1. Il soggetto: un singolo peculiare
Nella nota e vasta polemica mossa da Franz Rosenzweig contro la tradizione idealistico/occidentale — la venerabile comunità dei filosofi dalla Jonia fino a Jena — trova spazio anche quella che egli ha definito provocatoriamente «psicologia negativa». La posizione de La stella della redenzione su questo punto non potrebbe apparire più netta.1 Anche del soggetto conoscente e volente intorno al quale è ruotata l’intera storia del pensiero — l’io — la filosofia idealistica avrebbe saputo mettere in ombra gli aspetti più eclatanti e di per sé evidenti. E infatti, per Rosenzweig,
rimane una delle acquisizioni più stupefacenti di Kant aver fatto dell’Io, del dato più ovvio e di-per-sé comprensibile della coscienza il problema per eccellenza […]. Dell’io conoscente egli insegna che si dà solo in ciò che esso conosce, dunque in rapporto ai frutti e non se ne dà conoscenza «in sé». E persino dell’io volente, egli sa che la moralità vera e propria, merito e colpa delle azioni, anche delle nostre azioni, ci rimane sempre celata.2
Secondo Rosenzweig, l’uomo, come tale, è invece «un fatto» (die Tatsache); e come tale, per di più, è un che di indubitabile e, perciò, indimostrabile, al di là di ogni psicologia negativa fondata dall’idealismo, o della conseguente psicologia senz’anima del primitivo comportamentismo di stampo wundtiano. Il tentativo gnoseologico di approdare ad una dimostrazione logica dell’io — come in precedenza mostrato, su altri versanti de La stella della redenzione, per quanto riguarda il mondo e Dio — finisce miseramente per perdersi nel nulla proprio di ogni sapere dimostrativo. Ma tale nulla, tuttavia — seppure utilizzabile dall’idealismo come molla atta ad innescare, nell’elemento del pensiero, il meccanismo dialettico del superamento, tramite la negazione determinata — dal punto di vista della fatticità (Tatsächlichkeit) o della effettività (Faktizität), dell’esistenza dell’uomo vivo e concreto, assume i contorni di un quasi-nulla — un «nonnulla» (Nichtnichts) — di un nulla relativo ad un qualcosa e, quindi, di un vero e proprio qualcosa, tanto reale e cangiante da sfuggire alle maglie comprendenti dell’Aufebung. Ciò, se da un lato esorcizza l’abissalità teoretica del nulla, dall’altro svela il presupposto celato di ogni totalità dialettica: il non potere essere esente da presupposti.3
Sul versante soggettivo, quindi, Rosenzweig assume come punto di partenza dell’itinerario speculativo proprio quel nulla del sapere intorno all’uomo che è stato appunto il risultato della cosiddetta psicologia negativa. Se con Kant il soggetto non sa più se stesso se non come teatro o sfondo di condizioni trascendentali su cui si svolgono atti concettuali e movimenti di pensiero, e se con Hegel il circolo della scienza si muove dal pensiero al pensiero — fondandosi per altro proprio nell’elemento del pensiero —, il nulla su cui si stagliano la sintesi a priori o la dialettica del divenire può ben essere principio per un’inversione. Questo nulla, il nulla del sapere soggettivo — in quanto determinato e in quanto relativo — può fungere da luogo su cui ricostruire la provocatorietà della domanda sull’uomo.
Qual è quindi il vero essere dell’uomo? Rosenzweig elegge ad interlocutori privilegiati Goethe e il Libro di Qohelet, al fine di mostrare come sia la transitorietà la categoria propria dell’uomo, e come essa sia invece estranea al Dio biblico — l’eterno — ma anche agli dèi viventi del pantheon greco — gli immortali —:
l’uomo è perituro, essere perituro è la sua essenza così come l’essenza di Dio è di essere immortale ed assoluto e quella del mondo è d’essere universale e necessario […]. L’essere dell’uomo [è] essere nel particolare.4
Rosenzweig riprende la celebre immagine di Goethe sulla differenza abissale che esiste tra la vita degli dèi e quella degli uomini: che cosa differenzia gli dèi dagli uomini? Che davanti a quelli passano molte onde, noi, l’onda ci alza, l’onda ci inghiotte e ci inabissiamo. Anche l’Ecclesiaste, d’altra parte, insiste sulla transitorietà della vita umana e sulla permanenza, invece, del mondo come tale: «generazione va, generazione viene, ma la terra rimane in eterno».5 Questa datità dell’uomo si traduce anche in una limitazione gnoseologica: egli, infatti, pur tentando di conoscere tutto ciò che lo circonda, è costretto ad arrendersi di fronte all’oggetto proprio del suo sapere che gli è costantemente sovraordinato:
il sapere non sta sotto di lui come per Dio, non sta intorno a lui ed in lui come per il mondo, ma sta sopra di lui […]. Egli non è quando il sapere cessa, ma è prima che il sapere cominci.6
L’uomo, tuttavia — transitorio dal punto di vista temporale ed ignorante per quanto riguarda l’oggetto proprio del conoscere — non si lascia facilmente mettere in bottiglia; l’uomo, proprio in quanto non-è un’astrazione concettuale, né un’impassibile strumento d’una provvidenza necessitante o d’una astuzia razionale che può dominarne le sorti, è capace di gridare costantemente il suo «io sono qui» contro ogni pretesa dell’universale che lo minacci di un incomprensibile annientamento attraverso la forza propria che gli è data dal suo essere particolare, ovvero dalla sua più intima fattualità: la peculiarità (die Eigenheit).7 L’uomo è dunque originariamente un singolo peculiare, ovvero un singolo gettato in uno spazio infinitamente vuoto, che nulla sa degli altri singoli a lui vicini proprio in quanto gli è ignota anche l’esistenza di un «vicino»: egli potrebbe essere ovunque; e, difatti, è «dovunque»:
questa peculiarità dell’uomo è quindi qualcosa di diverso dalla individualità che egli assume in quanto singolo fenomeno all’interno del mondo. Non è una individualità che si separi da altre individualità, essa non è una parte.8
Questa originarietà peculiare, questo insistere in un luogo che non rivela i suoi confini ma anzi li dilata costantemente oltre ogni sguardo comprendente, questa solitudine storica e gnoseologica che nulla vuol sapere al di fuori del proprio fattuale nulla, appartengono costitutivamente all’uomo ancor prima del suo costituirsi come cifra del mondo. La peculiarità, quindi, appartiene ad un singolo che non può ancora dirsi tale, ad un singolo che non ha voce per chiamare avanti a sé ogni differenza legittimandola col conferimento del nome. Egli appare originariamente come l’uomo solo, ontologicamente anteriore alla «chiamata» che gli conferisce l’indizio del suo esistere, e alla «risposta» che gli fornisce lo strumento linguistico per costruire un mondo come unità. L’uomo, originariamente, è quindi un tutto che esclude da sé nulla, ché solo nulla gli appartiene e tuttavia solo nulla gli consente di appartenere all’esistenza.
2. La volontà e l’indipendenza
Gli attributi propri dell’individuo umano, del singolo peculiare dotato di un proprio carattere, possono tuttavia aprirsi, dialetticamente, ad una fase di negazione, preludio necessario al riconoscimento di una libertà peculiare. L’individuo ha infatti di fronte a sé — e ciò, crediamo, giunga a Rosenzweig dalla interpretazione kierkegaardiana della libertà adamitica come sintesi paradossale di innocenza e di ignoranza — un’illimitata possibilità d’azione, che gettandosi nel nulla d’ogni possibilità finisce per rimanerne impigliata, de-terminata. La libertà del singolo originario non è circoscritta da cose, non è limitata da orizzonti di senso pre-costituiti, ed è perciò «in-condizionata» (un-bedingte), non presupponendo null’altro che nulla, e non già «la cosa» (Ding). Tuttavia, pur nell’ambito illimitato che lo caratterizza, il singolo peculiare resta pur sempre un finito. La singolarità umana, a differenza di quella divina, nel «no» pronunciato dalla libertà contro il nulla dell’origine, si trova di fronte ad una realtà sia pure illimitata, ma finita:
la libertà umana è finita, ma in conseguenza della sua immediata origine dal nulla negato, è incondizionata, non-determinata-da-cose, è libertà che presuppone nulla e solo nulla, e non presuppone cose di alcun genere. Dunque essa non è, come quella di Dio, libertà per l’azione, ma libertà per il volere, non libera potenza, ma volontà libera.9
In tale diversità tra uomo e Dio — condotta lungo i binari della libertà e dell’infinità — s’è già aperto, per Rosenzweig, lo spazio proprio del con-essere strutturale che lega, nella differenza, Dio e uomo, e che consente al primo uomo di decifrare il nulla che lo chiama dall’origine come creazione, e quello che lo re-clama dal futuro come trans-creazione. Lo JHWH che passeggia con Adam nell’Eden del Genesi rappresenta ancora il necessario prologo attraverso cui leggere la differenza come comunione delle diversità nel fine unico dell’amore.10 Infatti, mentre in Dio potere e volere coincidono appieno — tanto che la creazione è libero gesto della volontà divina che si traduce in azione e fatto attraverso la semplice articolazione del verbo barà11 —, nella libertà umana il potere è negato sin dall’origine, anche se il volere umano è altrettanto incondizionato e sconfinato quanto la potenza di Dio.
Tale distanza incolmabile tra creatore e creatura si traduce anche in termini morali: «in Dio “essere buoni” significa fare il bene, nell’uomo: volere il bene». Ma è proprio tale peculiare libertà umana ad essere straordinaria all’interno del mondo dei fenomeni: essa, da un lato «appare come un contenuto in mezzo agli altri», ma nel mondo stesso della vita «essa appare come un “miracolo”», proprio perché «diversa da tutti gli altri contenuti».12 L’uomo vivo, come dice Rosenzweig, — ovvero il «sé» più nascosto ed impenetrabile dell’individuo — si rispecchia nel mondo tramite una serie di azioni. Azioni nominanti, all’inizio, che tuttavia, da sole, hanno il potere di costituire un mondo — che tuttavia già c’è come creato — sotto il segno della pregnanza. Il «sé» è dunque una tale libertà che, seppure finita nelle sue espressioni compiute, è parimenti infinita nel suo anelare ad altro e nel suo tendere ad una più compiuta designazione del cosmo.
Così accade di contro che, costruito un ambito, all’interno di esso il «sé» si identifichi con il risultato limitato della sua azione, non accetti l’erranza nomade della sua radice, e si riconosca nella sua finitezza chiudendosi all’interno dei suoi confini, occupandoli in senso fisico ed etico, abbracciandone completamente ogni ambito, e divenendo quindi una volontà caparbia, un «orgoglioso tuttavia», una peculiarità testarda che implode all’interno delle pieghe del carattere:
il sé è ciò che sorge in questa usurpazione della volontà libera sulla peculiarità, come «e» di caparbietà e carattere. Il sé è assolutamente chiuso in sé […]. Il sé non ha relazione alcuna con i figli dell’uomo, ma sempre e soltanto con un unico uomo, con «sé» appunto.13
È evidente quindi come il sé caparbio che non comunica nulla all’altro da sé — incapace com’è di distinguere e/o riconoscere altro oltre il suo limite — non possieda alcuna dimensione plurale: la personalità dell’individuo, il carattere proprio, non può essere posto in relazione, non può essere comparato. E, tuttavia, del «sé» è assolutamente impossibile disfarsi perché esso è assolutamente legato all’unicità del singolo. Il «sé» non s’identifica con uno qualsiasi dei figli dell’uomo, ma con l’uomo stesso: Adam. E questo Adam, posto nell’Eden, è fatto come icona di Dio, come suo specchio fedele, come immagine e stampo, come presenza nominante nel paradiso creato da JHWH. Adam è realmente proprio come Dio, solo che egli «è finitudine laddove quello è pura infinità»,14 ma egli, prima di divenire Adam, come consapevolezza e carattere, è anche tal quale un pezzo di mondo. Adam, nel giorno della nascita naturale, non ha ancora acquisito il carattere e la peculiarità del «sé», ed è quindi un’anima bella, anche di fronte alla sua stessa coscienza. È il «sé» — in un giorno ben preciso della vita — ad irrompere nell’uomo (in Adam come in ogni creatura naturale) e ad assalirlo come un soldato in armi:
l’irruzione del «sé» […] depreda [l’uomo] in un sol colpo di tutte le cose e i beni che egli si vantava di possedere. Egli diviene totalmente povero, ha ormai soltanto «sé», conosce solo sé, nessuno lo conosce, poiché qui non c’è nessuno al di fuori di lui. Il «sé» è l’uomo solo, nel senso più duro del termine.15
Rosenzweig insiste parecchio sul giorno preciso in cui il «sé» prende per sé tutto l’individuo; egli è convinto che il carattere dell’individuo non divenga gradatamente nel tempo, ma si manifesti improvvisamente nell’uomo in un istante preciso dell’esistenza. Come a dire che la caparbietà del «sé», inscritta nella volontà come cifra caratterizzante l’individuo, si manifesta repentinamente nelle prove decisive cui la libertà è soggetta. Anzi, il giorno preciso con cui il «sé» espropria la volontà, facendone virare i connotati verso l’orgoglio e l’arroganza, indica tutt’altro che una maturazione graduale del soggetto, quanto piuttosto una subitanea e determinante — quanto tragica — scelta della libertà dell’io.
