1. Introduzione
Assumo come oggetto tematico il poeta John Keats e mi propongo di realizzare il tentativo di intervenire (nella modalità fenomenologica di cui dirò) sulla comprensione dell’essenza della poesia, tanto della propria, quanto della poesia in generale, ossia di quel che il poeta ritiene, e dichiara, di dover pensare della creatività poetica a partire dal proprio lavoro creativo, riflettendo su di esso dall’interno del procedimento immaginativo, o di fantasia (immaginazione e fantasia, vedremo possono non coincidere del tutto). Tale procedimento è depositato nel corpo delle poesie più o meno brevi, nei due poemi e in alcune delle importanti e affascinanti lettere, fonte autenticamente imprescindibile del mio lavoro. Prendiamo le mosse quindi dal presupposto, o dall’ipotesi, che operi in Keats la riduzione almeno parziale della distanza tra la poesia e la riflessione che la riguarda. Il tentativo di comprensione della poesia di Keats lo compiamo in base alla immaginazione filosofica (sorta ed avvertita nel contatto con un pensare poetico come quello di Keats, che nell’essere poetico non cancella e anzi esibisce le proprie tracce «pensanti») che il compito venga affidato all’interprete da parte del grande poeta romantico inglese vissuto e morto a Roma giovanissimo nella prima metà dell’Ottocento, come se, vogliamo dire, un qualche aspetto del suo poetare possegga una intenzionalità fenomenologica che attende di essere riconosciuta e riempita, affinchè «gioia», «bellezza» e «verità» si manifestino come l’essenza stessa della poesia. Il progetto del lavoro che stiamo delineando vorrebbe esibire necessità e legittimità di collegarsi dall’interno ai lampi o ai frammenti di intuizione pensante che Keats sentiva in piena consapevolezza vivi e vibranti in sé. È in questi frammenti o lampi, che si trovino nelle lettere o nei componimenti poetici, che si avverte una intenzionalità o anche solo un qualche impegno teoretico, una volontà di cogliere dall’interno dell’attiva vitalità il senso del proprio produrre, che un approccio fenomenologico sembra in grado di fornire un orizzonte ulteriore, una legittimità che rende più solido e anche più complesso e profondo il godimento poetico, la «gioia» o la «felicità» spesso presenti nei versi o nella prosa di Keats. Si tratta, ribadiamolo per indicare l’ispirazione di fondo che ci guida, di una legittimità che l’interprete avverte o sente come evocata dal poeta, come se quest’ultimo chiedesse al lettore di non lasciar cadere l’appello o il grido poetico e pensante, spontaneo e riflessivo, udibile e visibile suo poetare.
Evitiamo di perdere fin dall’inizio il contatto con la cosa stessa di cui parliamo, lasciando appunto parlare la cosa stessa, ossia le parole in poesia e in prosa di Keats. L’approccio fenomenologico a Keats ci vieta perderci in discorsi di metodo, giustificativi di quel facciamo e, soprattutto ci impone di lasciar cadere nei confronti dell’opera in versi e nella prose di Keats, ogni atteggiamento di tipo applicativo e oggettivante, come se avessimo a che fare con un esercizio di critica letteraria che si applica al suo oggetto o tema. La sponda filosofica, o se si preferisce la sua fonte, e i suoi strumenti concettuali di tipo fenomenologico, impongono piuttosto di indicare, anche solo a mo’ di illustrazione per exempla, il luogo interno a Keats da cui prendiamo le mosse. Ciò ci consente di respingere il modello, peraltro in sé insostenibile, di una applicazione della fenomenologia alla poesia. La congiunzione di fenomenologia e poesia, riferita a Keats, non è né neutra, né ingenua, né gratuita, ma indica quel che si configura come un interno sfociare della poesia nella fenomenologia, nel quale la poesia trova il suo riempimento e il suo senso, il senso del suo essere poesia, del suo essere, si badi, questa poesia specificamente, irriducibilmente keatsiana di questa individualità poetica non soffocata ma esaltata dalla sua cornice fenomenologica.
I primi versi del poema Endymion1 possono offrirci un punto di avvio.
A thing of beauty is a joy for ever: / its loveliness increases; it will never / pass into nothingness; but still will keep / a bower quiet for us, and a sleep / full of sweet dreams, and health, and quiet breathing» («Una cosa bella è una gioia per sempre: / cresce di grazia; mai passerà / nel nulla; ma sempre terrà / una silente pergola per noi, e un sonno / pieno di dolci sogni, e salute, e quieto fiato»).2
Due temi di questi versi iniziali devono essere sottolineati nel contesto del ciò che concerne quel che si potrebbe definire l’importo pensante del poetare keatsiano. Da un lato, l’eternità della bellezza che, come accade alla verità che il verso enuncia, non soccombe al tempo nel suo essere produttiva della gioia, o della felicità che frequentemente Keats collega alla creazione poetica. La bellezza, e il godimento non solo estetico ma esistenziale che essa genera, non sono realtà contingenti. Il loro sottrarsi al tempo equivale al loro sfuggire all’annullamento. Dall’altro lato, troviamo nei versi che seguono il contenuto della creatività poetica. Che è certamente declinato in termini di felice esistenza (la salute e la quiete del respirare), ma solo dopo che è stato indicato nel dolce sognare la sua prima espressione. Ora, sognare vale per Keats come fantasticare e il senso complessivo dei primi versi è dunque dato dall’assegnazione alla bellezza della poesia e alla gioia che essa genera di una sovratemporalità non consumabile dal tempo stesso, e insieme dal fatto che essa prenda corpo nella sua dimensione eterna nell’atto del fantasticare, esso stesso assegnato alla dimensione del tempo senza tempo. Una sorta di programmatica concettualità tradotta in poesia è ciò che in questi versi Keats utilizza per delineare poeticamente il nesso tra la gioia e la bellezza entro l’orizzonte di quella eternità che sfugge all’annullamento, secondo il modello implicito di una essenzialità platonica che nel distanziarsi dal mondo pure lo illumina (il sonno sognante, la pergola silente, il quieto respiro e la salute). Nulla vi è di propriamente fenomenologico in questo inizio del poetare keatsiano in Endimione, ma quel che ora ci interessa è il mettere in rilievo l’intreccio di filosofia, o di filosoficità, e poesia o poeticità che Keats sente come suo proprio e che non cessa di lasciar filtrare come tale, come la sua propria identità di poeta. È su questo sfondo che si innesta l’approccio fenomenologico, all’interno del primo libro del poema. Il punto focale dell’avvicinamento tra poesia keatsiana e fenomenologia è già presente in uno dei temi dei suoi primi versi: la bellezza, che è gioia e eterna sovratemporalità della poesia, corrisponde al suo essere «sogno», ossia fantasia, e ne deriva. È la fantasia poetica, il fantasticare poetico dunque, ad essere sovratemporale, ossia ad intrattenere un rapporto di alterità rispetto al mondo e alla percezione conoscitiva dei suoi oggetti. Cominciamo ad udire una eco husserliana: naturalmente si tratta dell’eco «di ritorno» dello Husserl che noi proiettiamo sulla poesia di Keats, in una sorta di gioco di rispecchiamento senza vero inizio tra i due lati, i due autori, le due forme del pensare che abbiamo progettato di avvicinare reciprocamente, e far risuonare insieme.
Troviamo una conferma della volontà di consapevolezza riflessa circa il proprio poetare e un ampliamento della costellazione poetico-concettuale che abbiamo appena visto, nella lettera del 22 novembre 1817 a Benjamin Bailey.3 Siamo anche in questo caso cospetto di uno dei testi che ci servono a legittimare l’accostamento fenomenologico a cui lavoriamo. Anche qui emerge la centralità della questione della relazione nella poesia tra immaginazione, bellezza e verità. Scrive Keats all’amico:
Ti prego amico mio. Vorrei essere altrettanto certo che i tuoi guai finiranno, di quanto lo sono del fatto che prenderai subito il volo con me sull’autenticità dell’immaginazione (as that of your momentary start about the authenticity of the imagination). Io non sono sicuro di niente, se non della santità degli affetti del cuore — e della verità dell’immaginazione — quel che l’immaginazione coglie come bellezza deve essere verità — esistesse prima o no (I am certain of nothing but of the holiness of the heart’s affections and the truth of imagination — what the imagination seizes as beauty must be truth — whether it existed before or not ) — perché ho delle passioni la stessa idea che ho dell’amore: che sono tutte, al massimo della loro intensità, creatrici dei bellezza pura — in una parola, puoi ritrovare questa mia idea prediletta nel mio primo libro e nelle breve canzone che ti ho mandato nell’ultima lettera — che è la rappresentazione fantastica di come immagino che queste cose funzionino. L’immaginazione potrebbe essere paragonata al sogno di Adamo — si svegliò e trovò che era vero.
Dunque, il nesso e il rinvio tra immaginazione bellezza e verità è agli occhi di Keats, strettissimo. Che l’immaginazione poetica si a autentica è ciò che garantisce dell’ equazione che si stabilisce nelle sue creazioni tra bellezza e verità. Il valore dell’espressione secondo cui quello che l’immaginazione coglie come bello deve essere vero è molto folte in quanto sottrae la bellezza al rischio della contingenza e della arbitrarietà che sembra incombere sulla attività della immaginazione. Questo non è ammissibile per Keats, che coglie il sogno di Adamo come vero, esattamente perchè anch’esso partecipa di quella immaginazione che non solo crea verità ma è in sé vera, ossia cattura l’essenzialità delle cose sottratte alla loro dimensione empirica e temporale.
Nell’Ode su un’urna greca, l’equivalenza, anzi l’identità tra bellezza e verità come portato della poesia eterna è affermata in maniera molto netta come qualità essenziale della «forma attica»:
Quando l’età avrà devastato questa generazione, / ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori/ non più nostri, amica dell’uomo, cui dirai / «bellezza è verità, verità bellezza» — questo solo / sulla terra sapete ed è quanto basta ( «beauty is truth, truth beauty», — that is all / ye know on earth, and all ye need to know).4
Questo importa al mondo e nel mondo, questo basta alla vita reale, empirica storica: la certezza essenziale dell’identità di bellezza e verità che illumina il mondo ma non ne è toccata. E questo è, di nuovo, quel che l’arte della poesia offre al mondo, dalla cui «sgradevolezza» pure si tiene lontana: «L’eccellenza dell’arte consiste nell’intensità — un’intensità capace di far svaporare ogni specie di sgradevolezza, stringendola forte alla bellezza e alla verità (from their being in close relationship with beauty and truth)».5
Credo opportuno evidenziare prima di proseguire il carattere aperto e sperimentale del mio tentativo di ricerca. Fornirò poi uno sguardo d’assieme o una sorta di orizzonte di precomprensione di quello che, del tutto impropriamente, ma in certa misura cogliendo il punto teorico centrale del lavoro, chiamo il «rapporto» tra Keats e le pagine di Edmund Husserl che possono gettare una luce fenomenologica sull’essenza delle poesia. A quest’ultima ha rivolto la propria attenzione riflessa il giovane poeta inglese. La fenomenologia husserliana dell’immaginazione e della fantasia si può configurare (per l’interprete, non per Husserl stesso, estraneo all’interesse per Keats) come un’operazione di accoglimento e di elaborazione della poesia keatsiana entro l’orizzonte della costituzione husserliana della immaginazione e della fantasia, due delle nozioni chiavi che strutturano il pensiero di Keats sulla propria poesia e più in generale sull’essenza della poesia. Il progetto del lavoro, completato con il riferimento a qualcuno tra gli scritti critici dedicati alle lezioni husserliane (in assenza, come si dirò subito, di studi del «rapporto» tra Husserl e Keats cha abbiano l’impianto, puntuale e non solo allusivo, che qui stiamo invece configurando) si svolge dunque come un percorso di avvicinamento e di penetrazione o, se si preferisce, di filtraggio delle lettere di Keats sulla poesia e dei componimenti poetici sulla base delle considerazioni compiute da Edmund Husserl nel corso degli anni 1904-5, dedicato alla fenomenologia della «fantasia» e della «coscienza di immagine». Questi sono infatti, insieme al «ricordo», i temi presenti nel titolo del volume XXIII della Husserliana, curato e pubblicato nel 1980 da Eduard Marbach.6 I motivi per cui ritengo di dover mettere sull’avviso il lettore circa i possibili, eventuali limiti del mio lavoro rinviano a due circostanze. La prima concerne il fatto di non poter disporre di modelli di accostamento critico della fenomenologia husserliana della immaginazione e della fantasia alla poesia per così dire reale, effettiva, prodotta da un grande poeta (come quella di John Keats) rispetto a cui ci si chieda, come si è sopra accennato, se tanto la poesia stessa, tanto le riflessioni teoriche su di essa ricevano luce e risultino enfatizzate nel loro valore artistico e teorico dal modello fenomenologico husserliano della modalità rappresentativa della fantasia e della coscienza di immagine. Intendo parlare di quella fantasia, di quella immagine, di quella figuralità o Bildlichkeit anche di carattere letterario, oltre che di carattere pittorico o scultoreo, che è ulteriore e comunque diversa rispetto all’universo della rappresentazione artistica da cui Husserl ricava la gran parte dei suoi esempi e su cui modella la propria costruzione fenomenologica. Come se, si vuol dire, anche quando giunge a parlare propriamente della fantasia e del suo universo di «fantasmi», che sembra distinguersi sia pure non sempre nettamente dall’immaginazione e dalla sua immagine o Bild fisica e fornita di supporto fisico, e dunque sembra capace di fornire il modello fenomenologico della poesia intesa come attività letteraria, Husserl, finisca per risultare distratto rispetto alla poesia ed essere piuttosto attratto comunque dalla figuralità pittorica, scultorea o anche fotografica, dove immaginazione e fantasia si fanno corpo, prendono corpo: il Mosè di Michelangelo, quindi, piuttosto che l’Amleto di Shakespeare (autore keatsiana per eccellenza) sembra plasmabile e penetrabile teoricamente, quanto al suo senso, dalla fenomenonologia husserliana.
