Il deserto, escludendo la dimora, apre alla erranza fondamentale dell’uomo l’infinito altrove. Qui, nessun qui ha senso. E quando la voce umana s’eleva in questo centro annullato, avviene sempre, in seno ad ogni parola, un combattimento tra Presenza e Assenza ed è l’Assenza che vince.
G. Bounoure, Edmond Jabès. La demeure et le livre, «Mercure de France», gennaio 1965.
1. Parricidio e alterità. Essere altrimenti e Altrimenti che essere
Queste note a margine,1 lungi dal pretendere d’esaurire, o soltanto approssimare, la scorta critica sul problema dell’alterità — che è di certo il clinamen sul quale il Nuovo Pensiero, di matrice neo-ebraica,2 ha imbastito la propria proposta filosofica, anche prima della tragica esperienza della shoà — tendono esclusivamente ad annunciarne gli ambiti, nella consapevolezza di mancare ad ogni possibile risposta esaustiva, come anche ad una definizione circostanziata dell’argomento. Si cercherà soltanto di tratteggiare, almeno per grandi linee, i contorni della questione — i suoi margini, per dirla con Jabès — così come essi s’inscrivono — a partire proprio dalla loro origine socratico-platonica — all’interno di un certo ambito del pensiero filosofico contemporaneo; in seguito si tenterà di fornire alcuni elementi utili a predisporre un possibile discorso su due figure — la soglia e il confine — che ci sembrano rivelative del percorso ermeneutico che intendiamo offrire prendendo spunto dalle opere di Franz Rosenzweig, Emmanuel Levinas ed Edmond Jabès.
Ed infatti, lo scenario della contemporaneità — assunta qui come una categoria di permanenza ed insistenza della domanda filosofica, piuttosto che come una semplice e tranquillizzante epoca storica — pur rilevando, al pari di ogni tempo, i segni della propria crisi, sembra comunque caratterizzarsi per una sorta di fuga dal problema del senso. Tale fuga, alla fine, se sclerotizzata come il tragitto principe di certa filosofia della complessità, rischia davvero di precipitare le questioni stesse del senso e della ricerca in quel baratro senza ritorno qual è il nichilismo. Appare evidente, almeno crediamo, che per crisi qui non s’abbia da intendere tanto un improbabile ripiegamento della storia su se stessa, quanto uno sforzo di decifrazione dei macro-contesti e dei micro-contesti in cui la stessa domanda filosofica attinge ogni risorsa di senso. Per questo, siamo convinti che non possa darsi filosofia se non nella contemporaneità del senso e della percezione. Sono questi, infatti, i prerequisiti che restituiscono l’orrido abisso postmoderno della complessità verbale, al suo stato di prisma gravido, nel quale la contraddizione si fa risorsa e capacità di questione. Si tratta, è vero, di intendere la filosofia come domanda, piuttosto che come esito strutturato di matrice sistematica; e si tratta anche di corroborare la forza questionante del filosofare come l’imprescindibile movimento di ogni vita — per dirla col Socrate dell’Apologia — degna d’esser vissuta.
Perdendo di vista, infatti, il tema umano del senso delle cose — e cioè, in campo etico, delle relazioni, dei contesti valoriali, delle dinamiche intrasoggettive ed extrasoggettive —, si rischia davvero di far smarrire alle categorie del pensiero filosofico l’ambito stesso all’interno del quale ha la sua genesi profonda una delle esigenze più feconde della filosofia: l’alterità. Fuori dalle mode epocali, infatti, il taglio obliquo della differenza — in grado di spezzare l’autosufficienza del pensiero ma anche di restituire capacità di parola alla dinamica di ogni pensare — consegna davvero la filosofia ad una profonda e invincibile responsabilità; e, si badi, non tanto ad una responsabilità, per così dire, oggettiva — una sorta di sguardo lungo gettato sulle cose, che ne sancisca in qualche modo il possesso o la custodia —, quanto ad una responsabilità antropologica, che nasce sotto gli auspici della crisi laddove intravede, intuisce o tocca l’altro-dal-pensiero, in luogo dell’altro-del-pensiero.
Certo, riconoscere la realtà di questi specchi infranti, non più validi all’auto-celebrazione dell’io-penso, dell’io-posso e dell’io-voglio, significa ammettere l’urgenza di una conversione. Una conversione che trae dal teologico soltanto la denominazione formale, perché essa, infatti, è una sorta di movimento continuo tra ciò che io posso portare a me — come dato di coscienza e persino come soggetto di diritto, paritario se non proprio stereotipato in una griglia normalizzante — e ciò che non posso portare a me, semplicemente perché non-è-come-me, né tantomeno, forse, è-un-altro-me.
Indubbiamente, quel movimento, insieme epistemologico ed etico, che comprende, senza soluzione di continuità, la ricerca/eros dell’altro e la fuga/riconoscimento dall’altro, è leggibile come questione filosofica proprio a partire da quell’originario e fruttuoso momento di contaminazione ontologica ed esistenziale che è il «parricidio«operato da Platone nei confronti del maestro Parmenide;3 è qui, infatti — nell’ibridazione suprema di un gesto «meticcio«che abbraccia in spirale virtuosa il movimento dell’ontologia e il disconoscimento/riconoscimento filiale —, che il lògos comincia a caricare su di sé la responsabilità di pensare, e di dire, l’altro: come èteron e come àllos.4
Pensare e dire il non-essere, oltrepassando in senso drammatico il divieto parmenideo, significa quindi — forse già originariamente in senso pienamente ellenico —, pensare e dire un altro essere, o meglio, un essere-altro, che mette in questione la totalità dell’essere, costringendo (o con-vincendo) il lògos a farsi dià-logos, la parola a farsi dis-corso, il tragico a farsi sentimento.
Il lògos monista degli Eleati, infatti, nega l’altro dall’essere e, con esso, anche la realtà del movimento — e, quindi, anche la verità del tempo — poiché considera l’essere come un «Uno», un Tutto immobile ed eterno. Se l’essere è un Tutto originario, ogni movimento si riduce ad una sorta di apparenza. Un Tutto, infatti, non può muovere oltre se stesso; ogni tensione, ogni desiderio, ogni conversione, ogni appello, gli sono negati in quanto implicherebbero un passaggio da ciò che è a ciò che non è. Ma ciò che non è, appunto, non è; poiché nulla vi è oltre l’essere del Tutto.5
Con il parricidio platonico, il lògos è, in certo qual modo, costretto a convertirsi al riconoscimento di un’alterità originaria, non posta dall’essere — seppur vissuta, ancora nell’essere, come chorismòs, e quindi anche come differenza —, ad una sorta di essere plurale ab origine. Esso potrà articolare la sua prima parola nei termini di un appello, di una interlocuzione, di una chiamata, e dunque di un movimento, di una tensione. Il lògos, dunque, non sarà più il garante tout court dell’autoreferenzialità, quanto piuttosto colui che apre la comunicazione, colui che chiama l’altro (fosse anche il vuoto assoluto che l’esitenzialismo sartriano ha dipinto come inferno), colui che interpella, colui che si rivolge all’altro da sé, anche nel mancare di ogni altro, sia per l’impossibilità di determinarne la posizione, sia anche per l’improprietà del sistema di coordinate in cui l’altro non-si-pone, non-si-dà. Il lògos si riscopre, dunque, e proprio a partire da questa indisponibilità dell’altro, già in Platone (ed anche sulla scorta della filosofia socratica) come dià-logos.
È evidente che un tale lògos, già plurale nel suo aver bisogno dell’altro — e del tempo nel quale rivolgersi all’altro che già da sempre gli è posto di fronte come assente, indisponibile ovvero trascendente —, lungi dall’essere originariamente un’arrogante posizione di sé, sarà principalmente discorso, narrazione. Certo, egli potrà indubbiamente porre se stesso come un «Uno«assoluto, ma potrà farlo solo in quanto avrà risolto il discorso originario in monologo, la parola che chiama e riconosce, in parola che esclude e disconosce, la pluralità in totalità. In altri termini, concesso pure che non ci sia altro oltre se stesso, sarebbe proprio questo nulla a far da sfondo necessario alla voce di chi, disconoscendo dice, negando afferma, ponendo se stesso si circoscrive come tra, come infra.
Non a caso, la forma originaria del lògos poetico assume le vesti dell’eroe tragico. Un eroe solitario e chiuso in se stesso, incompreso ed incomprensibile nelle ragioni profonde del suo dolore e della sua colpa. Si pensi ad Edipo, dal cui incesto e dal cui parricidio si scatenano vicende tragiche infinite. Un tale eroe resta assolvibile dall’etica contemporanea — in tale direzione sembra andare anche la lettura offerta dalla Nicomachea6 — sul versante dell’intenzione: egli non sa, infatti, che l’uomo sul carro è suo padre e che la regina vinta, che egli sposa, è sua madre. E tuttavia, per l’ethos dei tragici greci, la sua colpa si staglia come hybris nei confronti delle divinità originarie del sangue e della terra.
Proprio per questo, quando il lògos, con Platone — o forse, secondo recenti letture, già con Socrate7 — si scopre come dià-logos, e la parola rinviene la sua originaria vocazione discorsiva e narrativa, al tragico si affianca il sentimentale. Ma il sentimento che anima la narrazione, rispetto alla catarsi invocata dalla tragedia, è un syn-titemi, un con-sentire, un «sentire insieme«che si fa racconto del proprio e dell’altrui mondo, per ciò che se ne può ipotizzare o presumere, che sfida l’imperscrutabile della vita con le armi della relazione. Si narra, infatti, sempre di qualcuno e per qualcuno: quell’altro senza il quale il racconto — come anche il tempo del suo accadere — non ha più alcuna ragion d’essere.
