1. Roberto Esposito: l’antropologia filosofica e la costruzione del paradigma immunitario
Qui di seguito mi propongo di analizzare alcune critiche che Roberto Esposito ha mosso nei confronti dell’antropologia filosofica nell’ambito della teoria del paradigma immunitario. Secondo Esposito l’intera politica moderno-contemporanea, in quanto costruita sul dispositivo immunitario, non si fonda su un legame sociale, ma sul suo scioglimento. In tal modo lo stato non si basa sul legame tra gli uomini, né sembra renderlo possibile, bensì sul suo scioglimento, rendendolo così non più possibile. Nel momento in cui la communitas viene pensata a partire dall’immunitas, essa viene da subito messa fuori gioco, difesa da se stessa, protetta dal contatto sociale visto come pericolo di contaminazione. Il paradigma immunitario, che è il paradigma che rende possibile la modernità in quanto biopolitica, in quanto politica sulla vita e non ancora della vita,1 ha avuto per Esposito cinque ambiti fondamentali di costruzione, tra i quali (oltre al diritto, alla teologia, alla politica e alla biologia) c’è l’antropologia filosofica.
L’immunizzazione riguarda la ricerca di una «risposta protettiva nei confronti di un rischio»,2 dato dalla minaccia di uno sconfinamento, di una penetrazione, di una spaccatura lungo il confine tra interno ed esterno, tra proprio ed estraneo, tra individuale e comune, ossia dall’esposizione al contagio: «ciò che prima era sano, sicuro, identico a se stesso, è ora esposto a una contaminazione che rischia di devastarlo».3 Ma — nota Esposito — ciò significa che l’immune è reattivo, si scatena solamente in presenza di quel male che intende contrastare, e così ne «presuppone la presenza»,4 non solo perché funziona attraverso l’opposizione a esso, ma perché per poterlo tenere sotto controllo ha bisogno che esso sia in qualche modo sempre presente, ossia deve, operando come katechon, trattenerlo, riprodurlo in forma controllata, quindi funziona anche attraverso il suo uso (proprio come un genitore che intende proteggere il figlio a tutti i costi ha bisogno di tenerlo legato a sé, di metterlo in pericolo per poterlo così proteggere). Esclusione mediante inclusione, protezione mediante trattenimento, meccanismo di compensazione tramite sottrazione, che afferma tramite negazione: diritto, teologia, antropologia filosofica. Questi i tre nessi istituiti da Esposito in cui la protezione della vita ha trovato definizione ed espressione, a cui vanno poi aggiunte la politica e la biologia, che forniranno a essi un adeguato spazio pratico di messa in atto, da un lato, e dei saldi riferimenti scientifici, dall’altro.
Così Esposito nota che l’antropologia kantiana intende rispondere alla domanda «was ist der Mensch? » individuando in maniera chiara e univoca quali tratti caratterizzano universalmente l’umanità e quali no.5 In una tale definizione qualcosa deve restare fuori e qualcosa dentro, o meglio qualcuno deve restare fuori e qualcuno dentro. L’idea fondamentale di Esposito è che la biopolitica intesa come l’esercizio del potere sulla vita in tutte le sue forme è possibile a partire da una visione immunitaria della vita stessa, visione che proprio l’antropologia filosofica avrebbe esplicitato con maggior forza. Per essa infatti l’uomo, nel suo differenziarsi dall’animale, risulta un essere difettoso e manchevole, esposto prima di tutto al pericolo contaminante dell’altro essere umano. Di qui la politica intesa come arte mediatrice che deve garantire la sicurezza di un individuo messo al riparo dal rischio della comunità.
Il meccanismo dell’immunitas come protezione della vita, che nega la vita perché si esercita sulla vita impedendole es-pressione ed es-propriazione, sarebbe radicato nell’orizzonte concettuale dell’antropologia filosofica nella forma dell’Entlastungsprinzip: la vita umana per affermarsi deve negarsi (negare la parte caotica, il magma animale che abita l’uomo come natura prima da oltrepassare)^[6] e negare (la natura esterna, l’uomo è il negatore del dato, colui al quale il datum è consegnato come dandum), l’uomo deve contenersi e contenere per esistere, deve proteggersi dall’esposizione all’aperto sconfinato. L’immunità è lo sgravio dall’obbligazione comune, così come l’Entlastung è il liberarsi dal peso dell’esistenza scaricandolo verso l’esterno per costruire un interno chiuso, sino a giungere allo sgravio delle istituzioni che esonerano gli individui da ogni pratica sociale e comunitaria per permettere loro di pensare a se stessi e alla propria sicurezza. Im-munitas ed Ent-lastung sono meccanismi selettivi e distanzianti, volti alla conservazione e alla protezione, che, evidenzia Esposito, dis-pensano l’uomo da compiti ritenuti onerosi e fonte di preoccupazioni inutili, compreso quello della vita in comune, del munus della reciprocità.
L’antropologia filosofica nella prospettiva di Esposito ha fatto della paura dell’altro (dell’alterità in quanto tale, del mondo che circonda e degli altri che lo abitano) il terribilmente originario, il sentimento più propriamente umano, facendo dell’uomo un essere che per sopravvivere deve non tanto relazionarsi ed esporsi a tutto ciò che incontra ibridandovisi, quanto aggredirlo per negarlo e superarlo, o perlomeno prenderne le distanze per proteggersi e pre-munirsi (mettendo fine a ogni forma possibile di munus reciproco): l’antropologia filosofica sarebbe partita dal negativo (la mancanza, la carenza, la debolezza, la paura, il timore, la preoccupazione, la necessità di prevenzione e di previsione, ecc.) per farne una potenza produttiva e istitutrice, ma partire dal negativo, sostiene Esposito, significa pensare l’esistenza umana come ricerca di ordine e di disciplina, di norme contenitive e di meccanismi capaci di canalizzare energie e pulsioni, significa cioè fare dell’alterità non un partner con cui intrecciarsi ma un nemico da combattere.6
Inoltre, l’antropologia filosofica, ritiene ancora Esposito, ha pensato l’uomo come un’essenza statica e sostanziale, nel senso che avrebbe fatto del nulla che abita l’uomo qualcosa da superare compiutamente dando vita a pratiche e a stili di vita in grado di stabilizzare una volta per tutte quell’animale malato, instabile e carente che è l’uomo (avrebbe sì pensato l’uomo come apertura, ma avrebbe pensato l’esistenza umana come un tentativo di chiusura contenitrice di essa). Inoltre, l’uomo pensato dall’antropologia filosofica sarebbe un uomo pensato a partire da una pienezza originaria, da una sostanza perduta ma proprio per questo da recuperare e da ricostruire: in questo senso, essa avrebbe posto al centro del proprio paradigma la categoria di compensazione, cioè l’idea che fosse possibile bilanciare, pareggiare e riequilibrare gli scompensi conseguenti al peso del debito, del difetto e della mancanza originari. L’antropologia filosofica dipinge l’essere umano essenzialmente come reattivo (l’uomo può sopravvivere e vivere solamente ingabbiando e tenendo a freno la propria vita, le componenti caotiche e incontrollate di essa), pensa il guadagno a partire dalla perdita, non riuscendo così mai a disgiungerli (ogni guadagno rappresenta sempre e comunque la negazione di un negativo, la distruzione di un elemento distruttivo, e così via), e penserebbe a partire da un ordine infranto da reintegrare, da un bene sottratto da restituire, da una pienezza iniziale da ripristinare.7
In poche parole, l’antropologia filosofica, pensando l’uomo come quell’essere carente abitato da un’estraneità che lo spinge a dire di no alla vita per affermarsi e a prendere le distanze da sé e dal mondo per condurre la propria esistenza, avrebbe dato vita alla compiuta sistematizzazione del paradigma immunitario e nichilistico che caratterizzerebbe l’intera modernità come epoca della biopolitica sulla vita, di una politica che sostituisce ogni possibile communitas con quell’immunitas che cancella esposizione, contaminazione, apertura e relazione in favore della ricerca della protezione, della conservazione, del mantenimento e della sicurezza, non solo rifiutando ogni rischio e ogni eccesso, ma cercando di inglobarli preventivamente in procedure e dispositivi anestetizzanti.