Diventare un individuo significa, per Rosenzweig, porsi al di fuori della necessità del mondo naturale pur continuando ad occupare uno spazio reale all’interno di quello stesso mondo, trovarsi per un’intera notte “faccia a faccia” col nulla e, tuttavia, non lasciarsi tentare dalla scappatoia della via assolutamente contro natura.16 Lo scandalo delle nascite perennemente rinnovate — irruzione non razionale ma reale all’interno del sistema del mondo — pone il Soggetto come un Giano bifronte nei confronti del cosmo: da un lato, infatti, egli è un pezzo di mondo, tal quale le cose create; ma, d’altro canto, egli è nel mondo come un ospite — un cittadino in una patria — in grado di leggerne il senso, ed anzi, di conferirgliene uno tramite la capacità d’ascolto e la facoltà di parola.17
Ma, per far ciò, è necessario che il «sé» — questa sorta di daimon — assalga l’uomo, per la prima volta, mascherando il proprio volto con l’effigie di eros, per convivere sempre nell’uomo, entro ogni vita d’uomo, fino all’estremo dell’esistenza quando il «sé» può mostrare la maschera di thánatos. L’uomo, trans-creazione all’interno della creazione, cosa molto buona rispetto alle cose semplicemente buone del mondo tutto, annuncia sin dal suo apparire la soglia stessa su cui s’innesta il suo esistere: la morte. Una morte intesa come
ultraterreno entro la dimensione terrena […] qualcosa di altro dalla vita che tuttavia appartiene alla vita e solo alla vita, [qualcosa che] è stato creato insieme alla vita come suo estremo, e che tuttavia fa presagire un compimento solo oltre la vita stessa.18
È come se la finitezza inscritta nell’esistenza richiamasse la creatura a un dialogo con l’altro da sé, ad un fare i conti con la sequela mortis, che è il recinto della vita, imparando a fissare i tratti della propria stessa fine, soglia e «porta» (Tor) per l’«oltre» (über). L’eros della nascita — l’eros naturale dell’accoppiamento — infatti, lungi dall’essere relativo a un’esperienza di incontro con l’altro, spinge invece proprio all’occupazione d’ogni alterità circostante. Così, piuttosto che manifestarsi come amore per l’altro, il «sé» è rivelativo di un’usurpazione caparbia dello spazio e del tempo. Tanto che, l’oggettivazione della morte creaturale — morte d’altri — appare piuttosto come un regredire del «sé» ad uno stato d’autoconservazione perenne.
A tal proposito è d’uopo connettere il nodo tematico costituitosi tra eros, thánatos e predominanza del «sé», con il mito narrato dalla Epopea di Gilgamesh, del quale Rosenzweig parla a proposito dell’eroe tragico pre-attico. Lo stessa leggenda di Gilgamesh rende tangibile — come figura narrata del mito — il nexus portante che lega l’erotica rosenzweighiana, il tema della morte e l’avvento caparbio e violento del «sé» nell’individuo. Il risveglio del «sé», nell’uomo Gilgamesh, è, infatti, strettamente congiunto al tema dell’amore dell’eroe; a questo fa seguito il racconto interminabile delle imprese, mentre la vicenda eroica si chiude nell’incontro che Gilgamesh vive con thánatos. Incontro vissuto nel senso più pregnante del termine. Infatti, la morte tocca dapprima non già l’eroe, ma l’amico. Thánatos appare come assolutamente oggettivata, e quindi non come delirio o sogno, ma come realtà vissuta sotto gli occhi del «sé».
In quest’episodio conclusivo dell’epopea, l’eroe
non può parlare né tacere, ma neppure si sottomette; tutta la sua esistenza diventa superare con successo quest’incontro; la sua vita assume così la morte, la sua propria morte, che egli ha scorto nella morte dell’amico, come unico contenuto.19
Secondo Rosenzweig, il giorno della morte dell’individuo, è come un gioioso ritorno alla nascita per il «sé» superstite: infatti, in tal modo,
la morte naturale fa sì che divenga manifesto anche all’occhio più miope che la personalità deve lasciarsi spersonalizzare e l’individuale deve lasciarsi ri-generare […]. Nell’intervallo tra queste due nascite del daimon si trova tutto quanto si rende a noi visibile del «sé» dell’uomo..20
Per tali ragioni Rosenzweig considera la vita come una parabola che transita sempre nell’ignoto: il «sé», infatti, non conosce mai né la sua origine, né la sua meta ultima. Il «sé» ha soltanto cognizione del tragitto, dello sviluppo di questa parabola, e ad esso aderisce nel suo supremo distacco da tutte le relazioni della vita, nella sua solitudine sconfinata e vasta, attestata dalle figure arcaiche del mito. Tale «sé» è l’uomo meta-etico, l’artefice della pólis e del nómos; ma anche la pretesa vivente d’essere métron d’ogni cosa. È questo tipo d’uomo che, infine, si traduce nel «silenzioso» eroe della tragedia attica. Il prototipo dell’epopea di Gilgamesh è, infatti, considerato da Rosenzweig l’antesignano del mito greco. Il carattere che lega le due tipologie eroiche è quello del silenzio. Per quel Gilgamesh, che ha sperimentato oggettivamente e de visu la realtà di thánatos nella morte dell’amico, «il mondo con la sua alternanza di grida e silenzio si rende estraneo»21 e non resta quindi che tacere. Secondo Rosenzweig, dunque, l’eroe tragico ha soltanto un linguaggio che gli corrisponde alla perfezione: il silenzio.
Proprio per questo il tragico si è costruito la forma artistica del dramma, per potere mettere in scena il silenzio.22
Infatti «la poesia drammatica […] conosce solo il parlare e solo per questo il silenzio diventa in essa eloquente». È proprio tacendo che l’eroe decostruisce i ponti che potrebbero collegarlo, nella lingua, a Dio e al mondo. Infine, secondo Rosenzweig, gli eroi attici non hanno affatto acquisito, nel tempo, una più ampia capacità di parola; il loro abito resta quello del silenzio. Con Sofocle ed Euripide «essi non imparano per niente a parlare, imparano [semmai soltanto] a destreggiarsi nel dibattito».23
Al contrario del mito occidentale, invece, il mondo orientale — indiano e cinese in special modo — non ha introdotto il carattere tragico all’interno del suo universo rappresentativo: infatti, nel modulo rappresentativo orientale, la ricerca della perfezione (ovvero il raggiungimento della stessa da parte della casta dominante) libera l’uomo da ogni accidentale particolarità del carattere, facendone un santone privo di dilemma ed eroismo, una sorta di «mago» che ha espunto da sé ogni dramma, e che — con ciò — «è redento da tutto», ma «non però dalla propria perfezione».24 Il Buddismo, in particolare, attraverso la sua dottrina del superamento del «sé» perviene all’estinzione dell’individuo peculiare; estinzione effimera e del tutto formale, nota Rosenzweig, poiché l’uomo — come Dio e il mondo — «non si lascia mettere in bottiglia»,25 non si lascia negare, «poiché tanto nel superare, quanto nell’occultare colui che supera ed occulta è tuttavia ancora l’uomo».26
3. Silenzio e trágos: tra Kierkegaard e Rosenzweig
Ma quali sono le ragioni profonde che inducono al silenzio l’eroe tragico? Abbiamo visto come l’eroe della tragedia attica, secondo la chiave di lettura adoperata da Rosenzweig, è la raffigurazione più eclatante del «sé» e del suo mutismo. Sia gli eroi di Eschilo — più propensi al monologo — che quelli di Sofocle ed Euripide — sulla scena più propensi al dialogo — in realtà sono degli eroi muti. Per Rosenzweig, lo stesso dialogo attico, infatti, come meglio emerge nel dramma più arcaico, «non istituisce nessuna relazione tra due volontà, poiché ciascuna di queste volontà può volere soltanto la propria singolarizzazione»; esso è quindi una sorta di monologo bivalente, un giustapporsi di due caparbietà, di due «sé» che si sconoscono l’un l’altro. In fondo, all’interno della drammaturgia attica non ha mai spazio evidente la scena d’amore: essa, invece, spesso compare come monologo, come aspirazione irrealizzata dell’eroe, o come presupposto arcano della vicenda (e, in tal caso, esso è eros naturale, accoppiamento); così come non può aver mai svolgimento la scena della persuasione operata da una volontà su un’altra, poiché mai ha luogo un confronto diretto tra due personaggi al fine reciproco di ottenere la verità dal dibattito. Tipico dell’eroe tragico è invece la lucida coscienza di ignorare l’arché della situazione drammatica. Egli «non comprende che cosa gli accade, ed è cosciente di non poterlo comprendere, non cerca neppure di penetrare gli enigmatici decreti degli dei».27 In questa parte de La stella della redenzione Rosenzweig istituisce un parallelismo assai singolare tra la figura dell’eroe tragico e quella di Giobbe:
Le domande di Giobbe sulla colpa e sul destino se le pongono forse i poeti; gli eroi stessi, a differenza di Giobbe, non sono neppure sfiorati dal pensiero di tali domande. Se lo facessero sarebbero costretti a rompere il loro silenzio. Ma ciò significherebbe fare una sortita fuori dalle mura del loro «sé» e, piuttosto che fare ciò, soffrono in silenzio e salgono i gradini dell’elevazione interiore del «sé», come Edipo, la cui morte lascia completamente irrisolto l’enigma della sua vita e tuttavia, proprio perché egli neppure sfiora questo enigma, richiude e consolida totalmente l’eroe nel suo «sé».28
La differenza posta in essere da Rosenzweig tra l’archetipo dell’eroe tragico e la figura del Giobbe biblico, si esemplifica dunque nell’uso cosciente della parola che il secondo avrebbe rispetto al silenzio inconsapevole del primo. Sembra quasi che Rosenzweig abbia voluto consapevolmente saltare a pie’ pari l’intera categoria biblica della «prova» quale luogo di svolgimento, nel tempo e nella storia, del confronto tra giustizia divina e giustizia umana, escludendo quindi dalla trattazione degli Elementi del pre-mondo il problema della teodicea (ed infatti di teodicea Rosenzweig parlerà soltanto a proposito della «preghiera»; considerandola — in toto — vero approdo gnoseologico ed, insieme, vero squarcio di profezia, in quanto in grado di porre e, al contempo, risolvere la terribile domanda sull’esistenza tramite il congiungersi critico della mano incredula e di quella fedele).29
A ben vedere, infatti — proprio sulla scorta delle argomentazioni del Kierkegaard così caro a Rosenzweig30 — potrebbe emergere con facilità come le fatidiche domande di Giobbe, e persino il suo grido da leone ferito, hanno una risposta da Dio soltanto nel silenzio dell’uomo e nell’abbandono del metro di giustizia retributiva proprio del mondo. Anzi, è proprio Giobbe a dover scegliere, come suo abito linguistico ed esistenziale, il silenzio quando la voce divina svolge, una dopo l’altra, un’infinita serie di domande sul principio e sull’inizio cui Giobbe non sa nemmeno come accostarsi. Così, il grido dell’uomo è destinato a spegnersi di fronte all’imperscrutabile verità di Dio; e, parimenti, soltanto quando Giobbe — stracciate le sue vesti e cosparso di cenere il capo — pronuncia le parole di sottomissione: «il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore»,31 ha inizio la sua «ripresa». Ma è pur vero, correggendo il tiro dell’approccio semantico al testo biblico, che, nonostante il silenzio nel quale il grido è zittito, Giobbe è ben in grado di «contendere con Dio», di convocare la giustizia infinita di JHWH al suo stesso tribunale, di porre l’Altissimo nelle condizioni di dover dare all’uomo una risposta.