L’alterità, dunque, entrata nella prassi della filosofia già con Socrate, e nella scrittura a partire da un atto teoretico forte — qual è sicuramente un «parricidio«8 —, inscrive nel dominio dell’essere una sorta di frattura, una ferita originaria che, aprendo un varco nella totalità esclusiva ed escludente dell’essere del tutto, rende instabile la signoria di un lògos monovalente ma, anche, il potere reale di comprensione dell’altro e delle sue ragioni. Qui, com’è evidente, il piano ontologico dell’essere risulta infranto proprio dall’irruzione di una soggettività plurale, dialogica, relazionale; una soggettività che, quindi, ha da reinterpretare il rapporto Io-Tu fondato classicamente (o, forse, solo «occidentalmente») sulla prevalenza e originarietà dell’Io.9
Infatti, l’alterità dell’altro essere può venire intesa dalla filosofia non solo come una sorta di alter-ego, una specie di riflesso identitario del «Sé», un altro essere identico all’essere dell’Io che lo pensa, ma anche come un essere altrimenti — o addirittura un altrimenti che essere10 — che rischia davvero di mettere in crisi le categorie di comprensione sulle quali la filosofia ha costruito la sua sistematicità prospettica e simmetrica, nonché il suo rigore epistemologico.
In effetti, il pensare all’alterità come altrimenti che essere, piuttosto che come un essere altrimenti, è rivelativo di una differenza sostanziale che il gioco di parole rischia di rendere soltanto estetica. La questione dell’alterità intesa come un essere altrimenti, in certo qual modo, salvaguarda ancora l’unicità dell’essere in cui questa differenza ontologica è articolata. Infatti, la metafisica platonica — pur inscrivendo nell’essere il taglio obliquo della differenza e dell’alterità (la dialettica tra èteron e àllos cui si faceva riferimento prima) — resta pur sempre una metafisica del fondamento e dell’essenza. L’essere altrimenti è, in buona sostanza, l’essere visto solo da una prospettiva differente, l’essere determinato da qualità, quantità, relazioni e modalità diverse. In tal senso, la dialettica per il riconoscimento, di stampo hegeliano, rappresenta una ripresa della differenza inscritta nell’identità di essere e pensiero. Secondo Hegel, infatti, il vero è quell’intero che diviene tale dal punto di vista logico-gnoseologico — ma che è già tale sul versante onto-teologico — attraverso una dialettica, per così dire, interna; attraverso un procedere che è, in verità, un arretrare; attraverso un mediare dialettico che è un giungere/retrocedere all’essenza. Ogni fuori di sé è così inteso come una sorta di movimento apparente che trova la sua vera ragione precipitando in «un risultato calmo».
La prospettiva di pensiero all’interno della quale, invece, è maturata la provocazione dell’altrimenti che essere, rifiuta — come si sta cercando di mostrare — la questione del fondamento e dell’essenza come radice di senso dell’essere.
Inoltre, la scoperta di un essere-altro — che ha, in tutta evidenza fenomenologica e antropologico-culturale, ragioni-altre e logiche-altre rispetto a quelle attraverso le quali il lògos lo pensa e lo dice — come interlocutore inquietante di un Io che ha superato il narcisismo del rispecchiamento — e che è dunque pronto al trauma (o al desiderio) dell’incontro11 con un altro talmente altro da essergli trascendente (cioè sussistente a prescindere dall’Io) — inscrive nel pensiero, nel linguaggio e nella morale una sorta di cuneo: per la prima volta, infatti, si rende visibile alla filosofia la possibilità di un altro linguaggio, di un altro pensiero e di un’altra morale.
La storia dell’essere diventa quindi frastagliata al pari di una Teogonia, fitta di diramazioni e racconti incrociati, di affluenti ed esiti incerti. Ora, è proprio questo cuneo, questa sorta di scheggia originaria che, pur facendo crollare il fondamento di quella totalità intesa come «Uno«armonico e monovalente, ri-fonda il lògos come dià-logos originario e la filosofia come originaria narrazione.
Inoltre, se è vero che già a partire da Socrate e Platone è possibile ridiscutere la questione dell’identità e dell’alterità, oltre ogni esito eleatico, la stessa filosofia non ha affatto da ridisegnare interamente il suo statuto, quanto piuttosto da operare una sorta di passo indietro rispetto agli esiti più sorprendenti dei vecchi e nuovi idealismi, per riscoprire la sua originaria vocazione ermeneutica, narrativa e dialogica.
Il novecento filosofico ha ridiscusso a lungo tale questione, facendone spesso «il problema«centrale del Nuovo Pensiero. Insomma, il problema dell’essere — abbandonata la chiave monistica di matrice parmenidea e di esito idealistico — si dirama ulteriormente; l’essere-altro di un altro essere «di cui«il lògos vuol fare concetto, si traduce in ultima analisi nell’altrimenti che essere «con cui«il lògos vuol fare discorso.
All’interno di questa nuova prospettiva del pensiero si ridefiniscono anche gli argini della filosofia e della comunicazione. Dalla messa in questione dell’ontoteologia dell’essere-Uno, il pensiero filosofico approda ad un’etica originaria che si assume la responsabilità12 di un dia-logo tra «irrelati«che sperimentano in modo asimmetrico la trascendenza, tra «altri«che sono ancora in grado di coltivare lo stupore tipico del filosofare, in quanto sorretti nella loro relazione da una trascendenza che disarma il loro potere di porre o deporre l’altro e le sue, spesso intraducibili, ragioni.
La filosofa si traspone, quindi, in una vera attesa di senso da parte di un altro effettivamente in grado di sorprendere l’Io. Un altro la cui rivelazione etica diventa, per l’Io, imprescindibile atto di responsabilità. Ma anche l’alveo della comunicazione viene ridefinito dalla ripresa di questo nuovo: ad un tragico inteso come esperienza limite dell’Io posto a confronto con la tracotanza della hybris e con l’ineluttabilità della Moira, si affianca quel sentimento inteso come condivisione e riscatto, come apertura alla rivelazione di senso che l’altro è, e dunque, anche come pentimento e redenzione.
2. Asimmetrie di tempo e spazio. La soglia e il confine
Ora, è proprio a partire da questo nuovo, tuttavia, che il problema dell’alterità — così ridisegnato sotto i profili della filosofia e della comunicazione — dischiude ulteriori problemi che rischiano di stemperare l’autenticità di questo novum, rendendone la prassi e la frequentazione irrealizzabili e dunque utopiche.
Insomma, se il nuovo che l’essere attende come dono e rivelazione dall’essere Altro, diventasse solo lo sterile pegno di un meccanismo governato dalla regola del do ut des, e quindi solo una questione di prevedibilità quantitativa, la verità della relazione finirebbe per dileguarsi, lasciando trasparire di fronte al soggetto soltanto la pallida ombra di un alter-ego. D’altro canto, se questo dono, questa rivelazione di senso, si consumasse nell’attesa messianica d’una pro-messa — che è sempre e comunque da venire e mai un possesso certo o una «ripresa«del finito13 — la filosofia rischierebbe di cadere in una sorta d’esigenzialismo di matrice mistica.
La soglia e il confine — come figure d’un possibile rapporto — descrivono proprio quest’imbarazzo; esse non rispondono, ancora, alla domanda del lògos su che cos’è questo spazio e che cos’è questo tempo che uniscono e separano l’essere dall’altrimenti-che-essere, ma cercano di ridisegnare la scena del confronto.
E, d’altra parte, è quantomeno da segnalare la proposta filosofica — maturata appunto nell’ambito del cosiddetto pensiero neo-ebraico — che vuole se non altro esporre in tutta la sua fecondità la paradossalità sopra esposta, ricercando una nuova domanda per la filosofia; una domanda che rinunci, nella sua premessa, all’essenza della cosa — indagata tramite il che-cos’è di matrice greca — per cercare piuttosto il com’è andata della relazione, tipico della narrazione figurata del pensiero.
Le immagini della soglia e del confine, infatti, approcciano — tramite la differenza contenuta nella loro semantica — al medesimo spazio-tempo di relazione: quello che unisce e separa l’Io dall’Altro [d’ora in poi, con Altro/i in maiuscolo intendiamo l’altrimenti che essere], il point of view sull’essere dell’uno e sull’essere dell’altro. Il confine riprende questo iato come cesura, come ferita; esso si stabilisce nell’essere come «parte», come «frontiera». Il confine, dunque, separa, rende altri tutti coloro che si riguardano attraverso di esso. Il confine è sì valicabile, frequentabile dall’una all’altra parte, ma è proprio nel frequentarlo come spazio da varcare che lo si dilata come spazio della lontananza.
Il confine come cum finis, come parte rispetto ad un’altra parte, è dunque l’immagine di una distanza che si realizza nella prossimità. Una distanza qualitativa, ché in verità il confine non ha dimensione né estensione fisica concreta: esso è, di fatto, una co-appartenenza, un co-dominio, un comune (cum munus) che — proprio in quanto comune — separa, divide e, proprio per questo, rende traducibili il proprio e l’altrui. Ma la traduzione che il confine implica — linguistica, esistenziale, economica, culturale, artistica — è sempre una trans-duzione d’essere e di senso, poiché implica un portare l’altrui all’interno del proprio. Proprio per questo il confine è la frontiera, il fronte del proprio, il limite del possesso, e l’inizio, al tempo stesso, del possesso che Altri hanno su altro.
Il confine è, dunque, il limite inconsistente del proprio — che proprio in forza di questa inconsistenza è da proteggere —, e, per ciò stesso, esso si inscrive come il cominciamento del non-proprio. Non a caso, la parte, il fronte, che la frontiera separa, è anche lo spazio della guerra, dell’aggressione e della violenza. E che altro è la guerra se non il fallimento di ogni traduzione?
La soglia, invece, pur rappresentando su un altro registro semantico quella stessa linea di comproprietà tra il proprio e l’altrui, e non nascondendosene i tratti di conflittualità e di contesa originaria, addita più da vicino l’immagine della porta e della casa. La soglia, infatti, traspone il concetto di ferita originaria dall’ambito geopolitico degli stati a quello esistenziale della dimora. Il proprio designato dalla soglia è quello che l’Io ha costruito e, in un certo senso, inventato, al di qua della propria porta di casa. Alla soglia afferiscono, infatti, l’immagine della custodia — piuttosto che quella della difesa — ma anche, e soprattutto, l’immagine dell’ospitalità — piuttosto che quella della traduzione —.