Così facendo l’antropologia filosofica avrebbe coerentemente sistematizzato la visione dell’uomo tipica di una modernità concepita in termini biopolitici, mentre per dar vita a una biopolitica veramente affermativa in quanto della vita occorre pensare a partire dal fatto che l’uomo non è affatto l’unica forma entro la quale la vita è destinata a scorrere, perché anzi essa è tale in quanto rompe ogni argine formale, sempre restando però vita e nient’altro che vita: la vita si svolge lungo un piano di immanenza in cui coincide interamente con se stessa e con il proprio auto-superamento di se stessa da parte di se stessa,8 in un ambito di indeterminatività che non è la mera indeterminatezza, l’assenza di determinazione, ma una determinatezza fluida e diveniente (per questo sempre impersonale).9 La vita pensata da Esposito è quella linea di forza lungo la quale l’immanenza si ripiega su se stessa elidendo qualsiasi forma di trascendenza nella forma dell’ulteriorità rispetto all’essere tale e quale della sostanza vivente, priva di soggetto razionale o nudo sostrato materiale cui rimandare, senza alcuna distinzione gerarchica, di essenze o di livelli di determinazioni: è tale che in essa la normalità coincide con l’intrinseca e sempre aperta normatività.^[11]
Per Esposito, conducendo con coerenza agli estremi l’abbandono del meccanismo inclusivo-esclusivo dell’immunitas, all’interno del flusso normativo vitale non si può distinguere tra una zona animale e una zona umana, ma ciò, va detto, non significa un abbassamento dell’uomo a una condizione inferiore, proprio perché all’interno del flusso vitale non c’è una gerarchia assiologica e ontologica, ma soltanto differenti livelli di individuazione, che si distinguono tra di loro per il grado di apertura e di eteroreferenzialità, per il loro grado di intensità concepito in termini di relazionalità: quello che Esposito (attraverso in particolare le riflessioni di Gilbert Simondon)^[12] intende evidenziare è che vivere significa nascere perpetuamente, e che dunque considerare l’uomo (e, con lui, il soggetto, la persona, l’individuo, la coscienza, ecc.) come qualcosa di definitivamente compiuto e deteterminato, di chiuso una volta per tutte, significa mettere da parte ciò che davvero caratterizza la vitalità dell’uomo (o, meglio, la vitalità in quanto tale), ossia l’incompiutezza, l’apertura all’alterità e l’esposizione a passaggi di soglia e a livelli di individuazione sempre diversi — l’uomo, ammesso che si voglia continuare a parlarne, è sempre oltre-umano, sempre in ibridazione contaminante con il proprio fuori, sempre proteso-verso, mai semplicemente organico ma nemmeno semplicemente inorganico. L’uomo, o ciò che ne resta, non dice «no» alla vita, anzi dice un energico «sì» al suo incessante auto-superamento assecondandone così il movimento.
L’ipotesi che vorrei sviluppare è che non solo Esposito (e gli autori che fanno più di altri da sfondo alle sue riflessioni, come Simondon, Canguilhem, Deleuze e Nancy, ma anche, oserei dire, l’intera riflessione filosofico-scientifica passata e contemporanea) nei fatti non supera completamente il paradigma dell’antropologia filosofica che critica, ma che anzi è proprio grazie ad esso che è possibile giungere a pensare nella direzione prospettata da Esposito (l’apertura esposta al mondo, l’eteroriferimento, la comunità, l’apertura al futuro, la vita come nascita sempre aperta, il post-umano come regno del divenire, ecc.). È in particolare di quest’ultimo aspetto che qui mi occuperò, tentando di mostrare come proprio a partire dalla visione dell’uomo pienamente esplicitata e sistematizzata dall’antropologia filosofica è pensabile il rapporto costitutivo dell’essere umano con l’alterità, di un essere umano concepito in termini di dinamicità e di incompiutezza.10
2. Apertura come eteroriferimento e sempre incompiuta ricerca di sé
La debolezza umana, espressione prima di tutto di un fatto biologico, è ciò che immediatamente consegna all’alterità, alla dipendenza e alla cura: all’apertura alla comunità, nella terminologia di Esposito. L’uomo è l’animale neotenico per eccellenza, perché non solo, com’è tipico della neotenia intesa come la persistenza di caratteri giovanili anche in fase avanzata di sviluppo, è protagonista di un ritardo nello sviluppo somatico, di una lenta maturazione, non solo rappresenta un feto di primate in quanto conserva tutta una serie di proprietà che appartengono ai primi stadi dell’ontogenesi dei primati ma che questi poi perdono,11 ma anche perché al semplice fattore-ritardo ne aggiunge un altro di segno inverso (un fattore progenetico), in quanto, come voleva Portmann, l’uomo è un parto prematuro, una nascita precoce, vale a dire che i piccoli umani nascono prima del tempo, pur avendo una gravidanza lunga, e vengono al mondo esposti e indifesi, bisognosi di un’infanzia lunga e di una sorta di nuova gestazione extra-uterina, di un nido secondario, di una primavera extrauterina.12 Insomma, l’uomo (in termini più strettamente filogenetici) è una «scimmia lenta», conserva un gran numero di tratti fetali, ma allo stesso tempo (e in termini più strettamente ontogenetici) è protagonista di un’accelerazione dei tempi, vale a dire che l’uomo è protagonista di una sorta di doppio movimento temporale, di un’accelerazione nel ritardo, che lo rende sovraesposto e nudo di fronte al mondo.13L’uomo è, dunque, un essere che ha nell’ultraneotenia il suo tratto distintivo, condizione che tra le sue conseguenze fondamentali ha quella del bisogno di intimità: per il fatto che l’uomo — privo di un ambiente già preordinato, preprogrammato, di un rifugio sicuro, di un istinto guida e così via — viene al mondo nudo, debole, in modo prematuro e precoce, ancora esposto a tutta l’imprevedibilità del mondo, ha bisogno di cure, le quali si rivelano «indispensabili per un essere che per molto tempo non può sopravvivere solo»,14 vale a dire che la nascita prematura (unita alla persistenza di tratti giovanili e all’assenza di specifiche difese naturali) è a tutti gli effetti una «necessità che si fa virtù».15 L’intrinseca socialità dell’animale umano «non dipende da una sorta di bontà naturale quanto invece dall’impossibilità di fare altrimenti poiché costituisce un fattore formativo obbligatorio».16
L’esposizione e la paticità che contraddistinguono l’esistenza umana, e che ne fanno un essere costitutivamente relazionale e consegnato alla cura (di sé, del mondo, degli altri, in un gioco di speculari rimandi), hanno dunque una ben precisa radice biologica: l’uomo (in quanto corpo completamente nudo e pura potenzialità, superficie interamente sensibile ed essere complessamente plastico — in quanto corpo e cervello nudo, per così dire) è esposto all’alterità e alla pluralità, consegnato all’incontro e attraversato dal mondo sin dalle fasi di gestazione e sin dal primo momento dell’ingresso nel mondo. Nell’utero materno, infatti, il feto inizia a fare le prime esperienze dell’inclusione in uno spazio e a dar vita ai primi movimenti cinestetici elementari, ed è attraversato e quasi informato da suoni, contrazioni e vibrazioni, che lo mettono in dialogo con la madre e con il mondo, dando così inizio allo sviluppo dell’intenzionalità e della protensione verso il mondo (in senso evidentemente non ancora soggettivo). Inoltre, nel travaglio della nascita avvengono le prime forme di cura tattile (la stimolazione tattile del parto stimola il neonato aumentando la sua reattività, il successivo contatto con il corpo materno assicura il mantenimento della temperatura corporea del neonato) e nei primi vagiti si apre l’articolazione della relazione. Le prime esperienze sono dunque transoggettive, tanto trans-oggettive quanto trans-soggettive (no-oggettive),17 precedono cioè la dissociazione tra sé e altro: lo sviluppo del senso dell’egoità e dell’alterità sono da principio interdipendenti.
In ragione del fatto che di per sé l’uomo è «pronto a poco ma disponibile a tutto, c’è bisogno che qualcuno gli insegni cosa fare»,18 l’essere umano è un essere intrinsecamente e necessariamente tanto intelligente quanto comunitario, non come un insetto, che può essere sociale ma utilizzando mediazioni collettive e rigide, o come uno scimpanzé, che può essere intelligente ma solamente in senso individuale:19 è la collaborazione intelligente sociale a costituire «la chiave della condotta umana»,20 di quell’essere che, aperto al mondo ma nella necessità di prendere il controllo di sé e di ciò che lo circonda,21 deve tenersi (sich halten), che dunque si trat-tiene per avere un portamento (Haltung) che sia — in quanto collettivo — allo stesso tempo, per così dire, un vero e proprio com-portamento (Verhaltung). Quello che intendo sottolineare è che la culturalità impressa a ogni più piccola componente della vita umana ha inevitabilmente la forma della socialità, nel senso che socialità, cultura e arretramento della natura sono per l’uomo quasi sinonimi (la biologia umana è una biologia socio-culturale, persino respirare, mangiare, dormire, giocare, cacciare, aver paura, fare sesso, prendersi cura di qualcuno, sono attività socio-culturali per l’uomo, per quanto muovano da una forte base fisiologica, proprio perché muovono da essa): nell’uomo la pulsione è legata a una fitta rete di rappresentazioni e fantasmi più o meno inconsci che la specificano, e proprio per questo non è così categorica — ossia istintuale — come accade negli animali, non detta sempre legge in modo intrascendibile, ma apre alla possibilità-necessità di prescindere dai comportamenti innati e di declinarsi culturalmente — si fa plastica. Ed è proprio così che la pulsione umana si espone, si apre all’alterità, si consegna alla società e si contamina con la comunità: l’uomo si lascia attraversare dal mondo e dagli altri per andare alla ricerca di se stesso, conosce tensione all’autonomia solamente attraverso l’appoggio alla e della eteronomia, intraprende la costruzione dell’identità solamente contaminandola con l’alterità. Questo significa essere «espulsi» dall’Umwelt e ritrovarsi consegnati alla Weltoffenheit, questo significa essere weltexzentrisch e privi di un’essenza predefinita.
