Fenomenologia e politica. Considerazioni non conclusive

1. La questione del (non) rapporto tra fenomenologia e politica

Dichiaro programmaticamente che le riflessioni aperte sul tema «fenomenologia e politica» sono non conclusive perché mi accingo ad indicare la via di un approccio al tema che si configura ai miei occhi come drammaticamente segnato da una scissione, da una separazione, da un mancato ed impossibile contatto tra i suoi due poli. Ciò che di fenomenologico è presente nella situazione indicata nel titolo come un problema si riassume nella circostanza (certamente essenziale, ma non tale da operare per l’attingimento di un qualche rapporto tra la fenomenologia e quel che chiamiamo politica, politica come strutturante il senso arendtiano di una polis, in qualche modo comunque democratica) che è fenomenologico il procedimento che conduce nel centro drammatico della scissione di cui si è detto. Diciamo che tale centro è «drammatico», ma si deve aggiungere e precisare che la sua drammaticità ospita anche l’impossibilità, per noi fenomenologici, di comprendere il senso della drammaticità stessa, data la circostanza che la lontananza della fenomenologia dalla politica ci mette nella condizione di non sapere nulla, o ancora nulla, della deprivazione di cui, come esseri politici, siamo le vittime. Non sappiamo che cosa, come esseri politici, ci viene a mancare e restiamo all’oscuro persino sulla legittimità di avvertire il vuoto di fenomenologia rispetto alla politica, o, se si preferisce, al politico. Sembra che siamo desinati a rimanere all’oscuro circa l’oscurità del modello fenomenologico rispetto alla politica. Si tratta comunque, questo possiamo dirlo, di un procedimento, che lungi dall’obiettivare tematicamente i due poli, ci lascia vivere entro la scissione, facendone in certo senso un elemento negativo dei rapporti tra idealità fenomenologiche e mondo, costituenti l’orizzonte e il contenuto del mondo-della-vita husserliano. Ciò comporta che si comprenda la essenziale asimmetria epistemologica che distingue l’orizzonte e il metodo fenomenologico, non tematico, che problematicamente (solo e originariamente in forma problematica) istituisce quello che si vorrebbe fosse una connessione, un rapporto, senza essere peraltro in grado di provarli, da un lato, e d’altro lato l’oggetto o il contenuto che si vuole vi sia iscritto. Il mondo-della-vita è il mondo fenomenologicamente tradotto, in cui gli eventi che vi accadono ricevono un senso che non è più puramente mondano, ma è, si direbbe con un ossimoro, fenomenologicamente mondano. Ora è appunto solo il procedimento fenomenologico che ci mostra questa situazione, ossia che ci conduce e ci mantiene nel cuore della incompatibilità tra fenomenologia e politica la quale, si badi, non consiste nella istituzione di una rapporto impossìbile per ragioni fenomenologicamente strutturali, ma esattamente nel suo inverso, ossia in quella asimmetria tra i due poli che abbiamo evocato all’inizio. Il politico resta oscuro e impenetrabile per la fenomenologia che pure ne esibisce la sconnessione rispetto a sé. Il mondo-della-vita è certamente il fenomeno che esibisce la verità eidetica della doxa considerata in tutte le sue dimensioni valoriali e mondane (quali valori e disvalori che guidano la vita nel mondo) e non sembra dubbio che tra di essi – valori e comportamenti e strumentalità teoriche e pratica per il mondo e nel mondo – vi si sia anche ciò che chiamiamo politica. Ma quel che intendiamo enfatizzare è che tra l’orizzonte rappresentato dal mondo-della-vita e il suo contenuto o oggetto politico non scatta alcuna relazione alla pari, nessuna intenzionalità costituente. Ciò accade invece per tutto ciò di cui nel mondo-della-vita la fenomenologia quale orizzonte generale della sospensione e ripristino del mondano costituisce appunto l’orizzonte, nel quale si iscrive (ma solo problematicamente come si è detto) anche la politica. Nel quale dunque la politica non trova posto.