Trascuro in questa sede (nel senso che non tento di isolarle e decodificarle dal contesto, facendomi bastare l’analisi di un segmento del corso sopra ricordato) tanto pagine husserliane eventualmente dedicate, anche per via indiretta, a forme di raffigurazione per parole, una raffigurazione dunque poetica e più in generale letteraria,7 quanto anche studi critici che abbiano già tentato un accostamento ermeneutico e fenomenologico convincente di fenomenologia e poesia e che possano fungere in qualche misura da battistrada del difficile esercizio che, come è evidente, si colloca sul margine su cui si incontrano, ma anche si tengono reciprocamente distinte, da un lato la filosofia fenomenologica e dall’altro quello che ho chiamato il prodotto reale della fantasia poetica (di un grande poeta romantico, in questo caso). Ciò accade a fronte della circostanza, già rilevata, che il prevalere in Husserl di esempi e modelli di figuralità fantastica e immaginativa di tipo pittorico o scultoreo (Boecklin, Michelangelo, per citare artisti ricordati da Husserl stesso), o anche fotografica, rende più complesso e in certo modo rischioso il progetto di estendere alla fantasia o alla «fantasticità» letteraria e comunque depositata in opere scritte, e ai valori estetici che ad esse si collegano, il modello fenomenologico della dell’immaginazione e della fantasia non letterarie. Quando l’immagine fantastica, il cui carattere di «inattualità», di irrealtà e di inesistenza mondano-percettiva, di radicale «alterità» e di Nichtigkeit coglibile nel «contrasto» con il campo della visibilità percettività reale Husserl si propone di mettere in rilievo come esito dell’indagine fenomenologica che ne compie, trova ed utilizza la raffigurazione dipinta o scolpita o fotografata come esempio e modello di quel che accade e da cui l’indagine fenomenologica ricava il proprio avvio e anche la sua prova. Resta poi all’interprete di comprendere il senso e i passaggi analitici del percorso che Husserl stesso ha tracciato. Ciò al fine programmaticamente delineato di comprendere e definire i modi della eventuale cattura e al contempo di esaltazione fenomenologica della poesia e del «piacere» keatsiano che essa genera. Forte o almeno insistente nella mente dell’interprete che abbia attraversato Husserl e Keats intrecciandoli tra loro si fa la tentazione (non necessariamente paradossale) di fornire la materia poetica keatsiana alla fenomenologia husserliana della immaginazione e della fantasia e di fare per Husserl e con Husserl sulla fantasia che diventa scrittura poetica ciò che egli non ha fatto, o almeno non ha esplicitato: Keats insomma verrebbe plasmato come il fenomenologo della fantasia poetica fattasi scrittura, che Husserl non è stato interessato ad essere, o non ha voluto o saputo essere.
Per le ragioni che si sono indicate, se si prendono come strumento di aiuto per pensare il rapporto tra fenomenologia e poesia due tra i migliori lavori italiani sul tema dell’immagine e dell’immaginazione in Husserl, quello di Valeria Ghiron e quello di Carmelo Calì,8 ciò che si ha a disposizione è un ottimo e grandemente utile ripercorrimento delle pagine husserliane del volume della Husserliana che abbiamo citato sopra e anche di altre opere o corsi husserliani. Non vi si trova tuttavia lo sperato aiuto a comprendere l’allargamento all’immagine e all’immaginazione poetica e letteraria del modello fenomenologico dell’immagine figurato o fotografata o scolpita. Resta così aperta la questione cui qui si vorrebbe trovare una risposta attraverso il riferimento alle poesie e alle lettere di John Keats. La sua fantasia poetica, la sua immaginazione, lo stesso modello teorico della «negative capability» evocato da Keats,9 interpretato in maniera un poco sbrigativa come l’attuazione di un procedimento di epoché fenomenologica da Jeffrey L. Kosky,10 ma allusivo piuttosto, dal nostro punto di vista, all’atteggiamento poetico di base, quello che è definibile come un atteggiamento di «contrasto», per usare un termine husserliano, e di distanza rispetto all’inseguimento dei «fatti» e della «ragione», in qual modo possono essere ‘filtrati’ e dunque compresi e valorizzati fenomenologicamente? Come, con quale legittimità teorica, si può trovare entro la dimensione poetico-letteraria e in particolare nella sua peculiare declinazione keatsiana, un’analogia con il modello della fantasia e della coscienza di immagine che Husserl ci illustra con esempi dell’arte pittorica e scultorea e della raffigurazione fotografica? Come si può fare il tentativo che si propone di interrogare la scrittura poetica, e la stessa dimensione letteraria in quanto tale, senza forzare lo schema originale husserliano? Una fantasia fatta scrittura ed immagine scritta (come accede ad esempio nella poesia Bright Star^[11] dedicata a Fanny) sono o non sono la stessa cosa fenomenologica, ossia posseggono o non posseggono lo stesso valore fenomenologica del Mosè di Michelangelo o delle figure mitologiche di Boecklin? I capitoli dedicati da Rudolf Bernet alle immagini, agli oggetti fittizi, alla coscienza presentificante e alla distinzione tra mondi reali e mondi immaginari in Conscience et existence appaiono più interessanti a chi si ponga le questioni che abbiamo appena indicato in quanto insistono sul tema della radicale alterità dei mondi immaginari, letterari o anche raffigurati in immagini visibili. Anche il semplice accenno alle tesi di Bernet consente tuttavia di collocare al margine del nostro tentativo la tesi avanzata da Kosky che il modello teorico della poesia e della poetica keatisiana sia costituito dal procedimento della «sospensione» o dell’epoché. Sono da chiamare in gioco come strumenti per capire e godere la poesia keatsiana piuttosto le pagine direttamente dedicate da Husserl alla fantasia (torniamo a chiedere: secondo uno schema estendibile alla poesia di Keats?), che non quelle sull’epoché per quanto ovviamente importanti e più volte presenti nell’insieme delle opere husserliane, ma assai più indirette e lontane dal campo della rappresentazione poetica, letteraria e comunque scritta.
Abbiamo detto sopra che due sono i motivi che spingono chi scrive ad evocare rischi e possibili limiti dell’esperimento teorico dedicato a fenomenologia e poesia. Quel che fin qui programmaticamente abbiamo osservato, ed a cui qualche altra considerazione merita di essere aggiunto, delinea I confini e la direzione del progetto che stiamo svolgendo ed è quindi qui che la sua problematicità trova una espressione ed una esplicitazione più chiari. Non possiamo tuttavia dimenticare di ricordare un secondo limite, un secondo elemento di difficoltà, illustrabile assai brevemente e rispetto al quale tuttavia è possibile, e ora ormai necessario mantenere la vigilanza critica senza farsene tuttavia paralizzare. Manca a chi scrive, è questo che vogliamo fare rimarcare, tra le competenze che non si possono non evocare, una conoscenza significativamente solida della poesia romantica inglese dell’Ottocento e anche una conoscenza critica altrettanto solida, che solo uno specialista potrebbe esibire, dell’opera poetica anche del solo John Keats. Chi scrive ha studiato Husserl e la sua fenomenologia, e insieme, ad un certo momento dei suoi studi e delle sue letture ha incontrato le Lettere sulla poesia di Keats e ne è rimasto filosoficamente, esteticamente ed affettivamente, in una parola fenomenologicamente colpito. Nel passaggio alla lettura delle poesie e dei poemi keatsiani, guidata dalla illuminazione filosofica fornitagli dalle lettere, ha sentito tracce di una «presenza» fenomenologica husserliana, si è posto le domande che abbiamo sopra indicato ed ha creduto di poter dare qualche svolgimento all’impressione o all’intuizione che la lettura dell’ opera poetica e della riflessione teorico-poetica su di essa del grande romantico gli avevano suscitato. Potrebbe forse accadere (questo naturalmente è un augurio) che la debolezza della competenza letteraria keatsiana, e il tener ferma invece la propria, grande o piccola ispirazione fenomenologica, il rivolgere domande che investono la poesia ma nascono dall’interno della fenomenologia husserliana della fantasia, possa produrre qualche inaspettato risultato positivo. Può darsi, insomma, che la fiducia filosofica nella potenza espansiva del metodo fenomenologico, su cui Husserl ha spesso richiamato l’attenzione, delinei almeno la prospettiva di un percorso in cui il procedimento fenomenologico e l’applicazione, se così si può dire, del suo metodo si intrecciano inestricabilmente alla capacità di veder accresciuto e raffinato, comunque approfondito, il godimento estetico offerto dalla poesia di Keats. Fenomenologia e poesia, dunque, insieme in questo senso, che è letteralmente impensabile se la fenomenologia tace o resta inesplicita.
2. Differenze tra immaginazione e fantasia
Torniamo ancora a definire e ad approfondire, ripetendone la fisionomia, l’orizzonte complessivo dell’interesse per il «rapporto» (così, un poco titubando, l’abbiamo definito) tra fenomenologia e poesia, tra Husserl e Keats. Questo ci consente poi, una più solida, più fondata lettura dei testi del confronto, e anche del parallelo e dell’intreccio che in esso istituiamo. Tale rapporto è definibile per Husserl, in linea generale, come un rapporto di alterità tra l’intenzionalità percettiva del conoscere fenomenologico (quella per intendersi su cui si soffermano la prima e la seconda sezione di Esperienza e giudizio)11 che sfocia volta a volta in riempimenti oggettuali e che dà l’esperienza reale o del reale, da un lato, e, dall’altro lato, l’intenzionalità dell’immaginare e del produrre «fantasmi» della fantasia, non solo e non in primo luogo poetici ma anche poetici. Tale intenzionalità ha il suo esito o compimento in una percezione irreale e «neutralizzata» — neutralizzata, vuol dire Husserl, rispetto al perceptum di una percezione antepredicativa sfociante in un giudizio conoscitivo. Come abbiamo osservato, tale tema è rilevabile, nella sua emersione dal contesto poetico in cui è immerso e che ne giustifica l’apparizione come pensiero di Keats sulla sua poesia , in particolare in alcune Lettere. Ribadiamo, sulla base di una prima delineazione delle tesi husserliane, che sul reciproco contaminarsi e trascorrere l’una nell’altra della fenomenologia husserliana della immaginazione e della fantasia , e della riflessione sulla poesia che in Keats si eleva sopra la poesia stessa, si fonda il «rapporto» e l’intreccio — quanto si vuole inusuale, forse azzardato, imprevisto, inesplicito, ma proprio per questo di grande fascino teorico — tra i due poli del nostro progetto fenomenologico.
Abbiamo detto che oggetto della riflessione husserliana nel corso che prendiamo come punto di riferimento e come fonte sono l’immaginazione e la fantasia (oltre al ricordo, di cui qui non ci occupiamo). Prima di procedere, introduciamo una avvertenza che dovremo tenere presente, anche se non potremo darle il dovuto rilievo per non perdere il filo dell’analisi e il suo centro specifico. Si tratta della questione, in tutti i sensi di grandissimo rilievo ma complessa e persino sfuggente, se non ambivalente nelle pagine stesse dedicatele da Husserl, della differenza tra immaginazione e immagine da un lato, e fantasia e fantasma dall’altro, due sponde di una trattazione «estetica» che tanto si distinguono quanto si rinviano l’una all’altra. Possiamo supporre che per Husserl l’anima fenomenologia di quella manifestazione letteraria che chiamiamo poesia, sia la fantasia. Se questa supposizione è corretta, dovremmo evitare di attribuire alla trama delle rappresentazioni poetiche lo statuto di quella che Husserl chiama «immagine fisica», i cui modelli egli ricava dalla rappresentazione pittorica e scultorea in forma di immagine. Tali modelli non sembrano attribuibili alla poesia dato che nel caso della poesia manca la visibilità dello scarto tra l’immagine fisica (un quadro, una scultura) e il suo sostegno, il suo sfondo. Il contesto percettivo reale da cui si distingue e che tuttavia la comprende. Ciò diventa comprensibile se si osserva l’immagine rappresentata da un quadro (il Bildobjekt, l’oggetto-immagine che raffigura un Bildsubjket, il soggetto dell’immagine) e collocata entro una cornice appesa sulla parete di una stanza. In questo caso è visibile ossia percepibile la differenza tra l’immagine fisica e lo sfondo percettivo che, contenendola, ne consente di cogliere l’alterità, il suo non essere percezione. Ciò non sembra che accada nel caso della serie di fantasmi che costituiscono la trama della fantasia poetica, per la quale la pura materialità dei segni della scrittura non costituisce l’altro percettivo su cui si staglia la sua immediata assolutezza, il suo essere libero prodotto dell’invenzione, ciò che Keats vede come il suo libero vagare, il suo costante sfuggire lontano, away, away!, sfuggendo al destino della propria determinazione.
Avendo fin qui affiancato la teoria husserliana dell’immaginazione e quella della fantasia ed avendo supposto ragionevolmente — sulla base della coordinate teoriche husserliane che sottraggono alla fantasia e quindi alla poesia il riferimento negativo alla percezione che non giocano alcun ruolo nel definire la sua alterità rispetto alla percezione stessa — ci attestiamo in prima battuta sulla tesi che l’immagine «mentale»12 che costituisce la trama della poesia non possa e non debba essere compresa a partire dalla immagine fisica. È facile comprendere il rilievo cruciale che tale distinzione ha per la comprensione della poesia, di quella di Keats in particolare , su cui gettano luce le riflessioni del poeta singolarmente concordanti con la de-realizzazione e la non presenza , la non attualità della fantasia, cui Husserl attribuisce piuttosto la capacità di «presentificare» l’assente e l’irreale. Tuttavia, l’enfasi che deve essere posta sulla differenza tra immagine fisica e immagine di fantasia non ci autorizza a cancellare la circostanza — che rende come dicevamo più complessa ed ambivalente la «fantasia» husserliana — che tra le due si mantenga comunque un nesso. Immagine e fantasia hanno comunque in comune, e sia pure in un senso non del tutto identico, la «nullità» e l’alterità rispetto alla percezione. Leggendo Keats, vedremo, non si sfugge alla sensazione della presenza, nella sua consapevolezza oltre che nella sua pratica di poeta, di tale nesso e dunque dell’incunearsi, sia pure per differenza, della traccia della realtà percettiva nella trama dei fantasmi poetici. L’assenza dell’oggetto reale e la inattualità dell’immagine, di ogni immagine, sono comuni ad entrambi. Si pensi a quel che Husserl scrive nei passaggi13 nei quali appare chiaro che anche nella fantasia (poetica aggiungiamo noi) domina il contrasto tra presenza e non-presenza. Il Fiktum della fantasia è il non-presente, ossia ciò che è fornito di una qualità negativa rispetto alla percezione, è cioè una Nichtigkeit, una «nullità» rispetto alla percezione che ne fa risaltare la dimensione fantastica-irreale. Ma il Fiktum, la finzione della fantasia, sebbene per un verso sia certamente tale, per altro verso non è definibile compiutamente come Fiktum (Husserl sarà esplicito su questo punto poco più avanti), se attribuiamo la finzione in primo luogo alla immagine fisica, ma poi ci preoccupiamo anche di distinguerla dai fantasmi della fantasia (poetica, aggiungiamo noi). Due diversi tipi di Nichtigkeit, si dispongono ad occupare l’articolazione completa e complessa dell’orizzonte del rappresentare non percettivo che Husserl sta costituendo.