Altro esempio-chiave nell’universo biblico — utilizzando ancora la prospettiva kierkegaardiana come apice del confronto32 — del silenzio del «cavaliere della fede» è quello significato da Abramo che, sempre tacendo, s’avvia verso il monte ove dovrà compiere il sacrificio del suo unico figlio. Qui il silenzio appare in tutta la sua fredda consistenza: esso può ben essere letto come «paradosso semantico»33 poiché piuttosto che aprire al pianto o ad alte grida, prelude essenzialmente all’impossibilità di dire nulla che possa essere comprensibile per l’uomo. Abramo, nel vivere come «sacrificio» il gesto che chiunque altro valuterebbe come assassinio, ha acquisito un ambito d’espressione che eccede il recinto istituzionale della parola morale. Il suo è un dire-tacendo, un dire silenzioso e, comunque, non più umano, ma divino: per questo, Abramo non può più dialogare con se stesso e con ogni uomo del mondo.
Se queste sono le tracce dell’itinerario kierkegaardiano svolto attorno alle figure del cavaliere della fede, parimenti antitetiche sono quelle esposte dal filosofo danese sulla figura dell’eroe tragico. Per Kierkegaard, il silenzio — come abito di vita e, paradossalmente, di parola — non si addice affatto all’eroe tragico: Agamennone che sacrifica Ifigenia ha sempre aperta di fronte a sé la possibilità di una koiné linguistica con il suo popolo e con il criterio generale dell’etica, del nómos e della religione degli dèi viventi. Egli è l’eroe compreso da tutti, laddove Giobbe è solo contro moglie ed amici, ed Abramo è solo finanche contro se stesso allorché diventa preda dell’incertezza di possedere l’autorizzazione divina.
Sul fronte tragico si potrebbe analogamente argomentare che Edipo morente è sì ignaro circa i moventi del fato, ma è consapevole circa la certezza della sua azione colposa: e sebbene il suo grido non possa leggersi come risarcitorio, è pur sempre una voce ben udibile e ben comprensibile dagli altri; laddove, invece, — sul versante biblico — inspiegabile può apparire al lettore dell’Antico Testamento la lotta di Giacobbe con l’angelo/ JHWH, e la sua vittoria con Dio e con gli uomini che lo fa Israel al cospetto di Dio.34
È invece una caratteristica propria dell’eroe attico, secondo la lettura rosenzweighiana, quella di morire senza venir mai a capo delle «ragioni» della Moira e dei capricci degli dèi: egli è eroe giacché soccombe,
poiché il tramonto è per lui la più alta consacrazione ad eroe […]. Egli anela alla solitudine del tramonto, poiché non vi è solitudine più grande di questa.35
Questa è la prospettiva che fornisce all’eroe il suo tratto più universale: l’immortalità. È proprio dell’eroe, infatti, sopravvivere a se stesso; la morte lo uccide soltanto in quanto individuo, ma il carattere peculiare del «sé eroico» sopravvive al tempo e permane come immortale. Rosenzweig lega addirittura tutte le dottrine antiche sull’immortalità dell’anima a questo perdurare del «sé» oltre l’oggettività:
teoreticamente tutta la difficoltà consiste soltanto nel rinvenire un soggetto naturale di questo non-poter-morire, un «qualcosa» che non possa morire.36
Da questa esigenza di immortalità per «qualcosa» di noi, nasce la psicologia antica, la teoria filosofica sull’anima quale substrato non soggetto a corrosione e morte. In ciò stesso si è avuta, per Rosenzweig, la diversificazione dello spirito dal restante «qualcosa» mortale, e, quindi, la sua separazione, finanche teoretica, dal corpo. La conseguenza filosofica, dapprima orfica e pitagorica ed infine platonica, fu l’enunciazione della dottrina della trasmigrazione delle anime:
l’anima, si sostiene, non può morire, ma poiché essa è intessuta nella natura, il non poter morire diviene un’inesauribile capacità di trasformarsi: l’anima non muore ma trasmigra di corpo in corpo.37
Così fu fatta salva l’identità del «sé» e, nel contempo, venne garantito il suo perdurare in figure sempre diverse, attraverso l’oblio e l’irriconoscibilità del suo migrare. Il «sé» rimase, per ciò, singolo e muto, privo di lingua e di relazione con l’héteron a lui vicino. Proprio a tale silenzio e solitudine — secondo Rosenzweig — il «sé» dovrebbe rinunciare per acquisire, insieme con la parola, l’identità con se stesso e con il proprio corpo: esso dovrebbe appunto farsi anima in questo nuovo significato: come una totalità dell’uomo al di là di ogni presunta opposizione tra un corpo e l’anima. Il «sé» dovrebbe varcare quindi il limite del proprio carattere e divenire altro da se stesso; l’uomo solo, dovrebbe, nel confronto e nel riconoscimento dell’altrui diversità, divenire solo un uomo. Ma il «sé» muto non può certo uscire fuori da sé; egli è sordo e cieco ad ogni richiamo proveniente dal di fuori; anzi, al suo cospetto non esiste affatto alcun fuori da sé. La sua è una vita protesa soltanto verso l’interno: nessuna legge emerge o splende al di fuori della sua; nessuna luce infrange la sua solitudine costitutiva.
4. Dal silenzio alla parola
La filosofia del paganesimo38 raggiunge quindi, nell’analisi sviluppata da Rosenzweig all’interno del I libro de La stella della redenzione, alcuni traguardi alla luce dei quali è possibile inquadrare l’intero universo conoscitivo che ha a che fare con l’orizzonte articolato del mito: Dio, mondo e uomo — ognuno preso per sé, nella propria ipseità — si chiudono a qualunque rapporto linguistico, nonché interattivo, che non sia la mera e strumentale nozione di uso. Il caso che più ci interessa — quello del costituirsi della singolarità tramite il passaggio dalla caparbietà muta all’esigenza dell’altro posta in essere tramite la parola — può di certo essere preso a modello per il divenire del mondo. In modo assai similare, poi, il divino dei filosofi occidentali — o quello più articolato e bizzarro del mito arcaico (e, per Rosenzweig, non migliori sono le conclusioni cui approda l’universo filosofico orientale), come anche gli dèi del Pantheon greco — finisce per costituire per sé un mondo iperuranico (intermundia epicurei o dimensione olimpica che sia) ponendosi, di contro, in relazione alla sfera dell’umano, come di fronte ad un ob-jectum privo di vettore relazionale: un mondo minore, abitato da esseri infinitamente deboli, non degni di colloquio, ma utili piuttosto soltanto ad essere barattati, combattuti, utilizzati e, alla fine, abbandonati. Questo divino — anche nella sua accezione più nobile di éidos platonico o di nóesis noéseos39 aristotelico — resta irrimediabilmente lontano, nascosto, chiuso in sé, distante ed impossibile da penetrare per le capacità umane, assurdo da comprendere poiché, sempre o quasi, immotivato nell’odio come nell’amore; un siffatto «divino» rimane, dunque, ostile alle ragioni dell’uomo, distolto com’è dai destini del mondo, ed esso stesso succubo degli inoppugnabili decreti della Moira, nonché impotente nei confronti della realtà della morte.40
A fronte di un tale divino, incarnato dall’archetipo dell’Olimpo mitico, e, talvolta anche contro di esso, s’era alzata maestosa la silente figura dell’eroe tragico; eroe muto, chiuso nel suo «sé» impenetrabile, ignaro del proprio destino come anche delle «ragioni illogiche» dei Numi; un eroe, quindi, monologante, che non avanza alcuna pretesa di dialogo con l’altro a lui simile, poiché — introverso nell’oscuro fondamento della sua caparbietà — ignora persino l’esistenza di qualcosa al di fuori di sé. Un eroe incapace finanche d’amare, di provare un sentimento compiuto — completo e corrisposto — se non sotto le mentite spoglie dell’aspirazione mai realizzata — e quindi ideale — o della conquista dello spazio circostante. Un eroe, per ciò, tragico, che vive nell’incapacità perenne di persuadere o d’essere persuaso; muto e sordo, infine, poiché inadatto sia all’uso della parola che alla prassi dell’ascolto:
Le monde des Grecs est un cosmos plastique, autonome, indépendant des dieux et de l’homme, pour autant que celui-ci est davantage qu’un simple maillon de la chaîne de causalité naturelle, et l’homme, dans sa vie humaine, se maintient dans une posture semblable lorsqu’il ne dépend que de lui-même. Ainsi, la tragédie grecque décrit-elle des héros dont la grandeur tient à ce qu’ils existent dans leur nature spécifique, et dont l’isolement dans lequel ils sont enfermés constitue le destin. Les dieux grecs vivent eux aussi des vies séparées, sauf aux moments où ils interviennent pour affirmer leur domination sur le destin du monde et des hommes.41
Contro la metafisica lontananza del dio mitico, s’alza dunque — come una muraglia addossata contro un’altra muraglia — la solitudine del «sé», il carattere di quell’eroe tragico che vive un’intera esistenza al fine di oggettivare la morte: un eroe pre-ellenico come Gilgamesh, il cui destino è quello di lottare affinché l’Eros della nascita, sperimentato nei pochi istanti dell’accoppiamento, ritorni a lui sotto la maschera orribile di thánatos. È il silenzio assoluto a regnare come despota in un mondo siffatto; mondo occidentale che — pur brulicando di figure sempre nuove — se da un lato non degenera nel nichilismo orientale del Buddha, dall’altro lato non offre più nulla di nuovo sotto il sole dell’umano, né tanto meno fornisce una via certa per l’eroe: via certa che conduca non solo alla salvezza — o all’annullamento della realtà della morte — ma soprattutto ad una comunicazione efficace e piena tra gli elementi. Lo scotto della comunicazione interrotta, non compiuta, tra gli elementi del pre-mondo, è sancita dall’esperienza del mutismo del sé, nella figura dell’eroe tragico, e dalla «solitudine» morale in cui piomba questa vita materiale qualora non si riesca compiutamente a fornirle un senso gratificante per l’individuo.
Basterebbe dunque — secondo Rosenzweig — l’introduzione di una parola comune — che vada al di là dei monosillabi affermativi e negativi «sì» e «no» che hanno caratterizzato l’intero climax del I libro42 — per costruire un rapporto: una parola originaria da porre come pietra angolare a fondamento di una comunicazione tale per cui, pur nell’assoluta diversità ed alterità degli elementi, si stabilisca un linguaggio comune, una koiné concettuale, che serva da lingua madre d’ogni detto, fatto e scritto. Solo attraverso la parola-matrice-del-linguaggio, il mutismo del sé potrà dischiudersi alla comunicazione, così come l’assenza/latitanza del divino potrà farsi presenza piena nel mondo, e lo scandalo dettato dall’individualità, e rinnovato dal miracolo d’ogni altra nascita, sarà recuperato nell’alveo di un unico segno: poiché, per Rosenzweig,
le vie di Dio e le vie dell’uomo sono diverse, ma la parola di Dio e la parola dell’uomo sono la stessa cosa.43
Ecco quindi che, in una anticipazione delle conclusioni a cui perverrà il saggio sul Nuovo Pensiero (ed, in particolare, della concezione della filosofia come narrazione),44 Rosenzweig rovescia la prospettiva «muta» del primo libro, ed approda ad un’analisi dei ponti che Dio, mondo e uomo gettano l’un l’altro nel tempo sempre nuovo dell’accadere.
È dunque il linguaggio come Zeit-Wort — come concordemente affermano i maggiori commentatori del testo rosenzweighiano — a varcare la staticità meta-logica, meta-fisica e meta-etica dei tre elementi, fornendo, al contempo, ad ognuno un orientamento possibile verso i restanti, tramite il differente declinarsi della parola-matrice nel racconto della creazione, nel dialogo della rivelazione e nel coro della redenzione. Questi tre momenti ulteriori, secondo Rosenzweig, costituiscono dunque, sincronicamente, il nuovo e più attendibile cominciamento parlante della filosofia.