3. Gehlen e il paradigma immunitario
Tutto ciò era ben presente anche nell’opera dell’esponente dell’antropologia filosofica che più di tutti è stato «accusato» di essere conservatore e reazionario — «immunitario», nei termini di Esposito. Mi riferisco chiaramente a Gehlen, il quale, infatti, ricordava:
noi conosciamo gli uomini soltanto come esseri culturali, li conosciamo cioè come esseri che si adoperano in una serie di azioni indescrivibilmente multiformi e socialmente mediate, tali cioè che non si potrebbero comprendere senza altre azioni di altri uomini, e che quindi sono state apprese. […] Ogni concreto comportamento è socialmente determinato, membro sistemico di un contesto culturale, appreso e, in linea di principio, possibile anche altrimenti; eppure esso è, virtualmente, investito di istintività, capace in se stesso di adempiersi sino a un punto di saturazione (e non meramente suscettibile di esaurirsi per stanchezza) e, spessissimo, ha una chiara qualità o tonalità propria di un residuo istintuale. […] Quando diciamo che le pulsioni si “cristallizzano” nel corso delle nostre azioni o che soltanto in queste giungono a se stesse divenendo pulsioni determinate, intendiamo dire in primo luogo questo: che la vita pulsionale umana è per sua essenza orientata sulla comunicazione. […] Tutte le pulsioni, anche quelle dell’uomo maturo, sono comunicative […] . Il che vuol dire, in ultima analisi, che persino i bisogni somatici sono involti nei costumi del tempo e della società, e che il loro irradiarsi non ci è noto se non nella rifrazione attraverso i prismi che l’abitudine, la società e quell’accident absolu costituito dal proprio carattere hanno contribuito a sfaccettare. Come l’uomo penetra nel mondo, così il mondo penetra nell’uomo.22
Secondo Gehlen, pertanto, l’intera vita pulsionale umana è per sua essenza orientata sulla comunicazione, sulla relazione-a, sul rapporto con l’alterità, dal momento che «ogni comportamento comunicativo è tale solo in quanto sia di là da sé e si indirizzi su qualcos’altro, in quanto si determini in base ad altro».23 Non bisogna, inoltre, dimenticare che Gehlen aveva individuato nella reciprocità una vera e propria costante dell’agire umano («costante corrente stilistica dell’umano»),24 anzi l’unico vero fondamento di ogni condotta umana, quasi una qualità innata, un vero e proprio «istinto», l’«istinto» alla reciprocità. Tale «istinto» ha bisogno comunque — in quanto umano — della mediazione spirituale-coscienziale, per dirigersi non solo verso gli affetti più prossimi ma anche verso quelli più lontani e astratti, vale a dire che nell’uomo le astratte linee direttrici della coscienza sono in grado di spingere
gli impulsi etici al di là del presente dato e connettono i sentimenti dell’obbligazione a partner invisibili e soltanto immaginabili; […] gli imperativi razionali puntellano l’inattendibilità di questi stessi impulsi. Così si spiega lo straordinario fenomeno del dovere. Gli imperativi sociali argomentano in direzione dell’azione di quegli impulsi e dei loro sentimenti d’obbligo, fanno i conti con la loro labilità e tentano di consolidarsi attraverso la pressione sociale.25
Ciò significa, in primo luogo, che per Gehlen (contrariamente al suo presunto anti-comunitarismo, senza con questo voler cancellare del tutto le aporie in cui cade il suo discorso e che sono state a più riprese e con insistenza sottolineate dalla maggior parte dei suoi commentatori) l’uomo è caratterizzato da un impulso alla socialità e al reciproco riconoscimento, e questo proprio perché per orientare gli impulsi ha bisogno prima di tutto di trovare il sostegno pubblico e di affidarsi a esso. Inoltre, e in secondo luogo, la dimensione di reciprocità è antecedente a ogni specifico e determinato rapporto di pace o di conflitto, in quanto espressione dell’originario essere in comune, del fatto della relazione: bontà o cattiveria possono solo venire dopo, nel senso che la reciprocità può per esempio spingere a ricambiare tanto bontà con bontà quanto cattiveria con cattiveria — reciprocità (il munus sul quale insiste Esposito) significa tendere per natura a ricambiare, essere naturalmente mossi verso l’altro, essere aperti all’altro e dall’altro (una tensione che in ogni caso non può che trovare espressione e conformazione in maniera mediata e culturale). Ripeto, non è certo possibile con questo cancellare la dimensione marcatamente conservatrice e reazionaria dell’antropologia gehleniana, ma si può almeno evidenziare come tale dimensione è solo una possibile declinazione del suo paradigma antropologico, non è in quanto tale insita nei suoi presupposti (anzi, forse è proprio contraria ad alcuni dei suoi più importanti presupposti).
In tal senso, mi sembra errato attribuire al paradigma antropologico di Gehlen (oltre che, per certi versi, alla declinazione politica che egli stesso ne propone) lo stesso sfondo — per esempio — dell’antropologia hobbesiana (che è quanto invece fa Esposito): anzi, se è possibile superare la visione hobbesiana per la quale l’uomo è sì corpo non soltanto naturale in quanto parte del corpo della comunità (del corpo politico),26 ma lo è solo nella misura in cui gli esseri umani (contraenti del patto sociale) sono visti come individui atomici, come funghi che spuntano dalla terra improvvisamente e giungono a piena maturazione senza alcun tipo di coinvolgimento o di relazione reciproci (without all kind of engagement to each other),27 tale possibilità si apre solamente a partire da una concezione nella quale l’essere umano è aperto relazionalmente al mondo — nella quale gli esseri umani, se proprio si vuole restare nell’immagine hobbesiana, sono come spore che emergono dalla terra gradualmente e solamente se lo fanno insieme, relazionandosi l’una all’altra. Occorre pensare tale concezione in profondità, recuperando sino in fondo l’antropologia filosofica, per mettere al centro «la tesi fondamentale, senza la quale l’esperienza umana in generale rimane incomprensibile, […] la tesi del carattere comunicativo di questa esperienza»:28 se è vero che l’uomo, infatti, manca di coordinazioni istintive interspecifiche (coordinazioni genetiche che permettono agli altri animali di porsi in relazione nutrizionale e vitale con un ambiente naturale e con le altre specie animali), egli è nondimeno dotato di coordinazioni (quasi) istintive intraspecifiche, strutture comportamentali che permettono di relazionarsi fin dai primi mesi di vita con i propri simili (come la suzione, il grido di fame che si trasforma in richiamo anticipante la soddisfazione del bisogno da parte del genitore, la lallazione, l’imitazione del gesto, l’indicazione-nominazione) — germi innati di comportamento che però hanno bisogno della mediazione della comunicazione e del linguaggio per consolidarsi e stabilizzarsi. Hanno, cioè e più in generale, bisogno dell’altro. L’uomo, cioè, vive uno stato critico originario, è incapace di avere un accesso immediato e diretto (intuitivo o comportamentale) al mondo, è una specie di aborto cronico e di animale mancato che vive in un ambiente aperto e indeterminato fattosi mondo (Welt) e composto da una quantità pressoché infinita di stimoli sensoriali, da un profluvio di sensazioni cui corrisponde l’incapacità di reagire se non in maniera inizialmente caotica e angosciata e di assegnare fin dall’inizio un senso a tali stimoli per reagirvi tramite un comportamento adeguato e funzionale ai propri bisogni. Proprio per questo, deve sostituire alla dinamica stimolo-reazione-azione consumatoria, propria di quell’animale che possiede comportamenti istintivi inscritti nel corpo dal codice genetico che gli permettono una pronta reazione agli stimoli dell’Umwelt specifica predeterminata, la dinamica appello-risposta-gratificazione, che prende le mosse dai circuiti comportamentali intraspecifici che lo legano ai membri della sua stessa specie e che lo mettono fin dalla nascita in relazione comunicativa con il suo ambiente famigliare, aprendolo a quel circuito comunicativo e attivo rispetto a sé, al mondo che lo circonda e agli altri.29
4. L’uomo e l’alterità: dal modello all’esemplarità
Detto da un altro punto di vista, a partire dall’affermazione, a sfondo biologico, secondo la quale «der Mensch lebt nicht, er führt sein Leben»,30 non si può immediatamente concludere che a livello socio-politico l’uomo abbia bisogno della guida di un Führer per sopravvivere e vivere all’insegna di una piatta sicurezza, perché ciò può significare anche — come suggerisce Max Scheler in Modelli e capi31 — che l’uomo abbia invece bisogno di un Vorbild come stimolo e riferimento per scoprire se stesso, rafforzare la propria identità e il proprio orizzonte affettivo e valoriale in quanto orizzonte sempre e comunque relazionale. In altre parole, l’uomo è quell’animale che necessità di una Bildung che ha inevitabilmente la forma della consegna alla tras-figurazione da parte dell’alterità, ma questo non significa eo ipso che ciò avvenga o debba avvenire — soltanto — come ricerca di un dux «conducente» e non — anche e soprattutto — di un Vorbild.
