Kierkegaard nella riflessione del giovane Pareyson

1. Kierkegaard: l’autore giovanile

Anche per chi dovesse accostarsi solo superficialmente al pensiero di Luigi Pareyson, non sarà difficile notare come Kierkegaard rappresenti un autore decisivo per la sua formazione e un riferimento fondamentale per comprendere lo sviluppo e gli aspetti più interessanti della sua meditazione filosofica. Quello fra Kierkegaard e Pareyson si può considerare un incontro di gioventù, che per il ventenne filosofo piemontese si consoliderà, negli anni, in un rapporto continuativo mai interrotto e sempre determinante, anche quando, soprattutto nelle opere della maturità, scarseggiano i riferimenti espliciti al pensatore danese. È lo stesso Pareyson a parlarci di quella significativa lettura giovanile:

Fu la lettura di Jaspers a portarmi a quella di Kierkegaard, di cui sino a quel momento non conoscevo se non ciò che se ne diceva nella storia della filosofia moderna di Hoffding, tradotta da Martinetti, molto diffusa tra gli studenti torinesi d’allora, per un persistente martinettismo coltivato e mantenuto vivo soprattutto da Gioele Solari. […] . La lettura di Kierkegaard fu tutta una lettura d’urto, assai diversa da quella che potrebbe esser oggi, e anche soltanto qualche anno dopo quella ch’io feci sullo scorcio degli anni Trenta: di qui una certa insoddisfazione che mi lasciò la lettura del libro, per altro notevolissimo, di Jean Wahl (1938), insoddisfazione che cercai di far tacere in me, non soltanto per le osservazioni penetranti e gli audaci accostamenti di cui è foltissimo il volume, ma anche per l’autorevolezza dello scrittore, che s’imponeva a me appena ventenne. Ma mi resi conto, in seguito, del motivo di quell’insoddisfazione: per me Kierkegaard era stato una profonda, sconvolgente, personalissima esperienza, come mi pareva ch’egli dovesse e volesse esser letto, e per di più egli, come scrittore essenzialmente religioso, presentava un’attualissima forma di cristianesimo, che non si lasciava facilmente costringere negli schemi di una considerazione eminentemente filosofica.1

Com’è noto, Kierkegaard è stato colui che ha permesso a Pareyson «di considerare l’esistenzialismo come chiave di dissoluzione dell’hegelismo e, insieme, attraverso il concetto di esistenza come coincidenza tra autorelazione ed eterorelazione, gli ha aperto la via per un’interpretazione ontologica dell’esistenzialismo».2 Nel 1939 Pareyson pubblica due saggi3 che manifestano il significato del suo primo approccio alla filosofia dell’esistenza, due opere che danno inizio ad un filone problematico che avrà un lungo seguito in tutta la sua ricerca posteriore. Il primo è un saggio sul pensiero di Kierkegaard, affrontato da Pareyson a partire da uno studio di di J. Wahl (gli Études kierkegardiennes); il secondo è invece una ricostruzione critica del pensiero di Karl Barth, concentrata in particolare sul commento alla Lettera ai Romani.4

I temi affrontati nei due saggi assumevano, nel dibattito filosofico italiano di quell’epoca, il carattere di qualcosa di inesplorato e di quasi inedito, pur essendoci state, negli anni precedenti, diverse pubblicazioni che manifestavano una certa attenzione e una certa sensibilità per la riscoperta di Kierkeggard. Pareyson, con le sue ricerche, riesce ad intercettare una tendenza che era già nell’aria, e che lui esplicita e valorizza con il suo contributo personale. All’epoca di Pareyson, l’opera di Kierkegaard, sulla scia della Kierkegaard-reinassance, inaugurata dalla riflessione teologica dello stesso Barth, vedeva comparire i primi e significativi studi critico-intepretativi. L’incontro con Kierkegaard da parte di Pareyson avveniva in quanto favorito dalla lettura dei testi di Jaspers e grazie alle indicazioni che questi aveva potuto dargli personalmente. Pareyson giungeva alla teologia di Barth tramite l’avvicinamento alla Kierkegaard-reinassance, che assumeva un’importanza fondamentale per una giusta comprensione dell’esistenzialismo di area tedesca. Il risultato più significativo che Pareyson ottiene in queste due opere è l’approfondimento della tematica religiosa e, in particolar modo, una elaborazione filosofica del concetto di trascendenza. Questo ulteriore elemento, strettamente legato al tentativo di ripensare filosoficamente la persona, è molto presente nell’atmosfera spiritualistica in cui il nostro autore si è formato e rappresenta qualcosa che non sarà mai abbandonato nella riflessione filosofica pareysoniana.5