È superfluo ribadire che, in tale cominciamento, i termini in gioco vengono ri-valutati in una prospettiva diversa da quella offerta dal mito greco o dal pensiero idealistico della totalità; essi sono adesso letti semplicemente come Dio, mondo e uomo — a prescindere dal «sì» e dal «no» della loro conoscibilità da parte del pensiero — mentre l’et che ne stabilisce il nesso, ne costituisce, al contempo, la relazione biunivoca nella oramai assodata differenza.45 Il linguaggio è quindi l’órganon, ed insieme, il métron deputato a compiere questo nuovo approccio: si tratta in fondo di un ri-cominciamento dell’iter de La stella della redenzione, o meglio, di un cominciamento che recupera la differenza a partire da ciò che adesso è udibile e, eo ipso, narrabile.
5. La nuova prospettiva: una filosofia come narrazione
Non che il cammino fin qui svolto sia oramai inutile; anzi, esso è il solo — filosoficamente parlando — in grado di identificare con certezza, e quindi attraverso i canoni della filosofia esperiente e dell’intelletto comune sano,46 gli ambiti propri nei quali — e, come si vedrà, persino nell’oltre dei loro ponti — è ancora possibile fare filosofia.47
Quel che risulta tangibile è, di certo, che la filosofia di queste pagine centrali de La stella della redenzione, si apre con la prospettazione della figura di un «nuovo teologo»,48 definito testualmente teologo dell’esperienza vissuta; e ciò per ribadire il ruolo complice che filosofia e teologia, nell’iter rosenzweighiano, debbono intessere tra loro, poiché — come scritto nel saggio sul nuovo pensiero — l’una non può degradare l’altra al ruolo di ancilla o, peggio, di donna a mensile.49
La filosofia della totalità, quella del canone greco-idealistico, d’altra parte, appare a Rosenzweig oramai spoglia da ogni pretesa sistematica — antica e contemporanea — finanche in campo gnoseologico; a questo è appunto servito l’attacco all’idealismo dalla Jonia sino a Jena sferrato dall’introduzione della sua opera. Ne viene fuori, piuttosto, un pensiero finalmente disposto ad ascoltare le parole-matrici che costituiscono il cuore del racconto della creazione; un pensiero coraggiosamente disposto a prestarsi come suono della rivelazione, o a fungere da strumento del coro che attende la redenzione dell’umano nel divino e del divino nel compimento dell’umano. Si tratta di un pensiero, quindi, proiettato pienamente sulla dimensione dell’oltre e che è del tutto proteso all’intellezione e alla comprensione dei segni che ne preparano e chiarificano l’avvento; un pensiero in corsa verso gli ambiti del non-più-pensiero, come sigillo, dunque, di una filosofia pronta alla sua stessa fine, nella consapevolezza però d’avere nel suo corso salvato l’uomo dallo «sfacelo dell’auctoritas della storia»;50 un pensiero la cui articolazione rinuncia ai diktat logici e alle sintesi razionali per diluirsi nello scorrere della narrazione.
Narrazione, certo. Perché quando la filosofia vuol far proprio l’ambito della vita ed entrare nel tempo dell’accadere, deve farsi necessariamente racconto; deve abbandonare le «domande-che-cos’è?» (Was ist?-Fragen) che pretendono di rintracciare essenze eterogenee alla base dell’esistente, ed invece chiedersi «com’è realmente andata», e quindi «mostrare come questo o quell’avvenimento, che come concetto e nome sta sulla bocca di tutti, […], è propriamente avvenuto».51 Il quesito centrale, quindi, non è più quello taletiano scandito dalla domanda circa il «che-cosa-è-propriamente» questa cosa — né la sua risposta: «tutto è…» — ma quello annunciato dal racconto/narrazione del com’è propriamente avvenuta quella determinata cosa. L’interesse filosofico si sposta dagli oggetti e dai sostantivi ai verbi che esprimono l’azione, mentre la variabile del tempo — prima confinata solo ad un immobile ed eterno trapassato remoto — diviene perfettamente reale.52
Il pensiero logico, secondo Rosenzweig, crea pre-concetti unitari, afferma in toto con la pre-potenza delle ist-Fragen; suo verbo proprio è l’«è», suo avverbio chiave è «propriamente», sua domanda topica è il «che-cosa-è», suo pre-supposto remoto è «l’essenza». Il pensiero grammaticale — ovvero l’impalcatura della nuova filosofia — invece «congiunge» nel rispetto della diversità degli elementi, sicché sua parola fondamentale è l’«e» come connettivo di tre unità/identità inviolabili in sé, ognuna irrimediabilmente differente rispetto alle altre, ognuna riconoscibile solo nel tempo del «com’è andata», ovvero attraverso la parola della narrazione. Solo così il nuovo pensiero prende sul serio il tempo e tutto ciò che al suo scorrere si collega:
non è che ciò che accade accada nel tempo, è il tempo stesso ad accadere.53
Al tradizionale metodo del pensare Rosenzweig sostituisce quindi una nuova metodica legata alla grammatica della parola ed al racconto: «il metodo del parlare».54 La parola narrata, infatti, è imprescindibilmente legata al tempo, si nutre di esso e si lascia declinare senza alcun preconcetto sul suo punto d’arrivo; essa
lascia che siano gli altri a dare la battuta [perché] vive soprattutto della vita di altri, siano essi l’uditore della narrazione, l’interlocutore del dialogo o il membro del coro.55
Questo particolare movimento, tipicamente ebraico, di un pensiero che si nutre di tempo e si dimensiona pienamente entro le forme plastiche della parola/linguaggio si volge — come è stato già rilevato — «ad una originale riappropriazione del passato in uno slancio ermeneutico capace di dare senso al futuro e di operare a favore della tradizione storica divenuta approdo delle proprie ansie escatologiche».56 Tipico dell’ebraismo è, infatti, il porre in risalto la dimensione continuativa e onnicomprensiva del tempo; il tempo è quindi come sottratto alla più rigida e formale declinazione classica fatta di passato, presente e futuro, ed è perciò proiettato — intero — dentro quell’eternità che può conferirgli significato e fisionomia. Solo alla luce dell’eterno da cui esso origina, il tempo dell’accadere — nel passato, nel presente e nel futuro — acquista il senso di ricostruzione, di vita o di attesa; e, mediante le tre forme della narrazione — ovvero mediante il racconto, il dialogo e il coro — esso può divenire verbalità, parola-tempo: Zeit-Wort. Infatti:
la differenza tra pensiero vecchio e nuovo, tra pensiero logico e pensiero grammaticale, […] consiste […] nel bisogno dell’altro, o, che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo.57
Il vecchio pensiero (così come il suo metodo) è invece, per Rosenzweig, assolutamente privo di tempo, e, mentre cerca di stabilire mille e più collegamenti in una sola volta, conosce già in anticipo qual è il suo punto d’approdo: «l’ultimo, l’obiettivo — infatti — è per lui il primo». Il pensiero pensante, all’opposto della parola narrata, è comunque un pensiero «solitario anche se avviene in comune tra più persone», in quanto l’altro che sta filosofando con me, in realtà mi pone di fronte «soltanto quell’obiezione che io mi sarei potuto porre da solo».58 Ecco che, per il pensiero pensante, il tempo come accadimento perde ogni valore, e diviene sterile sub-strato su cui far scorrere pensieri solitari che eludono/escludono ogni héteron dal proprio corso. Alla fine, però, ogni pensatore, pur conoscendo anticipatamente i propri pensieri, finisce per esprimerli nel dialogo o nella dimostrazione, e ciò, secondo Rosenzweig, a riprova del fatto che chiunque pensi ha bisogno non già stricto sensu del linguaggio, bensì del tempo:
aver bisogno di tempo significa non poter anticipare nulla, dover attendere tutto, per ciò ch’è proprio essere dipendenti dagli altri.59
Pensare per parlare,60 conclude Rosenzweig: infatti anche il nuovo pensiero grammaticale, il pensiero come narrazione/parola/discorso, è pur sempre un pensiero; allo stesso modo in cui il vecchio pensiero pensante non poteva nemmeno declinarsi al di fuori o al di là di una sua interna temporalità..61 Al nuovo pensiero, dunque, poco importa della questione teologica dell’immanenza o della trascendenza di Dio: il problema cruciale del modus philosophandi del narrare è, invece, propriamente quello di raccontare come e quando JHWH divene il Dio vicino del dialogo e dell’amore e quando, invece, si confonde nella figura mitica del Dio lontano, assente dalla storia e dal tempo degli uomini. Qui la parola è, appunto, il tramite del tempo che consente la narrazione del come e del quando il «paganesimo perenne» e la «rivelazione d’Amore» fanno il loro ingresso nel quotidiano esperienziale. Assegnare al linguaggio la funzione principale della narrazione e quindi della riconoscibilità e denotabilità del reale, significa anche — per Rosenzweig — respingere in toto lo svilimento del linguaggio tipico dell’Idealismo come, infine, le teorie strumentalistiche del linguaggio che, confinando il nome a semplice significante, ne fanno un mero signum di importanza relativa.
Come già ribadito, quindi, «la nuova filosofia […] non fa altro che erigere il metodo del senso comune a metodo del pensare scientifico» perché, sia il vecchio senso comune che il nuovo pensiero, sanno bene che «non si può conoscere in modo indipendente dal tempo»;62 essi sanno bene che la pretesa avanzata dall’idealismo sistematico — ridurre il tempo ad accidens, irrilevante nel disvelamento delle essenze profonde dell’essere — è la metafora impossibile posta a salvaguardia dell’utopia dell’immortalità e dell’unità pre-supposta di pensiero ed essere. Per il nuovo pensiero,
conoscere Dio, mondo e uomo significa conoscere che cosa essi fanno o cosa accade loro in questi tempi della realtà.63
Ovvero conoscere — ma conoscere in questo nuovo significato di esperire ri-conoscendo che rifiuta qualsiasi appropriazione o cum-prensione violenta — le loro inter-relazioni nel passato della creazione, nel presente della rivelazione e nel futuro della redenzione: è ormai presupposta, quindi, la separazione del loro essere «perché, se non fossero separati, non potrebbero far nulla l’uno all’altro».64 Come dire che la teologia narrante de La stella della redenzione è il migliore dei mondi linguistici possibili nella narrazione storica dell’amore di Dio, ché in questo — e solo in questo — consiste, per Rosenzweig, l’intimo volto della rivelazione.65
6. L’oltre e la visione: un paradosso ebraico
Tirare, con la certezza dovuta, le fila di questo viaggio all’interno della dimensione rosenzweighiana del silenzio e della parola, nonché della prospettiva filosofica del cum-plicato rapporto tra Dio e uomo, rappresenta ancora adesso un’incognita e, insieme, un paradosso.
Un’incognita poiché la certezza della filosofia, assieme alla sua presunzione storica di trovare l’essenza d’alcunché come radice sicura dell’essere, è stata da Rosenzweig derisa, e soppiantata da una radice affatto «logica», ovvero quella, sottile ma fattuale, che accompagna da millenni il popolo ebraico: l’emunàh (fiducia).66 Si capirà bene come tale radice appaia, invece, al pensiero occidentale, ed al suo intero modus philosophandi, quanto di più incerto e provvisorio possa trovarsi sulla faccia della terra, se è vero che l’ebreo errante, in verità lascia la terra dei padri, come fece Abramo, in virtù dell’assurdo, sulla base di una fede (scandalosa per le categorie logiche della filosofia) riposta nella parola di un Dio che non ha forma né volto, che promette discendenze, ma offre l’umiliazione della cattività, che spezza catene ma propone la durezza dell’esilio e del deserto, allontanando sempre di più dalla memoria del suo interlocutore il dolce miraggio di una terra grondante latte e miele. L’uomo contemporaneo, quindi, come già i patriarchi antidiluviani, come Giobbe e come Mosé, come Geremia e Giacobbe, lotta a tu per tu con il dubbio proprio di quella fiducia, e tuttavia gli è imposto il silenzio e l’obbedienza; ma l’uomo che cammina con Dio nel suo esodo perenne — confermato ed aggravato dai ghetti dalla storia contemporanea — è incredibilmente l’unico essere a possedere anche la certezza dell’emunah (fiducia), l’Arca in cui è custodita la berìt (alleanza), e la lingua Santa in cui è risuonata bereshìt (in principio) la dabàr (parola) di JHWH.