La teoria scheleriana del Vorbild fonda l’antropologia filosofica proprio sul tema del contagio. Ma tale contagio può avvenire nelle due forme del modello e dell’esemplarità.32 Il modello esprime il fatto, sopra ricordato anche con Gehlen, dell’immediata socialità umana, nel senso che l’uomo deve imparare attingendo al di fuori di sé (alla comunità in cui vive) anche le più apparentemente semplici modalità comportamentali, entrando a far parte di quel «sistema di abitudini» di cui si compone l’intera «vita sociale»:33 l’io umano si configura così come un «io sociale», «chi traccia all’individuo il programma della sua esistenza quotidiana è la società»,34 tanto che «la nostra memoria e la nostra immaginazione vivono di ciò che la società vi ha immesso»35 e che «invano ci si sforza di rappresentarsi un individuo libero da ogni vita sociale».36 La stabilizzazione del comportamento, in questa prospettiva, avviene, per esempio, attraverso l’assunzione del modello della moralità della società, trasmesso per tradizione e per consuetudine (dunque semplicemente riprodotto), eppure, se la relazione dell’uomo con l’alterità si fermasse a questo, ci troveremmo all’interno di una società chiusa (tipica dell’animalità alla quale è preclusa la possibilità dell’individualità), che ha in realtà ben poco a che vedere con quella società aperta che rappresenta invece la possibilità più propria dell’uomo rispetto all’animale.37 Ci troveremmo, cioè, in una situazione nella quale la trasmissione tra esseri umani si ridurrebbe, al più, ai veicoli dell’eredità biologica e della tradizione, fatta di imitazione involontaria e quasi inconsapevole che dà forma a uno schema comportamentale (rispetto agli atteggiamenti, ai modi di esprimersi e alle azioni), determinando così i contorni dell’esperienza possibile (andando cioè a costituire uno Spielraum).38 Oppure, ancora più radicalmente, ci troveremmo di fronte a una situazione in cui la funzione del Vorbild rischia di avvicinarsi quasi a quella del Führer, il quale preme e spinge obbligando ed esercitando un’autorità che richiede quasi cieca sottomissione.
Nulla di tutto questo: ciò che l’uomo può trovare e trova nell’altro considerato quale Vorbild non è solo e non è tanto un riferimento al quale ispirarsi, se inteso come figura alla quale aspirare nel senso del copiare, né tantomeno un’autorità alla quale consegnarsi andando alla ricerca di stabilità e di tranquillità (è qui che il Vorbild sconfina nel Führer), ma è quello stimolo a dirigersi «verso il proprio sé più profondo»,39 a diventare ciò che si è: «l’uomo si solleva grazie ad altri uomini al contempo verso sé»,40riappropriandosi nel presente del proprio passato per aprirsi così consapevolmente al futuro. Se il modello è comunque sempre qualcosa che viene riprodotto, l’esemplarità è ciò che spinge invece alla riproduzione in direzione di se stessi.41 Se il modello è più strettamente legato alle esigenze della riproduzione della società, l’esemplarità è più intimamente connessa con le esigenze della personalità, ma ciò che li accomuna (che li rende entrambi Vorbild) è la dimensione di contaminazione con l’alterità che li caratterizza e alla quale aprono.
È inevitabile che sia così: infatti, la prima e più fondamentale abitudine umana è quella di «contrarre abitudini»,42 vale a dire che la Weltoffenheit che contraddistingue l’uomo mantiene sempre aperta la capacità umana di dar forma a sé e al proprio comportamento, ed è proprio nel mantenimento di tale apertura che si rende possibile il passaggio dal modello all’esemplarità, perché è solo nel momento in cui il primo viene messo in discussione per prenderne le distanze che ci si può aprire alla propria profonda struttura personale e andare così alla ricerca di sé. È solo mettendo in discussione l’alterità nella forma del modello che si può andare in direzione di se stessi e dei propri affetti più profondi, ma è solo nuovamente attraverso l’alterità — nella forma dell’esemplarità — che è possibile compiere tale operazione, ossia aprirsi a se stessi. Ciò è possibile perché l’esemplarità invade il profondo del proprio essere per far germinare qualcosa dal di dentro, lo feconda e lo trasforma, si fa centro propulsivo della crescita del processo di individuazione e di personalizzazione, rettificando quelli di individualizzazione (l’egoismo e l’egocentrismo) e di personificazione (l’impersonalità reificata del ruolo sociale ed economico) e facendo suscitare un’emozione nuova e generatrice di pensiero e di desiderio, un’emozione creatrice e in grado di favorire un progressivo incremento dell’apertura al mondo in direzione del fiorire degli strati affettivi e valoriali più profondi: l’esemplarità sommuove maieuticamente le profondità dell’animo ed è così che e-muove, che emoziona e fa sobbalzare, andando ad agire su un livello prerappresentativo e trascinando nel suo movimento espropriante per favorire al contempo quello appropriante, accompagnando tali movimenti con una melodia imprevedibile e mai ripetitiva, che utilizza note e accordi preesistenti per produrre però un timbro originale e un’armonia coinvolgente e stimolante (accordando e intonando così la Stimmung attraverso la quale la persona si apre al mondo).43
Diventare persone significa prima di tutto prendere coscienza del fatto che anche gli atti più banali e resi meccanici, appresi tramite il riferimento a modelli che possono indurre all’omologazione, sono comunque compiuti in maniera peculiare ed esprimono la propria struttura affettiva e valoriale più profonda, ma tale presa di coscienza è resa possibile solo dall’incontro con quell’esemplarità aurorale che schiude l’interno dall’esterno, strappando l’individuo alla propria autoreferenzialità per indicargli un nuovo cammino nel posizionamento esistenziale nel mondo.44 L’uomo, per esempio, impara a gesticolare, obbedendo alla correttezza imposta dalle diverse situazioni tramite un insieme di procedure uguali per tutti (non esultare a un funerale, non dimenarsi troppo quando si è dal parrucchiere, abbracciare qualcuno quando sembra triste, ecc.), o interiorizzando in maniera inconsapevole movimenti incontrati nel rapporto con gli altri e con il mondo (come i gesti associati alle parole, la postura del corpo, ecc.), ma compie questi gesti in modo proprio e personale, perché essi esprimono sempre e comunque i suoi stati d’animo, i suoi affetti, i suoi pensieri e i suoi valori, e giunge a rendersi conto di questo nel momento in cui incontra un altro che lo scuote e gli fa prendere davvero contatto con se stesso, che gli fa davvero desiderare di essere se stesso nel rapporto inestinguibile e irrinunciabile con l’alterità.45
In questa prospettiva, il dato primario per l’uomo e nell’identità umana è paradossalmente l’alterità, il noi, persino das Man (che anche per Heidegger, però, era ciò a partire dalla cui inautenticità era per il Dasein possibile aprirsi all’autenticità): per essere se stesso, per potere fiorire ed esprimersi compiutamente, l’uomo risulta così come costretto a rinascere, mettendo in discussione tutto ciò che ha appreso, ereditato, imparato, e così via. Che l’uomo venga al mondo privo di istinti guida significa che non possiede dalla nascita un’identità specifica, che deve attivamente costruirla da subito, e costruire a partire dalla non specificità, figlia della fuoriuscita dall’Umwelt, significa essere consegnati all’apertura nella forma dell’apertura all’alterità, in modo tale che la costruzione di sé e del proprio mondo avviene prima attraverso l’assunzione dei modelli e dei comportamenti incontrati nella società e nella comunità, e dopo attraverso l’emersione della propria personalità e dei propri affetti: l’uomo, dunque, deve nascere una seconda volta per essere davvero nato, ma può farlo sempre e comunque attraverso l’alterità, che lo scuote e lo espone alla necessità di prendere posizione attivamente e in maniera personale attraverso la sua sola presenza (un caso emblematico è quello del silenzio dell’amico, che fa spazio e spinge a raccontare le proprie emozioni facendo così prendere consapevole contatto con esse; proprio per questo spesso il migliore amico non è il migliore consigliere ma il miglior ascoltatore). Giusto per fare un esempio, si diventa davvero genitori non semplicemente quando si agisce come i propri genitori, ma quando si prende consapevolezza che il loro modo di agire era solamente uno dei tanti possibili modi e non per forza il proprio, o che esso è diventato anche il proprio modo solamente in seguito alla piena presa di coscienza.46 L’uomo può diventare se stesso solamente attraverso l’altro, e l’esemplarità è la traduzione pratica di questo aspetto ontico e ontologico fondamentale nel suo essere radicato nella biologia umana: la Bildung può aver luogo solamente come «Vorbildung» che conduce a una Umbildung (sempre aperta, sempre in divenire, sempre incompiuta), l’esemplarità (Vorbild) rappresenta per l’uomo qualcosa di «altro» rispetto a sé, eppure è quell’altro al quale tentare di accostarsi e al quale riferirsi, per riprodurlo, per coglierlo in quanto punto di appoggio in vista dello slancio e del superamento in direzione di se stessi, in vista della possibilità di diventare un giorno modelli a se stessi, completamente immanenti a se stessi (anche se è proprio in quel momento che l’apertura rischierebbe di tradursi, in quanto pericolosamente vicina all’auto-compiacimento, in una chiusura, che, per quanto appagante e pacifica, nega l’apertura al mondo e all’altro propria dell’uomo). In questo senso, per l’uomo l’esempio non rappresenta un progetto predefinito e prestabilito da realizzare per filo e per segno, non è un tipo ideale, ma è qualcosa di dinamicamente aperto, segnato da un’incompletezza e da un’incompiutezza che lo rendono fecondo e promettente, in grado di promuovere l’incessante movimento di trascendimento verso se stessi, un se stessi non precedentemente dato (in quanto anch’esso sempre incompiuto e di là da venire) ma sempre e solo risultante — provvisoriamente — dal movimento stesso.47