Si potrebbe avanzare l’ipotesi che la questione del (non) rapporto tra fenomenologia e politica e dunque l’istituzione di una situazione di duplicità tra fondamento fenomenologico e il contenuto mondano rappresentato dalla politica riprenda in sé quel paradosso sdoppiante della soggettività esaminato nella Crisi delle scienze europee in virtù del quale il soggetto è ad un tempo soggetto nel mondo (persona, uomo) e soggetto per il mondo, costituente il mondo. Si tratterebbe, se l’ipotesi venisse accettata, di una duplicità in qualche modo analoga a quella, paradossale, che investe la soggettività. Ma il punto è che tale ipotesi è del tutto inaccettabile perché mentre la soggettività è paradossalmente doppia poiché il paradosso investe ogni singola soggettività e il fenomeno del soggetto o dell’ego trascendentale in quanto tali, nessuna reale duplicità (non) connette, sia pure nel segno del paradosso, fenomenologie e politica tra i quali si instaura un (non) rapporto che proprio la fenomenologia dell’orizzonte ci conduce a definire di separazione, di non contatto, entrambi derivanti da una loro essenziale asimmetria. Solo per la soggettività vale l’esibizione del divenire e dell’essere il soggetto allo stesso tempo due fenomeni coesistenti e radicalmente diversi. Ma la politica che definiamo democratica e che si rivolge all’attività di miglioramento delle condizioni della convivenza sociale dei raggruppamenti umani grazie alla realizzazione delle condizioni istituzionali e sociali che lo rendono possibile non tocca la fenomenologia, che, a sua volta, non vi entra a definirne il senso e la struttura, essendo chiaro che la definizione di politica che abbiamo appena dato non ha nulla di fenomenologico ma viene soltanto resa visibile e dicibile entro l’orizzonte fenomenologico del mondo-della-vita, senza che in alcun senso si possa parlare di qualcosa come una politica fenomenologica o di una fenomenologia della politica. Perciò si dovrebbe riconoscere che la fenomenologia ci lascia soli nel mondo, politicamente soli. È questo il primo e fondamentale, esito dell’indagine che esibisce il non-rapporto del rapporto che pure ci si impone come oggetto problematico (se non altro perché esso sembra assimilabile per analogia ad altri rapporti della fenomenologia con, ad esempio, l’estetica o l’etica , che appaiono caratterizzati di una intrinsechezza reciproca dei due poli, che manca per la fenomenologia e la politica). Che cosa intendiamo dire con l’osservazione che, esseri umani del mondo e nel mondo come siamo, per la duplicità paradossale che ci costituisce e che fa di ciascuno di noi , per l’altro lato del paradosso, un essere fenomenologico per il mondo, costituente il mondo, la fenomenologia «ci lascia soli nel mondo»? Che cosa può significare che , trattando entro il mondo-della-vita le questioni pratiche (insieme con i loro risvolti teorici) cui la politica ci assegna per raggiungere l’obiettivo di regolare con giustizia e a vari livelli di istituzionalità, il nostro mondo sociale comune, ci ritroviamo in una sorta di «solitudine fenomenologica», che colloca le fenomenologia in un luogo della vita della soggettività che non tocca la politica, non la costituisce, lasciandoci appunto soli? Si intende che il ritrovarsi solo di ogni essere umano concepito come politico (ad esempio, nella condizione della politica democratica cui ci riferiamo, come un civis fornito di diritti naturali uguali ed universali, garantiti dalla istituzione della polis, che ne fa dei valori etico-giuridici) non coincide affatto con la negazione della dimensione intrinsecamente «intersoggettiva» in cui si risolve la struttura della soggettività singola e a alla quale gli studiosi hanno riservato una grande attenzione (si pensi, per fare un esempio, agli studi di Alice Pugliese). La solitudine di cui parliamo, mentre tiene ferma la condizione intersoggettiva del soggetto fenomenologico tiene altrettanto ferma l’incongruenza di tale intersoggettività fenomenologica (come il darsi di una molteplicità interconnessa di soggetti) con il fare o il pensare politico che accadono nel mondo-della-vita, dove il riconoscimento husserliano del valore della pratica e del pensiero dossici non toglie affatto che essi circoscrivano quel luogo della doxa ove il modello fenomenologica del pensare opera come orizzonte racchiudente, senza tuttavia penetrare la doxa politica stessa. La fenomenologia offre a quest’ultima una garanzia di legittimità quale elemento del mondo, ma non ne penetra la struttura interna, il suo essere appunto il fenomeno di quel fare pratico e teorico che chiamiamo politica, con il risultato di lasciarla sola, fenomenologicamente sola, immodificata rispetto al suo essere doxa politica naturalisticamente o storicamente oggettivata.