Ma in questo viaggio è posto anche il seme di un paradosso: perché se inconciliabile, per ogni ragione e per ogni filosofia, appare essere già il credo quia absurdum di certa teologia protestante, ancor più incomprensibile appare il superamento rosenzweighiano dello scandalo — di matrice tipicamente ebraica — nella pur conclamata differenza tra il piano divino e quello umano. Ne La stella della redenzione, infatti, anche la stimata posizione kierkegaardiana sulla paradossalità della fede, sullo scandalo della ragione e sul conseguente «salto» nella sfera religiosa come momento necessario per sfuggire alle maglie dell’Aufhebung hegeliana, viene letto come un ennesimo tentativo singolare di porsi al di fuori del sistema.67 Se tale contestazione «esterna» non sortisce alcun effetto, bisogna dunque, secondo Rosenzweig, proporre un pensiero nuovo che — senza ridurre a zero l’ovvia comprensibilità del mondo, dell’uomo e di Dio rifugiandosi in teologie, antropologie e cosmologie negative — riedifichi un sapere pienamente filosofico — et ergo umano — senza passare giocoforza sotto l’egida delle religioni positive, o sotto il giogo della «secolare bestemmia agostiniana»68 che vorrebbe far risiedere la verità nell’interiorità più profonda dell’uomo.
E qui, il paradosso lungi dal risolversi, s’intrica ancor di più; infatti l’itinerario rosenzweighiano procede, a sensi inversi, secondo direttive divergenti: da un lato, esso può ben leggersi come «esperienza» di incontro dell’uomo con la verità (che è sempre rivelazione, Alterità) e, quindi — sistematicamente parlando — come tema che procede dal silenzio del kòsmos mitico sino alla dabar di JHWH; mentre, a ritroso, esso può anche tessere le tappe del viaggio intrapreso da Dio (l’abbassamento) — dalla absconditas meta-fisica sino alla luce raggiante del suo volto — a partire dal silenzio delle molteplici verità pagane sino alla vociante comunione/comunicazione dell’unica verità rivelata, che è in sé essenzialmente Amore.
In tutt’altra direzione, invece, ne La stella della redenzione, è evocato anche un collaterale itinerario paradossale che intorbida l’ovvietà del percorso così nitidamente presentato; tale itinerario si snoda parallelamente al tema che accompagna l’inverarsi della Verità-Una nella storia, ovvero quello che si distende vom Tode… ins Leben, e che perciò riapre improvvisamente e drammaticamente l’iter stesso della filosofia, del Jüdisches Denken, e di tutto ciò che ha a che fare col tempo e con la vita, ad un inspiegabile oltre. Questo paradosso è dunque l’oltre, quel limite-soglia che è in sé, contraddittoriamente, esodo e porta d’ingresso, nuova genesi ed insieme superamento, scoperta gnoseologica ed estasi contemplativa. E si tratta, questa volta, a ben vedere, di un paradosso impossibile, se così può dirsi; un paradosso che riapre in modo inaudito la provocatorietà della prospettiva dello shema’ e la pone, al contempo, come vertice stante oltre la «porta» (Tor) — figura che chiude l’opera rosenzweighiana piuttosto che aprirla — e come meta e sigillo ove contemplare il fuoco che arde nel volto dotato di figura di JHWH; volto — in sé fisionomia e figura — ove tacitare per sempre ogni parola, ogni azione ed ogni scrittura, per vivere l’assoluta diversità tra uomo e Dio tramite il mit, il cum che accomuna e, insieme, rende «altri» i due che passeggiano semplicemente in una dimensione (se è lecito chiamarla così) che, lungi dall’essere oltre la morte, si pone invece come l’oltre della vita stessa.69
Dalla morte alla vita, sino all’oltre significato dalla porta, di là dal quale, filosofia e teologia, fides e ratio, sóma e pnéuma, sheqet (silenzio) e dabar (parola), pèrdono il loro carattere antinomico per semplificare ogni ossimoro nel ri-conquistato rapporto tra Dio e l’uomo. Sul limite di questa porta è lecito infatti — cosa straordinaria per la tradizione veterotestamentaria — vedere Dio nel suo volto e nei suoi tratti espliciti, poiché adesso
ciò che egli mi ha dato a contemplare in questo aldilà della vita, non è nulla di diverso da ciò che mi era concesso percepire nel mezzo della vita: la differenza è che ora lo vedo e non lo odo solamente.70
Ancora una volta La stella della redenzione si apre all’inversione (Umkehrung): la prospettiva dell’ascolto può e deve farsi visione, sguardo che segue la luce sino a distinguere il volto di Dio senza più pagare lo scotto della maledizione e della morte: perché chi volesse vedere Dio nel tempo, certo, morirebbe; ma chi riuscisse a vedere il Volto di Dio oltre il tempo del ragionevole, avrebbe certo superato ogni maledizione, finendo per confluire egli stesso nell’éscathon della redenzione, proprio come Giacobbe-Israele nella sua atemporale «contesa» con Dio.71
7. Domande ulteriori
Eppure siamo di fronte alla stessa immagine teologica — e il rigido monoteismo ebraico ne è garante — di quel JHWH che arde il roveto sul Sinai e trasforma in pietra di sale la moglie di Lot; ma quanto «tempo» è trascorso? Quanto il Dasein ebraico ha preso «sul serio» kronos? Quanto la parola s’è fatta Zeit-Wort? E come s’è modulata la storia della Ant-Wort umana al cospetto della chiamata di JHWH?
Alcune risposte, forse, nelle pagine finali de La stella della redenzione, dove Rosenzweig esplicita il paradosso inerente al «tempo di Dio»:
Vivere nel tempo vuol dire vivere tra inizio e fine. Chi volesse vivere fuori dal tempo — e così deve vivere chi nel tempo vuole non ciò che è temporale, ma la vita eterna — chi dunque vuole questo deve negare quel «tra». Ma un tale negare dovrebbe essere attivo, così che ne risulti non solo un non-vivere-nel-tempo, ma un positivo vivere-eternamente. E la negazione attiva avverrebbe unicamente nel capovolgimento. Capovolgere un «tra» vuol dire fare del suo dopo un prima, del suo prima un dopo, della fine l’inizio e dell’inizio la fine.72
Negare il «tra» significa dunque vivere al di fuori del tempo, porsi al di fuori dell’auctoritas della storia, e trasformare quest’apparente rinuncia alla storicità arche-o-logica del proprio ex-sistere in vera vita, vita eterna, santificando ed eternando proprio il quotidiano, vivendolo quindi, sempre e comunque, come l’ultimo giorno, il giorno del Signore.
Ma, ancora, sul limite di una siffatta porta, è lecito chiedersi che ne è del mondo, o è preferibile voltare ad esso definitivamente le spalle per non incorrere nel rimpianto delle cose e nella pietrificazione di Sodoma? Ed, inoltre, dove Dio e uomo vanno insieme, dove «migrano secondo un’unica piega»?73 E, infine, il mondo, fatto per l’uomo, creato nella sua abbondanza e molteplicità di figure sempre nuove, posto in essere da Dio, in principio, come luogo ove eleggere al ruolo di sovrano l’uomo; il mondo, oltre la porta, che dimensione acquista? Esso potrebbe certo ben essere conflagrato come ultimo olocausto per la redenzione dell’uomo e del Santo, se non si leggesse chiaramente in tutta l’opera di Rosenzweig come la redenzione si configuri, piuttosto, come relazione tra uomo e mondo (laddove la creazione era il rapporto tra Dio e mondo e la rivelazione il legame d’Amore tra Dio e l’uomo). La redenzione è dunque l’unico evento prioritariamente e straordinariamente «antropologico»; l’unico evento nel quale è Dio a chiedere all’uomo di raggiungerlo oltre il tempo e oltre la storia.74
Una nuova chiamata dunque, a cui questa volta rispondere senza l’innocenza/ignoranza adamitica; dichiarando questa volta non solo la propria nudità vergognosa et ergo la propria peccaminosità, bensì osando, al contempo, migrare oltre la soglia della porta, nudi di corpo e puri d’anima, senza parole pretestuose né azioni di conquista. Nuova Gerusalemme o Eden che sia, è probabilmente questo il mondo che manca nel delinearsi dell’Eterno sovramondo all’interno de La stella della redenzione, e nell’esplosione del Giorno del Signore. E forse è questa, dunque, la Verità-che-è-Una nella radiosa figura di JHWH. «Dio-e-uomo» sono dunque il «successo» dell’opera creativa e del messaggio rivelativo; essi sono la redenzione stessa; ma sono anche qualcosa di più, qualcosa di ulteriore.
JHWH non è soltanto il Dio di un popolo, né il credente può vederlo ancora come l’absconditus del Profeta o come l’amante geloso di Israele. Egli è invece, oltre la porta, lo ‘En Sof (colui che è senza fine),75 mentre la storia, il tempo, i popoli, la liturgia e le fedi non sono altro che «narrazioni», frutto di filosofie nomadi ed errabonde che hanno letto, detto, scritto, tramandato nomi e lingue pretendendo l’unità di Colui-che-è-Uno a prescindere dal mondo e dall’uomo, ma che tuttavia vuole essere proclamato come il Santo, benedetto nel suo Nome, e redento nella redenzione del mondo. Stare a parte Dei significa, per Rosenzweig, comprendere che
la redenzione è il suo giorno di riposo, il suo grande Sabato al quale il Sabato della creazione prelude solamente, il giorno in cui, redento da tutto ciò che non è in lui, e che continuamente viene comparato a Lui, l’Incomparabile, Egli sarà Uno e il suo nome sarà: Uno. La redenzione redime Dio sciogliendolo dal suo nome rivelato.76
Il mondo riemerge allora, come «terra di nessuno», come utopia, come non-luogo dell’incontro tra Dio e uomo, e quindi, ancora, come pro-messa, come dono di sé ancora e sempre da fare e da frequentare, e giammai come tópos certo né come possesso. La terra della promessa, per Rosenzweig, è, dunque, la vita in comunione, dove il legame di sangue del popolo di Dio può lasciare il posto al legame degli uomini-con-Dio. La terra promessa è quindi, in fieri, la stessa parabola dell’esilio, del deserto e della prova; essa è nient’altro che quel mondo che ci pareva d’aver perso di vista nell’éschaton della redenzione:77 un mondo come pro-fezia, come preghiera e coro, come teodicea assoluta, e quindi, come parola che è uscita fuor di se stessa e s’è fatta silenzio felice.78
8. Il silenzio ulteriore
Ogni concetto di elezione, quindi, nell’eternità della redenzione, sarà come sommerso e costretto al silenzio: poiché tutto «tacerà nel giorno universale del Signore»:79 in questo silenzio ulteriore, che questa volta prelude alla visione, si ripone il senso della nuova gnoseologia messianica. Essa attende l’unità di Dio con se stesso, perché, al fine, nel riconoscimento pieno della luce del volto di Dio, che prende forma e figura di stella, si compie la vera filosofia della conoscenza: conoscenza come ri-conoscenza anche nell’accezione etico-semantica del termine, perché la figura della stella, colta nella prospettiva della redenzione, rispecchia il Volto, un volto uguale al proprio; perché ciò che l’uomo contempla non è l’essenza statica di un ente trascendente, ma — poiché «la verità [gli] è divenuta specchio»80 — egli vede la luce e con essa la Verità. Oltre la soglia, in sé scalino d’ingresso ed abisso, non ha più valore la storia del mondo, né, con essa, alcuna parola dell’uomo, o alcuna azione meritoria già compiuta o programmata. Oltre la soglia, dunque, tace anche il racconto, e la filosofia trova le sue ragioni ulteriori nell’incontro con Dio che, di per sé, placa ogni dubbio e soddisfa ogni domanda.
Valevole è, forse, soltanto una azione, per tornare ancora una volta al Goethe così caro a Rosenzweig. L’azione originaria, ovvero il fatto, che, annunciato in principium, torna adesso come postremum della verità. Il wandeln, andare o migrare che sia, insieme a Dio, è quindi l’apice estremo d’una retta che, come tale, non ha, né potrà mai avere, una fine convincente per l’arbitrio logico; essa avrà semmai un fine, o meglio, avrà già avuto fine, poiché nell’oltre-passamento del pensiero anche l’attesa teleologica s’offusca nel predominare esclusivo della visone. La parola che ha lodato il Signore, quella che s’è fatta coro e s’è schierata dalla parte di Dio, anche nello scandalo del suo giudizio imperscrutabile, deve dunque tacere nella dimensione dello «über», e, insieme ad essa, si riducono a silenzio anche tutti i più grandi edifici concettuali e sistematici del pensiero. Tacciono le grida degli ultimi, i cannoni della storia, i cardini delle nazioni, gli assiomi dei filosofi e le risa dei potenti, dunque; ma tace anche la Scrittura (ché già ha parlato), la parola rivelata (ché già ha amato e ama) e, finanche i nomi propri e i linguaggi disparati di Babele.