È come se l’uomo, chiamato alla cura sui e alle tecniche del sé (chiamato a essere, per così dire, l’artigiano della vita, della buona vita) dovesse entrare a far parte di una bottega dei mestieri per imparare a vivere assecondando se stesso, seguendo la propria persona negli strati più profondi della sua struttura dinamica, bottega nella quale se l’allievo migliore è quello che supera il maestro, il maestro più capace è quello che cerca di farsi superare dall’allievo, dove «superare» non significa semplicemente diventare «migliore di», bensì significa imparare il mestiere secondo il proprio stile, in modo proprio, significa cioè giungere a esprimere il proprio talento attraverso gli insegnamenti ricevuti. Senza dimenticare che per l’uomo l’esposizione è totale e la contaminazione è incessante, tanto che non c’è maestro che non sia anche allievo e viceversa, vale a dire che non c’è maestro che non sia prima di tutto allievo nell’atto di mostrare la via — anche perché apprende prima di tutto proprio il senso dell’essere maestro — , come non c’è allievo che non sia prima di tutto maestro nell’atto di imparare — perché mostra al maestro una modalità creativa, peculiare e imprevista di appropriarsi degli insegnamenti (senza dimenticare che non esistono maestro e allievo che all’interno della relazione dinamica che li espone l’uno all’altro). Tutto questo, in maniera forse eccessivamente sintetica, potrebbe essere compreso attraverso il concetto di mimesis, perché l’imitazione umana è proprio quell’accostarsi all’altro lasciandosi da esso attraversare non per rieseguire in maniera fedele e pedissequa il suo movimento, ma in vista di un’attiva creazione, è cioè una ripetizione deviante e feconda o (con Deleuze) una ripetizione che opera tramite differenza e una differenziazione che si attua tramite ripetizione: non è allora casuale che già nel mondo greco (si pensi soprattutto ad Aristotele) era ben chiaro tanto che l’uomo possedesse l’«istinto» mimetico quanto che la techne fosse mimesis della physis (non solo dei suoi prodotti, ma soprattutto della sua capacità di produrre). L’imitazione, in altri termini, si rivela come la più profonda espressione della naturale culturalità umana, del bisogno specificamente umano di riferirsi al mondo e all’alterità per ritagliarsi il proprio spazio e per andare alla ricerca di se stesso,48 della necessità dell’uomo di prendere spunto da ciò che incontra per creare il nuovo e l’imprevisto. Ebbene, è evidente che tutto questo è stato pensato con forza proprio dall’antropologia filosofica: l’uomo come essere dinamicamente aperto al futuro e non solo non specificamente definito «in partenza», ma anche se non soprattutto non compiutamente stabilizzato «in arrivo».
5. L’uomo: animale r(el)azionale e potenziale
In ragione di quanto sin qui affermato, è certo vero che una vita sicura, all’insegna della securitas, un’esistenza sine cura è per l’uomo impossibile (lo è proprio a livello biologico innanzitutto), e per questo può avere ragione Esposito: l’ossessiva ricerca della sicurezza è qualcosa che stravolge la vita dell’uomo, facendola come implodere su se stessa. Occorre, però, ripensare il senso di una tale affermazione e del fatto che l’uomo è al mondo nella condizione di una costitutiva e incancellabile insecuritas, per vedere nella securitas non solo qualcosa di meramente reattivo o immunizzante: occorrerebbe, cioè, passare — ed è possibile farlo proprio attraverso il paradigma dell’antropologia filosofica — dalla «sicurezza» intesa come l’altro rispetto a cui pre-munirsi e im-munizzarsi, da cui proteggersi, alla «sicurezza» intesa come l’altro di cui prendersi cura e da cui lasciarsi prendere in cura. L’altro è colui di cui ci si pre-occupa: non soltanto in quanto se ne prendono le distanze perché suscita timore e una certa diffidenza, bensì — e soprattutto — in quanto si va verso di lui occupandosene prima ancora che egli lo faccia di sé in prima persona (trova spazio il duplice senso del «mi preoccupo di te», «mi fai preoccupare», «mi dai preoccupazioni», «mi preoccupi»: provo affetto per te e voglio che tu sia al sicuro e che stia bene, ma al tempo stesso mi impaurisci, mi dai pensieri e affanni dai quali talvolta vorrei come sentirmi sollevato — esonerato). Non si può, dunque, essere senza-cura, senza cura dell’altro nel senso doppio del genitivo — mi prendo cura dell’altro che si prende cura di me e viceversa, in un infinito rimando speculare — , ma nemmeno, in fondo, senza affanno, senza preoccupazione, dunque senza che l’altro sia in qualche modo qualcosa che desta anche problemi, qualcuno la cui presenza sconvolge e stravolge l’esistenza in ragione di una relazione che assume in prima battuta la forma della vera e propria dipendenza. Se c’è una paura all’origine dell’umano, essa non è, come voleva Hobbes, la paura dell’altro, bensì, come voleva Spinoza, la «paura della solitudine»:49 la paura di restare senza l’altro, legata tanto al fatto che si percepisce di dipenderne e di averne bisogno, quanto a quello che si avverte la necessità di condividere il mondo e di mettere in comune la profondità del proprio animo per rischiararne gli anfratti. La paura della solitudine è così immediatamente apertura del bisogno e del desiderio del contatto con l’alterità.
Non c’è Weltoffenheit per l’uomo, alla luce del percorso sin qui compiuto, se non nella forma della Mitweltoffenheit: razionalità significa relazionalità, non c’è logos che nel dia-logo, l’uomo è un animale r (el) azionale, non c’è azione senza l’esperienza dell’altro, che fa del comportamento una vera e propria possibilità di agire, e non c’è significato senza l’apparizione dell’altro, che trasforma stimoli e pulsioni in significati, in possibilità di libertà (l’istinto viene meno nel momento in cui l’eccedente carico energetico pulsionale viene dif-ferito per diventare ri-ferito, cioè qualcosa di eteroriferito, di riferito a, e si può aprire, come rimando, al significato, all’a che, alla dimensione dell’ulteriorità e al pre-ferire) — l’uomo è l’essere responsivo (e dunque responsabile: c’è Verantwortung solamente laddove esiste possibilità di antworten) nella forma della cor-responsività: l’uomo è l’essere corresponsivo. Je est un autre, scriveva Rimbaud: «poiché l’identità non è un “dato” da cui si possa partire, quanto piuttosto il prodotto di un processo attraverso il quale si giunge a riconoscere la propria identità, è soltanto attraverso la relazione con l’altro, attraverso il riconoscimento dell’étran-je, che io produco la mia identità».50 Possiamo, dunque, parlare dell’uomo — bipede barcollante51 e insieme animale autopoietico che, per parafrasare Humboldt, fa sé facendo un uso infinito di mezzi finiti, ricordando però che non c’è poiesi se non laddove c’è relazione con quanto circonda52 — come dell’animale razionale, a patto però di vedere nell’uomo l’animale razionale dipendente e vulnerabile nella sua costitutiva finitudine, che fa dell’umanità, dell’indipendenza e dell’autonomia non un semplice punto di partenza ma la condizione di arrivo, o — meglio ancora — la condizione verso la quale l’animale razionale dipendente incessantemente cerca di arrivare:53 «la condizione umana non riguarda l’autonomia, ma la dipendenza. […] La perfetta autonomia individuale potrebbe trasformare gli esseri umani in mostri. […] La mutua dipendenza […] è intrinseca alla condizione umana».54 L’animale razionale dipendente è l’animale r (el) azionale e l’«essere vivente che dà risposte»,55 è anzi nient’altro che r (el) azionalità e responsività, è apertura esposta e vulnerabile al mondo, ed è per questo che per l’uomo, essere alla ricerca (prima di tutto di se stesso, eterno bambino ed eterno filosofo — ma dire bambino e dire filosofo è dire la stessa cosa: «la filosofia ha sempre posto domande infantili: continuiamo a frequentarle»),56 non c’è azione che non sia insieme, in quanto risposta ovvero azione responsiva, re-azione e relazione. Per l’uomo, dunque, non c’è azione se non nella forma della re (l) azione. «L’uomo non è che un nodo di relazioni, solamente le relazioni contano per l’uomo»:57 l’uomo è tale in quanto consegnato alla Weltoffenheit, ma non ha mondo se non nella forma della Mit-Welt, così come non conosce apertura se non nella forma della Mit-Offenheit: parlare di uomo significa parlare di Mit-Welt-Mit-Offenheit — di Mitweltoffenheit.