Compiamo un primo passaggio sul testo husserliano che abbiamo appena ricordato, che si trova nel quinto capitolo, al paragrafo 26. E da qui che passeremo ad una analisi più ravvicinata della poesia keatsiana, e potremo infine tornare a compiere un esame più ampio delle pagine husserliane risalenti agli anni 1904-5. Il progetto di intrecciare testi di Husserl e di Keats (per poi aggiungere il riferimento al testo critico più rilevante sulle lezioni di Husserl su fantasia e immaginazione, quello di Rudolf Bernet già ricordato) potrebbe forse in questo modo fornire un primo risultato. Il capitolo è dedicato al contrasto o alla differenza tra l’apparizione di fantasia e l’apparizione figurale fisica (quella di tipo immaginativo), oltre che al contrasto della prima con l’apparizione percettiva. Il paragrafo 26 tratta del Fiktum (il prodotto di una finzione o la finzione stessa) e della questione del modo di apparizione della «immagine di fantasia» (Phantasiebild). Si tratta di un paragrafo importante non soltanto per quel che vi si afferma, problematicamente e anche dubitosamente circa la differenza tra l’immagine fisica che costituisce il Bildobjekt, l’oggetto-immagine, e l’immagine di fantasia di cui Husserl afferma che non sia una vera immagine, ma anche perché Husserl confessa che in merito a tale questione lo ha sempre assalito un «serio dubbio». Si tratta del punto della distinzione tra immaginazione e fantasia cui abbiamo fatto cenno. Sembra probabile, da un lato, che Husserl cerchi di indicare la via stretta della costituzione di una fantasia che non emerge dal conflitto con l’«inoppugnabile realtà del presente», pur mantenendo nella sua struttura l’opposizione anzi l’essenziale contrapposizione rispetto ad una apparizione che non può ridursi a un niente, se proprio dalla contrapposizione all’apprensione della apparizione percettiva la fantasia ricava il proprio diritto di definirsi tale. La fantasia sarebbe presa in una sorta di movimento dialettico strutturalmente , ossia essenzialmente disturbato ed incerto, nel quale la sua assolutezza non riferibile a una sponda percettiva che, negata, la definirebbe come tale, si affianca proprio ad un classica movenza di negatività dialettica (una espressione quest’ultima che resta ovviamente estranea al lessico husserliano). In questo modo, la fantasia poetica nega il mondo o si nega rispetto al mondo, dal quale tuttavia continua ad restare incomprensibilmente affetto, nell’atto stesso in cui tale incomprensibilità razionalmente insuperabile entra a definirne l’essenza più profonda.
D’altro lato, questa contrapposizione non può essere identica a quella che oppone il Fiktum proprio della finzione immaginativa, all’ apparizione percettiva sebbene con tutta evidenza tra i due contrasti, che delineano l’uno la fantasia e l’altro l’immaginazione, si manifesti una qualche parentela. Infine, vorrei avanzare l’ipotesi, da verificare sui testi keatsiani, che la situazione concettuale che il testo husserliano in esame ora ci offra un buon approccio a quel modo del pensare-poetare keatsiano apparentemente irriducibile al solo intreccio dei suoi fantasmi poetici. L’ipotesi è che il poetare di keats e le sue riflessioni si esso, si nutrano di una fantasia in qualche misura attraversata dall’incerta distinzione rispetto all’immagine fisica, nella quale, voglio dire, il lettore coglie la eco dell’intreccio del fantasma poetico con la finzione propria dell’immagine fisica rispetto alla percezione esterna che pure in qualche modo la affetta. Accade insomma come se la pagina husserliana ci offrisse il modello di un poetare, o meglio per comprendere e godere un poetare come quello di Keats in cui si intrecciano e convivono, in testi diversi o nello stesso testo, una concatenazione di fantasmi ed un parallelo rinvio di questi al reale percettivo, alle cose che accadono nel mondo, dal quale pure essi prendono (consapevolmente, come risulta dalle riflessioni nelle lettere) le distanze. Ciò accade sulla linea di confine che separa il razionalistico simbolismo, di cui Keats non partecipa, dal romanticismo, che costituisce la sua anima più profonda. Ma romanticismo antirazionalistico significa e comporta (all’interno di un contesto che ospita la grande poesia romantica così come, su tutt’altro terreno, il romanticismo politico di Isaiah Berlin) «il rifiuto di ogni razionalistica ipersemplificazione della realtà umana, o come forse si potrebbe anche dire, di ogni garanzia cercata in un perfetto ordinamento» del mondo dell’agire e del pensare mondani e dell’antropologia che vi corrisponde. Dunque, esso è, insieme entusiasmo che dà vita a fantasmi poetici, che si trasfonde in immagine fantastiche del tutto libere, e, insieme, compromesso, spirito di compromesso, atteggiamento di disponibilità a non dimenticare lo sguardo che dal fantasma e dall’ entusiasmo liberamente creativo che lo anima, dalla sua idealità, dalla sua irrealtà, torna a rivolgersi alla realtà dalla quale pure, in modo ambivalente, prende parziale congedo.14
Nel paragrafo 26 Husserl osserva che dopo aver rivolto lo sguardo alla differenza tra la rappresentazione di fantasia e la comune o ordinaria rappresentazione di immagine (Bildvorstellung) e dopo aver fatto chiarezza su quest’ultima, la rappresentazione di fantasia esibisce ancora ai suoi occhi quelle «difficoltà» e «oscurità», che torneranno poco più avanti a renderlo preda di seri dubbi. Non si dovrebbe sottovalutare la reiterazione da parte di Husserl delle perplessità sulla definizione fenomenologica della fantasia, poiché vi si nasconde, se essa viene osservata dal punto di osservazione che qui ci interessa, ossia il ruolo della rappresentazione di fantasia nella poesia (cui Husserl non sembra voler fare accenno allargando alla letteratura in generale la propria attenzione oltre la dimensione figurale delle pittura e della scultura) e in quella di Keats in particolare, la circostanza che la fantasia pone problemi di definizione fenomenologica che gli appaiono difficili. Insomma: Husserl non lo dice, ma la problematicità della rappresentazione di fantasia e il rapporto ambivalente e complesso che questa intrattiene con la rappresentazione per immagine, ci consente di ipotizzare l’apertura implicita di uno spazio per la definizione di una fenomenologia della poesia, che non si riduce ad una rappresentazione per immagini, poiché è in certo senso più radicalmente altra rispetto sia alla rappresentazione percettiva del reale, ma anche alla proiezione di quest’ultima in immagini. Per un verso, osserva Husserl, la trattazione della fantasia sembra ricadere sotto il titolo generale della immaginazione e richiedere quindi di essere considerata come una rappresentazione per immagini ed esattamente come una Immanente Bildvostellung, ossia come una rappresentazione per immagini chiusa in modo immanente in sé stessa, con l’esclusione di ogni rinvio ad una realtà esterna da rappresentare — ciò che coglie comunque uno dei tratti della fantasia che Husserl intende e enfatizzare e che conduce di nuovo nei pressi della scrittura poetica. Per altro verso, si affaccia di nuovo, per la seconda volta, e sarà ancora ripetuto, «il sentimento di una certa insoddisfazione». La situazione non è, nel caso della rappresentazione di fantasia, la stessa della «rappresentazione fisica per immagini».15 Incontriamo la dimensione della finzione, di quel che chiamiamo Fiktum, esattamente in questo caso, ossia nella rappresentazione fisica per immagini. Tra Fiktum e Imaginatum non si dà identità, ma anzi contrasto o opposizione, come se Husserl volesse dire che la coscienza immaginativa non si risolve in una coscienza di finzione.
L’immaginazione e la sua immagine non sono identiche ad una finzione perché quel che piuttosto interessa mettere in rilievo è la fissazione di una terzo livello, non quello della finzione, non quello della immaginazione, ma quello della fantasia, che si distingue per vie diverse dalla finzione come dalla immaginazione. Dunque, dato che lì immaginazione ospita la finzione ma non si risolve in essa, e d’altra parte essa non può essere confusa con la fantasia, diviene necessario definire l’ambito specifico dell’alterità della fantasia rispetto sia alla rappresentazione percettiva, sia rispetto alla coscienza immaginativa. Come si giunge ad affermare che nella fantasia manca il Fiktum e perché? La poesia, possiamo estrapolare questo risultato da quel che stiamo osservando, non è mera finzione ma neanche mera immaginazione. Per questo appartiene al dominio della fantasia. Infatti, l’oggetto-immagine è un Fiktum, un oggetto percettivo ma un «oggetto apparente». Sembra una cosa reale-fisica, ma appare in contraddizione con il presente percettivo. In quanto coscienza di una finzione si compenetra con la «coscienza della rappresentazione» dando vita ad una imaginative Bewusstsein, in cui finzione e immaginazione non coincidono. Se tale coincidenza si desse, lo spazio fantastico della poesia sarebbe stato trovato. Ma, di nuovo, la poesia che Husserl non prende in esame e che noi tentiamo col il suo aiuto di definire fenomeno-logicamente, non è la somma della finzione di un oggetto apparente non presente e di una immaginazione che sorge come estranea a quella finzione. Deve darsi una contrasto bensì, perché si apra lo spazio della fantasia poetica, ma non lo abbiamo fin qui identificato né nello scarto dell’«immaginato» rispetto a reale, né nel «finto» di un oggetto apparente. In entrambi i casi, si noterà abbiamo a che fare con un contrasto e con una negazione, ma non con la definizione di determinazione concettuale positiva. La fantasia che tesse la trama della poesia sembra fornire tale determinazione positiva, nella quale la funzione del contrasto del rappresentato rispetto all’attuale vive di immagini positive e non semplicemente di immagini che non sono… altro. Non avremmo a disposizione un solo verso di Keats se questa condizione non venisse soddisfatta. Ciò non toglie, naturalmente, che quella che chiamiamo la determinazione concettuale positiva della fantasia, ossia la sua forma, mantenga come suo contenuto una determinatezza che non si compie mai, un non sapere, una incertezza in sé insuperabili. E in effetti, la poesia di Keats si nutre e ci nutre di fantasmi formalmente determinati (e proprio perciò capaci di supportare l’indeterminatezza dei loro contenuti), e non di astratte negazioni di… Ed inoltre, lo abbiamo più volte osservato, Keats è ben consapevole del movimento costituente della propria fantasia creativa. Il che conferma l’impossibilità di catturare i fantasmi creati dalla sua fantasia poetica nella categoria del semplice Fiktum, di ciò che è soltanto finzione, di una finzione che è solo negativa.
La fantasia poetica produce fantasmi «positivi» e non si rinserra nella dimensione puramente negativa e contrastiva che pure la connota e che la apparenta alla immaginazione e alla finzione da cui si distingue. È qui il passo in avanti oltre Husserl che, accompagnati da Husserl e «in cerca di Keats», tentiamo di compiere. Ciò che qui osserviamo è tanto più rilevante, quanto più la fantasia poetica godedi una distanza «dalla realtà del presente» che è diversa da quella della immaginazione e da quella della finzione, ma è altrettanto essenziale. Per questo motivo, ossia in virtù del fatto che siamo ora spinti avanti nella ricerca della fisionomia fenomenologica della fantasia (noi aggiungiamo: poetica) è importante quel che Husserl osserva nel prosieguo del paragrafo. Nella fantasia, dunque, mancano la finzione e il suo prodotto, il Fiktum. Ciò, spiega Husserl significativamente perché l’immagine di fantasia non è una «immagine che si inserisce tra la realtà attuale del presente». Ciò vuol dire che non le spetta (o non le spetta soltanto e prioritariamente) quella irrealtà finzionale che ricava la propria fisionomia dal non essere compresa nella trama della attualità presente. La poesia, quella di Keats ne è una espressione paradigmatica: essa non si fa largo nella continuità del presente, ciò che, se avvenisse, le darebbe la qualità della finzione irreale.
Si faccia attenzione: si presenta come rappresentazione finzionale irreale, e si risolve in quest’ultima, ciò che nasce dalla frattura della continuità del presente attuale e dall’inserimento nella sua trama originaria, storica, empirica, di una immagine finzionale proprio perché insinuatasi in una faglia del reale presente. Ma la poesia non nasce affatto da una interruzione della continuità del reale, da una sospensione di quest’ultimo. Il reale, spesso solo silenziosamente e non i tutti casi, resta bensì in contatto con l’aperto universo della fantasia, come abbiamo rilevato. Ma se la poesia si definisse come sospensione del reale, quest’ultimo verrebbe a costituire negativamente la ragion d’essere della poesia. L’assolutezza radicale della poesia verrebbe offuscata dalla schema dialettico che assegna al reale un ruolo fondativo. Si vede bene come, contro la tesi di Jeffrey Kosky che abbiamo ricordato sopra e che intende riferirsi proprio alla poesia di Keats, questa non ospiti in sé alcuna costitutiva epoché. Quest’ultima, come è noto , annulla o azzera il problema stesso della realtà e dell’esistenza, lo sospende, appunto, ed offre l’accesso alla certezza dell’ego puro fenomenologico. L’epoché non dischiude quindi la positività della fantasia. Anche l’io-fantasia (Phantasie-Ich) nasce, certamente, entro lo scarto antinaturalistico aperto dalla fenomenologia, ma il suo spazio specifico deve restarne distinto. Se così non fosse, come potrebbero differenziarsi l’orizzonte della fantasia e il suo Phantasie-Ich dal puro sguardo dell’ego cartesiano modificato da Husserl, che istituisce la certezza del giudicare e del conoscere fenomenologici? Per comprenderlo, d’altra parte, basta leggere fenomenologicamente proprio la poesia keatsiana, non solo le lettere del poeta, dove torna insistita la differenza tra ragione (giudicante, ma anche storicamente narrante) e libera, incomprensibile fantasia poetica. In questo caso ci troveremmo a dover riconoscere alla poesia di Keats la capacità di illuminare un punto difficile della fenomenologia husserliana, piuttosto che essere illuminata da quest’ultima.