L’approccio di Pareyson al pensiero di Kierkegaard, mediato dalle interpretazioni di J. Wahl,6 K. Jaspers e K. Barth, ha come importante risultato l’assunzione del filosofo danese come maestro e ispiratore di tutte le correnti dell’esistenzialismo tedesco e di quello francese.7 Inizia a delinearsi, in tal senso, un primo schema di interpretazione complessiva dell’esistenzialismo, basato sul legame tra la riflessione di Kierkegaard e quella di Jaspers, di Heidegger e di Barth.8 Il lavoro sarà ripreso e sviluppato, con significative precisazioni, nel saggio su Barth, trovando poi la sua definitiva sistemazione nel libro su Jaspers del 1940. Nel saggio kierkegaardiano inizia a farsi strada la comprensione di un legame storico significativo tra il pensiero di Hegel e quello di Kierkegaard, che influenzerà la visione pareysoniana dell’esistenzialismo, in particolare nella tesi della genesi dell’esistenzialismo dalla dissoluzione dell’hegelismo.

La prima lettura di Kierkegaard compiuta da Pareyson approda ad un risultato che si può ritenere fondamentale. Al centro degli interessi del giovane filosofo si pone, come era già avvenuto con gli studi dedicati ad Heidegger e Jaspers,9 il problema del singolo. In particolare, la questione del singolo di fronte alla trascendenza. Ciò che attrae e affascina Pareyson, in modo speciale, è l’affermazione dell’assoluta irripetibilità del singolo, unitamente all’assoluta trascendenza di Dio come espressa nel concetto kierkegaardiano di paradosso. Kierkegaard viene visto da Pareyson «in continua tensione tra il pensiero soggettivo e appassionato e l’assoluto trascendente», in modo tale che «l’antinomia più esasperata, l’anfibolia fondamentale, il paradosso costituiscono il fondo della fede concepita come rapporto con un essere con cui non è possibile alcun rapporto, come quel rapporto che è a un tempo il rapporto più intimo e un rapporto con qualcosa di esterno».10 Nella sintesi paradossale delineata dal filosofo danese tra tempo ed eternità, Pareyson scopre un’anticipazione delle sue esigenze e delle sue problematiche, le stesse istanze emerse nell’analisi del passaggio dall’esistenziale all’esistentivo in Heidegger e che si erano presentate nel tentativo di pensare la coincidenza di autorelazione e relazione dell’essere.11 Kierkegaard, contro il razionalismo hegeliano, rivendica l’imprescindibilità dell’esistenza, ovvero il fatto che il reale, la vita, la verità intrattengono sempre uno stretto rapporto con questo singolo uomo determinato, «che è esistenza nel tempo e nella sua contingenza, cioè non può pensare astraendo dalla propria situazione esistenziale».12 L’esistenza del singolo uomo non è caratterizzata solo da un pensiero di tipo speculativo, ma anche da scelte personali, intime decisioni, atti di fede. Ne La malattia mortale, Kierkegaard afferma che l’uomo si relaziona a sé solo in quanto si relaziona ad altro. Infatti, «un tale rapporto che si rapporta a se stesso, un io, o deve essere posto da se stesso o deve essere stato posto da un altro. Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero».13 L’autorelazione è legata all’irriducibilità del singolo, mentre al rapporto con Dio è legata la relazione all’essere. La coincidenza dei due termini si realizza nella sintesi paradossale di tempo ed eternità, finito e infinito, singolo uomo e Dio. Nell’uomo è presente, anzi è egli stesso, questa sintesi paradossale, coincidenza di autorelazione ed eterorelazione. Tuttavia, pur apparendo a Pareyson condivisibile il senso ultimo delle rivendicazioni kierkegaardiane, sono diversi gli sviluppi e le modalità di articolazione che esse trovano all’interno della riflessione del filosofo di Copenaghen. Pareyson osserva criticamente che la coincidenza di autorelazione ed eterorelazione insieme al paradosso di tempo ed eternità si profilano come sintesi di una opposizione che non è davvero tale. Nell’introduzione al saggio dedicato a K. Jaspers,14 egli parla, a tal proposito, di «sfaldamento» del paradosso kierkegaardiano:

Nel Kierkegaard la paradossalità dell’esistenza come sintesi di temporalità e eternità, finitezza e infinitudine, presenza e invocazione, viene cementata e rassodata dalla teoria dell’implicanza di positivo e negativo, con cui si risolve, in mutua reciprcanza e vicendevole capovolgimento, la dualità dell’opposizione costituita dalle coppie dei suddetti termini. Malgrado però questo elemento rigidamento unitario, che rifiuta ogni dualismo, fosse pure quello dell’alternativa, il paradosso kierkegaardiano cela una incrinatura che sfalda la sintesi, minacciandone seriamente l’unità. Il paradosso infatti si involge in quella stessa aporia, di cui esso dovrebbe dare lo scioglimento: quali i rapporti tra eternità e tempo? Il paradosso non sussiste che in rapporto al tempo, non potendosi ragionevolmente pensare che quello che è paradosso nella temporalità permanga tale anche nell’eternità; ma il tempo è appunto uno dei termini la cui contraddizione costituisce il paradosso stesso. Se il paradosso non sussiste nell’eternità, ma pare costituire l’essenza stessa del tempo, è difficile capire come esso si stabilisca fra tempo ed eternità, quasi che questi fossero opposti. L’aporia in cui si involge la teoria della sintesi di eternità e tempo come paradosso, dimostra appunto come non si possa stabilire tra i detti termini rapporto di opposizione. L’eternità non è opposta al tempo, è al di là di esso, o, meglio, è di là da ogni possibile opposizione temporale e atemporale.15

Le perplessità di Pareyson riguardano l’influsso destrutturante che l’affermazione della radicale trascendenza di Dio e il concetto di paradosso possono produrre sull’esistenza e la positività del singolo. Quest’ultimo, nella visione kierkegaardiana, è negativo e peccatore, o meglio è tale proprio in quanto singolo. Per cui Pareyson si chiede: se Kierkegaard «da un lato, di contro allo Hegel ha salvato il singolo dall’Aufhebung, non riconoscendolo come momento di un processo dialettico, ma rivendicandolo come un assoluto conchiuso in sé, ha, d’altra parte, veramente fatto di questo singolo una persona assiologica e positiva? ».16 L’esigenza, da parte di Pareyson, di affermare il valore della persona, chiedendo aiuto a Kierkegaard, approderà, almeno in questa fase, a un risultato sostanzialmente negativo, rivelandosi una forma di illusione storica. Il giovane filosofo esprimerà quasi subito le perplessità che emersero in seguito al suo, ancorché appassionato ed entusiasta, incontro con la problematica kierkegaardiana: «I rapporti teandrici sono improntati alla più stretta negatività: non è dunque meraviglia per noi come l’Existenzphilosophie, che si origina dal Kierkegaard, non riesca a salvare proprio quel concetto di persona che vorrebbe costituire. Ed è proprio questa radicale negatività dei rapporti teandrici quella che ci fa rimanere tanto perplessi di fronte al pensiero di Kierkegaard».17