Facendo un ulteriore passo, credo che sempre il paradigma dell’antropologia filosofica, nella sua capacità di pensare il paradossale ma costitutivo legame tra identità e alterità nell’esistenza umana, possa offrire spunti fecondi per comprendere il fenomeno del post-umano,58 nonché le recenti teorie della mente estesa59 e della conoscenza incarnata,60 in quanto è proprio in tale paradigma che sono state tematizzate con forza l’idea della necessità per l’uomo di un supplemento tecnico in grado non solo di estendere facoltà e capacità ma di andarle addirittura a costituire o, portando all’estremo la logica dell’esonero organico, a sostituire,61 unitamente a quelle dell’eccedenza e dell’eccentricità che fanno dell’uomo un essere costitutivamente eteroriferito, in ibridazione e aperto alla contaminazione extra-organica: è all’antropologia filosofica che dobbiamo la formulazione dell’ancora inesplorata reciproca connessione/esclusione tra biologico e artificiale,62è all’antropologia filosofica che dobbiamo la considerazione dell’uomo come essere che trasforma attivamente tanto il mondo quanto sé nel mondo e tramite esso, venendo a sua volta «retro-trasformato» dal mondo ritagliato ed elaborato, è all’antropologia filosofica che dobbiamo l’affermazione che le capacità umane non sono mai state semplicemente naturali, ma sempre frutto dell’aumento protesico e del potenziamento fatto di rapporti con il proprio «oltre» e il proprio «fuori».63
È solo a partire da un’adeguata comprensione dell’umano, in quanto apertura trascendente e relazionale al e del mondo, che è possibile pensare l’oltre-umano, pensare l’oltre in quanto tale, pensare — come vuole Esposito — la vita nella sua assoluta e impersonale immanenza a se stessa, nella sua inesausta capacità di auto-oltrepassamento. Bisogna, però, fare attenzione: a essere sempre oltre umano è l’uomo, non tanto «la vita», e questo l’aveva capito anche quello che è stato il primo vero «profeta» del post-umano (che lo si voglia intendere nel senso «tecnologico» o in quello dell’«elevazione di sé»), Nietzsche, il quale parlava sì, com’è noto, dell’Übermensch, ma affermava al contempo di amare nell’uomo proprio il suo essere Übergang e Untergang, transizione e tramonto, il suo essere cioè sempre al di là di sé e sempre in ricerca di sé attraverso il superamento di sé, di ogni configurazione esistenziale occlusiva e asfittica. Ciò che c’è da amare nell’uomo (che certo è una manifestazione vitale e parte del movimento della vita, ma è la manifestazione umana del movimento della vita) è proprio il suo essere oltre l’uomo, mai troppo uguale a se stesso e mai compiutamente stabilizzato, mai nato una volta per tutte.64 Se c’è un gesto propriamente umano, esso può trovare esplicitazione nel tentativo di passare dalla nascita subita alla nascita agita, facendo emergere e assecondando ciò che anima e muove la propria essenza e la propria persona nel profondo per portarlo a espressione in maniera creativa: in questo senso, la nascita agita non è semplice separazione od opposizione rispetto a quella subita, non esiste qualcosa come una creatio ex nihilo nell’esistenza umana, esiste soltanto la possibilità (ed è nell’apertura di questo spazio che si gioca la questione della libertà) di far sviluppare e sbocciare — di s-fruttare — l’indeterminatezza e l’incompiutezza che non sono un semplice nulla, un mero non essere, né tantomeno una possibilità che porta già in sé la struttura della realtà, ma l’indicazione di una forma, l’abbozzo di un cammino, l’espressione di un vuoto da colmare lasciandosi guidare in esso.
Lo spazio esistenziale proprio dell’uomo, eccentrico rispetto all’Umwelt e consegnato all’aperto, è dunque quello della potenzialità, e parlare di potenzialità significa non solo e non tanto parlare di una possibilità-di, ma anche e soprattutto della possibilità-di-non: quella umana è possibilità generica, come anche Marx aveva saputo cogliere, vale a dire che la potenza dell’uomo non è come la potenza del seme, che è quercia-in-potenza e non può non diventare quercia (giacché, se anche non lo diventasse, sarebbe non-diventato-quercia), ossia è potenza-di-non, ed è proprio qui che si intravede la paradossalità e l’ambiguità che caratterizzano ogni più apparentemente insignificante azione e atto umani. A tal proposito, Agamben scrive:
è proprio questa ambivalenza specifica di ogni potenza, che è sempre potenza di essere e di non essere, di fare e di non fare, che definisce la potenza umana. L’uomo è, cioè, il vivente che, esistendo sul modo della potenza, può tanto una cosa che il suo contrario, sia fare che non fare. Questo lo espone, più di ogni altro vivente, al rischio dell’errore ma, insieme, gli permette di accumulare e padroneggiare liberamente le proprie capacità, di trasformarle in “facoltà”. Poiché non soltanto la misura di ciò che qualcuno può fare, ma anche e innanzitutto la capacità di mantenersi in relazione con la propria possibilità di non farlo definisce il rango della sua azione. Mentre il fuoco può soltanto bruciare e gli altri viventi possono soltanto la propria potenza specifica, possono solo questo o quel comportamento iscritto nella loro vocazione biologica, l’uomo è l’animale che può la propria impotenza.65
Solo un essere che ha la propria possibilità specifica in quella generica, che ha la propria potenza nella potenza-di-non, può essere tale da esser se stesso solamente non essendo mai del tutto e univocamente se stesso: solamente l’uomo potrà essere oltre e sovra (ma anche sub) umano, ma questo «Über» ha prima di tutto impresso il marchio della relazione, del contatto e della contaminazione con l’alterità.66 Che l’uomo sia sempre oltre-umano, in conclusione, significa prima di tutto che egli è umano solamente se si apre all’alterità e alla diversità, solamente in quanto — in ultima istanza — co-umano, per così dire:67 «l’uomo […] diviene uomo soltanto tra gli uomini»;68 «occorre essere almeno in due per essere umano».69 Non si nasce umani, ma lo si può diventare, e lo si può diventare solamente insieme; non si nasce se stessi, ma lo si può diventare, e lo si può diventare solamente attraverso l’altro da sé.
