ciononostante, anche le seconde trovano poi spazio nella misura in cui il testo offre una prospettiva di ampio respiro e capace di affrontare problemi teoretici rilevanti. L’impossibilità di ridurre la filosofia all’analisi epistemologica della possibilità di una corretta conoscenza emerge anche nel tentativo di ridiscutere la coincidenza tra libertà e scelta volontaria (pp. 105-112). A partire da Spinoza, infatti, si profila la convinzione anti-cartesiana secondo cui l’adeguatezza di un’idea si gioca non più sul piano gnoseologico della sua evidenza (il chiaro e distinto, che una volta appreso permetterebbe di guidare la volontà nella scelta), bensì su quello etico della sua capacità trasformativa: un’idea è adeguata non nella misura in cui rispecchia fedelmente un oggetto e consente di decidere liberamente, bensì in quanto riesce a migliorare il soggetto, il modo in cui il soggetto si sente e sente il mondo, ossia a liberarlo dai pregiudizi e dalla parzialità di una precedente posizione. Allo stesso tempo per Cusinato questa singolarità non può essere pensata sul modello spinoziano della causalità immanente; il punto è piuttosto ripensare l’immanenza a partire da una trascendenza non dal mondo, ma — per così dire — dal soggettostesso: è la trascendenza rispetto alla chiusura ambientale e all’ego, che comporta un modo diverso di abitare questo mondo e che consente dunque il rinnovamento dell’apertura al mondo nella sua immanenza.

Diventa così più chiara la tesi di fondo del testo: l’idea secondo cui la formazione della singolarità umana si svolge non conformandosi a un’ideale di una natura umana compiuta e universale o a un modello superiore di qualsiasi tipo, secondo una gerarchia di tipo assolutistico-verticale, ma auto-trascendendosi dopo essere passati attraverso una crisi e una presa di distanza critica da se stessi, per rivolgersi alle dinamiche della sfera affettiva, soprattutto quelle che intercorrono fra la cura del proprio desiderio e la forza dell’esemplarità altrui. Il tentativo è quello di far convergere la verticalità dell’autotrascendimento estatico (che si lasci alle spalle l’autoritarismo repressivo) con un’orizzontalità solidaristico-partecipativa (capace di arginare l’indifferentismo etico omologante) (pp. 47-49). Non si tratta di un’esigenza teoretica, ma di accogliere le sfide imposte da una società capace di mascherare la repressione del desiderio con la disinibizione indotta del godimento (pp. 67-84). Per questo diventa necessario pensare e vivere il desiderio come qualcosa che non è né già orientato verso un oggetto o un piacere (così che andrebbe lasciato libero di placare la propria sete), né puro caos privo di una forza interna che lo muove e anima (così che andrebbe normato e disciplinato): piuttosto, il punto per Cusinato è che l’intenzionalità strutturante del desiderio non va né repressa né scatenata bensì formata e presa in cura per essere sviluppata e lasciata maturare attraverso una relazione con l’alterità che segna al contempo il superamento della volontà di affermazione dell’ego e la rinascita del sentire della singolarità (in particolare pp. 133-171).

La rilevanza di questa proposta emerge anche nel confronto con le aporie di concetti quali — tra i tanti — espressione, giudizio e sentimento (pp. 85-131), identità e persona (pp. 173-205 e 259-284), o singolarità e metabolismo (pp. 207-257). Il punto è che tali aporie non possono essere collocate esclusivamente su un piano concettuale: per essere adeguatamente affrontate non basta spiegare in cosa altre proposte filosofiche siano incomplete o fuori fuoco — come Cusinato del resto non manca puntualmente di fare, in un dialogo che interessa anche le scienze cognitive e la biologia dei sistemi, oltre che svariati esponenti e scuole filosofici — occorre piuttosto cercare di individuare attraverso quali modalità l’individuazione avviene attraverso un’esperienza non di oggettivazione e dominio ma di espressione e intensificazione oltre il proprio confine autoreferenziale (pp. 279-281): la filosofia non può limitarsi a teorizzare tale trasformazione, ma deve anche cominciare o contribuire a metterla in atto. Prendendo sul serio tale compito, il testo di Cusinato si avvale anche di una serie di immagini iconiche appunto esemplari, come l’Onda di Hokusai, emblema della verticalità non assolutistica e perciò contrapposta alla Scala di Climaco (pp. 33-55), o l’Annunciazione di Botticelli, contrapposta a sua volta a quella di Tiziano in quanto rappresentazione di un’inaugurazione della singolarità che oltrepassa gli schemi contrapposti dell’orizzontalismo (indifferentismo etico) e dell’ascesa gloriosa (assolutismo etico), in favore di una deviazione tanto vertiginosa ed esposta alla vulnerabilità quanto perciò capace di aprire al mondo (pp. 345-347). La presenza di questo apparato iconico consente al testo di offrirsi come spazio di deviazione antropogenetica, presentandosi in ultima istanza esso stesso come esercizio di risveglio, prima ancora che descrizione delle possibili pratiche in tale direzione. Tra queste, troviamo comunque la cura dei sentimenti germinativi privi di indivia, quali il pudore e la sensibilità al bello, il denudarsi di sé per vestirsi di esemplarità, l’esercizio alle vertigini della meraviglia, la meditazione sull’attimo presente o il soliloquio come presa di coscienza affettiva (pp. 285-351).