Oltre la porta v’è solo il Nome (Parola trasfigurata) e, con esso, lo spiraglio che apre alla gioia e alla contemplazione del volto di Dio: alla vita che non viaggia più fianco a fianco col terribile «qualcosa» della morte. L’etica, la metafisica e la logica si sono presto fatte complici del vedere; o meglio, della semplicità incomplessa del vedere. Rimane solo la felicità che deriva dalla Verità-Una: e con essa, col suo avvento, ogni filosofia s’è fatta gioia; oltre la porta — ins Leben, appunto — ove tace quindi la filosofia della parola, nella luce che filtra dalla breccia sottile che immette sull’eternità.
Di questo essere non più passato, ma presente, che viene alla vita dell’uomo — al pari del Dio del Profeta — soltanto quando l’ha già sorpreso come un ladro nella notte — e quindi quand’è già tardi per pensarlo ché ci si è già traditi — può solo darsi invocazione, preghiera, coro.81 E qui — anche se la filosofia per Rosenzweig è stata oramai tacitata nel silenzio ulteriore — la narrazione può, forse, ancora ed ulteriormente, dipanare il significato di questa eternità ebraica, di questo essere che — rifiutando l’indagine ontologica sul suo stesso arché — accetta invece la profezia del suo avvento, pro-vocando l’ipostasi dell’ente occidentale.82 Per farlo utilizzo le parole di Levinas, tratte dalla saggezza del Midrash:
scacciati dalla casa di Abramo, Agar e Ismaele se ne vanno errabondi nel deserto. La provvista d’acqua è esaurita. Dio apre gli occhi di Agar e le mostra un pozzo, ma gli angeli protestano: «O Eterno, darai forse a bere a colui i cui figli più tardi — fratelli di Israele — saranno i suoi fratelli nemici?» — Che importa il futuro! — dice l’Eterno — io giudico ognuno nel momento in cui vive. Oggi Ismaele è senza peccato — . L’eternità di Israele è dunque la sua indipendenza nei confronti della Storia e la sua capacità di riconoscere gli uomini come maturi per il giudizio ad ogni istante, senza aspettare che la fine della Storia ci sveli il loro preteso senso ultimo. E Israele, al di là dell’Israele della carne, comprende tutte le persone che rifiutano il verdetto puramente autoritario della Storia.83
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Cfr. F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, edite da M. Nijhoff a Haag/Dortrecht, ordinate in quattro sezioni: I. Briefe und Tagebucher, 2 voll., Haag 1979; II. Der Stern der Erlösung, Haag 1976; III. Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, Dortrecht 1984; IV. Sprachdenken im Übersetzen, 2 voll., Dortrecht 1984. Per l’edizione italiana di Der Stern der Erlösung, dalla quale traiamo le citazioni testuali (salvo quando indicato diversamente) cfr. Id., La stella della redenzione, a cura e tr. it. di G. Bonola, Marietti, Genova 1985 [di seguito indicata con SR], p. 65. ↩︎
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Ibidem. «Si doveva pur pensare almeno una volta l’assurdo. Infatti il senso profondo del molto abusato credo quia absurdum è che ad ogni fede occorre come presupposto un absurdum del sapere. Quindi, perché il contenuto della fede divenga ovvio è necessario che quanto è, in apparenza, ovvio per il sapere sia bollato come assurdo. Questo è avvenuto via via a tutti e tre gli elementi del contenuto del sapere, Dio, il mondo e l’uomo: per Dio è avvenuto già agli albori del Medioevo, per il mondo all’inizio dell’età moderna, per l’uomo al principio dell’ultimo secolo». Ivi, pp. 65-66. Per il complesso rapporto tra Rosenzweig e Kant si veda I. Kajon, Storia della filosofia e filosofia ebraica. L’interpretazione di Kant in Franz Rosenzweig, in AA. VV., La storia della filosofia ebraica, Cedam, Padova, 1993, pp. 305-338. ↩︎
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Su questo cfr. anche M. Cacciari, Errante radice in Icone della Legge, Adelphi, Milano 1985. ↩︎
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Ivi, pp. 66-67. ↩︎
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Cfr. Libro di Qohelet, 1, 4. Gianfranco Ravasi così commenta: «La terra “eternamente” ferma assiste indifferente alla morte delle creature viventi e alla nascita di nuovi esseri. Essa è come un palcoscenico fisso sul quale si passa ininterrottamente dalla tragedia alla danza. […] Nell’originale ebraico [infatti] è solo “la” terra ad avere l’articolo perché essa è l’unica che permane, fissa nella sua glaciale indifferenza; le generazioni sono senza articolo, sono mille e mille, diverse eppur senza significato, specificità e identità». Cfr. G. Ravasi, Qohelet, Mondadori, Milano 1997, p. 77. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 67. ↩︎
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La rivolta del Singolo alle pretese totalizzanti del Sistema è esposta da Rosenzweig nel celeberrimo incipit de La stella della redenzione. Qui il tema della singolarità — cifra e perno dell’individuum — ruota attorno alla questione dell’origine della filosofia. Per Rosenzweig il pensiero filosofico trae la propria linfa e il proprio carattere a partire dalla nullificazione della morte. Ma è proprio l’ineludibilità del suo essere un «nulla» fattuale e terribile a fare della morte l’incipit primo della ricerca filosofica, l’arcano da cui si origina il verbo del pensiero umano. Alla meraviglia prima platonica («codesta meraviglia è veramente da filosofo, né altro inizio ha il filosofare all’infuori di questo». Cfr. Platone, Teeteto in Tutte le opere, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Sansoni, Milano 1993, p. 182) e poi aristotelica («gli uomini hanno incominciato a filosofare ora come in origine a causa della meraviglia». Cfr. Aristotele, Metafisica, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1991, p. 11 [libro A, 982b, 13-15]) posta all’origine del filosofare, si contrappone drasticamente un inizio a partire proprio dall’ineludibile realtà della morte. Qui, il netto rifiuto della nullificazione dello statuto ontologico della morte — operato arbitrariamente, per Rosenzweig, dall’intero canone ellenico/occidentale confluito nell’idealismo al fine di mostrare la propria radicale mancanza di presupposti — ripropone la questione del principio sotto una luce del tutto diversa. Se la morte è un nulla, ma il nulla della morte è la tragedia della creatura, questo nulla è più che mai fattuale; esso è dunque un «qualcosa» e — pertanto — ogni nuovo nulla della morte è un inedito ed ineludibile «qualcosa» che ne amplifica e rafforza lo scandalo. Vano appare, quindi, ogni tentativo idealistico di esorcizzare la portata reale della morte tramite la negazione dell’abisso operata per mezzo della dicotomia anima/corpo («Che la paura della morte nulla sappia di una pretesa divisione in anima e corpo, che essa urli: io, io, io! e non voglia saperne di far risalire la paura esclusivamente al “corpo”, che importa questo alla filosofia?». Cfr. SR, cit., p. 3), o per mezzo dell’invenzione pietosa della Totalità («Poiché, certo, un Tutto non morrebbe e nel Tutto nulla morirebbe. Soltanto ciò ch’è singolo può morire». Ivi. p. 4). ↩︎
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«Solo l’uomo può, lui solo, l’impossibile, può conferire durata all’istante e lo può perché egli stesso porta in sé […] la particolarità. Per lui soltanto la particolarità non diventa una “individualità” parziale bensì resta l’illimitata peculiarità del “carattere”». Ivi, pp. 67-68. ↩︎
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Ivi, p. 69. ↩︎
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Rosenzweig circoscrive con lucidità la differenza che separa il Nuovo Pensiero dall’idealismo, e lo fa attraverso un’analisi grammaticale dell’incipit di Genesi, e del Cantico dei Cantici. Tramite Genesi, Rosenzweig mostra come la creazione sia istituita dalla parola, coronata dalla parola (la chiamata di JHWH ad Adam) e conclusa tramite la parola (la risposta di Adam), mentre, il Cantico dei Cantici viene analizzato da Rosenzweig in funzione della sua fenomenologia dell’amore. Si tenga presente, anche, che nel singolo fattualmente posto, secondo Rosenzweig, vive già l’interlocuzione stessa alla parola-creatrice di JHWH, ma che tale interlocuzione può avvenire soltanto come risposta alla chiamata che squarcia la tenebra della solitudine del sé. Cfr., ivi, pp. 199-201. Se è già il conferimento del nome proprio — Adam — , in potenza, a porre in essere un dialogo tra due diversi legati dalla differenza per il tramite di una parola comune, è solo la stretta porta del peccato e della morte a realizzare, in atto, il dialogo, ponendo Adam nella condizione esistenziale di rispondere all’interlocuzione divina. Cfr., ivi, p. 165. Se Adam non fosse «altro» da Dio non potrebbe dire d’esser nudo né ascoltare la pro-vocazione della morte come fatto proprio della vita creaturale, perché si è nudi soltanto di fronte a qualcuno che ci osserva e ci chiede una risposta, e si può morire soltanto come vita aperta all’oltre della trascendenza. Entrambe le risposte possono tuttavia avvenire, rispettivamente, solo tramite la parola e il tempo. Da qui prende le mosse la via rosenzweighiana che collega l’istituzionalizzazione della parola all’anima stessa della Legge, a quel comandamento che — come corpus della Torah — può risuonare semplicemente come dovere d’amore, di un amore forte come la morte. In questo, appunto, consiste l’imperativo etico del precetto ebraico [Mitzwah]. Per i suggestivi scenari della fenomenologia dell’amore in Rosenzweig si veda ivi, pp. 167-176 e 185-198. ↩︎
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Nel Genesi l’operato di JHWH è espresso quasi sempre dal verbo ebraico barà che, pur significando l’atto del fare — e non designando esplicitamente una creatio ex nihilo — connota tuttavia l’azione divina come un fare peculiare, e mai come un costruire umano. Il barà ebraico indica piuttosto l’atto di separare, l’atto con cui Dio separa il distinto dall’indistinto. D’altra parte l’azione creatrice di Dio è quella immediatamente conseguente l’articolazione del linguaggio: JHWH dice e tutto accade secondo la forza della parola. La versione dei LXX, dovendo far aderire la semantica ebraica alle strutture della lingua greca, cercò di rendere la specificità del verbo barà con poieo. Su questo si veda Jenni — Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Marietti, Genova, 1990; D. Arenhoevel, Genesi. Preistoria. Memoria dei Patriarchi, Storia di Giuseppe, Cittadella, Assisi, 1986; G. Ravasi, Antico Testamento, Piemme, Casale Monferrato, 1991, e Id, Il racconto del cielo, Mondadori, Milano 1995; S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, 4 voll., Adelphi, Milano, 1972 (ora in vol. unico, 19911); P.E. Testa, Genesi. Introduzione. Storia primitiva, Marietti, Genova, 1969. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 70. ↩︎
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Ivi, p. 71. ↩︎
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Ivi, p. 73. ↩︎
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Ivi, p. 74. ↩︎
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Ivi, p. 4. ↩︎
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Ivi, pp. 13-15. ↩︎
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Ivi, p. 165 (corsivi miei). ↩︎
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Ivi, p. 80. ↩︎
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Ivi, p. 75 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 81. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, pp. 77-78. ↩︎
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Ivi, p. 67. ↩︎
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Ivi, p. 79. Così come il mondo e Dio, anche l’uomo è; ovvero esiste, e la sua esistenza, il suo «sono qui» si staglia sempre come baluardo ineludibile contro ogni tentativo nichilistico che tenti di ridurne a zero l’ovvia comprensibilità. Il mondo orientale, invece, nel suo complesso — dal cosmo cinese a quello indiano, dalle dottrine di Lao-Tsu a quelle del Buddha — non convince per nulla l’Autore de La stella della redenzione. Nel cosmo orientale «accanto al terrore di Dio e all’illusione circa il mondo si presenta l’ultima delle potenza elementari tipiche dell’età primordiale: la presunzione umana del mago, il quale mediante la forza e l’astuzia sa sottrarsi al destino che ha potere unicamente sul “sé” e così si risparmia la caparbietà dell’eroe […]. Su quel terreno […] anziché all’eroe tragico si perviene tutt’al più alla situazione commovente […] [dove] il sé soffoca nella sua sventura». Ivi, pp. 79-80. ↩︎