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Per una prima definizione cfr. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 25-39. ↩︎
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R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, p. 3. ↩︎
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Ivi, p. 4. ↩︎
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Ivi, p. 10. ↩︎
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Cfr. I. Kant, Logica (1800), a cura di L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 19. ↩︎
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Cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, nuova ed. ampliata, Einaudi, Torino 2006, pp. 5-21. ↩︎
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Cfr. R. Esposito, Immunitas, op. cit., pp. 95-131. ↩︎
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Secondo quanto si afferma anche in G. Deleuze, L’immanenza: una vita…(1995), tr. it. di F. Polidori, Mimesis, Milano-Udine 2010. ↩︎
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Tale prospettiva viene sviluppata particolarmente in R. Esposito, Terza persona, op. cit. ↩︎
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Delle altre questioni critiche indicate mi sono occupato nel mio ampio lavoro di tesi magistrale in filosofia ancora inedito. ↩︎
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Cfr. L. Bolk, Il problema dell’ominazione (1926), tr. it. di S. Esposito rivista da R. Bonito Oliva, introduzione di R. Bonito Oliva, DeriveApprodi, Roma 2006. ↩︎
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Cfr. M. Mazzeo, Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole, Editori Riuniti, Roma 2003, pp. 122 s. ↩︎
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Ivi, p. 104. ↩︎
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Ivi, p. 125. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I. Bolle — Microsferologia (1998), a cura di G. Bonaiuti, saggio introduttivo di B. Accarino, Meltemi, Roma 2009, pp. 294-324. ↩︎
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M. Mazzeo, Tatto e linguaggio, op. cit., p. 212. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 216. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 107. ↩︎
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A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. di C. Mainoldi, introduzione di K.-S. Rehberg, a cura di V. Rasini, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 395-397 e 415. ↩︎
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Ivi, p. 293. ↩︎
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A. Gehlen, Morale e ipermorale. Per un’etica pluralista (1969), tr. it. di U. Fadini e A. Bernini, a cura di U. Fadini, Ombre Corte, Verona 2001, p. 66. ↩︎
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Ivi, p. 70. ↩︎
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Cfr. T. Hobbes, Elementi di filosofia. Il corpo — L’uomo (1655-1658), a cura di A. Negri, UTET, Torino 1972, p. 493. ↩︎
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Cfr. T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino (1649), a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2005, p. 99. ↩︎
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A. Gehlen, L’uomo, op. cit., p. 215. ↩︎
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Per un approfondimento di questi aspetti rimando alle stimolanti pagine di Alberto Gualandi, in particolare a La struttura comunicativa dell’esperienza umana, in: «Discipline filosofiche», XII, I: L’uomo, un progetto incompiuto. Vol. I: «Significato e attualità dell’antropologia filosofica», 2002, pp. 255-297. ↩︎
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Cfr. p. e. A. Gehlen, L’uomo, op. cit., p. 53 e H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica (1928), tr. it. di U. Fadini, E. Lombardi Vallauri e V. Rasini, revisione generale di V. Rasini, introduzione di V. Rasini, postfazione di U. Fadini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 333. ↩︎
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Cfr. M. Scheler, Modelli e capi. Per un personalismo etico in sociologia e filosofia della storia (1912-1926), a cura di E. Caminada, con un Saggio introduttivo di G. Cusinato Franco Angeli, Milano 2011. ↩︎
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Ho qui presente le analisi sul concetto di esemplarità (Vorbild) in: G. Cusinato, La Totalità Incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Franco Angeli, Milano 2008. Interessanti sono anche le riflessioni che Alessandro Ferrara propone intorno al concetto di esempio in rapporto alla pratica (sottolineando in particolare la forza normativa e innovativa insita nell’esempio — accanto a quella che incorpora e riflette una norma già vigente e conosciuta — ossia la singolarità insita in ogni esempio), cercando di definire un universalismo esemplare in grado di orientare il giudizio pratico e di aprire la strada alla phronesis: cfr. A. Ferrara, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Milano 2008. La struttura dell’esempio coincide con quella del paradigma, secondo alcune importanti osservazioni di Agamben che vale la pena di riportare: «in qualsiasi ambito esso faccia valere la sua forza, ciò che caratterizza l’esempio è che esso vale per tutti i casi dello stesso genere e, insieme, è incluso fra di essi. Esso è una singolarità fra le altre, che sta però in luogo di ciascuna di esse, vale per tutte. Da una parte, ogni esempio è trattato, infatti, come un caso particolare reale; dall’altra, resta inteso che esso non può valere nella sua particolarità. Né particolare né universale, l’esempio è un oggetto singolare che, per così dire, si dà a vedere come tale, mostra la sua singolarità. Di qui la pregnanza del termine che in greco esprime l’esempio: para-deigma, ciò che si mostra accanto (come il tedesco Bei-spiel, ciò che gioca accanto). Poiché il luogo proprio dell’esempio è sempre accanto a se stesso, nello spazio vuoto in cui si svolge la sua vita inqualificabile e indimenticabile. […] Di qui l’impotente onnivalenza dell’essere qualunque. Non si tratta né di apatia né di promiscuità o rassegnazione. Queste singolarità pure comunicano soltanto nello spazio vuoto dell’esempio, senza essere legate da alcune proprietà comune, da alcuna identità. Esse si sono espropriate di tutte le identità, per appropriarsi dell’appartenenza stessa» (G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 14; ma cfr. anche Id., Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 31-34). ↩︎
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Cfr. H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione (1932), tr. it. di M. Vinciguerra, con uno scritto di G. Deleuze, SE, Milano 2006, pp. 11-14. ↩︎
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Ivi, p. 19. ↩︎
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Ivi, p. 16, e questo soprattutto perché «l’anima della società è immanente al linguaggio che parliamo, e perché, anche se non c’è nessuno, anche se non facciamo che pensare, parliamo ancora a noi stessi» (ibidem). ↩︎
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Ibidem. Infatti, prosegue Bergson, «anche materialmente Robinson, nella sua isola, resta in contatto con gli altri uomini, perché i manufatti che ha salvato dal naufragio, e senza i quali non si trarrebbe d’impaccio, lo mantengono nella sfera della civiltà e di conseguenza nella società» (ibidem). In merito alla dimensione sociale dell’io da tenere in considerazione è anche G. H. Mead, Mente, Sé e Società (1934), tr. it. di R. Tettucci, introduzione di C. Morris, Giunti Barbera, Firenze 1966, e in particolare le pp. 153-233. ↩︎
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Seguendo la distinzione che percorre l’intera opera di Bergson, Le due fonti, op. cit. ↩︎
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Riprendo liberamente alcune considerazioni presenti in M. Scheler, Modelli e capi, op. cit., pp. 68-70. ↩︎
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Ivi, p. 67. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Come sottolinea Cusinato, «l’esempio promuove la differenza individuale, invece il modello produce livellamento» (G. Cusinato, La totalità incompiuta, op. cit., 227). L’esempio dà vita a un legame in cui viene sentita «una crescita della densità esistenziale» (ibidem): «nel fenomeno esemplare si verifica un incontro […] che non porta alla scomparsa, ma al rafforzamento dell’identità qualitativa» (ivi, p. 228). ↩︎
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Cfr. H. Bergson, Le due fonti, op. cit., pp. 24-29. ↩︎
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Cfr. ivi, pp. 30-80, e G. Cusinato, L’esemplarità aurorale, saggio introduttivo a M. Scheler, Modelli e capi, op. cit., pp. 9-24, pagine che mostrano molteplici consonanze tra di loro. Sulla dimensione prerappresentativa e affettiva dei valori e della Stimmung personali si tenga anche presente G. Cusinato, La totalità incompiuta, op. cit., pp. 103-119 e 137-141. Il tema della necessità dell’incontro con l’altro per dar via al processo di crescita della persona, intesa come punto di vista sull’universo, centro di libertà e di responsabilità e capacità di portare il nuovo al mondo (all’insegna sempre del costante rinnovamento e dell’incessante ridefinizione), lo troviamo al centro anche di R. De Monticelli, La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, Milano 2009. ↩︎
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Cfr. G. Cusinato, L’esemplarità aurorale, op. cit., pp. 8 s. ↩︎
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Per esempio, l’incontro con un maestro di recitazione può spingermi a prendere coscienza del significato di gesti e di movimenti che compio in maniera inconsapevole, per giungere a renderli il più possibile espressione di quanto sento e di quanto provo, ma anche il più possibile accoglienti rispetto all’altro che incontro: il maestro non chiede, né desidera che io ripeta i suoi gesti o che dia lo stesso significato a gesti simili che entrambi compiamo, né tantomeno mi spinge a far tutto ciò, ma provoca una scossa in me tale che sento il bisogno di compiere consapevolmente i miei gesti e movimenti attribuendo loro quei significati che ritrovo nel profondo di me stesso, per potermi così relazionare all’altro in maniera più feconda, produttiva e appagante. ↩︎
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In questo senso più l’uomo si libera dal passato ricomprendendolo attivamente attraverso il presente meno si dissipa e si disgrega e più si apre al futuro, accentuando, intensificando e densificando la propria esistenza, abbandonandosi cioè alla trasformazione della propria condizione in direzione della sua più profonda essenza. ↩︎