Se si inverte lo sguardo rivolto alla questione del (non) rapporto tra fenomenologia e politica e lo si osserva dal punto di vista della politica, si incontra una conferma indiretta di quel che si è osservato. Il politico sembra offrire in Husserl, una sorta di barriera di resistenza alla fenomenologia: non accade solo che esso si forgi una concettualità e una vocabolario suo che, per quanto voglia rivendicare una qualche relazione di discendenza o di analogia con l’universo della filosofia intesa come metafisica (quindi non solo della fenomenologia), tuttavia stenta a definirsi come relazione trasparente e stabile e tende a scivolare sul terreno delle assonanze, dei rinvii più o meno indiretti, ove la presenza della metafisica nel politico si rende di difficile coglibilità.1 Soltanto in Hegel accade invece che l’assolutezza dell’essere logico- metafisico offra la certezza di principio che il linguaggio della logica dialettica copre anche la semantica e il vocabolario della politica, come è evidente ed esplicitamente insistito nella Filosofia del diritto, proprio per questo motivo fatta oggetto del critica del giovane Karl Marx. Ma, si è detto, non si tratta solo di questa resistenza ed estraneità del politico rispetto alla fenomenologia che spiega la quasi assenza di Hegel, come di Marx, quali interlocutori di Husserl – filosofo dai comunque scarsi interlocutori nella storia della filosofia. C’è di più. Il politico e la sua analisi mancano lungo la via della via della analisi fenomenologiche, dove è invece netta la presenza dell’interesse per una “etica fenomenologica”, che Husserl , del tutto legittimamente, implicitamente isola e separa dall’ambito del politico, che risulta svuotato del tema dei valori fenomenologicamente costituiti, e della loro gerarchia che istituisce la trama essenziale dell’etica. È ben vero che la parte conclusiva della Crisi, gli scritti che precedono il testo inedito e alcune delle Appendici, sembrano offrire una apertura ad una lettura di tipo storico-politico della protenzionalità futura della vita dell’umanità come unica, unitaria e totale. Ma significherebbe cadere in un grave equivoco il credere che qui, in queste pagine che dimostrano in realtà esattamente il contrario di ciò che erroneamente si attribuisce ad Husserl, possa essere colto il luogo della (non) relazione di fenomenologia e politica. Già il modo in cui la storia viene definita come un apriori estraneo ad ogni declinazione storicistica, un apriori costituito in termini gnoseologici, al punto che storia apriori infinitamente riattivata e gnoseologia della veritas aeterna finiscono con il coincidere nel cuore della scomparsa di ogni originarietà, di ogni fondamento, di ogni verità di cui la specificità della politica, non solo giusnaturalisticamente concepita, sembra non poter fare a meno, apre l’abisso del non incontro tra fenomenologia e politica. Deve aggiungersi che quanto mai lontana da ogni pensamento fenomenologico del politico e delle politiche mondane e storiche è l‘idea husserliana di una teleologia dello sviluppo unitario , universale , razionale e veritativo dell’umanità che costantemente si riconduce alla sua origine, ove è già presente, ma non nella forma della datità storica delle scoperte di un inventore e di un momento di un qualche sviluppo dal prima al dopo storici , la dimensione eidetica del vero, della geometria, nel caso cui facciamo riferimento, quello del testo sull’Origine della geometria, pubblicato nel 1939 da Eugen Fink.2 Non si dà spazio per il politico in una teleologia «immobile-fluente» della storia che si voglia comprensiva del politico stesso. Il politico nella sua dimensione mondana infatti è solo fluente , storico-storicistico, oppure semplicemente non esiste in termini fenomenologici. Non esiste per il politico, in tale contesto, uno spazio delle verità, e non solo perché la politica è l’arte storica delle sue variazioni, nelle sue forme e nei suoi tempi.