La fantasia «non appare nella forma di una apprensione percettiva, non si costituisce come un quasi reale entro le realtà fenomeniche del campo visivo e non si mostra come un Fiktum grazie alla sua opposizione all’incontrastata realtà del presente».16 Meglio non si potrebbe dire: la fantasia non è un «quasi reale», insinuatosi per via privativa nella trama di quest’ultimo. Dunque, la poesia non nasce privativamente rispetto al reale presente. Ci si chiede allora come la fantasia poetica appaia e se appaia realmente «nel modo di un’immagine» alla maniera di un «oggetto-immagine che rinvia all’intuizione di soggetto-immagine» (come accade nell’immagine fisica). I dubbi che Husserl esplicita rispetto a tali domande non eludono la negatività della risposta. Se lasciamo in sospeso la questione del rapporti tra immaginazione e fantasia, non risolta da quest’ultima tesi, possiamo dire che questo è il modo della immaginazione-fantasia o della fantasia che sta oltre l’immaginazione, come si presenta in Keats. I fantasmi della poesia (ora evitiamo di chiamarle immagini), ossia le costruzione letterarie della fantasia poetica non si edificano sulla base del conflitto con la realtà presente. La fantasia e le sue creazioni non sono intrinsecamente conflittuali rispetto al reale: ciò non deve essere inteso nel senso che scendano a compromesso con quest’ultimo, ma nel senso che il reale non costituisce il lato negativo rispetto a cui sorgono. Il «contrasto» rispetto alla percezione, che pure non può mancare deve assumere un valore diverso, non costitutivo. Vi abbiamo insistito. Husserl esplicita la propria incertezza circa la questione se la fantasia ospiti in sé un oggetto-immagine. Risponde evocando la distinzione tra Bildlichket, la figuralità interna ed esterna ed affermando che la fantasia non è rivolta «verso l’esterno», sebbene possa farlo, ma non debba farlo. L’esterno quindi non costituisce il campo di riferimento della rappresentazione fantastica, la quale dell’esterno non si nutre, come accade quando dopo un racconto di viaggio ci facciamo l’immagine di un territorio, accompagnato tuttavia dalla piena coscienza che tale immagine costituisce qualcosa di più o meno alla lontana «analogo» al reale. Il riferimento al reale viene interrotto dalla coscienza che l’immagine fantastica delle realtà da cui il racconto di viaggio è costituito è solo analoga al reale stesso: ma qui l’analogia lavora nel senso di fissare una diversità e non nel senso di indicare una fonte del fantasma (poetico, nell’ipotesi che seguiamo). Se il riferimento alla intenzione rappresentativa esterna deve, nella trama dei fantasmi della fantasia (poetica) essere lasciato cadere, perché il riferimento all’esterno presuppone sempre una intenzione rappresentativa interna — e dunque la distinzione tra immagine fantastica interna ed esterna è cruciale per indicare la lontananza della fantasia dal mondo esterno reale, e il fatto che quest’ultimo non stimola o sollecita la creazione di fantasmi (poetici, ma anche musicali o rammemorativi, negli esempi di Husserl) resta aperta la questione: come deve intendersi l’intenzione rappresentativa interna della fantasia? E, inoltre, si tratta di una intenzione di rappresentazioni per immagini?
L’intrinseca ambivalenza della nozione husserliana della fantasia rispetto al suo rapporto (e insieme al suo non rapporto) con il reale riconduce costantemente all’ipotesi che anche nel fantasma della fantasia il riferimento alla presenza di una immagine di fantasia non possa essere lasciato cadere. Si affaccia ancora la tentazione di cogliere un parallelismo significativo tra quella ambivalenza e l’incerto, esso stesso ambivalente indugiare tra le immagini con cui Keats identifica il proprio poetico fantasticare. Avremmo allora qui la trascrizione fenomenologica (ovviamente vista dall’interprete e non cercata da Husserl) di alcune della modalità presenti nella poesia keatsiana. Ma Husserl si preoccupa di ribadire la distanza tra immagine e fantasma poetico con l’osservazione che nel caso della fantasia la coscienza di immagine si costituisce «su un altro fondamento»17. Ciò accade grazie all’entrata in gioco di una «opposizione», che deve certamente essere contemplata perché si produca la costituzione fenomenologica dell’immagine fantastica. Quest’ultima sta, come l’immagine, nel contrasto o nell’opposizione da cui ricava la propria fisionomia costitutiva, ma nel suo caso contrasto ed opposizione non contrappongono il presente attuale e il Fiktum di una finzione che interrompe la continuità del reale insinuandovisi come un’alterazione lacerante. La fantasia (poetica) non presuppone quale sua condizione una lacerazione del reale, sebbene richieda che qualcosa venga da lei «negato» (bestreiten è il verso usato da Husserl). E l’argomento sulla fisionomia oppositiva rispetto al reale del fantasma (poetico) è radicale: «Se l’apparizione» del fantasma fantastico «non si contrapponesse a nulla, non dovrebbe avere qui il valore di una percezione?»18 In un caso, tuttavia, quello della percezione, l’apparizione si riferisce a qualcosa di presente, mentre nell’altro caso, quello della fantasia, l’apparizione rinvia a un Nichtgegenwärtigen, ad una «non presenza». L’improprio Fiktum della fantasia è invece apparizione di qualcosa di non presente e solo perciò esso può essere raffigurato in una immagine. La finzione di fantasia diviene immagine solo sul presupposto nella nullità del presente che in essa si raffigura. La finzione fantastica ha una caratterizzazione del tutto diversa, altra, «rispetto ad ogni altra apparizione del presente», perché essa porta in sé «il marchio della nullità», ciò che non accade nella semplice immagine fisica, cui, per questa ragione, il fantasma poetico non può essere ridotto. L’oggettualità che essa rappresenta è segnata da una opposizione che ne fa una oggettualità «non presente». E dunque, di nuovo: «Se mancasse tale opposizione, come potrebbe rappresentare l’apparizione» di fantasia, «qualcosa di altro dal presente?»19 Ammessa, esclusa, riammessa, la qualità in sé oppositiva, contrastiva della fantasia rispetto al reale dà corpo non solo ad una qualche incertezza teorica di Husserl, che pure non si può escludere, ma anche all’incertezza della cosa stessa, ossia dell’indeterminato indugiare al di qua della ragione, del giudizio e del reale percettivo, che Keats ha fulmineamente colto nella nozione di «capacità negativa».
La finzione di fantasia dunque è un non-presente, in quanto i suoi fantasmi sono intessuti di negatività. Sulla base di questo motivo husserliano decodifichiamo la poesia di Keats come il frutto di una «indolenza»,20 di una sospensione della compiutezza del fare paralizzato da quella che chiama l’«indolenza estiva» («summer-indolence») — che non possiede tuttavia affatto le caratteristiche della epoché. La sospensione keatsiana intesa come indolenza poetica non possiede nulla del valore fenomenologicamente costituente, costitutivo della emersione dell’ego puro che appartiene dell’epoché. Mai Husserl definirebbe la sua epoche in termini di raffigurazione di un presente negativo, come accade invece qui dove sembra invece che siamo autorizzati a vedere nella fenomenologia della fantasia (poetica) negativa la movenza essenziale della poesia keatsiana, e della teorizzazione che egli riflessivamente ne offre. L’oggetto apparente dell’apparizione di fantasia non può essere definito, analogamente all’oggetto-immagine fisico, come tale che in via di principio non presenta alcuna differenza rispetto all’apparizione della percezione. Certo, non è dato ritrovare nella percezione e nella sua apparizione l’oggetto-immagine che contrassegna l’immaginazione e il suo oggetto-immagine fisico. Ma in linea di principio, tra oggetto dell’immaginazione e oggetto della percezione può non esservi differenza. Il punto essenziale dell’argomentazione consiste nel fatto che tale vicinanza può essere colta ed esplicitata solo quando, con il passaggio alla determinazione fenomenologica della fantasia non ci limitiamo e rilevare che «la cosa di fantasia non appare nel campo visivo della percezione», ma vediamo la cosa di fantasia collocata «in un mondo del tutto diverso, radicalmente separato dal mondo del presente attuale».21 Il mondo completamente «altro» (ganz andere Welt) della fantasia poetica, dal cui punto di osservazione (si noti: il punto di osservazione dell’opera d’arte compresa quella letteraria della poesia) cogliamo insieme la parentela dell’oggetto dell’immaginazione e di quello della percezione, e misuriamo tutta la radicale distanza dal mondo «altro» della fantasia è strutturalmente (perché fenomenologicamente) separato dal mondo del presente attuale. La fantasia che crea o produce poesia, crea al tempo stesso un universo di alterità. È questo ciò che potremmo definire il «punto filosofico» della poesia keatsiana che ora vien chiarendosi sempre di più.
3. L’interpretazione di Bernet
Rudolf Bernet, pur senza fare alcun riferimento a Keats, lo ha messo in evidenza riflettendo sulle pagine di Husserl che stiamo commentando.22 E lo ha fatto, molto opportunamente, ampliando lo sguardo sull’orizzonte ermeneutico che si apre sul senso dell’opera d’arte, e dunque anche della poesia in genere, quando si veda che il bisogno di comprendere si intreccia con il darsi di una «incomprensione», con l’incontro con quella incertezza del capire, con quella inerzialità, se non vera e propria paralisi del cammino della ragione e dell’intelletto discorsivo di fronte al paradossale comprendere realizzato nel suo mondo «altro» dalla fantasia poetica, che Keats non cessa di avvertire e di mettere poeticamente e anche riflessivamente in rilievo. Per questo motivo dicevamo sopra che le pagine del saggio di Bernet sono essenziali, e forse insostituibili, per la delineazione della fenomenologia della poesia che stiamo perseguendo lungo il filo della creatività keatsiana. In effetti, l’alterità del mondo della fantasia, non è forse strettamente correlato a quel passaggio, che Bernet definisce «ermeneutico», oltre il limite che il comprendere razionale e la trama dalla base percettiva dei suoi giudizi, incontra come l’altro lato del comprendere stesso, come il suo limite radicale nella forma della incomprensione? Non vede forse bene Keats che l’alterità del mondo della fantasia corrisponde e risponde allo spalancarsi dell’effervescenza creativa di fantasmi, oltre il limite del comprendere razionale riferito al presente attuale ovi si attiva quell’atteggiamento che Bernet chiama l’«incomprensione» senza, ripetiamolo, avere in mente il grande romantico inglese? L’opera d’arte, e la poesia in particolare, non si configurano come una strutturalmente incompiuta, rischiosa, incerta e anche sospesa ermeneutica dell’incomprensibile, quell’incomprensibile su cui si avventura la fantasia poetica che ha rotto ogni rapporto di continuità con l’attualità del presente e con l’ordine della ragione giudicante?
Ho già citato la lettera di Keats, in tutti i sensi cruciale, in cui si parla del rapporto attivo nella poesia tra immaginazione e fantasia non logico-razionali (qui assunte nell’accezione unitaria che le connota, nel poeta, anche se non nel fenomenologo) e la «verità».23 Torno a ricordarla perché le pagine di Bernet sul rapporto tra comprensione, incomprensione, e apertura della verità ‘altra’ che grazie al passaggio per l’incomprensione viene dischiusa dall’opera d’arte edificata dalla fantasia può essere utilizzata come il più appropriato commento fenomenologico (o fenomenologico-ermeneutico) alla lettera keatsiana. Keats, si è visto, riferisce ciò che sente come sicuro alla «autenticità» dell’immaginazione, ma poi, più esattamente, alla «verità dell’immaginazione», poiché ritiene che «quel che l’immaginazione coglie come bellezza deve essere verità». L’immaginazione è come il sogno di Adamo del quale Milton dice che al risveglio di Adamo stesso si rivela come «vero». Quello che Keats vuole rivendicare per sé come creatore poetico è una vita di «sensazioni» piuttosto che di «pensieri» in quanto avverte e misura la distanza e l’alterità massima che separa la prima dai secondi: «Non sono mai riuscito a capire finora come si possa conoscere la verità di una cosa attraverso un ragionamento logico». Quel che è in gioco nella creazione artistica è definibile come una verità, ma si tratta di una verità, come scrive Husserl, del tutti separata dal presente attuale del mondo, che non prevede il riempimenti di una adeguazione al mondo. E dunque, «si può dire generalizzando molto che ogni evento di verità abbia la sua fonte nella manifestazione di un funzionamento anormale del gioco della vita culturale».24 Quel che Bernet chiama «funzionamento anormale» della vita culturale e spirituale espressa nell’opera d’arte è esattamente quel che Husserl coglie come l’alterità radicale della creatività della immaginazione-fantasia rispetto alla percezione (cui pure una immaginazione che resti distinta dalla fantasia in qualche modo si apparenta, come si è osservato).
Tale anormalità è una «anomalia» che svela l’impoverimento del presente e giustifica l’apertura di uno spazio «altro». Filtrata dalle categorie dell’ermeneutica, l’alterità dello spazio artistico (qui, nel caso che ci interessa, poetico) quest’ultimo si svela carico non solo della distanza dalla percezione presente del mondo attuale, ma anche della differenza rispetto alla povertà e alla insufficienza della cultura mondana. L’evento della verità che trova espressione nella creazione artistica deve dunque attraversare un’anormalità, una «crisi del senso» che muta le abitualità del nostro vivere e del nostro comprendere, facendoci uscire dal cerchio della nostra vita abituale. È questa l’interpretazione al tempo stesso più profonda e più creativa della scena ‘altra’ che la fantasia dischiude secondo Husserl e che Keats realizza, e riflessivamente teorizza, nella sua poesia. Tale circostanza, ossia l’idea che la poesia e la bellezza producano verità, una verità ‘altra’, non attinta dal pensiero, e che in tale alterazione della normalità, in questa crisi del giudizio conoscitivo percettivo, l’incomprensibile funga da motivo costituente insostituibile di un comprendere non più logico ma immaginativo-fantastico-poetico, ossia in una parola il sorprendente intrecciarsi della fenomenologia husserliana della poesia e della poesia di Keats: tale circostanza è tanto più notevole quanto meno Keats, e la poesia in genere sono tematicamente presenti a Bernet. L’accostamento e l’intreccio di Husserl fenomenologo della fantasia e della poesia keatsiana sono piuttosto «visti» dall’interprete in quanto gli accada di lasciarsi andare al movimento fenomenologico ed in esso finisca per incontrare l’intreccio dei due poli che reciprocamente si richiamano, con il polo fenomenologico che svolge la funzione di far «parlare fenomenologicamente» la poesia di Keats. La poesia dunque ha a che fare con una crisi o una perdita del senso, con il passaggio ad una scena totalmente «altra» rispetto a quella del presente percettivo e logico della attualità. Per questo motivo la poesia che coglie la bellezza «deve essere verità», come si esprime Keats.