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Scrive Cusinato: «il Vorbild non è uno schema da copiare o idealizzare, ma un esempio concreto in grado di mettere in moto un processo e di aprire al cambiamento […]. La perfezione [dell’essenza] non consiste nell’essere un progetto definito nei minimi dettagli, ma nel diventare il progettante stesso. L’essenza è perfetta non in quanto compiuta, bensì in quanto incompiuta, perché tale incompiutezza ne indica l’inesauribilità creativa, la capacità di promuovere ulteriore fecondità, di mantenere aperto uno spazio innanzi a sé. L’essenza che ha una “compiutezza perfetta” agisce come una gabbia o una barriera statica, invece quella caratterizzata da “incompiutezza perfetta” è un orizzonte che si amplia all’infinito» (G. Cusinato, La totalità incompiuta, op. cit., 277 e 284). ↩︎
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E, viceversa, l’uomo sembra incontrare se stesso in ogni suo approccio verso ciò che dovrebbe di per sé essere non umano. Non dimentichiamo che l’altro «istinto» che Aristotele attribuisce all’uomo è quello per la verità: il rapporto umano con il mondo è un rapporto mimetico e speculare, l’uomo può approcciarsi alla realtà aderendo a essa in maniera selettiva e attiva, ossia scostandosi da essa e andando al di là di essa proprio nel momento in cui vi si avvicina per coglierla. ↩︎
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Cfr. B. Spinoza, Trattato politico (1677), a cura di E. Droetto, Einaudi, Torino 1958, pp. 214, 219 e 221. ↩︎
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U. Curi, Straniero, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 139. ↩︎
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Cfr. P. V. Tobias, Il bipede barcollante (1982), tr. it. di L. Comoglio, Einaudi, Torino 1992. ↩︎
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Cfr. F. Gambardella, L’animale autopoietico. Antropologia e biologia alla luce del postumano, Mimesis, Milano-Udine 2010. ↩︎
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Cfr. A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù (1999), tr. it. di M. D’Avenia, Vita e Pensiero, Milano 2001. ↩︎
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A. Heller, Per un’antropologia della modernità (2008), a cura di U. Perone, Rosenberg & Sellier, Torino 2009, pp. 126 e 128. ↩︎
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B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneo (2006), a cura di F. G. Menga, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 72. ↩︎
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A. Heller, Per un’antropologia della modernità, op. cit., p. 109. ↩︎
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M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 581. ↩︎
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Cfr. p. e. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, nonché D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1985), a cura di R. Braidotti, Feltrinelli, Milano 1995, emblematico del «ponte naturale» gettato tra alcune direzioni del femminismo contemporaneo e il trans umanesimo. ↩︎
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Cfr. in particolare A. Clark, Being There. Putting Brain, Body, and World Together Again, MIT Press, Cambridge 1997; Id., Natural-Born Cyborgs: Minds, Technologies and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press 2003; Clark A., Chalmers D., The Extended Mind, in “Analysis”, 58 (1), 1998, pp. 7-19; R. Manzotti, V. Tagliasco, L’esperienza. Perché i neuroni non spiegano tutto, Codice edizioni, Torino 2008. ↩︎
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Cfr. p. e. C. Cellucci, Perché ancora la filosofia, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 318-331; S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive (2008), tr. it. di P. Pedrini, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 197-230; A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza (2009), tr. it. di S. Zipoli Caiani, Raffaello Cortina, Milano 2010. ↩︎
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Supplemento che così, come voleva per versi diversi anche Derrida, si rivela originario e mostra all’opera quella logica del pharmakon che fa sì che nel momento in cui viene a sostegno quasi «uccide» ciò che dovrebbe soccorrere — come affermava Platone a proposito del rapporto tra parola parlata e scritta. ↩︎
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Per questo, giungiamo ad affermare, l’antropologia filosofica si situa sul piano più propriamente trascendentale, fonda il piano trascendentale, in quanto piano che rende possibile l’esperienza essendo in essa e non separato da essa ma senza ridursi a essa: trascendentale è il piano del naturale-artificiale (né semplicemente trascendente — artificiale come artificioso — né semplicemente immanente — naturale come spontaneo e immediato), è il piano del faktum della libertà noumenica che possiede consistenza propria senza però essere possibile al di fuori di quanto è fenomenico, è quell’oltre-natura all’interno della natura che rende possibile la piena esplicazione della natura (umana) pur non riducendosi a nulla di semplicemente naturale. ↩︎
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Cfr. N. Rose, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo (2007), tr. it. di M. Marchetti e G. Pipitone, Einaudi, Torino 2008, pp. 129 e 161. ↩︎
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In alcuni densi passaggi Cusinato ha sottolineato che «uno dei risultati più rilevanti dell’antropologia filosofica del Novecento è stato quello di mettere in luce come l’uomo non sia descrivibile nel senso di una natura umana fissa e predeterminata. L’identità dell’umano va piuttosto ricompresa a partire dalla capacità di trascendersi e rinascere, a partire da un processo di trasformazione che caratterizza, seppur in gradi diversi, il vivere di ogni uomo. L’uomo è l’essere che si incarica di assumere una forma che in natura non è già a disposizione, una forma che non è neppure deducibile dal proprio presente autoreferenziale, come avviene nell’ipotesi auto progettuale. […] [In relazione ai risultati dell’antropologia filosofica del Novecento] l’uomo è tale non per possedere determinate caratteristiche biologiche e nemmeno in virtù di una natura umana fissa e compiuta, che l’uomo riceverebbe con la nascita. Piuttosto l’uomo è quell’essere che dà forma a una seconda natura excentrica. Questo significa che nell’uomo i processi culturali non sono più orientati dalla logica ambientale, come avviene nell’animale, ma si sviluppano in uno spazio aperto (Weltoffenheit)» (G. Cusinato, Sull’esemplarità aurorale, op. cit., pp. 10 e 24). ↩︎
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G. Agamben, Nudità, nottetempo, Roma 2009, p. 68. ↩︎
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A tal proposito ricordiamo alcune significative affermazioni gehleniane, per le quali «l’uomo non può affermare nulla di sé in modo diretto, ma si concepisce solo a partire dal non-umano, nel confronto e nella contemporanea distinzione di sé da quello. […] Confrontarsi con un non-io, con un altro-dall’-umano e, nel compiere questo confronto, distinguersi nuovamente da esso, fa parte dei tratti caratteristici essenziali dell’uomo, probabilmente perché l’uomo deve includersi nella realtà effettiva del mondo se vuole consolidare e comprovare la propria concezione di sé nell’azione» (A. Gehlen, L’origine dell’uomo e la tarda cultura (1956), tr. it. di E. Tetamo, prefazione di R. Madera, il Saggiatore, Milano 1994, pp. 113 e 277). Alberto Gualandi, commentando tali passaggi all’interno di uno scritto che cerca di mostrare come l’interpretazione «anti-comunitaria» e «immunitaria» dell’antropologia di Gehlen sia eccessivamente limitata, ha affermato: «l’uomo è un essere che non può comprendere se stesso senza trascendersi metaforicamente, senza “trans-ferire” (meta-pherein) sé nell’Altro» (A. Gualandi, La logica antropobiologica della storia: una rilettura di ‘Urmensch und Spätkultur’, in: «Etica & Politica», XII, 2010, 2, pp. 178-223: 180). ↩︎
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Sulla possibilità di una Mitanthropologie si veda l’interessante A. Cera, Io con tu. Karl Löwith e la possibilità di una Mitanthropologie, prefazione di E. Mazzarella, Guida, Napoli 2007, dove si argomenta, si approfondisce e si problematizza, a partire da Karl Löwith (in particolare dal suo scritto di abilitazione intitolato L’individuo nel ruolo del co-uomo (1928), a cura di A. Cera, Guida, Napoli 2007) e ben sottolineando lo sfondo dal quale parte l’autore tedesco, cioè quello per cui l’uomo è un ente unnatürlich per natura e dunque contrassegnato dalla Zweideutigkeit, la tesi secondo la quale «l’accesso a sé va inteso alla stregua di un ritorno. Si giunge al proprio (all’individuo che si è) a partire da ciò che è in comune, dall’essere-l’uno-con-l’altro, dal Miteinandersein (dalla persona che si è). Il che, a sua volta, risulta plausibile in virtù del fatto che la propria autentica individualità — ossia, ciò che si ha (che si è) di “più che relazionale” — non può che forgiarsi in guisa relazionale, nel Miteinandersein» (A. Cera, Io con tu, op. cit., p. 68): con gli esseri umani non ci si può che trovare in relazione. Anche il più spietato e asettico individualismo atomistico, paradossalmente, è un fatto sociale: per esempio, il solipsismo economicista tipico del modo di produzione capitalistico contemporaneo è pur sempre conseguenza di una particolare modo di produzione sociale e comune, vale a dire che, molto semplicemente, anche quando ci si trova di fronte a individui isolati in competizione tra di loro per accaparrarsi quante più risorse possibili per sé, si è sempre e comunque di fronte a una forma di relazione che li definisce in quanto individui l’uno contro l’altro, modalità relazionale che può certo avere la forma della «competizione» e dell’«esclusione» ma che resta pur sempre una modalità di porre gli esseri umani in un determinato modo l’uno rispetto all’altro. L’apertura al mondo propria dell’uomo è tale che gli uomini sono «con» e «insieme» persino quando sono «contro». Non c’è egoismo che rispetto a un altro, rispetto all’altro. ↩︎
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J. G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza (1796-1797), a cura di L. Fonnesu, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 39. ↩︎
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A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel. Lezioni sulla “Fenomenologia dello Spirito” tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études raccolte e pubblicate da Raymond Queneau (1947), a cura di G. Frigo, Adelphi, Milano 1996, p. 214. ↩︎