2. Tra Machiavelli e Marx, due politici e due fenomenologi

Immaginiamo di avere di fronte, in quanto politici che si vogliono anche fenomenologi, Machiavelli e Marx. Se prendiamo come opera di riferimento Il Principe e ferme restando le differenze rispetto ai Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, di cui qui non possiamo trattare, il politico ci si presenta (semplificando molto) come l’arte dell’istituzione principesca, per via di virtù e fortuna di un potere politico unificante ed unitario in un paese frammentato e indebolito da divisioni e conflitti micro- politici. Alcuni secoli più tardi La critica del diritto statuale hegeliano del giovane Marx introduce nel pensiero del politico, ossia nella teoria che ne informa la prassi, la prospettiva della rottura letteralmente rivoluzionaria di una soppressione del politico, quale astrazione giuridica, separata dalla società civile e in quanto tale funzionale alle divisioni conflittuali e di classe che attraversano la società borghese, conflitti che il politico non supera ma trascende, confermandone la natura economica che la democrazia politica , solo politica, rende stabili e istituendo così il mondo della prassi politica in sé separato dalla sua base materiale e raddoppiato, della eguaglianza giuridica e della ineguaglianza mondana. Ora ci chiediamo ove mai possa collocarsi, rispetto ai due esempi appena delineati un possibile contatto di quello che abbiamo definito il modello fenomenologico con l’universo del politico e con le sue diverse e anche opposte configurazioni. È ben vero che tale universo della teoria-prassi politica si iscrive nell’orizzonte del mondo-della-vita e partecipa del fenomeno della doxa fenomenologizzata che ne costituisce l’essenza, ma come riuscire ad indicare il punto, il luogo ed il modo in cui, tanto nel politico machiavelliano, quanto in quello marxiano, la doxa e la contingenza dell’agire, sia pure rinvianti a regole dell’agire finalizzate al raggiungimento di un obiettivo di potere, principesco, o repubblicano o persino democratico nel senso della vera democrazia che supera la separazione di civile e politico? La fenomenologia appare, nel contesto aperto da tale questione, come un orizzonte di riferimento troppo lontano, estraneo, irraggiungibile. La doxa pratica di carattere politico non sembra in grado di mostrare il suo volto fenomenologico, un riferimento possibile all’assiologia, al mondo dei valori (non accettabile restando, in primo luogo, la discutibile sovrapposizione del valore etico e del valore specificamente politico, il secondo dei quali non entra mai nell’ambito dell’indagine huisserliana, e pour cause). Per questo si è detto che in quanto esseri umani politici agenti nel mondo dischiuso dal fenomeno del mondo-della-vita, la fenomenologia ci lascia soli, forse ‘produttivamente’ soli, forse anche creativamente soli, ma comunque soli rispetto all’orizzonte fenomenologico, che, in quanto tale non ci investe, non trasforma il politico, il segmento della doxa sfuggente al suo destino eidetico.