«Ogni crisi o perdita di senso è già un evento di verità, anche se il suo senso resta, almeno provvisoriamente, incomprensibile per noi».25 Ora, Keats non aveva forse scritto nella lettera anche da ultimo richiamata: «Io non sono sicuro di niente, se non della… verità dell’immaginazione»? Non aveva forse detto di non capire come il ragionamento logico possa darci la verità di una cosa?26 Ora, nel caso dell’arte, «questa rottura con il funzionamento abituale della vita naturale» (con la vita dell’ordinaria percezione del mondo reale, come si direbbe con Husserl) «è costitutiva del suo funzionamento normale. Un’opera d’arte non può apparire come tale, come un’opera d’arte se non distinguendosi dall’insieme degli oggetti e degli strumenti del mondo della vita quotidiana». Il «valore artistico è inseparabile dall’evento di una verità che richiede una nuova maniera di comprendere».27 Ecco dunque il senso husserliano della scena del tutto eterogenea rispetto alla scena mondano-percettiva che viene dischiusa dalla fantasia. Ed ecco il valore di verità delle creazioni poetiche che generano bellezza, di cui parla Keats autointerpretandosi. Quella scena è una scena di verità, ma di una verità irriducibile al giudizio conoscitivo. «È dunque occupando un posto al margine del mondo della vita naturale», là dove viene incontrato l’«altro» rispetto a questo mondo, «ossia è nel forzarci a rompere con gli schemi abituali del comprendere, che l’opera d’arte svela il significato nascosto di questo mondo e dell’esistenza del soggetto»
E, ciò che più conta mettere in rilievo, l’oscurità stessa dell’opera d’arte, ossia l’incertezza con cui contamina il comprendere abituale e naturale, la dubbiosità e l’inquietitudine che si producono di fronte ad essa e al suo paradossale contenuto di incomprensione, o di comprensione abituale e naturale tuttavia impedita e inibita, lo stesso «non sapere» di Keats, ospitano una «scintilla di verità di cui nessuna nuova comprensione umana verrà a capo».28 Grazie alla mediazione dell’interpretazione fornita da Bernet della fenomenologia dell’opera d’arte e della fantasia in Husserl, scopriamo quella che si potrebbe definire la immanente sovramondanità, o la umana ultraumanità, che Keats ha scorto nella propria stessa poesia: una dimensione che finisce per incontrare quella che è in Husserl l’essenzialità della verità ‘altra’ rispetto a quella percettiva, della verità della ganz andere Welt, di un mondo bensì presentificabile ma radicalmente separato da quello del presente attuale.
La poesia e la fantasia che la produce sono dunque, in termini fenomenologici ed ermeneutici, una semplice rottura delle regole dell’abituale gioco sociale e cognitivo? A questo si riduce il valore della anomalia e della anormalità, della stessa incomprensione che strutturano e delimitano la sfera della creazione dell’opera d’arte? L’alterità del mondo della fantasia poetica si risolve nella sua anormalità? È questo il valore del suo «esser altro» dal mondo abituale? Anche in questo caso, quando lo sguardo si allarga dalla fisionomia della poesia a quella del mondo nuovo cui essa dà accesso, l’approccio fenomenologico scopre e sottolinea qualcosa che anche Keats ha visto nel momento stesso in cui ha evitato di concepire il mondo ‘altro’ della fantasia come ciò che si attinge lungo la via di fuga dal mondo abituale. La potenza della verità poetica che Keats sente e che, sentendola anche se non pensandola filosoficamente, non traducendola in una riflessione filosofica, comunica anzitutto nei suoi versi, non cessa di essere una forza mondana, una antiumanistica potenza dell’uomo poeta. Essa cioè non cessa di essere pensabile entro l’orizzonte poetico-veritativo della trasformabilità del mondo o del rifiuto del mondo come esso naturalisticamente e fattualmente si presenta: «è necessario che gli oggetti» (artistici, poetici) «che fuoriescono dall’ordinario aprano delle nuove prospettive sul mondo a cui appartengono. È necessario che essi acquisiscano lo statuto di opere o di Darstellungen simboliche della verità del mondo umano».29 Questo ovviamente non significa che la poesia (quella di Keats, anzitutto, che rifugge dal simbolismo astratto come accade ad un autentico romantico) debba essere simbolica nel senso di una paradigmaticità simbolica, o non essere. La simbolicità di cui qui parla Bernet coincide infatti del tutto con la verità antinaturalistica della bellezza poetica, che in tale simbolicità fenomenologicamente intesa trova l’espressione piena della propria verità.
Il punto essenziale è che non si dà nel mondo della percezione qualcosa di uguale alla cosa di fantasia. L’ alterità di quest’ultima rispetto al mondo della percezione deve essere radicale. La cosa di fantasia appare certamente fornita di una forma o di un colore, ossia di qualcosa che dà «corpo» alla sua cosalità, «ma non possiamo aspettarci di trovare una cosa esattamente tale e quale tra gli oggetti della percezione». Il termine «cosa» riferito alla percezione e riferito alla fantasia possiede un valore fenomenologico del tutto diverso. Ciò è tanto vero che se sottraiamo all’oggetto-immagine la sua nullità (Nichtigkeit) otteniamo un oggetto di percezione come ogni altro. Senza la distanza dalla percezione da parte dell’oggetto-immagine, senza la sua nullità percettiva, l’oggetto-immagine e la cosa di fantasia semplicemente scompaiono. «Se noi immaginiamo di cancellare il carattere della nullità e della figuralità per immagini (Bildlichkeit) dall’oggetto-immagine, abbiamo un oggetto della percezione come qualunque altro». Ma se proviamo ad immaginare di cancellare la nullità dall’oggetto di fantasia, ossia se sottraiamo il fantasma alla sua alterità radicale e nullificante rispetto alla percezione, lo perdiamo del tutto e «abbiamo il nulla». Presa come appare nella fantasia, la cosa di fantasia non si rinviene in alcuna percezione.30 Il Mosè di Michelangelo, per fare un esempio, che si trova in S. Pietro in Vincoli a Roma, non è mai risolvibile — in quanto riconosciuto nel suo senso e valore di cosa prodotta dalla fantasia —, nella percezione fisica che se ne ha, perché, come ben vide Sigmund Freud nell’interpretarlo,31 appartiene, grazie alla sua stessa fisicità di statua, ad un mondo altro, ossia a quello delle intenzioni di senso assegnategli dalla fantasia (o dalla immaginazione) di Michelangelo. Se ci rivolgiamo alla definizione di quello che Husserl, con una espressione forte e (una volta tanto) letterariamente interessante, chiama das Proteusartige der Phantasieercheinung, «la modalità proteiforme dell’apparizione di fantasia», rileviamo anzitutto che:
All’essenza della fantasia appartiene la coscienza della non-presenzialità (Nicht-gegenwärtigkeits-Bewusstsein). Viviamo in un presente, abbiamo un campo visivo della percezione, ma accanto ad esso e abbiamo apparizioni diverse che rappresentano, del tutto al di fuori di questo campo visivo, un non-presente.32
La rappresentazione fenomenologica dell’estraneità del contenuto di «non presenza» che è proprio delle creazioni per immagini della fantasia, si serve di una concettualità spaziale che ha funzione specifica di enfatizzare la radicalità della non presenza delle rappresentazioni della fantasia, che sono accanto e vicine, e perciò, anche confrontabili, rispetto a quelle che occupano il campo visivo della percezione.
Ma perché parliamo della modalità proteiforme delle apparizioni della fantasia?
L’apparizione si modifica in modalità proteiforme, poiché qualcosa come il colore e la forma plastica balena, ma poi di nuovo scompare via, e il colore anche dove lampeggia ha qualcosa di particolarmente vuoto, di insaturo, di debole; in modo simile, la forma ha qualcosa di così vago e di umbratile, che non potremmo neanche farci venire in mente di inserire una forma di tal fatta nella sfera dell’attuale percezione e figuralità per immagini (Bildlichkeit).33
Ad esempio, «il grigio della fantasia mostra un vuoto indicibile, cui si contrappone, quale suo opposto, la pienezza del grigio percepito».34 È questa la forma proteiforme che incessantemente forma e sforma i fantasmi della fantasia, vuoti e perciò plasmabili come lo è l’«indicibile» grigio che in quanto grigio dalla fantasia vede radicalizzata la propria , naturale fisonomia di colore che non ha colore fisso, destinato a sfumare in sé e oltre sé. Esso si determina (o, meglio, non si determina) come il colore radicalmente altro dal grigio percettivo che è pienamente grigio, ossia è nella percezione il colore che la percezione effettivamente determina e che non sfugge a se stesso, come accade invece nel fantasma del grigio. La poesia viene costituita dalla dinamica dell’informe che muta proteusartig la propria forma nei propri fantasmi. La sua mutevolezza coincide con la intrinseca mutevolezza dei suoi contenuti di fantasia. Tramite la pagina husserliana si coglie un punto centrale della consapevolezza di Keats, quella negative capability del poeta creatore che abbiamo ricordato.35 La «capacità negativa» coincide con la funzione poetico-fantastica del soggiornare sul limite dell’incertezza dei propri contenuti, dei propri oggetti-fantasmi, al tempo stesso afferrati, colti, fatti propri, espressi, e insieme lasciati alla loro libera fluttuazione, alla indeterminatezza, al dubbio che sostanziano la loro natura negativa, la negatività e inattualità rispetto al presente percettivo assegnate loro dalla fantasia. La natura negativa del fantasma poetico corrisponde alla «capacità negativa» del poeta creatore. E come il fantasma poetico husserliano si sottrae originariamente alla cattura nella attualità, così la «capacità negativa» keatsiana si nega alla rincorsa dei fatti percepibili dai quali la separa una distanza fenomenologicamente incolmabile. Se la forma del fantasma poetico è pur sempre una forma, la capacità negativa keatsiana che converge con la proteiforme mutevolezza dei fantasmi husserliani costituisce la materia originale che costantemente sforma quella forma.
4. La compenetrazione tra fenomenologia e filosofia
Si giunge alla poesia enfatizzando la negatività che Husserl vede già nell’immagine fisica prima che nel fantasma, anche se nella fantasia cade il contrasto con il «supporto» sempre necessario nell’immagine fisica. D’altra parte, se volgiamo lo sguardo a Keats, osserviamo che inattualità e non-presenza sono gli aspetti negativi tanto della immagine fisica che del fantasma poetico. Non è difficile rilevare che nella poesia keatsiana questi due aspetti della rappresentazione almeno in parte si fondono e si sovrappongono, pur restando comunque i fantasmi poetici immagini mentali espresse in una scrittura, da cui è perciò assente ogni bisogno di «supporto», come accade nei prodotti dell’arte letteraria (non scultorea, non pittorica). Lo abbiamo già osservato ma vi torniamo di nuovo cercando de seguire il modello fenomenologico dell’immer wieder, del «sempre di nuovo», che nella ripetizione porta ogni volta a scoprire qualcosa di ulteriore. L’approccio fenomenologico si sostiene sulla differenza o sull’alterità radicale, sull’«inattualità» che fanno dell’immagine della fantasia una «nullità» reale o del reale, o rispetto al reale, ossia una sorta di «visibile assenza» dell’oggetto percettivo.36 Per commisurare o per letteralmente «applicare» le pagine dei corsi husserliani dedicati alla fantasia e alla coscienza di immagine abbiamo bisogno del darsi di alcune condizioni fattuali, come potremmo dire tirando le fila di quel che abbiamo fin qui rilevato. La prima condizione, cui dobbiamo la scelta del polo keatsiano della nostra indagine, è la presenza di una poeta (che non casualmente scegliamo all’interno del romanticismo inglese) e del corpo poetico da lui creato, che funge da perno intorno a cui ruotano le immagini della sua fantasia poetica , e che è accompagnato da un corpo sia pure frammentario di riflessioni del poeta stesso sulla sua poesia e sulla poesia in generale e quindi sul ruolo che egli affida alla creatività che prende corpo in immagini o in fantasmi poetici. Le seconda condizione costituisce il punto cruciale della sfida che, sulla «pelle» (poetica e frammentariamente teorica) di Keats può essere lanciata entro l’orizzonte del tema «fenomenologia e poesia». Husserl prende ad oggetto l’immagine dipinta o scolpita, anche se la sua analisi dell’immaginazione appare fin dall’inizio aperta nella direzione del complesso e ai suoi stessi occhi problematico rapporto con la fantasia. Abbiamo tentato di vedere se e come, secondo quali percorsi, la sua analisi si affidi all’immagine, all’immaginazione e alla fantasia non visibilmente sostenute da un qualche «supporto» fisico, ma piuttosto affidate ad un testo letterario, nel caso specifico a quello poetico.