La soglia implica la frequentazione della via d’uscita e di quella d’entrata, l’esodo e il ritorno, la galuth (l’esilio veterotestamentario, ma anche, significativamente, in lingua ebraica, la rivelazione) e il nòstos (il ritorno periglioso di Ulisse a Itaca). Anch’essa è un’inconsistenza. La soglia, infatti, non esiste se non come membrana d’osmosi; essa è, al tempo stesso, l’inquietudine dell’uscir fuori da Sé e la festa per essersi trovati finalmente in una nuova casa (su questa nuova casa, diremo in seguito appoggiandoci a Levinas). La soglia è il rischio che ogni partire porta seco e la rassicurazione del ritorno. La soglia, inoltre, è sempre in limine rispetto alla porta, così come la porta è in limine rispetto alla casa.
E tuttavia, se fosse pur vero che ogni uscire da sé comporti sempre e comunque un ritorno a casa — ché, come usa dire, si parte sempre per tornare, e si torna sempre per partire —, è vero altresì che la casa alla quale si ritorna è sempre e in qualche modo diversa rispetto a quella che si è lasciata, così come colui che torna, ritorna diverso da quello che ha intrapreso il viaggio.
E comunque: è davvero possibile articolare una dialettica convincente tra l’essere e l’altrimenti-che-essere, tramite la figura della soglia?
Poniamo per un istante che l’essere sia il padrone di casa. Egli, per se stesso, potrà certo rinunciare ad ospitare Altri nelle viscere del proprio — facendolo accomodare nella propria casa, tra le proprie poltrone, le proprie seggiole, la propria caraffa e il proprio caffè — e potrà sicuramente andargli incontro sulla soglia. Così, Altri, sulla soglia, non sarà più estraneo, ovvero ostile, ma straniero, esule, così come esule e straniero si presenterà — sulla soglia, come in procinto di lasciare il proprio — il padrone di casa. Infatti, sulla soglia, per un istante, il proprio è sospeso.
Ma che succederà allorquando, nell’intesa tra due, compaia d’improvviso il «terzo». Ovvero: che succederà quando, oltre alla comprensione tipica della filosofia, sulla soglia si presenterà anche l’esigenza della comunicazione? Quando l’essere e Altri dovranno comunicare al «terzo«quel proprio che ciascuno ha in qualche modo sospeso?
«Sotto lo sguardo della terza persona, sia esso rivolto verso l’esterno oppure verso l’interno, tutto si congela in oggetto», è questa la sentenza habermasiana che sembra gravare su ogni comunicazione; su ogni sguardo lungo che il soggetto tenti davvero di gettare al di là di se stesso, e che rischia di cristallizzare in oggetto tutto ciò che incontra.14 Quanto questo sguardo possa oggettivare Altri, ovvero quanto la ratio del soggetto possa davvero conoscere, piuttosto che riconoscere, il Volto nella sua trascendenza assoluta, è la questione par excellence che l’etica del Secondo Novecento ha consegnato ad una riflessione futura.
Qui basti notare come lo iato sottile che s’incide tra conoscenza — ovvero: un atto teoretico del soggetto nei confronti di un altro soggetto, descritto e definito come simmetrico e paritario, e quindi ridotto ad oggetto, o di un oggetto propriamente detto — e riconoscimento — ovvero: un atto etico gravato dalla responsabilità per un Volto nudo che posso distruggere ma non togliere, che posso uccidere ma non mediare — è la cartina di tornasole cui tornano i due scenari della filosofia della differenza: il primo, quello che da Platone, attraverso Hegel giunge fino a Nancy; e il secondo, quello che da Aristotele, tramite l’ultimo Schelling, giunge fino a Levinas.
Se è precipuo dovere del pensiero filosofico non dimenticare il monito kantiano dell’altro inteso come fine dell’atto morale e mai come semplice mezzo, è parimenti vincolante — per la ricerca filosofica — tratteggiare quest’Altro come «assolutamente altro», e non come un me-stesso rovesciato, come un altro-Io (e si noti, davvero, come la parola Io, sovrapposta alla parola altro, distrugga ogni differenza che Altri potrebbe recare), al quale mi legano diritti che sono per lui doveri, e doveri che sono per lui diritti.
Riconoscere, nell’accezione responsabilizzante che abbiamo cercato di descrivere, significa, per il pensiero, mettersi in discussione, aprirsi alla multiformità anche culturale dell’ambiente e delle società, alle cifre lessicali delle civiltà e ai tempi (agli eventi) delle rivelazioni. Riconoscere significa, dunque, riconoscere come Altro e non già come un altro me stesso. Se ciò comporti anche quell’arretramento di campo di cui si è discusso prima, è fattore da determinare in relazione a quanto l’egologia fondamentale (e talvolta fondamentalista) ha proceduto nell’esproprio dell’altrui spazio, nel disinteressamento per l’altrui tempo.
Certo, con l’ingresso del «terzo», nota già Levinas, si manifesta anche il bisogno di regole.
Si tratta dell’apparizione del terzo. Poiché c’è il terzo. Mi chiedo talvolta se esso non si giustifichi così: rendere possibile una responsabilità per altri dis-interessata, esclude la reciprocità; ma altri sarebbe senza dedizione all’altro? Qui occorre un terzo. Comunque sia, nella relazione con altri, io sono sempre in relazione con il terzo. Ma esso è anche il mio prossimo. A partire da questo momento la prossimità diviene problematica: occorre paragonare, pesare, pensare, occorre fare la giustizia, sorgente della teoria. Il recupero delle Istituzioni — e della teoria stessa — della filosofia e della fenomenologia: esplicitare l’apparire — tutto questo avviene, secondo me, a partire dal terzo. Il termine «giustizia«è in effetti molto più a suo posto là dove è necessaria non la mia «subordinazione«ad altri, ma l’«equità». Se è necessaria l’equità, allora è necessario il paragone e l’uguaglianza; l’uguaglianza tra ciò che non si paragona. E di conseguenza il termine «giustizia«si applica molto di più alla relazione con il terzo che non alla relazione con altri.15
Abbiamo bisogno di leggi, di un buon diritto che tuteli la comunicazione e metta regole al nostro fare; ma si tratta dell’istituzione di una «giustizia«che sfocia in «equità», sancendo, appunto, l’eguagalianza de jure e de facto rispetto allo sguardo del terzo, giammai tra ciò che non è possibile paragonare.
Come a dire: bisogna che l’etica originaria dell’incontro sia suffragata dal diritto e dalla politica. Affinché quell’utopia (da ou-topos, non luogo) che la soglia originariamente evoca (poiché il dia-logo si fa sempre inter-logo e i due diventano molti all’interno di un mondo sempre più globale), possa diventare una differente utopia (da eu-topos, luogo felice).
3. Per una fenomenologia dello sradicamento. Lo straniero jabesiano
Il chiosare queste riflessioni minime, presentando una pur provvisoria ricognizione sulla «scrittura«di Jabès,16 scrivendo quindi di Jabès, costituisce forse una irriguardosa forzatura, un tentativo di esclusione dello sguardo laico del suo pensiero, della sua poesia, una geometrica edificazione di ponti concettuali tra la parola, il silenzio e la parola-altra, e quindi un tentativo di esorcizzare l’abissale questione del «niente», del «vuoto«che abita i margini della scrittura jabesiana.
Inutile, forse, sottolineare, come qui si voglia intendere «laico«nel suo significato originariamente greco, ovvero «aperto». E mai aggettivazione sembra, in effetti, calzare meglio con la riflessione di Jabès, espressa talvolta tramite il modulo della poesia, tal altra tramite il modulo del Cahier, del quaderno, tal altra ancora tramite il margine stesso della pagina del Livre, che descrive — o meglio, evoca — quel senso di «interpretazione coinvolgente«in grado di sfiorare il conflitto. Difatti, chiunque si imbatta nella scrittura jabesiana incontrerà, in primo luogo, il vuoto piuttosto che il pieno, il silenzio invece che la parola, il margine piuttosto che la scrittura. Ma vuoto, silenzio e margine sono, in effetti, caratteri propri del segno di Edmond Jabès, e questo al di là di ogni facile retorica che ne confini il senso ad una sorta di edificazione religiosa o, peggio, di catarsi esistenziale.
Vorremmo solo notare, in via preliminare, che l’interpretazione e il conflitto, entrambi evocati dalla scrittura/lettura jabesiana, si riferiscono in maniera quasi duale alla prassi, oramai storicizzata, del Nuovo Pensiero (Das Neue Denken). Se è vero, com’è vero, che Jabès scoprì, o comunque mise a tema, il suo «ebraismo«in un secondo momento rispetto alle categorie portanti della sua opera, ciò consente di riconoscere proprio in queste categorie il segno «laico«dell’interpretazione, ma consente anche di restituire al pensiero ebraico una sorta di centralità filosofico-ermeneutica, laddove invece si è spesso soliti negargli ogni consistenza, relegandone gli ambiti esclusivamente alla mistica o alla prassi liturgica delle scuole rabbiniche. Certamente, la scrittura, per Jabès, è sempre in qualche modo una lettura; così come una traduzione (e, forse, anche una tradizione) comporta sempre un tradimento iniziale, o comunque ne porta a termine uno, nella misura in cui si riferisce conflittualmente ad una pluralità di lettori e di vissuti.
Scrivere su Jabès è dunque una metabasi, un traslare in «città«il pensiero nato, o comunque riconosciutosi, nel «deserto», un costruire sistemi viari, «boulevards«e «avenues»,17 all’interno di un costrutto prettamente evocativo. Scrivere di Jabès è quindi, forse, una indebita traduzione spaziale di un pensiero che origina dal tempo, una localizzazione cardinale di un percorso che — lungi dall’essere un moto da A a B — è un esodo da sé che sfiora l’alienazione intemporale del deserto.