Sono stati messi in rilievo nella recensione del saggio di Roberta De Monticelli La questione morale (Raffaello Cortina Editore, 2010) a cura di Claudio Fontanari pubblicata sul sito Phenomenolgy Lab un paio di punti che riguardano da vicino la questione che stiamo trattando. Conviene dedicargli attenzione perché il titolo anticipa quel che stiamo osservando alla ricerca di una fenomenologia del politico, che consideriamo di impossibile realizzazione. Alla prima parte del titolo, Fenomenologia e politica corrisponde un completamento possibilitante e positivo, non escludente come nel nostro caso, del nesso tra i due poli, un completamente che sembra riassumere il senso che sia pure indirettamente le assegna nel suo libro Roberta De Monticelli. La fenomenologia, considerata dall’autrice essenzialmente nel valore e significato etici del suo esito teoretico, indica la via di un «operare nel mondo senza diventarne prigionieri», secondo l’espressione utilizzata da Enzo Paci e ripresa da Claudio Fontanari. Dunque, lo scarto tra il nostro essere nel mondo inestricabilmente legato, nel paradosso, al nostro essere per il mondo in quanto costituenti il mondo stesso, e il modo non costrittivo, libero ed autonomo, addirittura sottratto ad ogni nostra cattura dal parte del mondo che ce ne farebbe i suoi «prigionieri», verrebbe pienamente colmato da una doxa pratico-politica che assume su di se il compito etico di mantenersi liberi nel mondo in cui operiamo ma cui non apparteniamo attualmente come suoi ostaggi costretti ad un operare imposto dal mondo. Non mi interessa ora di indicare la presenza della eco lontanamente marxiana della alienazione capitalistica e della sua produzione che rende l’essere umano in quanto lavoratore il prodotto prigioniero del suo stesso prodotto ( il prodotto del suo prodotto). L’operaio vede rovesciata la sua apparente autonomia di soggetto produttivo nella schiavitù del suo essere asservito a quell’altro da lui (la produzione di merci, il suo stesso divenire una merce) che aliena da lui il suo lavoro e l’oggetto di quest’ultimo. Non mi interessa sviluppare questo punto non perché non sia comunque rilevante , nonostante la difficoltà di sussumere sotto il segno della condanna etica quello che Marx vede come l’oggettività stessa del procedimento dello sfruttamento capitalistico del lavoro operaio, ma perché mi pare non conduca nella direzione di una salvataggio fenomenologico del politico, che pensato nella forma della critica marxiana dal capitalismo presuppone un elemento dell’interpretazione tanto della fenomenologia husserliana , quanto della critica marxiana dell’economia politica, che si fonda sulla duplice eticizzazione sia della fenomenologia husserliana, sia della critica anticapitalistica di Marx. Questa doppia eticizzazione appare francamente insostenibile dal lato husserliano come da quello marxiano. Ma non c’è dubbio che una fenomenologia eticizzata conferirebbe al mondo-della-vita, anche al di là dell’avvicinamento ad un Marx altrettanto eticizzato, il punto di contatto tra fenomenologia e una politica essa stessa tradotta nel linguaggio concettuale dell’intenzionalità etica che il recensore coglie nel libro della De Monticelli. Dunque, anche seguendo questa ipotesi di lettura che, si è detto, tendiamo a respingere, la fenomenologia ci lascia soli, in quanto soggetti del politico, nel mondo quale mondo-della-vita che vorrebbe essere, e per altri aspetti della sua natura di fenomeno fenomenologico, effettivamente è, il luogo della doxa eidetica, ove la stessa politica riceverebbe, perdendo la caratteristica della sua eccezionalità negativa, il segno del suo trapasso a fenomeno che resta fenomeno, come tutto quello che appartiene al mondo-della-vita. Del quale si dirà in termini correttamente fenomenologici che l’operare mondano in esso e per esso ci rende effettivamente suoi «prigionieri» tranne nel caso del politico che ci vede soli sullo sfondo di una fenomenologia impotente a sollevarci dalla semplice doxa mondana al livello della doxa eidetica. Ma se quello che non si verifica nel caso del politico , che lascia nella nostra povertà, debolezza e carenza (la Dürftigkeit heideggeriana) il nostro operare nel mondo-della-vita, accade invece nel resto dell’universo della doxa resa eidetica, la prospettiva auspicata e voluta del nostro non divenire «prigionieri» del mondo in cui operiamo deve effettivamente essere rovesciato nel riconoscimento che, privati della in qualche modo usurpata valenza etica del sottrarsi alla cattura da parte del mondo e nel mondo, noi siamo effettivamente «prigionieri» del mondo in cui operiamo. E lo siamo perché il mondo-della-vita in cui accade il nostro operare è un fenomeno strutturato che indica le forme dell’agire dossico e non si configura come il luogo di una azione libera nel senso del libero arbitrio. Il mondo razionale della fenomenologia conosce una libertà normativa, non il caos di un agire non «prigioniero» , ma che paga tuttavia il prezzo della sua volatilità, della libertà priva di strutture normative dell’azione arbitraria. Siamo dunque, in quanto operiamo nel mondo, «prigionieri», ma di una normatività politica di cui la fenomenologia non ci dà conto.