Quello che non siamo autorizzati a ricavare da Husserl, ciò che di Husserl non può servirci a definire la fisionomia della poesia e della poetica di Keats, ci fornisce indirettamente l’ipotesi di lavoro di base, quella che stiamo tuttora seguendo e via via precisando. Contrariamente a quel che ritiene Jeffrey Kosky, che abbiamo sopra citato, Keats non applica affatto nella sua poesia una sorta di epoché in qualche modo analoga a quella posta da Husserl al centro stesso della istituzione della fenomenologia. Husserl le attribuisce, come è noto, la funzione di sospendere il giudizio sulla realtà e sulla esistenza,37 e di aprire così l’ambito della correlazione tra ego puro e coscienza intenzionale da un lato, e, dall’altro lato, i suoi vissuti. È questa correlazione che risolve quello che Husserl chiama l’«enigma» della conoscenza. In Keats, nella poesia costruita sulle sue immagini e dai suoi fantasmi, abbiamo invece l’idea che fantasia poetica e sue immagini offrano lo spazio di ciò che è altro rispetto alla ragione, al pensiero, alla conoscenza e alla affermazione di esistenza. Questa idea è lontana da qualsiasi interpretazione si voglia offrire, anche la più allargata, dell’epoché husserliana: nella poesia di Keats, il nulla di percettivo e l’altro dal reale mondano rappresentano il piano o l’ordine di una intenzionalità che non trova il suo compimento nel giudizio percettivo o nel giudizio di conoscenza. L’epoché husserliana è lontana e sfocata rispetto a tale orizzonte poetico e riflessivo.
Se spostiamo l’attenzione dall’idea fuorviante che sia una sospensione intesa nel senso dell’epochè fenomenologica a dischiudere lo statuto dell’immagine e della fantasia, comprendiamo meglio quel che invece vediamo di fenomenologico in Keats. Ma abbiamo bisogno di studiare e comprendere bene le complesse ma chiare analisi dei corsi husserliani sulla fantasia. Abbiamo bisogno di un altro Husserl rispetto a quello che non solo Kosky in riferimento a Keats, ma altri studiosi in riferimento ad altra poesia ed altri poeti38 hanno, in maniera un poco estrinseca, chiamato in causa. Si tratta dello Husserl che fin qui abbiamo fatto parlare e che tornerà a parlarci «attraverso» Keats. In lui troviamo, si è detto, la geniale intuizione dell’alterità o dalla nullità reale ( esistenziale) che dalla immagine dipinta o scolpita può essere trasferita e radicalizzata sulla immagine letteraria. Nella fantasia del Pan del poema Endimione oltre che in alcune poesie vediamo snodarsi un percorso poetico che fa tacere le ragioni e la ragione, o la conoscenza, o la filosofia, come Keats esplicitamente afferma nelle Lettere che debba accadere.39 Con la negative capability di Keats, interpretata fenomenologicamente, avremmo raggiunto l’obiettivo cui miriamo. Le Letters on poetry offrono nelle parole-chiave e in non pochi passaggi la trama teorica fenomenologica che fornisce alle creazioni di Keats la via o il percorso di una qualche forma di fondazione che di per sé esse, in quanto componimenti poetici, non hanno e non sono tenute ad avere. Aggiungiamo qualche ulteriore considerazione per dare il massimo grado di credibilità all’operazione di «compenetrazione fenomenologica» di Husserl e di Keats, come potremmo definirla e per introdurre alla lettura e commento di qualche passo del poeta, dopo quelli che abbiamo già visto. Il modo del procedere husserliano nella direzione intenzionale dell’afferramento, o dell’«apprensione» (Auffassung) fenomenologica dell’immagine fisica e poi dell’immagine fantastica si può definire come una sorta di «internamento» che penetra nel senso dell’immagine e che passa di necessità attraverso il distanziamento dalla percezione dell’oggetto reale nel suo spazio-tempo. Accade cioè che l’applicazione o l’approccio della fenomenologia alla poesia ne faccia emergere quella trama immaginativa interna (interna in senso non psicologico ma fenomenologico), quell’interno concatenarsi di immagini «altre» dalla percezione e «nulle» rispetto alla percezione stessa, immagini che alla percezione, e al giudizio, non appartengono.
Non soltanto, dunque, si può escludere che il rapporto tra fenomenologia e poesia configuri i termini di una qualche peculiare critica letteraria. Si deve, piuttosto, positivamente dire che tale rapporto forza lo schema basato sulla esternalità tra critica e poesia ed apre l’orizzonte di una fenomenologia della poesia che comporta la scoperta e la esibizione dell’ internità a se stesso del senso della poesia, che respinge la sua traduzione e la sua traducibilità in ragioni. Ciò dischiude lo spazio di una inedita, forse ancora impensata fenomenologia della poesia in cui emerge l’intima intenzionalità di quest’ultima e il suo avere come esito (al di qua del piano vero e proprio del giudizio estetico) l’esibizione della trama costitutiva o meglio autocostituentesi delle immagini poetiche. Che cosa troviamo nella trama delle immagini poetiche?. Torniamo su un punto che abbiamo già toccato. Nei corsi husserliani l’immagine fisica e l’immagine di fantasia non posseggono la stessa struttura fenomenologica, sebbene si collochino entro il quadro unitario di ciò che chiamiamo «immagine». Nell’immagine di fantasia, si è detto, il riferimento all’oggetto è immediato e manca quel «supporto» (la cornice di un quadro, ad esempio) che è invece presente «a sostegno» dell’immagine fisica. Ma lo schema di fondo non muta, al punto che Husserl dice che la serie di fantasmi che strutturano l’immagine di fantasia del castello di Berlino40 si riferiscono non ad una sua immagine, ma al castello stesso. L’immagine di fantasia, o i fantasmi che strutturano l’immagine, in quanto simili alla cosa, servono alla cosa, ossia a quella che Husserl chiama la sua apprensione primaria.
Ora, nella poesia di Keats abbiamo la presenza di immagini fisiche (letterarie e non pittoriche o scultoree) e insieme di immagini di fantasia (ad esempio l’immagine di fantasia dell’inizio di Endimione). Tra i due tipi di immagine vige per Husserl una distinzione che non impedisce il loro intreccio, come stiamo vedendo. Le immagini di fantasia, come accade alle immagini fisiche nell’esempio di Husserl, somigliano ad un oggetto del tutto assente e non occupano alcuno spazio peculiare nell’orizzonte visivo. L’immagine poetica riduce la differenza (pur senza annullarla) tra immagine e fantasma. Se la poesia si basa su immagini descrittive ( e dunque in certo senso rinuncia a se stessa) una descrizione (senza supporto) si distingue comunque da un fantasma (pure senza supporto). Si distingue, ma la tempo stesso gli si apparenta, come è dimostrato dalla presenza non conflittuale delle due tipologie di immagini nella poesia keatsiana. Sulla base della parentela data dalla immaginatività, l’assenza dell’oggetto reale dato nella percezione, è comune ad entrambe. Il mondo è presente, ma in immagini o in fantasmi. Per questo motivo la poesia non può basarsi sulla semplice descrizione di un mondo o del mondo, sia pure priva di quel supporto che è invece costitutivo dell’immagine fisica.
5. Conclusioni
Il linguaggio poetico di Keats può essere espresso attraverso il filtro della fenomenologia della fantasia di Husserl, dunque: ciò che segue può essere un nuovo esercizio, un ultimo passo, per provare quel che si è tentato di mostrare. Rispondendo a Peonia, Endimione le dice delle visioni che gli appaiono dopo che la testa gli era girata (my head was dizzy ) e si era «smarrito» (distraught). Le illustra cioè i fantasmi che occupano la sua fantasia in seguito allo smarrimento che gli ha fatto perdere la testa distraendolo dalla continuità di una esperienza reale, mondana e poi trasformatasi in fantastica e descritta nella sua dimensione narrativa come avvenuta nel mondo della fantasia.
Così pensavo, / finchè la testa mi girò e mi smarrii. / Ancora, per i danzanti papaveri corse / una brezza, all’anima mia teneramente cullante / e figuranti visioni innanzi al mio occhio / di colori, ali e scoppi d’abbagliante luce (and shaping visions all about my sight / of colours, wings, and bursts of spangly light); / che divennero sempre più strane, e confuse / e s’immersero poi in un tumultuoso gorgo — e caddi addormentato. Ah posso dire / l’incantesimo che avvenne poi? / Eppure non fu che sogno (yet it was but a dream); eppure sogno / che mai lingua, sebbene carica / di mielata favella come una sorgente di grotta, / seppe figurare (could figure) e indurre a concepimento / tutto quel che vidi e sentii.41
L’incantesimo che Endimione racconta non è che un sogno, ma questo sogno parla la lingua dei fantasmi che scorrono nella fantasia stessa e la occupano e la articolano svolgendone i contenuti, i quali non potrebbero essere raccontati se non dalla lingua del sogno, ossia della dimensione altra dalla veglia e dalla realtà percettiva. Al sogno, a questo «altro» dal reale percettivo, e anche dal reale semplicemente immaginato, viene riconosciuta la capacità di raffigurare, di produrre o riprodurre in immagini-figure quel che si condensa nel suo contenuto dinamico e fluente. Il sogno lascia parlare in sé la fantasia che dunque vede confermata, anche in virtù del linguaggio onirico che le dà voce, la sua nullità rispetto al reale, la sua non attualità, la sua capacità di presentificazione che si distingue dalla semplice presenza, una presentificazione che «altera» la semplice presenza.
Il fantasticare di Keats in questo segmento di Endimione è doppiamente creatore della inattualità del suo oggetto, ossia si rivolge due volte (l’una per così dire dentro l’altra) ad oggetti assenti e soltanto presentificati. La prima volta, ossia il primo orizzonte entro cui si realizza la fantasia, è quello che comprende e comanda l’intero poema e che si sviluppa con continuità nel racconto di Endimione, mentre il secondo coincide con il contenuto di tale racconto, la fantasia di aver fantasticato o sognato «figuranti visioni» (shaping visions). Qui Keats definisce la forma del suo fantasticare poetico, tramite l’esibizione di quell’oggetto del suo fantasticare che è esso stesso una fantasia, ossia esattamente un creare visioni che si determinano in figurazioni. Il passo che abbiamo riportato sopra inizia con un verso42 la cui seconda parte dice con chiarezza come avviene e che cosa produce lo scarto che nella seconda fantasia introduce la presentificazione delle «figuranti visioni». Oggetto della prima fantasia è un Endimione «pensante» (thus on I thought) a cui improvvisamente gira la testa e che si smarrisce. Nella seconda fantasia, quella che appare interna all’orizzonte fantastico generale, la presenza attuale, narrativamente attuale, del pensare che Keats attribuisce a Endimione, si muta nella presentificazione di un oggetto assente e irreale. Quel soggetto o tema della fantasia riferibile al poeta stesso che racconta tramite Endimione di esserne l’autore, cessa, nella fantasia, di essere un pensare e produce visioni fantastiche, ossia figure che non rinviano più da un Bildobjekt ad un Bildsobjekt, poiché il loro oggetto è un puro fantasma, e quindi è libero, immediato ed assoluto, cioè sciolto da ogni parentela con l’oggetto di una immaginazione non di fantasia. Il riferimento al sogno interviene allora a strutturare quella parte del poema dove Keats mette in scena quella che si configura come l’apertura nella sua fantasia primaria (quella che costituisce l’anima e il motivo ispiratore, la vela in cui soffia il vento della fantasia, che anzi coincide con la fantasia stessa, secondo la splendida immagine presente in una lettera)43 di una seconda fantasia, interna alla prima. Tale seconda fantasia viene rappresentata da Keats che dà voce ad Endimione come avvenuta nel passato che egli narra a Peona. Essa si è generata all’interno di in un «tumultuoso gorgo» che precede il suo addormentamento e che genera ed ospita un «incantesimo» in cui si incastona un «sogno» capace, in quanto sogno plasmato da una fantasia, di dire la verità, di esprimere l’autentico contenuto della fantasia stessa. Più volte nelle lettere Keats attribuisce alla poesia portatrice di «bellezza» di essere il luogo in cui la verità viene scoperta — una verità che per essere verità della poesia e non della conoscenza nondimeno coglie un altro (e superiore) livello del vero.
Il sogno-fantasia, di cui il fantasticante Keats per bocca di Endimione esibisce via via la trama, prosegue e svela sua forma, la forma della sua appartenenza al complessivo orizzonte creativo del poeta. Ad certo punto, poco più avanti, leggiamo:
… Guance di rossore tinte, fuggevoli sorrisi, e fievolissimi sospiri, / che, quando vi penso, il mio spirito s’appiglia / e gioca con quella fantasia, finchè gli aculei / dell’umana fantasia non avvelenano tutto (my spirit clings/and plays about its fancy, till the stings / of human neighbourhood envenom all).44
Qui Keats osserva il procedimento stesso del proprio fantasticare e vede quello che Husserl chiama il «contrasto» specifico del generarsi della fantasia: il contrasto tra il gioco della fantasia stessa cui il suo spirito «si appiglia», e la vicinanza «umana», ossia la presenza reale di soggetti percipienti, nell’attualità del presente, oggetti a loro volta presenti. Questo passaggio del poema è importante. Keats vede e dice bene, entro l’orizzonte del fantasticare che si apre attimalmente ad una considerazione filosofico-estetica e lascia passare una riflessione sul rapporto tra fantasia e realtà, che con la vicinanza o l’avvicinarsi della fantasia al reale umano, il rischio che essa corre di perdere la propria radicale alterità, rompe il suo «gioco» e la «avvelena» consegnandola alla propria crisi. Non si potrebbe esprimere meglio in forma poetica la tesi husserliana dell’ alterità del mondo fantastico, della sua inattualità e non presenza, sulle quali ha insistito Rudolf Bernet. La vicinanza dell’umano uccide il gioco della fantasia che si nutre di una eterogeneità e di una distanza rispetto ad esso, di un «contrasto», che costituiscono la sua stessa ragion d’essere.
Poco più avanti,45 Peona mostra a Endimione che le racconta le sue «figuranti visioni» ciò che questi sta creando e che abbiamo appena rilevato, fantasie entro fantasie: «Endimione, che strano! / sogno nel sogno! (Dream within dream!)». Chiama sogno, e lo riconosce come interno ad un altro sogno, esattamente le fantasie di fantasie di Endimione. Così Keats produce l’effetto del raddoppiamento dell’alterità, della non presenza, della nullità rispetto al reale che è propria di ogni fantasia. Ciò avviene attraverso la duplicazione della distanza rispetto al reale percepibile, ossia enfatizzando la natura straniante e straniata della fantasia. Ancora più avanti,46 nel dialogo tra Endimione e Peona, Keats nomina «la morfeica fonte / di quel fine elemento di cui sono fatte le visioni, i sogni (that visions, dreams… are made of)», per sottolineare «quanto lievi / debbono essere i sogni stessi, visto che sono più fini / del mero nulla che li genera! (how light / must dreams themselevs be, seeing they’re more slight / than the mere nothing that engenders them)». Dove è evidente la possibilità di leggere nel «nulla» keatsiano la Nichtigkeit husserliana, fenomenologicamente scoperta come generatrice della fantasia e dei suoi sogni, dei suoi fantasmi.