Non sorprende allora che l’approdo ultimo del percorso prenda il nome di ontologia della cura, vale a dire di una vera e propria proposta filosofica incentrata sulla pratica della relazione trasformativa, sul caring e non sul curing (pp. 381-432). Un’ontologia che ripensa la libertà come metabolizzazione del condizionamento e non come azione incondizionata, come destinazione e non come decisione (p. 396): un’ontologia che mette così al centro la cura come accoglimento dell’incompiutezza e vulnerabilità che fanno tutt’uno con l’apertura al mondo, come promozione dei processi di metabolizzazione, come corresponsabilità verso ulteriori deviazioni antropogenetiche, come attenzione costante a quei legami affettivi che possono favorire la trasformazione, come costruzione di legami trasformativi. Una costruzione che è intaccata dalla possibilità di fallire, di rivelarsi infelice, di essere sedotta dal male, di pretendere di avere esaurito il proprio potenziale metabolico-creativo. Insomma, si profila un’ontologia che mette al centro l’incessante esigenza di singolarizzarsi e favorire la singolarizzazione altrui, in un gioco di reciprocità che si avvale dell’energia dinamizzante e singolarizzante dell’esemplarità altrui, alternativa a ogni forma di in-curia o invidia, rivelando così immediatamente anche il proprio potenziale latu sensu politico. Infatti, il tema del contagio trasformativo tra le singolarità, vale a dire della dimensione intrinsecamente compartecipativa della periagoge, non solo viene fatto valere per chiarire in che senso il paradigma dell’antropologia filosofica è tutto tranne che immunitario (pp. 24-28, 217-226 e 402-403), ma viene soprattutto portato al fondo delle sue conseguenze rispetto alla questione sociale della comunione solidale delle singolarità e con essa a quella politica della pedagogia (pp. 247-257), come a quella economica della possibilità di beni relazionali o condivisibili (pp. 425-432).

Proprio perché è coinvolto un ordine del sentire che prende forma compartecipativamente, Cusinato ritiene che la periagoge di un singolo non avviene in una dimensione privata, ma chiama in causa il contesto di una più vasta periagoge di una società (pp. 248-249). Al contempo però, il problema della trasformazione sociale non può essere separato da quello del riorientamento individuale, ed è in questo senso che Cusinato ricorda che si è troppo spesso inneggiato alla rivoluzione sociale senza però curarsi abbastanza di rendersene degni, cioè di prepararsi a essa (p. 250); e che, ancora, una comunità scongiura di diventare organica, compatta e immunitaria solo nella misura in cui è capace di offrire lo spazio per la creazione di nuove singolarità (p. 256).

Non c’è dubbio che questi siano tra i passaggi più delicati — Platone docet — ma è importante, una volta stabilito che non possano essere presentati con presunzione di definitiva esaustività, che essi non siano stati semplicemente sottaciuti o lasciati da parte, ma esplicitati fino a mettere in evidenza lo stretto rapporto tra trasformazione etica (singolare) e politica (sociale). Soprattutto, questa esplicitazione è decisiva per fugare fin da principio un dubbio che potrebbe farsi strada in un lettore prevenuto rispetto a temi come espressività, esemplarità, singolarità, cura e sentire: mi riferisco all’idea, propria della tradizione marxista, per cui declinare la trasformazione rispetto all’ordine del sentire rappresenterebbe un gesto tipico dell’individuo nobile-aristocratico, promotore di un’istanza di autenticità rispetto all’individuo borghese e a quello proletario. Al di là delle stilizzazioni forse persino caricaturali, il punto è che se la trasformazione si giocherebbe per il terzo sul piano dell’azione socio-politica, riformista o rivoluzionaria che sia (prattein), e per il secondo su quello dell’emancipazione economico-produttiva (poiein), per il primo si collocherebbe a un livello in cui a venir meno è proprio la dimensione dell’agire, esaurendosi nella semplice sfera estetico-contemplativa (theorein).