Proprio per questo, scrivere su Jabès, scrivere di Jabès, comporta una necessaria inscrizione del lettore nella sua stessa lettura, se è vero che «scrivere«e «leggere«in ebraico differiscono per null’altro che una sfumatura della medesima radice,18 e se è vero che quel «margine«cui Jabès stesso allude come soglia della propria scrittura è una sorta di viaggio valido soltanto nel suo essere frequentato dall’altro: «Io non è l’altro. È io. Scavare questo Io: tale è il compito che ci spetta».19
Certo, il deserto, dove «non vi sono […] né vicoli, né strade«ma, al momento, «orme appena accennate rapidamente cancellate«20 è luogo enigmatico. Ed è enigmatico non tanto per l’apparente esotismo del viaggio che esso sembra additare, quanto per ragioni più profonde che rinviano alla scansione del vissuto di chi lo abita rispetto a quelle di chi, semplicemente, lo visita.
Infatti, che il deserto sia un luogo disorientante è questione facilmente deducibile dall’esperienza del viandante che lo attraversa proveniendo da una terra e mirando ad un’altra terra. Ma il deserto jabesiano non è un inter-regno, all’interno del quale transitare in vista d’altro, quanto piuttosto l’erranza stessa dello straniero e del libro.21
Se occorresse un’immagine al niente, la sabbia ce la darebbe. Polvere dei nostri legami. Deserto dei nostri destini. Per lo sradicato, l’albero è un elemento del paesaggio che non lo trattiene.22
E ancora:
La parola insediamento, per me, è una parola sprovvista di senso. Quando la sento pronunciare, la mia reazione immediata è quella di evitare di tenerne conto, come se si trattasse della parola di una lingua barbara, di cui non avvertire che le mancanze.23
È paradossale ma, al contempo, è modulo eidetico da assumere come pre-requisito indispensabile ad una quantomeno pertinente decifrazione della proposta jabesiana (anche se esso costituisce una forzatura per il pensiero dell’Occidente, e quindi anche per la filosofia), il fatto che a fondare l’essere-ebreo sia proprio quella categoria che il linguaggio occidentale esprime come mancanza, come privatio.
Ovvero, nella prospettiva del deserto jabesiano, è l’insediamento, l’albero inteso come radice innestata su un luogo, a descrivere una incomprensibile stanzialità, una malattia, una carenza; in definitiva, proprio una mancanza. L’albero, la casa, la radice sono, rispettivamente, assenza di movimento, difetto di transito, carenza di tramando e, quindi, a-fasia, a-grafia, a-storicità: mancanza di voce e di scrittura. È dell’insediamento, dunque, che bisogna percepire le deficienze. Non sono quindi il nomadismo e l’erranza a mancare della terra e delle radici, quanto l’insediamento e la stanzialità a mancare del tempo dell’erranza.
Avvicinare in un luogo astratto — luogo di nessun luogo — un essere che sa perfettamente, e ve lo ricorda, di non avere mai lasciato la sua città, la cui presenza familiare, inoltre, vi rende immediatamente palese che vi erano le più grandi probabilità che andasse così; il fatto di abitare, l’uno e l’altro, nello stesso quartiere e frequentare, alle stesse ore, i medesimi luoghi: tutto ciò è abbastanza per paralizzarsi dal terrore, tanto il divario nello spazio e nel tempo, il radicale cambiamento di situazione è importante, e intollerabile per lo spirito il brusco spaesamento. Forse, non siamo mai unicamente là dove siamo.24
All’horror vacui, si sostituisce, quindi, una sorta di horror loci; allo spaesamento, come perdita del centro, tipico del cosiddetto post-moderno — vera malattia culturale di un Occidente che, a partire da Nietzsche, ha messo in mostra con una certa sicumera la propria diagnosi, ma non con altrettanta certezza l’appropriata terapia — si affianca, all’opposto, il male dell’abitare, il dolore dell’insistere in un luogo che prevarica il senso temporale del finito. Alla malattia dello sradicamento, intesa dall’Occidente radicato, come perdita del luogo, si sostituisce quella del radicamento, intesa dall’ebraismo sradicato proposto da Jabès, come perdita del tempo e dell’altro.
Quest’insofferenza per la radice è, peraltro, la stessa testimoniata dalle bellissime pagine sull’ospitalità e la dimora, contenute in Totalità e Infinito, cui precedentemente ci eravamo riferiti a proposito della novità della dimora cui si giunge per scelta:
La casa scelta è tutto il contrario di una radice. Essa indica un disimpegno, un’erranza che l’ha resa possibile, che non è un di meno rispetto all’installazione, ma un sovrappiù della relazione con Altri o della metafisica.25
Alla nostalgia di Ulisse, dunque, che descrive il periplo da Itaca ad Itaca, si affianca — e, forse, si contrappone — la speranza di Abramo che, con il suo semplice «eccomi«(inanì), lascia Ur dei Caldei per mai più ritornarvi.26 È dunque il taglio, la ferita, lo strappo della sedimentazione a costituire il senso dell’abitare:
Pensare il taglio di sé perché possa pensarsi nel taglio; poiché cos’altro mai è il pensare, se non troncare nodi, scioglierli, come ci si scioglie da un legame di troppo, come il secondo, di colpo, si allontana all’eternità. La conoscenza avviene al prezzo di questa spoliazione.
[…]
Errare, nostra ultima possibilità? Certo, per chi sa bene che il nostro sostegno prestigioso, il Sapere, gloria e vanto dell’uomo, è tanto irrisorio, quanto un filo di paglia nella tempesta.27
Ma questo «errore«non va letto nella direzione di un pensiero debole, forte nella sua fondata convinzione ermeneutica d’essere, al tempo stesso, debole quanto ai pensati e poderoso quanto alla capacità di pensarli come tali; né tantomeno nella direzione neoidealistica di una teoria dell’errore, pronta a suffragare con un esigenzialismo graduale le fasi pedagogiche di conquista di una verità stabile, indiscutibile, incontraddittoria e, eo ipso, sicura. Questo «errore», semmai, andrebbe letto collocandone le fibrillazioni in quel nesso tra etica e futuro — la soglia tra tempo e altro — che è (già in Aristotele, ma anche in Levinas, Jabés, Rosenzweig e Buber, come dicevamo) innervata sul desiderio inteso come òrexis e non soltanto come epitymìa.28
Pensa. Legati al tuo pensiero come ad una donna della quale tu sia follemente innamorato. Non esiste pensiero senza desiderio.29
E il desiderio è inequivocabilmente legato al nome. Quello ebraico si scrive «sulla sabbia«30 e può cambiare nell’incontro/scontro con la trascendenza; quello insediato e strutturato in un luogo e in uno spazio mancanti di tempo, è una sorta di sigillo dell’esistenza.
Se, ad esempio, leggiamo l’episodio della Bereshìt ebraica (la nostra Genesi), laddove è narrata la lotta di Giacobbe con l’angelo,31 ci ritroviamo catapultati in una sorta di conflitto temporale e spaziale che determina il mutare dell’identità di Giacobbe in quella di Israele. In verità, l’episodio è solo uno dei possibili esempi biblici che testimoniano la prassi del cambiamento del nome. Allo stesso modo Yhwh aveva cambiato il nome di Abraham in Abramo, quello di Sarai in Sarah. La prassi è, in vero, accolta da Gesù nei Vangeli. Così, anche il nome di Simone è mutato in Pietro. Persino Paolo, prima d’essere accecato sulla via di Damasco possedeva un altro nome, Saulo. Tuttavia, l’episodio citato all’inizio, quello di Giacobbe, è rivelativo di un suo specimen. Giacobbe, ormai benedetto nel suo nuovo nome, Israel, benedice a sua volta, con un nome nuovo, lo spazio circostante. «Allora Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, perché disse: «Ho visto Dio faccia a faccia, eppure ho avuto salva la vita«».32 In questo caso potrebbe davvero trattarsi del vero riconoscimento dell’erranza, assurta non soltanto a categoria spazio-temporale (ché, in questo, la migrazione di Abramo sarebbe già testimone di un percorso), ma perfino a categoria etica e rivelativa. Se anche i luoghi, nell’orizzonte della Torah, perdono le loro catene, smettono cioè di essere radici immobili, mancanti di tempo, e possono, con un nuovo battesimo, che è in verità è una benedizione, diventare fluidi come il deserto, allora è possibile non lasciarsi imbrigliare nella dimora, seppellire nella casa, come coloro che vivono esistenze statiche, conclamate da nomi immutabili, immerse in un mondo di cose immobili, garantite da nomi identici:
Il loro nome, inciso su una lucida targa di rame, inchiodato all’entrata principale del condominio, è la prova della loro esistenza, come esistono il filo d’erba e il sole, la luna e il chicco di riso, o come il lombrico e il pesce guizzante.33
Bisogna quindi destrutturare, in qualche modo, la radicalità del legame allo spazio, alla terra e al nome:
Abbattere le mura, non quelle che ci proteggono, ma quelle che ci dividono. Sordi ai richiami, ai brusii, ai gemiti che ci giungono dall’esterno, consolidiamo i nostri rifugi. Passiamo da una casa chiusa ad una casa ermeticamente sbarrata. E come potrebbe essere diversamente? Forse proprio un qualunque luogo non equivale forse ad escludere, ad un tempo, il vicino?34
Proprio fondando (parola impossibile per l’Oriente nomade) la differenza (anche se proprio su questo fondare-la-differenza, senza inscriverla nell’identità, come già accennato, il linguaggio della filosofia sperimenta la propria impossibilità a dire) tra pieno e vuoto, tra nomadismo come positum, e quindi come positivum, e radicamento come privatio, mancanza, errore vero, e per ciò stesso mai erranza; proprio affidando alla parola il compito non già di riempire i varchi del silenzio, né di otturare ogni feritoia tra le cose, ma di adattarvisi ed intesservisi, è possibile rendere in qualche modo reale la soglia dell’esilio. «Nessuna barriera tra Niente e Niente«a descrivere uno spazio che, a questo punto, è coabitato dal tempo. «35
Ma il «niente«cui Jabès allude è quanto di più pesante possa essere concepito dal pensiero filosofico che ne ha sempre retto l’insidia lasciandone giocare la partita teoretica tra il divieto parmenideo di ogni pronuncia,36 la tolleranza d’esistenza di matrice platonica37 e la polarità ontologica di stampo hegeliano;38 il niente è l’esistente che non ha visibilità, ma che è di per sé evidente; è un indecifrabile che continua tuttavia ad interrogare ogni esistente. Come dimenticare, tra l’altro, che proprio ’En Sof (come ricorda Scholem), ovvero il nulla senza fine, è l’attributo più alto che il pensiero ebraico possa tributare a Dio?39
Ma qui il nulla senza fine, l’abisso, non hanno a che fare con l’approdo della cosiddetta «teologia negativa», scienza occidentale in grado di predicare di Dio tutto ciò che egli non è. Qui il nulla è di fatto soggetto, non predicato. E il «non», più che delimitare la verbalità della definizione — dicendo, appunto, ciò che Dio non-è — riguarda l’oggetto del pensiero; così l’ebraismo intende dire ciò che è il nulla senza fine di Dio, anche tramite le forme semantiche del silenzio e della domanda.