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Ivi, p. 82. ↩︎
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Ivi, p. 83. ↩︎
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Ivi, pp. 285 ss. Si tratta dell’Introduzione alla Terza parte de La stella della redenzione, intitolata Sulla possibilità di impetrare il regno. In particolare, sul congiungimento di incredulità e fede nella preghiera silenziosa ma corale assurta a dignità di gesto liturgico, si vedano le pp. 317-318. ↩︎
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Cfr. S. Kierkegaard, La Ripresa, Edizioni di Comunità, Milano 1983. Kierkegaard, o meglio quel Singolo dotato di nome e cognome che fu Søren Kierkegaard, è un interlocutore imprescindibile per la prospettiva inaugurata da La stella della redenzione. Kierkegaard è presente, infatti, in diversi versanti dell’opera. Citato all’inizio come precursore della rivolta anti-hegeliana (ivi, pp. 7 ss.) ricompare, per riferimenti, in vari siti dell’opera. Tra tutti, si vedano quelli inerente l’eroe tragico e la figura jobica e quelli sulla gnoseologia messianica. Ivi, pp. 80 ss. e pp. 357 ss. ↩︎
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Cfr. Libro di Giobbe, 1, 20-21. ↩︎
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Cfr. S. Kierkegaard, Timore e tremore in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972. ↩︎
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Per questa interpretazione si veda G. Modica, Fede libertà peccato, figure ed esiti della «prova» in Kierkegaard, Palumbo, Palermo 1994, in particolare il II capitolo, pp. 41 ss. ↩︎
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Cfr. Genesi, 32, 23-32. Sebbene sia noto che i nomi dell’Antico testamento siano teoforici, cioè presentino la radice divina come soggetto della significazione etimologica, resta comunque assai singolare — nell’ambito comparativo di tutti i miti religiosi — la contesa notturna tra Giacobbe e il suo misterioso interlocutore. D’altra parte il racconto presenta tali e tanti elementi da avvalorare ogni tesi interpretativa (la richiesta di benedizione, il colpo all’articolazione, la lotta, la fuga al sorgere del sole, il cambiamento dei nomi di Giacobbe e del luogo dell’incontro/scontro…). Resta comunque il fatto che — oltre che nella lettera del racconto biblico — nella radice etimologica dei nuovi nomi di Giacobbe (Is-ra-el) e della località (Pe-ni-el), sia presente, nel primo caso, il senso di una contesa, nel secondo caso, il senso di una irregolarità fortissima nella continuità della tradizione veterotestamentaria, di un vero e proprio scandalo «visivo» («Allora Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, perché disse: “Ho visto Dio faccia a faccia, eppure ho avuto salva la vita”». Cfr. Genesi, 32, 31). A tal punto l’alterità di Dio e dell’uomo è salvaguardata dalla Scrittura: tra i due non può esservi confusione o mistica fusione, ma incontro/scontro, unione-nella-separazione. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 83. ↩︎
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Ibidem. Si tratta ancora di quella dicotomia anima/corpo che sarebbe garante di una vita oltre la morte creaturale. Si vedano anche i passi de La stella della redenzione sulla morte creaturale dove, tra l’altro, è citata l’importanza filosofica di Kierkegaard. Ivi, pp. 3-10. ↩︎
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Ivi, p. 84. ↩︎
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Il primo libro de La stella della redenzione assume i contorni di una filosofia del paganesimo proprio in virtù del suo isolare ed evidenziare gli elementi basilari e fondamentali dell’esperienza, elementi presi per sé, lontani quindi dalla contaminatio che il pensiero, con l’istituzione di eventuali relazioni, potrebbe operarvi. Il paganesimo, così inteso, è «nulla più e nulla meno che la verità. Ma la verità in forma elementare, invisibile, non-rivelata». Soltanto quando il paganesimo rifiuta il suo essere elemento e pretende di farsi intero, rifiuta il suo essere invisibile e vuol farsi figura compiuta e definitiva, abiura a questa sua segretezza e a questo suo essere sottaciuto per farsi in pieno rivelazione, esso diventa menzogna: «ma come elemento componente e come segreto dentro all’intero, al visibile e al rivelato, è perenne». Ivi, p. 266. ↩︎
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Cfr. Aristotele, Metafisica, cit., p. 576 [libro L, 1074b, 35]. ↩︎
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L’analisi degli dèi viventi del pantheon greco fornita da Rosenzweig porterebbe il fuoco di questa disamina troppo lontano dall’obiettivo proposto. Tuttavia è importante sottolineare come gli dèi viventi della Grecia siano considerati da Rosenzweig in una duplice chiave: da un lato, essi sono gli unici avversari degni del Dio vivente («I viventi “dèi della Grecia” erano per il Dio vivente avversari ben più degni che non le ombre dell’Oriente asiatico». Cfr. SR, cit., p. 37); dall’altro lato, però, — e qui sta la loro indigenza — nulla possono contro l’orribile realtà della morte. Infatti, quando i figli di Krònos, vittoriosi sul padre, si spartirono l’intero universo greco degli elementi, uno dei tre, Ade, ottenne per sé il regno dei morti e l’impronunciabilità del proprio nome, assurta a simbolo dell’immane potere della morte. A partire da questo mito — che rilancia il terribile ascendente che il non-nominato/nominabile esercitava sull’immaginario mitico ellenico —, con ogni probabilità, Rosenzweig deduce quindi che gli déi greci non hanno affatto vinta la morte, l’hanno bensì solo esorcizzata, confinandola nel Tartaro, e relegandone il nome tra gli indicibili. Ivi, p. 36. ↩︎
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Cfr. J. Guttmann, Historie des philosophies juives, traduzione dall’inglese di Silvie Cortine-Denamy, Gallimard, Parigi 1994, p. 467. Non citiamo il testo di Guttmann dall’originale tedesco del 1933 poiché in esso non figurano i capitoli dedicati a F. Rosenzweig, aggiunti dall’Autore in occasione dell’edizione inglese del 1964 (Philopophies of judaism, Holt, Rinehart and Winston, Inc., 1964). Tuttavia, preferiamo citare dal testo francese, per la maggiore reperibilità dell’edizione Gallimard. ↩︎
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Ivi, pp. 26-36. ↩︎
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«Ciò che l’uomo percepisce nel suo cuore come suo proprio linguaggio umano è la parola che proviene dalla bocca di Dio. La parola della creazione, che in noi riecheggia e parla dal nostro interno, a partire dalla parola-matrice che sale direttamente dal mutismo della parola originaria, fino alla forma narrativa perfettamente oggettivante tipica del passato, tutto questo è anche la parola che Dio ha pronunciato e che noi troviamo scritta nel libro dell’inizio». Ivi, p. 160. ↩︎
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Cfr. F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, Arsenale, Venezia, 1983, ora anche in Id., La Scrittura, saggi dal 1914 al 1929, tr. it. di G. Bonola e G. Benvenuti, Città Nuova, Roma, 1991, pp. 267 ss. [di seguito ci si rifarà a quest’ultima edizione indicandola con NP]. ↩︎
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Cfr. SR, cit., pp. 117-118. A tale proposito si innesta uno dei livelli di contributo alla riscoperta del pensiero rosenzweighiano operato da Levinas: «Il rapporto instaurato dalla vita non è un legame formale o una sintesi astratta. È ogni volta specifico e concreto. Dio e il Mondo: la congiunzione è per l’appunto Creazione. Dio e l’Uomo, il legame è per l’appunto Rivelazione. L’Uomo e il Mondo (ma l’uomo già illuminato dalla rivelazione e il mondo già segnato dalla creazione): è per l’appunto la Redenzione. Creazione, Rivelazione e Redenzione fanno così il loro ingresso nella filosofia con la dignità di “categorie” o di “sintesi dell’intelletto” per esprimersi in un linguaggio kantiano. Dio e l’Uomo, significa immediatamente Dio nella vita dell’Uomo e l’Uomo nella vita di Dio. La congiunzione e designa un legame vissuto, realizzato e non una forma vuota di collegamento constatabile da un terzo all’interno dello spettacolo». Cfr. E. Levinas, Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno in Fuori dal Soggetto, Marietti, Genova, 1992, p. 59. ↩︎
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Cfr. F. Rosenzweig, Dell’intelletto comune sano e malato, a cura di G. Bonola, Trento 1987. «Quando si tratta di indicare in modo più ravvicinato la dimensione intellettuale in cui comprende la sua opera, Rosenzweig insiste sul rapporto tra il pensiero e il gesunder Menschenverstand, il sano senso comune, il comune intelletto umano dell’uomo comune integro, il ganzer Kerl, non senza una punta di compiacimento antiaccademico». Cfr. Introduzione di G. Bonola in SR, cit., p. XIX. ↩︎
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Mentre la critica è sostanzialmente concorde nel riconoscere il nuovo significato che il linguaggio — come organon della creazione, della rivelazione e della redenzione — assume nell’economia de La stella della redenzione, resta ancora in discussione il brusco cambio di prospettiva all’interno della partizione vitale dell’opera, che è stato invece diversamente valutato. Per Gianfranco Bonola (cfr. Introduzione a SR, cit., p. XII ss.) si tratta di una visione parallela che andrebbe collocata in sinossi con la precedente trattazione al fine di addolcirne la frattura. Per Paola Ricci Sindoni, invece, è proprio compito del linguaggio quello di «rompere la rigidità logica dei tre elementi», ponendosi quindi come novità rivoluzionaria all’interno del «sistema» rosenzweighiano. Cfr. P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, Studium, Roma, p. 116 ss. Per Adriano Fabris «il problema di fondo, che accomuna le differenti trattazioni dei tre ambiti tematici, consiste nel tentativo di esprimere la dinamicità insita negli accadimenti che la “nuova” teologia presenta», con ciò leggendo, nell’itinerario proprio de La stella della redenzione, una mutata prospettiva dal «filosofico» al «teologico». Cfr. A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, Marietti, Genova, 1990, pp. 100-102. Per Massimo Cacciari il piano di lettura del II libro de La stella della redenzione è squisitamente ed esclusivamente teologico: a partire da esso prende le mosse l’esaurirsi progressivo di quella «rabies philosophica» con cui aveva esordito l’opera. Cfr. M. Cacciari, Errante radice in Icone della Legge, cit., pp. 33-53. La stessa posizione è sostanzialmente ribadita, pur se in chiave complessiva, anche in Id., Franz Rosenzweig in AA. VV., Novecento filosofico e scientifico. Protagonisti, Marzorati, Milano 1991, vol. V, pp. 187-212 e Id, Filosofia e teologia, in La Filosofia, dir. da P. Rossi, vol. II, Garzanti, Milano 1996, pp. 365-421. Per Stéphane Mosès, è piuttosto lo stesso sistema rosenzweighiano a fondarsi sulla prassi costante dell’inversione (Umkehrung). Cfr. S. Mosès*, Système et Révélation. La philosophie de Franz Rosenzweig*, Seuil, Parigi, 1982, pp. 76-81. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 114. Si badi anche al fatto che il frontespizio del II libro è dedicato, forse anche provocatoriamente, «in theologos!», dove quello del I libro recava come esergo «in philosophos!» (Cfr., ivi, rispettivamente pp. 3 e 99). ↩︎
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Cfr. NP, cit., p. 273. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 115. Anche Levinas insiste sul ruolo chiave operato da Rosenzweig in tal senso. Nei saggi su Rosenzweig contenuti in Fuori dal Soggetto e Difficile Libertà, Levinas ricorda come il rifiuto «del verdetto puramente autoritario della storia» possa fungere da nuovo cominciamento della filosofia. Cfr. E. Levinas, Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno in op. cit., e Id., «Tra due mondi» (La via di Franz Rosenzweig) in Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, La Scuola, Brescia 1986. ↩︎