3. Il politico come esito fenomenologico dell’impronta etica

V’è un secondo punto che è importante segnalare della recensione di Claudio Fontanari al saggio di De Monticelli su Phenomenology Lab. Anch’esso ci conduce nella direzione opposta a quella che sembra voler indicare. Anch’esso merita una attenzione critica, proprio perché non riesce a dare conto di come possa declinarsi in termini unitari o di pari reciprocità di determinazione il tema «fenomenologia e politica», che, non si dimentichi , dà il titolo al suo intervento e che riprende un punto chiave del Diario fenomenologico (Bologna 1973) di Enzo Paci, ispiratore non secondario della recensione. Citerò subito il passo paciano riportato nella conclusione di Claudio Fontanari, in cui emerge l’idea dominante che Husserl intenda l’agire politico come un agire per la verità supportato da una forte «volontà» di mettere in movimento un «dovere» etico nel senso datole da Jeanne Hersch in Rischiarare l’oscuro (tr.it. presso Baldini Castoldi Dalai, 2006) . Dunque il politico si istituisce come esito dell’impronta etica assegnata all’agire nel mondo da una fenomenologia che è appunto eticamente plasmata dal suo essere quell’agire doverosamente che istituisce e fa valere l’eticità dell’agire nel mondo per la verità: in questo agire si concretizzerebbe la fenomenologicità del politico, sottratto per tale motivo alla contingenza e alla variabilità storica. Tutti i termini dell’etica fenomenologica husserliana, escluso il riferimento al politico, sono qui presenti , come risulta dalla lettura dei corsi sull’etica tenuti negli anni 1920-24.3 Potremmo dire che in Husserl il politico non è nominato proprio perché viene assorbito dall’etica fenomenologica e non ha quindi bisogno di vedersi riconosciuto un suo spazio di senso fenomenologico. Fontanari riprende dal Diario paciano quella che definisce la «declinazione fenomenologica di questa ogni giorno più urgente necessità di rinnovamento morale e politico» auspicato da Husserl e rivendicato da Paci , e ne cita il passo più significativo, in cui il politico trova il suo pieno trascendimento e il suo vero e proprio annullamento in quanto tale nell’attingimento della sfera della verità e dell’eticità dell’agire per la verità, nel mondo bensì, ma da una prospettiva eideticamente ultramondana coincidente con lo spazio aperto dalla fenomenologia. «La gloria non ha senso, la potenza non ha senso, il tuo successo personale non ha senso. Vanità. Quella vanità che Husserl ha sempre combattuto. Ed era sincero. Amava davvero la verità e viveva per la verità. La gloria è il mondano e il senso della vita si rivela solo nella negazione del mondano, in un operare del mondo che non è prigioniero del mondo. Credo fermamente a questo. Non è rinunzia a operare nel mondo, a vivere nel mondo: è desiderio di un operare che abbia un significato di verità. Bisogna essere capaci di questo, bisogna voler vivere così, bisogna tentare di vivere così».