Di fenomenologico, in tale appellazione, che non è mai ontologica, ma semmai dia-logica, restano le evidenze performative dell’inter-esse, dell’essere-tra. Come a dire: non so chi sono quanto alla mia essenza, non so chi sei quanto alla tua essenza, ma è bello parlare insieme e poter narrare, per dirla con Buber, l’evento di questo incontro:
È visibile un sentimento. Provandolo, l’anima lo rende visibile ad altri, con il tramite del corpo che ne testimonia, rivelandole, la forza o la leggerezza — pianto o sorriso; ma esso è invisibile in quanto puro sentimento — desiderio, attrattiva, rivolta, rigetto o rimpianto —.
È visibile uno sguardo? Lo è nella misura in cui è a sua volta isto e rivelato a se stesso da tutto ciò che vede, ma permane invisibile poiché l’essere o la cosa sono da lui colti solo nella loro discutibile apparenza; e quest’ultima lo rinvia alla loro assenza, infinito vuoto ove si ammucchiano immagini e figure controverse.
L’occhio muore non di ciò che ha visto, ma di ciò che non potrà mai afferrare.
È visibile una parola? Forma, paesaggi, colori che essa, formulandosi, fa scorrere sotto i nostri occhi ce la rendono visibile; ma questi ultimi, essendo afferrabili solo mentalmente, e offrendosi all’immaginazione, al sogno, al pensiero nello spazio invisibile da loro istituito, ci impediscono di vederla.
[…]
È visibile la voce? Io non solo sento la mia voce. La vedo.
Sonore immagini della mia assenza.
È visibile un volto? Forse è proprio attraverso la sua originaria invisibilità — quella del volto di Dio — che tentiamo, invano, di interrogarne i tratti.
La verità del volto è nella sua non somiglianza con se stesso: volto di un’assenza pazientemente modellata […].
[…]
Giudeite. Tutti i colori i speranza della giudeità; ma, anche, la sua dura solitudine e immemoriale miseria di pietra spatriata.40
4. Esiti. Verso un’etica del conflitto?
Il volere ad ogni costo tirare le fila tra le diverse asimmetrie qui evocate — quelle del volto, quelle della soglia, quelle della dimora e quelle del deserto —, condizionate, per altro, da immagini che, pur nel loro rilievo fenomenologico, assumono valore di testimonianza e di mediazione soggettiva, riconduce l’indagine ad una sorta di punto morto dal quale è assai difficile evadere. E certo, evadere da una sorta di evidenza fenomenologica — cui abbiamo anche provato a dare i tratti della temporalità etica e della spazialità nomade — non è risultato glorioso per una filosofia in procinto di perdere davvero tutta la carica di avvincente novità che l’incontro con l’Altro uomo — e quindi con quella trascendenza orizzontale che non è nella mia disponibilità di soggetto porre o deporre — può riservare.
Ma se incontrare davvero qualcuno, parlargli, comporta radicalmente una sorta di sospensione del proprio e della radice, e quindi una sorta di coraggio suicida nel disporsi nei pressi di ciò che abbiamo voluto chiamare la soglia dell’esilio, il suo contrario, ovvero il monologo sui massimi sistemi, come usa dire, o la giaculatoria del proprio, poggiata su un fondamento che la filosofia presuppone — dichiarando invece, come nota Rosenzweig, d’essere la sola scienza priva di presupposti41 — rischia di diventare una sorta di schermo opaco, seppur tranquillizzante, che chiude ogni orizzonte di comunicazione e di incontro. Certo, il Volto d’altri mi rende ostaggio di un chi cui non posso neanche dare i tratti rassicuranti del Sé, dell’altro-Io, del soggetto simmetrico e speculare che se guardato mi riguarda, se investito mi investe, se chiamato mi risponde. Un Altro, che sia davvero altro, e non una maschera riflessa dell’identità del Sé, è non solo una scommessa teoretica, ma, anche, una inquietudine etica.
In vero, infatti, il Volto — e qui integro la prospettiva levinassiana, già sottoposta dallo stesso Autore al vaglio della critica di paternalismo,42 con la stridente lettura rosenzweighiana dell’alterità come conflitto — mi parla, solo e se Io sono in grado di ascoltarlo, solo e se la mia caparbietà — venuta in luce come carattere, come proprietà (Eigenheit)43 irrelata, incapace di ascolto perché non in grado di riconoscere alcun fuori di sé — è in qualche modo stravolta da un’esperienza limite che ne metta a dura prova l’autoreferenzialità.
Inutile dire come questa inquietudine dell’Altro, in Rosenzweig, appaia — diversamente che in Levinas — come centrata sull’identità di un soggetto divenuto Sé, e non sulla priorità di un Volto che mi tiene in ostaggio a prescindere dal mio prestargli ascolto. E tuttavia, per Rosenzweig, l’indifferenza all’altro, all’esterno, al non-proprio, non ha i caratteri di una cattiva coscienza, di una voluta esclusione dell’altro dall’orizzonte del proprio, dalla sfera del soggetto. Tutt’altro: l’Altro, originariamente (prima cioè di ogni mediazione culturale), non mi appare, non mi riguarda semplicemente poiché per me non c’è nessun altro. È il soggetto, quindi, a vivere una tara gnoseologica e morale, che può diventare laica, aperta, solo nell’esperienza limite della dissoluzione dell’Io, della sua fine.
È la morte — il «qualcosa«della morte e non già il suo nulla — a costituire, per Rosenzweig, quel presupposto che la filosofia «dalla Ionia fino a Jena«44 dichiara candidamente di non aver mai posto, e che la costringe ad essere idealistica (e, quindi, a metabolizzare l’altro come negativum, o come ingranaggio del concetto). Ma se il presupposto della filosofia è la «paura della morte», il fondamento essenziale di ogni sapere, l’essenza, precipita in una sorta di nulla relativo, dal quale solo un atto di scelta, e perciò di libertà, può davvero uscire. E, difatti, anteriormente alla scoperta della morte, l’uomo non vive affatto nel terrore; solo dopo, egli crea sistemi e dicotomie (come quella tra anima e corpo) in grado di rassicurarlo sulla capacità del soggetto di permanere, di vivere ancora.
Ma la morte, come esperienza, è preclusa all’orizzonte fenomenologico; anzi, essa è il limite che determina tutti i limiti, la condizione che descrive ogni condizione, il presupposto di ogni esistenza. In questo senso nascere significa, davvero ed essenzialmente, morire. L’esperienza della morte è rivelata all’Io-sordo, al soggetto che s’è identificato caparbiamente con ogni spazio circostante, nell’esteriorità del Volto altrui. È la morte dell’amico a rivelare al soggetto non solo il valore dell’amicizia — ché senza la scomparsa dell’amico l’Io non si accorgerebbe originariamente nemmeno del suo valore — ma anche il limite dell’esistenza.
Eppure la morte — «maestra di serietà» (Alvorens Lœremester), per dirla con Kierkegaard45 — rivela, contestualmente, al singolo la soglia dell’altro. A ben vedere, i due momenti non sono scindibili in schemi di priorità: la morte rivela la compagnia, l’alterità, nella fine dell’altro uomo, così come rivela la mia stessa fine nel restituirmi la proprietà ed esclusività dello spazio violato dall’altro. Non a caso, la maschera che thànatos porta in volto, per entrare in comunicazione con il soggetto è — secondo Rosenzweig — quella di eros.
Cosa resta dunque del soggetto? Cosa dell’Altro? Queste domande, certo, tradiscono una priorità che nessuna filosofia potrebbe mai tacitare, se è vero, come è vero, che da sempre l’interrogazione umana si è rivolta al senso delle cose, al senso dell’esistenza. Resta, forse, solo quella trascendenza che è già inscritta nel semitico «non ucciderai«e che già Antigone — ponendo rimedio all’amnesia della morte con la memoria e il rito — chiamava, con il suo greco, physis.
Certo, se la physis di Antigone è tutt’uno con il suo corpo di donna (corpo che dà la vita all’assolutamente estraneo concepito nel grembo), ed è altro da quel nòmos che può essere sancito ma può anche essere tradotto o mutato, l’incontro con l’altro, con la sua trascendenza assoluta, non potrà che assumere i tratti eccentrici — eppure assolutamente istruiti a tutte le differenze — di quel conflitto che segna nel nome, ovvero nell’identità legata al tempo della rivelazione dell’Altro, e nel corpo, ovvero nello spazio del proprio Sè:
Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui sino allo spuntare dell’alba. Vedendo che non ce la poteva, lo toccò all’estremità del femore, e l’estremità del femore di Giacobbe si slogò mentre lottava con lui. L’uomo gli disse: «Lasciami andare che è spuntata l’alba». E Giacobbe: «Non ti lascerò finché non mi avrai benedetto». E l’altro: «Come ti chiami?».