«Chi è il poeta? Lo voglio vedere (Where’s the poet? Show him! Show him)» chiede ed implora il titolo di una poesia keatsiana.47 Il poeta è significativamente, nella comparazione orizzontale, «l’uomo che d’ogni altro uomo è uguale», purchè assomigli, nel confronto verticale, «a qualsiasi cosa degna di ammirazione». Ciò che in lui lo avvicina ai vertici di quel che è ammirabile, è il suo collocarsi nel centro dell’essere naturale ed umano «dando via libera ai propri istinti». Ma ciò equivale alla sua capacità di diventare tutto quel che il suo istinto di fantasia lo fa diventare, e di esserlo husserlianamente nel modo del «come se»: l’ascolto del «ruggito del leone» è cosa sua non realmente, ma fantasticamente, così come lo è il racconto di «quel che la sua aspra gola espone». È in virtù della sua fantasia che lo rende virtualmente partecipe di tutto, che «l’urlo della tigre è per lui armonia» e «risuona nel suo orecchio come fosse la sua lingua natia», e ciò perché nel suo essere che si nasconde nella sua costitutiva irrealtà (anche lui, il poeta, è un reale «come se», infatti e dunque va cercato per sapere «chi è», «dove è») la fantasia «irrealizza» e derealizza e trasforma e rovescia il senso immediato del reale, in un senso opposto, in un senso altro: l’urlo selvaggio diventa armonia e lingua natia. Sia offerta lode poetica alla fantasia (Fancy), allora, da parte del poeta!48 L’inizio della poesia è un inno alla libertà della fantasia, alla sua capacità di vagare sempre verso l’«altrove» in cui incontra il piacere che coincide anzitutto proprio con il suo libero vagare:
Lascia sempre vagare la fantasia, (Let the fancy roam) / è sempre altrove il piacere: e si scioglie solo a toccarlo, dolce, /… lasciala quindi vagare, lei, l’alata, / per il pensiero che ancor davanti le si stende; / spalanca la porta alla gabbia della mente, / e vedrai si lancerà volando verso il cielo. / Dolce fantasia! Libera sii per sempre (open wide the mind’s cage-door / shell’ll dart forth and cloudward soar. / O sweet fancy! Let her loose; / …
La fantasia deve essere lasciata libera di vagare, fornita di ali che la levano al cielo che si spalanca sopra il mondo terreno, verso una regione altra, alla quale giunge in certo senso scivolando sopra il piano del pensiero razionale che le serve da base da trascendere. Dolce e libera sempre è per il poeta la fantasia, proprio perché grazie a lei la gabbia della mente viene spalancata e si dischiude una regione cui la mente fantasticante perviene in quanto non si rinchiude nell’ambito di una razionalità mondana prigioniera di se stessa. La mente è pensiero che si trascende nel suo altro fantastico e nel trascendersi si libera in quanto è mente-fantasia, non più (solo) mente-ragione, mente-mondo.
Sì, siediti qui, e con la mente/intimidita dall’immaginazione, / invia la fantasia ad un’alta missione / (Sit thee here, and send abroad, / with a mind self overaw’d, / fancy high-commission’d: — send her!)49. Ha vassalli al suo servizio, / e ti porterà, a scapito del gelo, / la bellezza che la terra ha perso (beauties that the earth has lost) / ti porterà, accumulata / con quieto e misterioso furto, / le gioie dell’estate….50
L’immaginazione, sempre in quanto fancy, fantasia, intimidisce, spaventa la mente e in questo modo la forza ad aprirsi e a lasciare il libero fantasticare, ora dominante sulla impaurita mente, sulla intimidita ragione, in condizione di compiere la sua «alta missione», quella di ascendere verso l’alto, di abbandonare la gabbia della mondanità. Nulla v’è di spiritualistico in questa movenza keatsiana: l’alto non è il religioso o il divino ma ciò che vien trasceso dalla fantasia e così creato, fatto essere, non attinto come un universo iperuranio. La fantasia, e i suoi «vassalli», portano il poeta non a contatto con un mondo divinamente o misticamente altro, ma con quel mondo dove il poeta stessa si vede restituite le beauties that the earth has lost, dopo aver abbandonato l’impoverita terrestrità. La fantasia lasciata libera arricchisce il mondo portandolo oltre la sua penuria di bellezza. La fantasia è la potenza alterante la realtà ed è quindi funzione della liberazione di quest’ultima da se stessa. Dunque,
Spezza le maglie / del serico guinzaglio, libera la fantasia / rapida rompi la corda che l’avvince, / e gioie simili ti farà avere. / Lascia sempre vagare la fantasia, / è sempre altrove il piacere / (break the mesh / of the fancy’s silken lesh; / quickly break her prison-string / and such joys as these she’ll bring — / Let the winged fancy roam, / pleasure is never at home /).51
La fantasia alata sia lasciata vagare perchè il suo non-luogo è comunque l’«altrove» e questo altrove che viene attinto dalla sua potenza alterante, questo ‘non a casa propria’, questo Unheimlich, è il luogo, o il non-luogo, del piacere. E allora, la fantasia che cerca e trova l’altrove non si riduce ad arbitrio estetico-edonistico: il piacere che essa trova e offre «altrove» è al tempo stesso il suo più proprio. Il suo vagare coincide con il suo stare nella sua autentica casa, la casa del piacere proprio, immediato ma non immanentemente terrestre.
Ma i Poeti della passione e della gioia (Bards of passion and of mirth)52 sono poi quelli che edificano e tengono aperto il ponte che congiunge il cielo che hanno attinto con la fantasia e la terra da cui si allontanano ma senza rinnegarla, senza respingerla, essendo la terra stessa, il mondo umano (quello dove non si fantastica, ma si descrive e si racconta) il secondo lato di una duplicità di piani, il fantastico e il reale, sulla cui non azzerata differenza soltanto può sorgere la fantasia poetica:
Son qui tra noi l’anime vostre, / o poeti della passione e della gioia! / Avete forse altre anime su nel cielo? / C’è forse una doppia vita nelle regioni nuove? / è così… (have you souls in heaven too, / double-lived in regions new? Yes.). Così vivete in cielo. Poi. di nuovo / vivete sulla terra. E le anime / che indietro lasciaste in questo cimitero / c’insegnano adesso il sentiero / che porta ove voi siete beate, / anime mai stanche, anime mai annoiate / …
Le anime dei poeti non sono né possono essere né stanche né annoiate, perché conducono una dinamica doppia vita, una vita di traghettamento che dalla terra conduce o riconduce al cielo poetico da cui sono discese e in cui possono trattenersi solo a patto di ritrasferirsi sulla terra mondana, per indicare bensì a tutti la via del cielo, dell’altro poetico che abbisogna però, nel suo continuo trascendere il mondano, di un ancoraggio del mondano. Questo motivo della duplicità costitutiva del movimento della fantasia poetica e della natura dell’anima poetica è assolutamente centrale in Keats e non può lasciare nascosta non riconosciuta, la sua anima fenomenologica.
Allontanarsi, prendere le distanze, rompere con gli indugi e le lentezze della mente razionale che indugia, svanire: a questo, come se fosse un usignolo che sempre vola via, cambia il suo luogo, altera la propria posizione nel mondo della natura, è chiamata la fantasia poetica nell’Ode a un usignolo (Ode to a Nightingale).53
Sparire, lontano, dissolvermi, e dimenticare poi / ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto: / la stanchezza, la malattia, l’ansia / degli uomini, qui, che si sentono soffrire, / … (Fade far away, dissolve, and quite forget / what thou among the leaves hast never known, / the weariness, the fever and the fret / here, where men sit and hear each other groan).
La fantasia poetica, come un usignolo che sempre fugge e cambia luogo, ci allontana dal mondo naturale percettivo e dal mondo umano della vecchiezza e della sofferenza «dove il pensare stesso è riempirsi di dolore, / …dove la bellezza vede spenta la luce dei suoi occhi… / ». Andarsene, dunque, alterare gli usuali, adusati tempi e luoghi della esistenza reale: questo si chiede alla poesia, questo il compito di salvezza estetica, etica, esistenziale cui la poesia è chiamata a rispondere.
Andarsene, andarsene. E arrivare da te, / non portato da Bacco e dai suoi leopardi, / ma sulle ali della poesia, invisibili, / anche se la mente, lenta ha perplessità e indugi: / … (Away! Away! For I will fly to thee, / not charioted by Bacchus and his pards, / but on the viewless wings of poesy, / though the dull brain perplexes and retards: / …
Anche qui, come in altri luoghi keatsiani, viene data voce al «contrasto» (termine husserliano, si ricordi) tra la salvifica, alterante mobilità della fantasia e dei suoi fantasmi, da un lato, e la lenta, indugiante, ritardante sempre perplessa attitudine del brain, della mente razionale. Comprendiamo bene ora che una grande, radicale distanza separa (anche se, si è visto tale distanza non si chiude in se stessa, non impedisce una qualche osmosi tra i poli della separazione) la creativa indolenza della fantasia che genera fantasmi, che eleva la mente poetica e le porge le ali su cui vola il distacco dal mondo percepibile e dall’antropologia dell’uomo comune, da un lato, e la lentezza della mente razionale, che nel suo indugiare non crea, non presentifica, non eleva , non introduce nel mondo altro ed alterato di ciò che non è presente e attuale. La vita della poesia e dell’usignolo restano tuttavia precarie, la loro stessa identità soggiace al dubbio che il sognare poetico sia solo un sogno, la visione solo una visione, come accade a tutto ciò che si regge su un distacco sempre rinnovantesi, sempre da rinnovarsi, accettando che quella vita altra si dissolva se e quando il polo della fantasia svanisce, seguendo il destino dell’usignolo.
Addio, addio. Il tuo canto doloroso svanisce / oltre i prati vicini, oltre il fiume quieto, / al di là del colle — ed è sepolto adesso / tra i boschi della valle vicina. / È stato solo un sogno? O una visione? / La musica è svanita: — dormo? Son sveglio?
Ecco come si presenta la figura della Poesia , la terza delle figure che, insieme ad Ambizione e ad Amore, appaiono una mattina al poeta, gli passano davanti e volgono il loro volto verso di lui (Ode on Idolence, Ode sull’indolenza):54 la poesia che, insieme alle altre, deve la sua stessa apparizione allo sguardo indolente con cui il poeta le fissa proiettando su di esse (che sono viste ora «senz’ali») la propria indolenza, ossia il proprio indugiare sul limite della determinazione, sul luogo sorgivo in cui il creare poetico intende dare vita ai suoi fantasmi, ma ancora non lo fa, ancora non li chiude in una forma, perché abbisogna dell’indugio indolente che, ben s’ intende , non è destinato a sparire dall’orizzonte costitutivo della poesia. «L’ultima, la più amata — e pari cresceva / al mio amore la sua vergogna, troppo ritrosa fanciulla — / era il mio demone, la poesia». La poesia si manifesta ora nella forma che le assegna l’indolenza, diviene un prodotto dell’indolenza o meglio un desiderio di indolenza perduta, un’amarezza consapevole di una assenza non pienamente colmabile , di uno stato dell’animo che crea nella ritrosia, nell’attraversamento di una dolce sofferenza presso la quali si indugia, trattenendosi al di qua del dare forma, ma per dare una forma lungo un processo aperto e indefinito.
E la poesia — no, che una gioia non possiede / dolce, almeno per me, come i meriggi di sonno, o quelle sere imbevute di una indolenza di miele (in honied indolence);/ sì, un tempo vorrei io, così al riparo dalla noia / da non accorgermi del mutare della luna, / e non sentire più la voce del laborioso buon senso.
La poesia è dunque non gioia, ma anelito alla gioia, non indolenza, ma anelito all’indolenza, desiderio sempre irrealizzato di sfuggire alla voce del buon senso che genera sofferenza. La poesia è il «demone» platonico che sta tra gli dei e i mortali e li separa per congiungerli, è altra vita, ulteriore e diversa vitalità rispetto alla vita e alla vitalità naturali. La poesia keatsiana è un personaggio della husserliana messa in scena fenomenologica della fantasia.
Si torni infine, senza ulteriore commento, tranne il ricordare che è qui il motivo ispiratore del mio lavoro, la già citata lettera a George e Tom Keats,55 perché nel brano che mi è stato costantemente presente si riassume molto, quasi tutto quello che ho osservato nella direzione del riempimento dello spazio, comune e diversissimo, che lega e distingue — facendoli dialogare con la lingua di una fenomenologia che «dice» la poesia — Husserl e Keats.