Non si potrebbe avere una conferma più piena della nostra tesi critica, di ciò che si ottiene dal rovesciamento dell’esito dell’ispirata prosa paciana, dal suo voler essere o tentare di essere un vivere fenomenologico del politico nel segno della verità che presuppone la negazione del mondo come luogo del nostro imprigionamento, e il vivere un politico che sia portatore di «un significato di verità», per divenire quello che nella prospettiva critica che qui proponiamo si configura come il duplice isolamento della fenomenologia da noi, soggetti politici e dei soggetti politici che noi siamo dalla fenomenologia. Qui infatti lo sfuggimento dell’operare nel mondo dalla cattura o prigionia nel mondo che esso sembra necessariamente implicare, si configura come una vera e propria trascendenza dell’agire etico e politico (politico in quanto originariamente etico) che appunto trascende verso l’altezza di una vita di verità dove cade il tessuto di tutte le «vanità» mondane, ossia perdono valore e dignità e interesse quelle reti di doxai pratiche cui il mondo-della-vita è chiamato a dare senso fenomenologico e valore eidetico, senza trascenderle, ma accettando invece la «prigionia» nel e del mondo. Si scivola in questo modo fuori dal pensiero di Husserl, e ciò non perché, si badi , si sia vittime di una imperfetta padronanza della fenomenologia husserliana, o per un qualche difetto della ragione indagante, ma per un motivo ben più essenziale e strutturale: il motivo dato dalla incapacità di comprendere mantenendosi entro l’orizzonte fenomenologico se e come il politico possa sottrarsi all’isolamento rispetto a noi e inversamente se e come noi in quanto soggetti mondanamente e fattualmente politici possiamo afferrare un rapporto alla fenomenologia e viverci dentro . Questo afferramento, questo nesso, questa iscrizione del politico che noi stessi (anche) politici siamo metterebbe un riparo se non una fine alla solitudine in cui, in quanto politici che sono fenomenologi, ci veniamo a trovare per l’incapacità di colmare l’abisso della separazione che la stessa fenomenologia husserliana ci costringe a riconoscere tra sé e il mondo, in quanto mondo del politico. Per questo motivo, anche noi che facciamo le considerazioni su fenomenologia e politica assegnandole all’attenzione critica di chi legge, muoviamo da un vero e proprio sentimento di solitudine che ora ci appare insuperabile e che possiamo soltanto debolmente ridurre esibendo fin dal titolo la consapevolezza che tali considerazioni sono comunque «non conclusive». Ma la non conclusività, il «sempre di nuovo», l’apertura, non sono tratti essenziali del vivere fenomenologico, che torna così ad affacciarsi come la speranza di un infinito proseguire della ricerca e della conquista fenomenologica di territori che appaiono isolati, sullo sfondo dell’ attuale sperdimento che ci segna privativamente come esseri politici?


  1. Si veda Y.C. Zarka, Filosofia e politica nell’età moderna, tr. it., Milano-Udine 2018, in part. il primo capitolo, dove l’autore sostiene una tesi sostanzialmente opposta rispetto a quella che qui delineiamo. ↩︎

  2. Si veda F.S. Trincia, La storia e la riattivazione dell’originario in Husserl: L’origine della geometria, 2019, testo non ancora pubblicato della relazione per il convegno husserliano su “Fenomenologia e storia” prevista per marzo 2020 presso il Pontificio ateneo di S.Anselmo a Roma. ↩︎

  3. Si veda E. Husserl, Introduzione all’etica , tr.it. di N. Zippel, a cura di F. S. Trincia, Laterza, Bari-Roma 2019. ↩︎