Rispose: «Giacobbe». «Non Giacobbe sarai chiamato, ma Israele, poiché hai lottato con un essere divino e con uomini e ce l’hai potuta». Giacobbe gli disse: «Dimmi il tuo nome». E l’altro: «A che scopo me lo domandi? «E là lo benedisse.46
Ecco, forse, davvero non ogni uomo è Giacobbe; e tale, ogni uomo, come categoria, non potrebbe affatto essere, poiché la soglia dell’identità ricadrebbe ancora sotto la giurisdizione del genus, finendo per precipitare la discussione nel tema dell’astrazione. Ma il corpo di Giacobbe — che è corpo segnato, corpo infranto e claudicante, proprio in quanto corpo benedetto — non è affatto un’astrazione; non è qui preso come un simbolo. Esso, come il Visage di Levinas, il Du di Buber, l’Étranger di Jabès, è kath’autò, trascendente rispetto a Dio e all’Altro, e per Dio e per l’Altro, senza pretendere la simmetricità della relazione, quanto piuttosto solo una benedizione.
Una benedizione — è opportuno ricordarlo ancora — che segue, se non proprio consegue, all’atto del domandare. La questione — quintessenza dell’interrogazione — è, dunque — almeno nel tessuto degli scenari qui presi in considerazione — la vera soglia del nome proprio. Un nome che è proprio nella misura in cui è cartina di tornasole della storia che viviamo (e dei segni che questa lascia sul nostro corpo finito), e non, all’opposto, nella misura in cui si erge a salvaguardia dalla storia e dalle sue ferite. Esso cambia e ci rappresenta, in quanto noi cambiamo per rappresentarci il tempo del mondo ed agire nel nostro tempo.
Riconoscere questo significa, forse, seguitare la ricerca della filosofia su orme zoppicanti che mai possono darci il possesso di una casa o la piena e tranquillizzante conoscenza dell’Altro, ma semmai essere testimoni discrete del dolore e della sorpresa di una lotta notturna — e quindi addirittura priva della definizione dei contorni e dei confini data dalla luce — volta a cambiarci il nome e a cambiare, di conseguenza, anche il nome delle cose.
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L’asse portante di questo saggio riassume, seppure in modo provvisorio, parte dell’itinerario di ricerca da me condotto presso il Dottorato di Ricerca in «Etica e Antropologia. Storia e fondazione«dell’Università di Lecce. Come tutte le ricerche, anche quella qui appena accennata è aperta ad ogni sorpresa, ad ogni scandalo, e pertanto è percorsa interamente dal dubbio e della inconclusività. E tuttavia, in essa sono confluite anche le suggestioni provenienti dagli studi paralleli da me condotti sui rapporti tra filosofia e cinema e tra filosofia e poesia. Non a caso, il titolo del saggio è un «plagio cosciente«- e, perciò, un omaggio — del titolo del bel volume di poesie di A. Contiliano (La soglia dell’esilio, Prova d’Autore, Catania 2000). Proprio in quest’ottica di riconoscimento per ogni radice di senso confluita nel mio percorso, mi preme consegnare al lettore, più che un esito, un dubbio, più che una conclusione, un’ulteriore domanda. Davvero, forse, la profondità dell’animo umano è così abissale da consentirci, piuttosto che una compiuta conoscenza dell’universale, semplicemente un atto d’amore. Riflettere su questo, sul fatto stesso dell’esistenza — e, dunque, continuare a fare filosofia —, senza rendere asettica e artificiosa la parola, indisponibile ad ogni cambiamento, ad ogni metafora e ad ogni metabasi, significa, forse, restare interi di fronte alla vita. Interi, come ibridi di paura e coraggio, di fronte all’esito stesso del finito: quella morte, quella nostra morte, che, sola, restituisce senso ad ogni pur incompiuto atto d’amore. Amiamo nel finito, come cifra del finito stesso. In questo, dunque, amiamo proprio perché possiamo morire. Eppure — come Er, il filosofo per eccellenza del mito platonico — desideriamo ulteriormente perché siamo incompiuti. Siamo uomini perché siamo consapevoli che la nostra essenza dice, forse non del tutto contraddittoriamente, ad un tempo, della nostra stessa fine e del nostro infinito desiderio. Questo racconto, questo narrare di impercettibili soglie, è quello che ho sempre trovato, inconclusivamente, nella stessa filosofia. ↩︎
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L’opera di certo più rappresentativa di tale filone è quella di F. Rosenzweig, Das neue Denken. Eine nachträgliche Bemerkung zum Stern der Erlösung in Id. Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften (in seguito GS), Band III, Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, hrsg von R. und A. Mayer, Martinus Nijhoff, Dortrecht 1984, pp. 139-161; tr. it. Il nuovo pensiero, Arsenale, Venezia 1983, ora anche in Id., La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, a cura di G. Bonola, tr. it. di G. Bonola e G. Benvenuti, Città Nuova, Roma 1991, pp. 257-282. È pur vero che, «quasi conquistato da un desiderio di riconoscimento e di radicamento in una tradizione comune, Rosenzweig elenca, in una sorta di discendenza, i filosofi della parola: Eugen Rosenstock, Rudolf Ehrenberger, Hans Ehrenberg, suoi interlocutori epistolari, Victor von Weizsäcker, Martin Buber (in particolar modo nell’opera Io e Tu), Florens Christian Rang e Ferdinand Ebner». G. Bonagiuso, L’eroe tragico e la filosofia narrante. Franz Rosenzweig e la genesi del Nuovo Pensiero, «Idee», 52/53, 2003, p. 67. Non v’è dubbio che al Nuovo Pensiero andrebbero ascritti anche filosofi come Emmanuel Levinas e pensatori irregolari come Edmond Jabès, protagonisti anche loro della parte tematica di questo saggio. ↩︎
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Com’è noto, la posizione filosofica della scuola d’Elea tendeva a negare ogni consistenza alla questione del non-essere. La celebre conclusione del poema parmenideo Sulla natura recita, appunto, che solo dell’essere è possibile fare discorso e quindi avere conoscenza epistemologica. Coloro che ammettono anche l’esistenza del non-essere sono definiti da Parmenide dìchranioi, bi-cefali; filosofi, cioè, che pensano con due teste, indecisi tra l’essere e il nulla, impossibilitati, infine, a concepire alcuna proposizione scientificamente valida o filosoficamente cogente. Cfr. Parmenide, Sulla natura (cit. in Simplicio, Phys., 117, 2) tr. it. di P. Albertelli in G. Giannantoni (a cura di), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, tomo I, Laterza, Roma-Bari 19791, p. 272. Platone, per risolvere la questione del movimento — considerato dagli eleati solo una mera apparenza —, si trova costretto ad ammettere un passaggio dall’essere al non-essere. Tale asserzione, contraria all’assunto parmenideo — per altro espresso in forma oracolare e poetica e divenuto presso gli allievi una sorta di dogma da difendere —, generò, appunto, il primo «parricidio«della storia della filosofia; un disconoscimento delle posizioni filosofiche del proprio maestro che Platone opera nel Sofista. Cfr. Platone, Sofista, in Opere, tr. it. e a cura di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Milano 1993, pp. 239-278. ↩︎
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Cfr. Platone, Parmenide, pp. 333-366. Su questo punto, il mio saggio è debitore di talune intuizioni, ancora in via di sviluppo, ad un incontro con il prof. Domenico A. Conci che, nel chiarire come l’idea di «alterità«debba pensarsi in qualche modo come «irrelata», fondando se stessa proprio sull’irrelazione, mentre quella di «diversità«sia comunque da pensare come legata ad un Io, ad un soggetto, rispetto al quale, comparativamente, essa sia concepita, ha anche mostrato come — e ciò a partire dalla sua fenomenologia «contrastiva«- le culture vedano in modo diverso cose diverse. A parte il fatto, vero, ma spesso occultato da sistemi a prevalenza egologica, che non tutte le culture posseggono l’Io — quel particolare tipo di soggetto posto come akmé di un percorso prospettico che tutto riconduce a sé, fondandosi come terminus ad quem e perfino come terminus a quo dell’atto gnoseologico o morale — e che la sua «invenzione«greca e occidentale non può darsi semplicemente come una scoperta, o, peggio, come una conquista, rispetto alla quale tutto il resto sia da considerarsi passato o, addirittura, involuto; a parte questo, dicevamo, nel costrutto contrastivo si configura anche una interessante abrasione del continuo spazio-temporale che si regge sulla logica dell’impermanenza, in favore di una temporalità profonda, svelata dalla messa in campo di un’epoché radicale inerente non solo gli oggetti, ma anche l’idea di soggetto. Da questo percorso, assai carico di implicazioni filosofiche, deriva una concezione del tempo basata sulla categoria di «ripetizione«che, in verità, Conci applica solo agli schemi dell’universo mitico rituale, condizionandone la portata rivoluzionaria con una sorta di dichiarato limite antropologico, ma che potrebbe invece rivelarsi estremamente cogente per i percorsi sull’alterità intrapresi dal cosiddetto Nuovo Pensiero, ed essere quindi argomento potente anche in sede ontologica. Bisognerebbe, a tal fine, legare l’analisi «contrastava«di tipo fenomenologico invocata da Conci, con la metafisica dell’altro uomo, ovvero con l’etica come filosofia prima, anch’essa condotta con le metodiche fenomenologiche, o quantomeno husserliane, da Levinas. In tal modo, forse, si potrebbe varcare il recinto d’obiezione descritto — e, in verità, spesso pedissequamente ricalcato — da J. Derrida, Violence et métaphysique, essai sur la pensèe d’Emmanuel Levinas, «Revue de Métaphysique et de Morale», 3-4, 1964; tr. it. di G. Pozzi, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas in J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 20023, pp. 99-198. Secondo Derrida, l’Altro come irrelazione resta non tanto un miraggio della filosofia levinassiana, quanto una vera e propria violenza; l’asimmetria o dissimmetria di Totalità e infinito non reggerebbe, difatti, al compito di sdoganare l’etica quale «filosofia prima». Certo, è quantomeno da notare come Derrida sottovaluti l’impatto teoretico rivoluzionario delle categorie dell’esteriorità in Levinas, salvo poi utilizzarle a piene mani. Scrive Conci: «La figura della ripetizione scandisce […] da cima a fondo il tempo dell’universo mitico-rituale. Ma tal figura deve essere radicalmente differenziata da quella del ritorno ciclico se […] tale ripresa, come