…Ho capito qual è la qualità che ci vuole per fare un uomo di successo, in particolare in letteratura — qualità che Shakespeare possedeva in massimo grado — intendo dire la capacità negativa — e cioè quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione… Nel caso di un grande poeta il senso della bellezza supera ogni altra considerazione, o meglio annulla ogni considerazione.56
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Lo cito dalla traduzione italiana con testo a fronte e note di V. Papetti, J. Keats, Endimione, Rizzoli , Milano 2002. ↩︎
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Ivi, p. 65, I, vv. 1-5. ↩︎
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Cfr. John Keats, Lettere sulla poesia, a cura di N. Fusini, Mondadori, Milano 2005, pp.33-34. Traggo la citazione di parti della lettera dall’originale, Letters of John Keats, a selection ed. by R. Gittings, Oxford UP 1970, pp.36-37. Ho lasciato cadere le molte maiuscole di Keats riportate nella traduzione. ↩︎
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J. Keats, Poesie. Testo originale a fronte, Mondadori Milano, 1996, pp. 290-291. ↩︎
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J.Keats, Lettere, cit., p. 38. L’originale in Letters, cit. p. 42. ↩︎
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Cfr. E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschualichen Vergegenwärtigungen. Texte aus der Nachlass 1898-1925, hrsg. Von E.Marbach, Husserliana XXIII, 1980. Cito in quel che segue dall’edizione del volume indicato pubblicata presso la Felix Meiner Verlag, Hamburg 2006. Nel testo n. 20, Phantasie-Neutralität, risalente agli anni 1921-24 Husserl affronta, all’inizio, il tema che è riassumibile nella questione: Akteleben in der Epoché, phantasierend — Leben in Positionen, in Geltung setzend. Doppelte Epoché bzw. Neutralität. Non ho preso in esame questo testo, nonostante la sua rilevanza per il ruolo che l’epoché e che potrebbe richiedere una qualche correzione della mia relativa svalutazione dell’applicazione dell’epoché stessa al funzionamento della fantasia keatsiana. Tale svalutazione, che non riduce comunque l’importanza dell’analisi di questo ultimo testo husserliano sulla fantasia, nasce dalla convinzione che sia piuttosto l’alterazione fantasmatica rispetto alla percezione che non l’utilizzazione della nozione di epoche, così fortemente connotata in Husserl in funzione della fondazione dello sguardo originario dell’ego puro, ciò che può essere di aiuto ad «aprire» la «negatività» della fantasia keatsiana. Ammetto tuttavia volentieri che ciò potrebbe aprire un problema di mancato approfondimento della mia argomentazione, — la quale tuttavia ne trae il vantaggio di esporre chiaramente la tesi (passibile di discussione critica) che l’epochè non costituisca la chiave dell’accostamento tra Husserl e Keats. ↩︎
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Attenzione andrebbe comunque riservata al paragrafo 11 di Phantasie (ivi, pp. 25-27) sebbene esso non introduca, a parere di chi scrive, delle differenze sostanziali rispetto al corso principale dell’argomentazione. Esso è dedicato ( e ciò non è senza importanza per una indagine fenomenologica della poesia) tra l’altro alla «apparizione di parola», Worterscheinung, come «portatore di una seconda apprensione come segno (Zeichen)». Proprio questo significato della parola come «segno» tuttavia, sembra limitare il valore della pagina husserliana per la comprensione della parola poetica, che non si riduce né a segno né a simbolo. Husserl scrive che per la fantasia «das enzige Wort is hier doch Bild», «la sola parola è qui immagine». «La parola vale come segno… e noi intendiamo nel normale uso della parola non ciò che vediamo, ciò che ci appare sensibilmente, ma ciò che è, per suo tramite, simbolizzato». L’uso poetico della parola non equivale al suo uso normale: né la parola come segno, né la parola come mezzo di simbolizzazione danno pienamente conto della funzione alterante e nullificante risèetto alla percezione e la mondo, che è proprio della parola poetica. ↩︎
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V. Ghiron, La teoria dell’immaginazione in Edmund Husserl. Fantasia e coscienza figurale nella «fenomenologia descrittiva», Marsilio, Venezia 2001; C. Calì, Husserl e l’immagine, Centro Internazionale di Studi di Estetica, Palermo 2002. Utili (sebbene anch’esse lontane dal centro tematico del mio studio), le pagine (76-80) dedicate a fantasia e immaginazione da M. Feyles, Studi per la fenomenologia della memoria, Franco Angeli, Milano 2012. Più rilevanti per il fine che mi propongo sono i capp. III e IV, dedicati alle immagini, agli oggetti fittizi e alla distinzione tra oggetti reali e immaginari, della prima parte del libro di R. Bernet, Conscience et existence. Perspectives phenomenologiques, PUF, Paris 2004 su cui tornerò. ↩︎
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J. Keats, Lettere, cit. pp. 38-39. L’originale in J.K. Letters, p. 43. Ho già citato sopra questa lettera del 21 dicembre 1817, il cui luogo teorico più rilevante è tuttavia quello dedicato alla «negative capability» che si realizza «quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla regione». ↩︎
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Cfr. J. L. Kosky, For a phenomenology of happiness: John Keats and the practice of epoché, cit., pp. 221-236. ↩︎
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Cfr. In particolare quel Husserl osserva nel conclusivo paragrafo.14 dell’Introduzione, in cui dopo aver detto , nel paragrafo precedente, che «ogni giudizio predicativo è un passo in cui ci si procura un possesso conoscitivo stabile», precisa che «dovremo …orientarci verso il giudizio fondato sulla percezione esterna, verso la percezione corporea per studiarvi esemplarmente le strutture del giudicare predicativo in generale e il suo edificarsi sulle operazioni ante predicative». Aggiunge che «ciò che si ricerca anzitutto nella sfera antepredicatia è quindi lo sviluppo coerente dell’interesse percettivo» e che «la riflessione filosofica seguente sulla struttura del mondo dell’esperienza immediata, ossia sul nostro mondo della vita, mostra che alla percezione osservativa conviene un carattere di preminenza per il fatto che essa scopre e assume come suo tema le strutture del mondo poste a fondamenti di tutto…. L’interesse che si ravviva nella percezione osservativa è l’attivazione dell’aisthesis fondamentale, della «doxa» passiva originaria» (E. Husserl, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik, Klassen Verlag, Hamburg 1948; tr. it. Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 1995, pp. 56-58). Si intuisce anche da questa breve serie di rinvii che il tema del rapporto tra la fenomenologia e l’attività immaginativa e/o fantastica della poesia ricade nell’ambito «estetico», ma nel senso peculiare che si istituisce sullo scarto tra la dimensione appunto «estetica» del giudizio antepredicativo percettivo e la sua alterazione o differenziazione immaginativa e/o fantastica nella quale il senso dell’«estetica» si altera o si stravolge rispetto alla percezione del mondo nell’esperienza immediata che si sviluppa in giudizio predicativo, senza peraltro spezzare il proprio orizzonte unitario. Immaginazione e fantasia, insomma sono ‘non’ percezione, ‘altro’ dalla percezione. ↩︎
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Cfr. C. Calì, Husserl, cit., p. 117, dove viene affrontata la questione della differenza tra immagine fisica e mentale «Rispetto alla percezione e alla immagine fisica, la fantasia apre un varco nello spazio ordinario dell’esperienza visiva: ‘viviamo nel presente, abbiamo un campo visivo della percezione, ma inoltre abbiamo apparizioni (Escheinungen) che rappresentano interamente al di fuori di questo campo visivo qualcosa che non è presente» (cito dal paragrafo 28 di Phantasie, cit.) ↩︎
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Cfr. E. Husserl, Phantasie, cit, pp.56-58 e 62 ↩︎
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Cfr. F. S. Trincia, Elogio del romanticismo: Isaiah Berlin, «Lo Sguardo», VII, 2011, pp. 115-116. ↩︎
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E. Husserl, Phantasie, cit, p. 56. Cfr sopra n. 13. ↩︎
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Ivi, pp. 56-57. ↩︎
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Ivi, p. 57 ↩︎
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Ibidem ↩︎
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Ivi, p. 58 ↩︎
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Cfr. J.Keats, Ode on indolence, il cui esergo è tutto intessuto di negatività. Riferendosi alle «ombre» che gli sono apparse una mattina, per lui irriconoscibili perché «incappucciate, in maschere mute», «per derubare i miei giorni oziosi / e lasciarli senza scopo» («to steal away, and leave without a task/my idle days»), Keats scrive che esse «non faticano né filano» («they toil not, neither do they spin»): Poesie, cit., pp. 292-293. ↩︎
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E. Husserl, Phantasie , cit., pp. 59-60. ↩︎
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Cfr. R. Bernet, Conscience et existence, cit., p.222. Bernet analizza in particolare il tema dell’«amante dell’arte» in Verità e metodo di Hans-Georg Gadamer. ↩︎
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Cfr. sopra n. 3. ↩︎
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R. Bernet, Conscience et existence, cit., pp. 223-224. ↩︎
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Ivi, p. 224. ↩︎
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Cfr., J.Keats, Lettere, cit. , p. 33. ↩︎
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R. Bernet, Conscience et existence, cit. , p. 224. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 225. ↩︎
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Cfr. E. Husserl, Phantasie, cit., p.60. ↩︎
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Cfr. F. S. Trincia, Freud e il Mosè di Michelangelo. Tra psicoanalisi e filosofia, Donzelli, Roma 2000. ↩︎
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E. Husserl, Phantasie, cit., pp. 60-61. ↩︎
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Ivi, p. 61. ↩︎
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Ibidem ↩︎
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Rinvio ancora a J. Keats, Lettere, cit., pp. 38-39. Cfr. n. 9. ↩︎
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R. Bernet, Conscience et existence, cit. pp. 83-84, commentando le pagine di Husserliana XXIII non ha mancato di rilevare molto opportunamente nelle pagine husserliane la presenza di un momento dialettico nel rapporto tra il reale percettivo e la «nullità» percettiva dell’immagine o del fantasma. Qual è il rapporto tra immaginario e il fantastico, da un lato, e il reale, dall’altro? Chi legga la poesia di Keats con attenzione avverte la presenza, ovviamente non tematizzata, di questo momento dialettico. «Per Husserl, questo rapporto ha a che fare tanto con una fondazione o con modificazione (unilaterale), quanto con un conflitto (Widerstreit)». Ciò significa non soltanto che «con la sua analisi dell’immaginazione Husserl scopre una forma di negatività sensibile…ma anche che gli si presenta la possibilità di un nuovo rapporto tra il reale e l’immaginario o tra percezione e la phantasia, implicante (come ogni conflitto) una forma di reciprocità o persino di dialettica». Ciò comporta l’ipotesi che la percezione sia sempre aperta sulla «possibilità di una presentificazione immaginante», Il che a sua volta indica che non si dà una immagine o una fantasia senza il radicamento di un possibile ultrapercettivo e ultrafattuale nel reale percettivo, ossia senza che si dia anche una sorta di virtualità estetico-fantastica del reale. Il conflitto costitutivo della coscienza immaginante si situa tanto dal lato del soggetto quanto da quello dell’oggetto. All’incompatibiltà ontologica tra mondo immaginario o fantastico e mondo reale corrispondono due modi della vita del soggetto, quella del Real-Ich e quella del Phantasie-Ich. Qui si tocca una punto centrale per quel che riguarda la possibile penetrazione fenomenologica della poesia keatsiana: la fantasia poetica non possiede l’evanescenza soltanto apparente dell’«illusione», la poesia non è illusione. L’immaginario dunque può rivendicare a sé una «forma di coerenza propria suscettibile di entrare in conflitto con quella del mondo reale. Non è dunque l’illusione percettiva che costituisce in Husserl il paradigma centrale della sua analisi della coscienza immaginante e del suo conflitto con il mondo reale». «L’incompatibilità tra mondo immaginario e mondo reale non conduce necessariamente alla cancellazione dell’immaginario a vantaggio del reale, ma implica ugualmente la possibilità di una sua conservazione sotto la forma di una posizione neutralizzata o di una credenza sospesa (c.m.)». Siamo come è facile intuire di fronte ad una sorta di formalizzazione fenomenlogica nella poetica negative capability di Keats. «Ogni Schein immaginario non è affatto pura «illusione», e la correzione che «cancella» (durchstreichen) il contenuto di una illusione può ben comporsi con il desiderio di mantenere la sua traccia sotto forma di una finzione che non abbia perso nulla del suo potere di seduzione». La fantasia poetica non coincide con il contenuto di una illusione, ossia enfatizza la propria natura al tempo stesso non illusoria e non reale — percettiva, ma grazie a ciò mantiene intatto il potere di una seduzione non dissolventesi in una illusione: tale seduzione costituisce l’essenza stessa della creazione poetica e dei suoi fantasmi. ↩︎
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Cfr. ad es. E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen, Husserliana II, 1950; tr. it. di A. Vasa, L’dea della fenomenologia. Cinque lezioni, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 65. «All’inzio della critica della conoscenza è dunque il mondo intero, la natura fisica e quella psichica, e infine lo stesso io umano, con tutte le scienze che a queste oggettualità si riferiscono, che occorre fornire di un indice di questionabilità. Il loro essere, la loro validità, rimane in sospeso». Rinvio a ciò che ho osservato in F.S.Trincia, L’epoché e la realtà, in Epoché , cit., pp. 125-136. ↩︎
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Cfr. G. Gigliotti, «La flûte du silence». Momenti di «sospensione» nella Recherche, in Epoché, cit., pp. 237 sgg., e E. Ferrario, «Hasenöhrchen». Paul Celan e l’epoché della poesia, ivi, p.251 sgg. ↩︎
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In netta consonanza con questa tesi, l’intenzionalità della fantasia offre secondo Husserl un oggetto che si presenta in termini di «come se» («come se» fosse reale, «come se» fosse conosciuto) rispetto all’intenzionalità del giudizio predicativo. «Anche la fantasia ha i suoi modi in cui si danno le oggettività, ma queste non sono oggetti reali, ma reali-come-se, oggetti nel modo del come se»: E.Husserl, Esperienza e giudizio, Introduzione, cit., p. 60. ↩︎
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Cfr. E. Husserl, Phantasie, cit., p. 29. Due sono le apprensioni necessarie alla costituzione della «rappresentazione immaginativa», secondo quel che leggiamo nel paragrafo 13. Le due apprensioni sono reciprocamente implicate. La prima è una apprensione primaria in cui abbiamo l’apparizione del castello, ma con ciò tuttavia ci rappresentiamo in immagine il castello di Berlino in quanto tale, in quanto apprendiamo il castello in una rappresentanza somigliante. Il risultato è dato da una coscienza di apprensione completa in cui l’oggetto non vale più solo per sé ma si basa su una rappresentazione per somiglianza che offre il rapporto al soggetto dell’immagine, ossia al castello stesso. ↩︎
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J. Keats, Endimione, tr. it. cit. , I, vv. 564-578. ↩︎
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Ivi, I, v. 564. ↩︎
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Cfr. J. Keats, Lettere sulla poesia, cit., p. 30. L’originale in Letters of J.Keats, cit. p. 27: «Un poema lungo mette alla prova l’invenzione — che secondo me è la stella polare della poesia, come la fantasia sono le vele, e l’immaginazione il timone». ↩︎
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J. Keats, Endimione, tr. it. cit., I, vv. 619-622. ↩︎
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Ivi, vv. 632-633. ↩︎
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Ivi, vv. 747-756. ↩︎
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J. Keats, Poesie, cit., p. 233. ↩︎
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Ivi, pp. 233-238. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. Questi versi sono subito di seguito a quelli appena citati. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 239. ↩︎
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Ivi, pp. 283-287, da cui nel seguito cito alcuni versi. ↩︎
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Ivi, pp. 293-297. ↩︎
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J. Keats, Lettere sulla poesia, cit., pp. 38-39. ↩︎
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Corsivo mio. ↩︎