In quest’ottica (penso soprattutto alla lettura di Luc Boltanski, Eve Chiapello, Fredric Jameson e David Harvey), la centralità della dimensione dell’espressione e del sentire sarebbe persino la più compiuta manifestazione di quel processo di estetizzazione degli spazi pubblici e dell’azione politica che rappresenta il contrassegno principale dell’epoca postmoderna e del capitalismo speculativo-finanziario. Insomma, parlare di periagoge sociale conferendo una simile centralità al passaggio dall’ortonomia alla maturità del sentire in questa chiave interpretativa significherebbe di fatto non comprendere la specificità delle esigenze di trasformazione politica, se non addirittura precludere ogni vera possibilità di mutamento sociale.

Tuttavia questo tipo di lettura rischia di dimenticare con troppa irruenza che le emozioni sono terreno non solo di manipolazione (secondo il modello dello storytelling) ma anche della possibile emersione di un legame sociale e dell’opportunità di una maturazione singolare, di modo che una simile critica finisce con il risultare alla fine fuori fuoco rispetto alla proposta di Cusinato, e questo perché non terrebbe conto di almeno tre aspetti. In primo luogo, la già ricordata idea per cui preparare la rivoluzione senza prepararsi a essa significa già gettare le basi per la sua trasformazione in terrore, vale a dire che — ancora una volta Platone lo insegna — pretendere di sganciare le sorti dell’equilibrio della psyché del singolo da quelle dell’equilibrio dell’intera polis significa rendere entrambi impossibili: una società non fiorisce se non fioriscono i suoi membri — e viceversa, certamente.

In secondo luogo, il sentire non occupa una dimensione meramente estetica nella misura in cui coinvolge tutto quanto è in grado di incidere nel profondo e di costituire un ordine di valori proprio evitando un ripiegamento in senso soggettivistico, perché è la traccia lasciata dall’irruzione dell’alterità, da quanto mette in discussione l’arbitrarietà e l’autoreferenzialità soggettive riuscendo proprio in questo modo a mettere in atto un percorso antropogenetico. Uno dei tratti su cui Cusinato insiste a più riprese è infatti la convinzione secondo cui la creazione di un percorso espressivo non solo non coincide con l’affermazione perentoria del soggettivismo, ma anzi rappresenta la negazione dell’arbitrarietà soggettiva, perché si svolge rifunzionalizzando una relazione esemplare con l’alterità (p. e. pp. 227-246 e 276-284).

In terzo luogo, una comunità si struttura rispetto a un’«intenzionalità affettiva collettiva», ossia una società prende forma soltanto laddove prenda forma un «sentire comune» o «sentire assieme» (pp. 251-257), o — nei termini della sociologia e filosofia critica contemporanee — un immaginario sociale: è insomma anche e persino innanzitutto nel sentire che cominciano a delinearsi i contorni del mutamento sociale, laddove cioè il modo dominante e abituale di sentire comincia a essere «deviato» per essere riarticolato e riapprofondito. Questo è testimoniato dal fatto che i cambiamenti sociali hanno origine proprio nel momento in cui si producono dei modi di sentire comuni controcorrente rispetto a quanto era sino a quel momento ritenuto accettabile e normale: la trasformazione sociale è possibile soltanto qualora avvenga uno slittamento nella soglia della sensibilità rispetto a quanto è percepibile come giusto. In poche parole, il motore dei cambiamenti politici — non già la garanzia della loro riuscitezza — è il sentimento di ingiustizia e indignazione provato nei confronti di tutto ciò che la «corrente dominante» (il mainstream) fa sentire come giusto e degno, unitamente alla contagiosa diffusione di tale sentire, che produce un processo di integrazione affettiva non integralista.

Come detto, tutto ciò nulla toglie alla delicatezza — concreta prima che astratta — dei problemi in gioco e alla necessità di proseguire nell’articolazione di un simile orizzonte. Ma è proprio per questo che il testo di Cusinato rappresenta un forte stimolo e un notevole luogo di confronto. Costringe a fare i conti con questioni pressanti, a rilanciare lungo il solco che traccia e a prendere sul serio l’idea che la cura del desiderio abbia qualcosa di davvero significativo da offrire non solo alla filosofia, ma prima ancora e soprattutto alle singolarità umane, per le quali — per chiudere — «vi è una fedeltà, ma non è nei confronti di un proprio punto di vista predefinito, bensì del proprio desiderio; vi è una coerenza, ma non è orientata a un fine predeterminato, bensì rivolta all’esemplarità», in un processo teleocline che «prende forma nel posizionarsi nel mondo a vari livelli, coinvolgendo tutte le passioni, i sentimenti e gli stati d’animo» (p. 269).