coincidenza dell’inizio e della fine, è intesa ellenicamente come l’immagine mobile dell’identità noetica stessa. La ripetizione mitico-rituale, infatti, retta, invece, dall’identità iletica, non è e non può essere pensata e vissuta dalle comunità a fondamento sacrale come un accadere puntualmente periodico, automatico, necessitato e assicurato a priori una volta per tutte. Solo l’esecuzione diligente, cerimonialmente sancita, di dròmena rituali […] può esaudire, forse, per ripetizione, la ripresa auspicata […] dai devoti. E la ripresa, basata sull’identità iletica e non poetica, deve essere invocata, propiziata impetrata, e quando avviene […] la coniugazione reale tra vissuto sacrale e vissuto profano […] è una identità di tipo iletico. Essa si fonda su contenuti reali analoghi od omologhi ed appare del tutto estranea a qualsivoglia automatismo necessitato che renderebbe, per altro, futile ed intimamente contraddittorio l’evento rituale stesso». A chiosa di questa pagina, lo stesso Conci aggiunge, anticipando l’obiezione che l’epistemologia rigida, fondata sulla non-contraddizione, potrebbe rivolgere ad un simile discorso: «Il principio di non contraddizione è relato all’identità noetica e non a quella iletica e, quindi, non può valere in alcun modo al di fuori di quella. La cosiddetta «possibilità di coniugare l’identico con il diverso«- fondamento reale e logico di ogni evento metamorfico —, come si esprimerebbe un Occidentale, poggia proprio sull’identità iletica e non implica alcuna presunta violazione del principio noetico dell’identità, per altro assente nelle culture a base rivelativa». A. D. Conci, Tempi sacri e tempi profani di culture a fondamento rivelativo. Analisi fenomenologiche, «Annuario filosofico», 17, 2001, p. 156. ↩︎
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Sulla questione di nulla e ni-ente, in riferimento all’essere e all’ente, è ritornato M. Heidegger, Nietzsche, Verlag Günther, Neske Pfullingen 1961, pp. 543-545; tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 578-582. ↩︎
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Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1109b 32 ss., 1111a 23, 1111b 7 ss., 1136a 32 ss., 1138a 9, 1152a 15; tr. it. di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993, pp. 109-110, 114-115, 116-117, 216-217, 222-223, 284-285. Si tratta dei luoghi-chiave nei quali Aristotele chiarisce i criteri di discernimento riguardo alla volontarietà e alla involontarietà delle azioni. Inutile ricordare come buratto indispensabile, per l’impianto Aristotelico, sia la figura della proàiresis, della deliberazione, che è fortemente legata alla conoscenza dei fini. Appare chiaro come l’imputabilità etica riguardi, in questo contesto, le azioni volontarie, ovvero quelle compiute nella chiara coscienza dei fini e nella chiara attuazione, e nel trasceglimento, dei mezzi idonei a raggiungerli. ↩︎
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Cfr. G. Modica, Dià-logos e inter-esse. Appunti sul senso di una medizione soggettiva, in G. Nicolaci — P. Polizzi (a cura di), Radici metafisiche della filosofia. Scritti per Nunzio Incardona, Tilgher, Genova 2002, pp. 243-253. ↩︎
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«Il tema dell’alterità [grava] oggi proprio su queste due leve complementari: se per un verso esso attinge alla questione del nomadismo e dell’erranza, e quindi al problema della rivelazione intesa come incontro sempre nuovo con l’altro, della responsabilità come affidamento e custodia dell’uomo, dell’ambiente e dello stesso senso delle cose, per altro verso esso ripercorre binari impensati — seppure problematici — proprio sul crinale idealistico. […] Si tratta di una tensione che rinvia la questione dell’alterità ad una dimensione assolutamente platonica; l’èteron, ovvero l’essere altrimenti, che — pur avendo così vasta eco nel pollachòs lègetai della «filosofia prima«aristotelica — sancisce di fatto una sorta di raddoppiamento del soggetto. Infatti, il soggetto appare, in quest’ottica, come colui il quale ha la possibilità di porre a se stesso l’obiezione, ma anche, contemporaneamente, come colui il quale è in qualche modo «soggetto«a quella stessa obiezione: un’interessante rilettura di taluni esiti del platonismo che, a partire da Hegel, colloca la questione del negativo all’interno della via dialettica della verità come inquietudine e, al tempo stesso, come segno del Sé come Altro». G. Bonagiuso, La segreta voce del ventre. A proposito de Il ventriloquo di J. -L. Nancy, in corso di pubblicazione su «Teoria», 2004. ↩︎
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Su questo, cfr. ancora A. D. Conci, Tempi sacri e tempi profani…, p. 141. ↩︎
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Non a caso, l’opera filosofica nella quale questo problema è affrontato ex professo, s’intitola Altrimenti che essere o aldilà dell’essenza. Cfr. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-délà de l’essence, Martinus Nijhoff, Den Haag 1978; tr. it. di S. Petrosino, Altrimenti che essere o aldilà dell’essenza, Jaca Book, Milano 1996. Esemplare, in Levinas, anche la figura della «asimmetria», o «dissimmetria«etica: «Io sono responsabile di altri senza aspettare il contrario, anche se mi dovesse costare la vita». Cfr. Id., Ethique et infini, Fayard, Paris 1982, p. 93; tr. it. e a cura di E. Baccarini, Etica e Infinito. Dialoghi con P. Nemo, Città Nuova, Roma 1984, p. 112. E altrove, ancor più incisivamente, aggiunge: «Altri passa sempre avanti. E ciò che ho chiamato, in linguaggio greco, la dissimmetria della relazione interpersonale. Senza questo non una riga di ciò che ho scritto regge». E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1982; tr. it. di G. Zennaro, a cura di S. Petrosino, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1986, p. 108. La prospettiva dell’alterità diviene così fondante all’interno del discorso etico. Rompendo la simmetricità e reciprocità della relazione etica di natura mutualistica — secondo la quale, Io non invado il tuo spazio se e poiché Tu non invadi il mio —, ed anche al costo di fare dell’Io un ostaggio del volto altrui, Levinas realizza una sorta di fondazione dell’etica iuxta propria principia. Solo che, in questo caso, il principio di fondazione non è concettuale (una norma), né simbolico (un volto che rimanda a tutta un’umanità), bensì fattuale: il Volto d’altri, come significazione kath’autò, come significante e significato assoluto, valido per se stesso, che non rimanda a niente oltre se stesso. Proprio perché l’Altro non è un concetto né un simbolo, ciò che egli farà — in quanto altro e non in quanto un-altro-Io — non è affar mio. Cfr. ivi, p. 117. L’etica investe, dunque, l’Io come responsabilità; come trascendenza assoluta. L’Altro, il suo volto che non è il mio, non è in mio potere. La sua trascendenza è data dal fatto che il suo stesso apparire non è in mio potere. È pur vero che Io posso togliere l’Altro, uccidendolo; ma quest’atto di per sé non lo cancella. Anzi, proprio perché Io posso uccidere il volto, questo reclama la mia custodia. Dalla possibilità stessa dell’omicidio emerge, in modo ancor più schiacciante, la trascendenza del volto e l’ineludibilità della responsabilità etica. ↩︎
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Trauma, se si segue l’itinerario del Nuovo Pensiero scandito nel III libro della I parte di Der Stern der Erlösung di Rosenzweig. Cfr. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung in GS, Band II, Den Haag 1976, pp. 67-90; tr. it e a cura di G. Bonola, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 65-87. Desiderio, se si predilige la via levinassiana. Cfr. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Martinus Nijhoff, Den Haag 1961; tr. it. di A. Dall’Asta, a cura di S. Petrosino, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1996, pp. 41 ss. e passim. ↩︎
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Sul nesso tra responsabilità e diacronia resto comunque debitore alla prospettiva di M. Signore, Per un’etica della responsabilità come dia-cronia e an-archia, in Id., Questioni di etica e di filosofia pratica, Micella, Lecce 1995, pp. 29-49. ↩︎
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La ripresa va qui intesa in senso pienamente kierkegaardiano. Cfr. S. A. Kierkegaard, Gjentagelsen, in Samlede Værker (di seguito SV), 14 voll., a cura di A. B. Drachmann, J. L. Heilberg e H. O. Lange, Copenaghen 1901-1906; tr. it. e a cura di D. Borso, La ripetizione, Guerrini e Associati, Milano 1991. ↩︎
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«Unter den Blicken der dritten Person, ob nun nach aussen oder nach innen gerichtet, gefriert alles zum Gegenstand». J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a M. 19882, p. 347; tr. it. di Emilio ed Elena Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 19913, p. 300. ↩︎
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Cfr. E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, p. 106. Corsivi miei. ↩︎