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Cfr. NP, p. 267. La centralità dell’essenza, nell’ambito del vecchio pensiero è testimoniata dalla presenza inquietante di quelle che Rosenzweig definisce «was ist?-Fragen» (domande-che cos’è?) — o più semplicemente ist-Fragen — sul mondo o su Dio, ovvero domande — assertive già nella forma — che si enunciano nella presunzione di risposte affermative — «ist-Satzen» (asserti-è) — che debbono pur sempre esprimere dopo l’asserzione (è) «qualcosa di nuovo che prima (nella ist-Frage) non c’era ancora» (Ivi, p. 262). Se mondo e Dio vengono ad essere posti costantemente come accusativi delle ist-Fragen, allora è del tutto logico — secondo tale logica — che venga fuori l’Io, l’unico termine differente che non è stato messo in gioco nel porre la domanda. Ma, per Rosenzweig, gli oggetti ultimi del pensiero — così come gli oggetti primi — sono in realtà simili a cipolle che si possono sbucciare fin quando si vuole senza ottenere mai nient’altro che cipolle! Ovvero: per quanto la pressante richiesta di essenza possa scavare a fondo nell’uomo, vi scorgerà soltanto e ulteriormente null’altro che… l’umano; come nel mondo sempre e soltanto propriamente il mondano e in Dio sempre e solo il divino. ↩︎
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Non a caso, l’essere della filosofia occidentale, così come dimostra la sostanza di cui parla Aristotele, è sempre detto al passato, to ti en einai; anche nel canone idealistico, che ebbe al suo culmine la filosofia tedesca, l’essere è sempre detto al passato: la lingua tedesca, infatti, dimesso l’uso del verbo wesen, mantiene l’essere come sostantivo nell’accezione di ente, sostanza, o essenza, ma lo fa ricomparire come participio passato del verbo essere, gewesen. In proposito si veda U. Perone, Il racconto della filosofia in «Annuario Filosofico», XIV, 1998, Mursia, Milano, pp. 85 ss. ↩︎
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Cfr. NP, cit., p. 267. ↩︎
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Il passaggio dal vecchio al nuovo pensiero, o, se si preferisce, dal pensiero logico al pensiero grammaticale — che in termini di metodo significa il passaggio dal metodo del pensare al metodo del parlare — consiste «nel contrapporre alla ragione universale ed astratta, l’esperienza della relazione interpersonale». Il legame biunivoco tra rapporto intersoggettivo e pratica dialogica dell’ascolto è ben evidente nell’analisi di F. Camera da cui ho tratto la precedente conclusione: «Il passaggio, anzi, il salto, è consentito da quella consapevolezza, anzi da quella vera e propria pratica dell’ascolto che costituisce uno dei tratti distintivi dell’ebraismo». Cfr. F. Camera, Alterità e storia da Rosenzweig a Levinas, Il Melangolo, Genova 1997, p. 209. È lo stesso Rosenzweig a dichiarare che non c’è alcuna essenza all’interno dell’ebraismo poiché si tratterebbe ancora una volta di un concetto. A fondare Israele come comunità c’è solo quello Shemà Israel (ascolta Israele) con cui esordisce la preghiera rituale del Deuteronomio. Cfr. Dt, 6, 3 ss. ↩︎
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Cfr. NP, cit., p. 270. Il presupposto della diacronia temporale, irrinunciabile assioma per lo stabilirsi di ogni dialogo interpersonale, fa sì che tempo e alterità vivano in una stretta simbiosi. È lo stesso stabilirsi di un discorso-tra-diversi ad escludere ogni possibile logica a-temporale o super-temporale; infatti ogni dia-logare è fatto di tempo, ovvero di passato, presente e futuro, vettori indispensabili per rapportarsi all’altro. ↩︎
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Cfr. P. Ricci Sindoni, cit., p. 88. ↩︎
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Cfr. NP, cit., p. 271. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. «Divenire “pensatore della parola” (Sprachdenker) diventava […] per Rosenzweig lo stimolo ad un cominciamento nuovo della filosofia […]». Cfr. P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, cit., p. 94. Per Massimo Cacciari, lo Sprachdenker è piuttosto «il pensatore che pensa nei limiti del suo linguaggio» (Cfr. M. Cacciari, Errante radice, in op. cit., p. 37). In tali letture, esemplificative d’una radicale differenza, si evidenzia ancor di più il legame biunivoco, assolutamente inscindibile, esistente in Rosenzweig tra pensiero e linguaggio. Se prioritario è il pensiero come complementare alla temporalità — ciò, d’altra parte, appare più probante nell’itinerario rosenzweighiano — e suo argine è il linguaggio, chiunque pensi può esprimersi tuttavia solo per il tramite di una parola più pesante del semplice segno: e tale parola è, appunto, strettamente coniugata al tempo (Zeit-Wort), e quindi al nuovo pensiero. ↩︎
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In questa parte Rosenzweig riconosce che il metodo filosofico da lui utilizzato e definito nuovo pensiero esordì, nella storia della filosofia, nelle pagine dei Principi di una filosofia dell’avvenire di Feuerbach (1843) per essere poi ripreso nell’opera postuma di Cohen. Quasi conquistato da un desiderio di riconoscimento e di radicamento in una tradizione comune, Rosenzweig elenca, in una sorta di discendenza, i filosofi della parola: Eugen Rosenstock, Rudolf Ehrenberger, Hans Ehrenberg, suoi interlocutori epistolari, Victor von Weizsäcker, Martin Buber (in particolar modo nell’opera Io e tu), Florens Christian Rang e Ferdinand Ebner (per le discrete citazioni indirizzate reciprocamente da Ebner e da Rosenzweig, in una sorta di corteggiamento reciproco mai davvero formalizzato in un incontro, si veda il recente A. Fabris, Il problema del linguaggio in Ferdinand Ebner e Franz Rosenzweig. Alcuni motivi di un dialogo a distanza in AA. VV., La filosofia della parola di Ferdinand Ebner, a cura di S. Zucal e A. Bertolfi, Morcelliana, Brescia 1999, pp. 369-378). ↩︎
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Cfr. NP, cit., p. 268. Ma anche l’intero saggio Dell’intelletto comune sano e malato, cit. ↩︎
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Ivi, p. 269 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 270. Per rimarcare ulteriormente la radice biblica di questo discorso sulla differenza e sulla separatezza, mi permetto di sottolineare ancora quanto espresso nella nota 34. Cfr, infra. ↩︎
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Cfr. SR, cit., pp. 167-219. ↩︎
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Rendiamo emunah con fiducia sulla scorta delle argomentazioni etimologiche e linguistiche di Buber in proposito. Proprio Buber riconduce la fiducia ebraica alla emunàh, come condizione di contatto tra i due partecipanti al rapporto, ovvero il Tu eterno di Dio e la totalità dell’essere finito. La fede cristiana viene invece ricondotta alla pìstis, la quale implica sempre un atto noetico attraverso cui ritenere per vero un qualcosa. La emunàh prevede quindi un rapporto reale, e quindi una condizione di contatto fiduciario tra colui che ritiene per vero qualcosa e colui nel quale si ripone la fiducia, per cui, per Israele, credere in qualcosa è sempre e comunque credere in qualcuno. A determinare ulteriormente la emunàh ebraica secondo Buber sono ancora, oltre l’esperienza del contatto e la fiducia, anche l’appartenenza comunitaria e la permanenza. Tali caratteri dovrebbero a rigore far parte anche della pìstis cristiana; anzi — come nota Sergio Sorrentino, nel suo saggio introduttivo all’opera di Buber — «l’esperienza di Gesù è uno dei culmini dello stesso vissuto ebraico della emunàh ed è la decisiva separazione (eresia, nel senso di háiresis) che contribuisce a recuperarne l’originarietà, nel momento stesso in cui la immette in un nuovo tempo storico (un nuovo eone)». Cfr. M. Buber, Due tipi di fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 8. Qui stesso, Rosenzweig chiarisce come l’attacco che l’esistenzialismo kierkegaardiano mosse all’hegelismo assoluto non poté a pieno sortire l’effetto filosofico sperato in quanto l’affermazione del singolo contro l’universalità del sistema era «pur sempre […] un’affermazione contro un’altra affermazione». Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 309. ↩︎
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È quella che Buber — anche se al riparo da suggestioni mistiche o da percorsi luriani — chiama dimensione dello zwischen, il «tra» che permette a due diversi di convertirsi reciprocamente al dialogo. Cfr. M. Buber, Io e tu in Id., Il principio dialogico ed altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1993, p. 59. Per il concetto di zwischen, Ivi, p. 69 ss. Una eco di questi temi — ben più pregna della carica catartica ed esistenziale originaria di Rosenzweig — è presente anche in E. Levinas, nella sua concezione dell’alterità. Si veda, ad es., E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova, 1985, in particolare pp. 14-18. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 454. Inutile rimarcare la suggestione che la fenomenologia del volto redento e rivelato — nel suo coniugare ascolto e visione — ha proiettato sugli scenari filosofici contemporanei. ↩︎
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Cfr., infra, nota 34. ↩︎
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Ivi, p. 449. ↩︎
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Cfr. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, M. Nijhoff, Haag 1976, p. 476: «Einfältig wandeln mit deinem Gott». Suona così l’espressione tedesca posta nella chiusa del libro. La traduzione italiana cui qui ci si appoggia è quella che Massimo Cacciari propone in Errante radice, «Secondo un’unica piega migrare insieme al tuo Dio» (cfr. op. cit., p. 14). L’edizione italiana di Bonola così traduce: «Camminare in semplicità con il tuo Dio» (cfr. SR, cit., p. 454). ↩︎
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Percorso mai esaurito, eppure carico di tensioni — in specie dopo l’Olocausto e la Shoà —, l’itinerario filosofico di un Dio «alla ricerca dell’uomo» si è recentemente aperto ad ermeneutiche contrarie. Citiamo solo due vie — tra loro opposte — che ci sembrano indicative delle tensioni implicite nell’ebraismo contemporaneo. Una è quella percorsa da A. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebaismo, Borla, Roma 1983. L’altra è quella sviluppata da H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 1991. ↩︎
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Per questa lettura di ’En Sof si veda G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova, 1986, in particolare pp. 43 ss. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 410. ↩︎
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Cfr. SR, cit., p. 236. «Il mondo […] è, palmo dopo palmo, qualcosa che viene, anzi un venire. È ciò che deve venire. È il regno». Ivi. ↩︎
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Prendiamo a prestito un hapax di natura mistica (cfr. M. Vannini, Introduzione a Silesius, Cardini, Fiesole, 1992 e A. Silesius, Il pellegrino cherubino, tr. it. di G. Fozzer e M. Vannini, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1989, ora parzialmente (I e II libro) in Id, Il silenzio felice, a cura di M. Vannini, Mondadori, Milano, 1990) sottolineando comunque l’abisso che intercorre tra mistica cristiana e mistica ebraica. Su questo cfr. aa. vv., Mistica Ebraica, a cura di G. Busi e E. Loewenthal, Einaudi, Torino, 1995 e G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino, 1993, in specie alle pp. 15-46. ↩︎
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Ivi, p. 453. ↩︎
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Ibidem. La stessa immagine dello specchio nel quale rimirare la verità può trovarsi in Silesius. Ma, mentre in Rosenzweig è la verità a farsi specchio, in Silesius, è l’uomo stesso a farsi speculum del fondo di Dio: «Io sono lo specchio: se Dio vuol vedersi nel fondo». Cfr. A. Silesius, Il pellegrino cherubico, cit., p. 96. ↩︎
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La lingua ebraica ha rinunciato nel corso della sua evoluzione sintattico/grammaticale al futuro verbale sostituendolo/confondendolo ora con l’ottativo (verbo della speranza) ora con l’indicativo presente (tempo dell’assoluta realtà). Se è vero che la lingua esprime categorie di pensiero maturate nel tempo, e le rispecchia in forme lessicali, ciò dovrebbe fornire una conferma — seppur indiretta — a quanto detto. ↩︎
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Su quelli che, in perfetta evidenza, sembrano essere tratti comuni al discorso heideggeriano successivo alla stesura di Essere e Tempo cfr. K. Löwith, M. Heidegger e F. Rosenzweig. Poscritto a «Essere e tempo» in «Aut Aut», (222), 1987, pp. 76-102. ↩︎
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Cfr. E. Levinas, Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno in op. cit., pp. 67-68 (corsivo mio). ↩︎