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Di Edmond Jabés è ormai edita, in Italia, quasi la totalità delle opere d’interesse filosofico. Tra quelle che più riguardano il presente saggio, ricordiamo: Le Livre des Questions, Gallimard, Paris 1963; tr. it. di C. Rebellato, con prefazione di M. Cacciari, post-fazione di G. Scalia, Il libro delle interrogazioni I, Marietti, Casale Monferrato 1985. Le Livre de Yukel, Gallimard, Paris 1964 e Le Retour au Livre, Gallimard, Paris 1965; tr. it. di A. Rocchi Pullberg e di F. Santini, Il libro delle interrogazioni II e III, Marietti, Genova 1988. Le Livre du Dialogue, Gallimard, Paris 1984; tr. it. di A. Prete, Il libro del dialogo, Pironti, Napoli 1987. Le Parcours, Gallimard, Paris 1985; tr. it. di A. Folin, Il percorso, Pironti, Milano 1991. La Mémoire et la Main, Fata Morgana, Montpellier 1987; tr. it. di D. Bisutti e A. Panicati, La memoria e la mano, Mondadori, Milano 1992. Le Livre du Partage, Gallimard, Paris 1987; tr. it. di S. Mecatti e A. Panicati, Il libro della condivisione, Cortina Raffaello, Milano 1992. Un Étranger avec, sous le bras, un livre de petit format, Gallimard, Paris 1989; tr. it. di A. Folin, con uno scritto di P. A. Rovatti, Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato, SE, Milano 2001. Le Livre de l’Hospitalité, Gallimard, Paris 1991; tr. it. di A. Prete, Il libro dell’ospitalità, Cortina Raffaello, Milano 1991. Colpevolmente latitante è, invece, in Italia, l’attenzione della critica filosofica su questo interessantissimo autore. Prezioso è, per la trasversalità delle letture, il volume collettaneo, che riassume gli esiti del Convegno di Cerisy-La-Salle dell’agosto 1987, Écrire le livre: autour d’Edmond Jabès, Champ Vallon, Seyssel 1989, tradotto parzialmente in Italia col titolo Edmond Jabès. Alle frontiere della parola e del libro, a cura di A. Folin, Il Poligrafo, Padova 1991. Pregio dell’edizione italiana è l’accurata nota bibliografica curata da Enrica Manfredotti. Nella citazione dei passi di Jabès ho cercato di rispettare finanche la scansione e la disposizione spaziale delle righe. Ho perfino cercato di segnare la gran mole di «virgolette» («) quasi mai chiuse, ritenendo queste «aperture» del tutto consone all’impianto ermeneutico dell’Autore. Voglio qui anche far notare come l’assenza del saggio di Derrida su Jabès, inserito nel già citato La scrittura e la differenza, dai riferimenti ermeneutici del percorso critico, sia il frutto di una scelta tanto voluta quanto pensata. La sua presenza, come il lettore potrà facilmente rilevare, è comunque «citata», per così dire, e contrario, all’interno del dettato. ↩︎
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E. Jabès, Uno straniero…, p. 31. ↩︎
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P. Stefani, Il nome e la domanda. Dodici volti dell’ebraismo, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 45 ss. ↩︎
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E. Jabès, Uno straniero…, p. 25. Non meravigli affatto la tangenza, di sponda, di simili stilemi con i percorsi levinassiani tracciati dalle opere più discorsive: «Affar mio è la mia responsabilità e la mia sostituzione iscritta nel mio io, iscritta come io. L’altro può sostituirsi a chi vorrà, tranne che a me. È proprio per questo probabilmente che siamo numerosi al mondo. Se invece di sostituirmi ad altri, aspetto che un altro si sostituisca a me, ciò sarebbe di moralità dubbia, ma, di più, ciò distruggerebbe ogni trascendenza. Non si può lasciarsi rimpiazzare per la sostituzione come non si può lasciarsi rimpiazzare per la morte». E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, p. 117. E prima: «È necessario che l’altro sia accolto indipendentemente dalle sue qualità, se deve essere accolto come altro». Ivi, p. 104. E ancora: «La mia responsabilità per l’altro uomo […] non proviene da un rispetto votato all’universalità di un principio, né da una evidenza morale. È una relazione eccezionale in cui il Medesimo può essere riguardato dall’Altro senza che l’Altro si assimili al Medesimo». Ivi, p. 28. ↩︎
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E. Jabès, Uno straniero…, p. 31. ↩︎
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«Allo straniero non domandare il luogo di nascita, ma il luogo d’avvenire». Ivi, p. 15. «Il deserto non si confida che al deserto». Ivi, p. 14. ↩︎
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Ivi, p. 30. ↩︎
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Ivi, p. 31. ↩︎
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Ibid. E ancora: «Quel che separa […] sono i muri, le ospitali case di pietra». Ivi, p. 36. ↩︎
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E. Levinas, Totalità e infinito…, p. 176. ↩︎
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Cfr. E. Baccarini, Ulisse e Abramo. Nostalgia e speranza, «Apeiron», 2, 2002, pp. 33-49. Sulla nostalgia di Ulisse resta un classico il volume di V. Jankélévitch, L’irreversible et la nostalgie, Albin Michel, Paris 1974. Sulla speranza di Abramo cfr. A. Sègal, Abraham. Enquête sur un patriarche, Puf, Paris 1995. ↩︎
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E. Jabès, Uno straniero…, p. 35. ↩︎
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Sulla centralità della orexis, il desiderio, in Aristotele, e non solo in campo etico, sono significativi gli studi di M. Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e pensiero, Milano 1998 e Id., La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna 1996, in particolare pp. 508-511. Oltre all’intero impianto del De Anima — all’interno del quale è espresso, in vero, il fulcro della dottrina della òrexis — Aristotele rivela anche un impiego specificatamente etico. Ho anche separato òrexis ed epitymìa non solo per ragioni lessicali, ma in quanto l’originalità d’impianto della prima nozione costituisce, a mio avviso, l’anima stessa del pensiero aristotelico, mentre l’utilizzo della seconda resta viziato dall’impiego originariamente platonico, tendenzialmente negativo. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, ?? 1094a 1-4, 1102b 32. ?, 414b 2. A commento e problematizzazione, si veda l’ormai classico G. Rodier, Aristote. Traité de l’âme. Commentaire par G. Rodier, Vrien-Reprise 1985, pp. 527-565. Sulla centralità del desiderio in Levinas è sufficiente richiamarsi al «desiderio dell’invisibile«che costituisce il tratto peculiare del saggio sull’esteriorità. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito…, pp. 31 ss. e passim. Il desiderio d’amore, descritto da Rosenzweig come rivelazione, contribuisce a tracciare in maniera addirittura anticipatrice la fenomenologia del volto che sarà fatta propria da Levinas, e la fenomenologia del nome proprio. Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, pp. 167-201. Echi del desiderio emergono anche in Buber a proposito della relazione tra Io e Tu. Cfr. M. Buber, Ich und Du in Das dialogische Prinzip, Lambert Schneider, Heidlberg 1984; tr. it. di A. M. Pastore, Io e Tu, in Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 19973, pp. 111 ss. ↩︎
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E. Jabès, Uno straniero…, p. 36. ↩︎
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Ivi, p. 32. ↩︎
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Cfr. Bereshìt, 32, 25-32; tr. it. e a cura di Rav D. Disegni, Bibbia Ebraica. Pentateuco e Haftaroth, La Giuntina, Firenze 20003, p. 58. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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E. Jabès, Uno straniero…, p. 36. E ancora: «Se posso mettere in dubbio la veridicità del documento che attesta la realtà vivente del mio essere, alla stessa stregua non posso forse domandarmi chi sia questo essere dissimulato sotto questo nome? A meno che il nome, come quello di Dio, non sia così intimamente vuoto, che il fatto di averne uno significhi soltanto far posto ad altri, tenuti in serbo». Ivi, p. 45. ↩︎
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Ivi, p. 37. ↩︎
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E. Jabès, Uno straniero…, p. 37. ↩︎
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Cfr. Parmenide, Sulla natura, in I Presocratici…, p. 278. ↩︎
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Cfr. soprattutto Parmenide e Sofista, in Platone, Opere. ↩︎
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Cfr. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik. Erster Teil. Die objektive Logik, mit einem Vorwort von Leopold v. Henning, Duncker & Humboldt, Berlin 1841; auch erschienen als Reprint, Frommann/Holzboog, Stuttgart, Bad Cannstatt 1965; tr. it. di A. Moni rivista da C. Cesa, Scienza della Logica, tomo I, Laterza, Bari 1981, pp. 52 ss. «Se la dialettica hegeliana ha il suo presupposto nel fatto che «non v’ha nulla, nulla né in cielo né nella natura né nello spirito […] che non contenga tanto l’immediatezza quanto la mediazione», ovvero che, concretamente, «non v’ha che la luce intorbidata e l’oscurità rischiarata», il momento della sintesi, logicamente antecedente e ontologicamente prioritario, rischia di comprimere la reale autonomia del negativo. In altri termini, una dialettica assoluta non può mantenere di fronte a sé una vera alterità, poiché quest’ultima finirebbe per arrestare il momento della sintesi. Come il positivo e il negativo, nell’unità del dipolo, reduplicano se stessi all’infinito nell’effrazione del magnete, allo stesso modo appare impossibile realizzare un reale superamento del procedere della mediazione tramite una forzatura interna alla dialettica». G. Bonagiuso, La dimensione dell’oltre. Tentazione mistica e utopia della storia in Franz Rosenzweig, «Filosofia e Teologia», 2, 2001, p. 315. ↩︎
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G. Scholem, Über einige Grundbegriffe des Judentums, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1970; tr. it. Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 19952, pp. 13-40. E poi, lo stesso Jabès: «Se potessimo dire la trasparenza, potremmo pensare Dio». E. Jabès, Uno straniero…, p. 51. ↩︎
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Ivi, p. 41-42. ↩︎
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Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, p. 6. ↩︎
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Si tratta dell’incontro tra Levinas e alcuni professori dell’Università olandese, tenutosi nel marzo del 1975 all’Università di Leyde. Cfr. E. Levinas, Domande e risposte in Id., Di Dio che viene all’idea, p. 117: «Quanto all’obiezione che mi si potrebbe fare: questa idea di responsabilità implica un certo paternalismo, «tu sei responsabile dell’altro e non importa che l’altro debba accettare la tua responsabilità». Io rispondo: ciò che l’altro può fare per me, è affar suo. Se fosse affar mio la sostituzione non sarebbe altro che un momento dello scambio e perderebbe la sua gratuità». Cfr. quanto già evidenziato, in particolare infra, nota 18. ↩︎
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Cfr. F. Rosenzweig, Der Stern Der Erlösung in GS, p. 68; tr. it. La stella della redenzione, p. 66. ↩︎
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Ivi, p. 12. ↩︎
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S. A. Kierkegaard, Ved en Grav, in SV; tr. it. e a cura di R. Garaventa, Accanto a una tomba, Il Melangolo, Genova 1999, p. 42. ↩︎
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Bereshìt, 32, 25-31; tr. it. Bibbia Ebraica…, p. 58. ↩︎