Si può osservare, inoltre, come l’accoglienza, da parte di Pareyson, dell’interpretazione kierkegaardiana proposta da autori come Jaspers, Barth18 e J. Wahl, non sia priva, sin dall’inizio, di alcune perplessità di fondo e di qualche accenno di critica, che vengono espressi in modo abbastanza esplicito, soprattutto per quanto riguarda la lettura del pensiero di Kierkegaard da parte di J. Wahl. Tale presa di distanza dalla mediazione ermeneutica fornita dai tre filosofi si accentuerà ulteriormente nei decenni successivi: nel saggio Rettifiche sulll’esistenzialismo, Pareyson afferma chiaramente la propria insoddisfazione per l’approccio di Wahl al pensiero di Kierkegaard, auspicando «la necessità di considerare il pensiero kierkegaardiano nel suo complesso e nella sua autonomia, indipendentemente dalla via d’accesso che lo rivelò alla cultura internazionale, cioè la Kierkegaard-Reinassance protestante e l’esistenzialismo filosofico», visto che «l’insieme del pensiero di Kierkegaard trascende di gran lunga la sua derivazione posthegeliana e la sua posterità esistenzialistica, ed è ormai in questa sua esemplare «classicità» che bisogna guardarlo».19 Effettivamente, è da notare che, negli anni immediatamente posteriori al primo saggio dedicato al rapporto fra Kierkegaard e l’esistenzialismo, Pareyson rivedrà il proprio giudizio sul pensatore danese, rendendosi conto dei limiti della prospettiva offerta da J. Wahl e della sua discutibile lettura, tendenzialmente «nichilistica», del concetto kierkegaardiano di singolo. La maturazione avvenuta nel giovane pensatore nella comprensione del pensiero di Kierkegaard troverà la propria concretizzazione in un saggio del 1943, dal titolo Tempo ed eternità, in cui l’influsso esercitato dalla concezione filosofica e religiosa del danese è oltremodo evidente, come vedremo nel prossimo paragrafo.

2. Tempo ed eternità: reminiscenze kierkegaardiane

Dopo il 1943, ovvero successivamente alla fase di studio e di ricerca che abbiamo esaminato, caratterizzata da un serrato confronto con la proposta esistenzialistica, Pareyson compie il primo tentativo di elaborazione di una propria e personale proposta teoretica, che viene alla luce per mezzo di un testo assai significativo, che riteniamo meritevole di un’analisi dettagliata.20 Infatti, come avremo più volte modo di osservare nel corso del nostro lavoro, le formulazioni contenute in questo studio avranno una lunga prosecuzione nelle ricerche pareysoniane degli anni successivi, costituendo qualcosa di basilare nell’itinerario filosofico dell’autore. Aggiungiamo, inoltre, che tale scritto costituisce un prezioso elemento chiarificatore, in grado di far comprendere meglio quella che può considerarsi la vocazione «religiosa» del suo pensiero e che più di altri contributi dello stesso periodo «testimonia dell’influenza kierkegaardiana».21 Si tratta di un saggio fondamentale, in quanto in esso Pareyson elabora per la prima volta gli elementi essenziali della propria prospettiva filosofica.22 Ciò che Pareyson si propone in queste pagine è di indagare i caratteri originari dell’esperienza morale, sul piano storico-temporale, nonché quelli dell’esperienza religiosa, nelle sue implicazioni eterne. Nell’analizzare l’esperienza morale, Pareyson tenta di avvicinare la propria formazione spiritualistica e attualistica verso una filosofia della persona che riconosca l’importanza dei valori religiosi. La questione principale sarà quella di legittimare e fondare la «libertà» dell’iniziativa morale, che viene riconosciuta come il momento centrale e costitutivo della storia, quest’ultima considerata in termini di «inesauribile innovazione e radicale imprevedibilità». La storia, secondo Pareyson, ha un rapporto vitale con quella che egli chiama «iniziativa»:

Ogni fluire che disperda i suoi momenti non è storia, ma dissipazione e rovina: la storia è risparmio e conservazione. La coincidenza di innovazione e conservazione è la nascita dell’opera e della persona, la quale sorge da una decisione liberissima che concreta un’esigenza e si fissa in una validità soluta determinata da un giudizio. Perciò si può dire che la storia, se è coincidenza di novità e conquista, è ritmo di esigenze e giudizi, decisioni e validità. Ma una tal esigenza che sia giudizio e una tal decisione che sia costituzione di validità è l’iniziativa. La storia, dunque, come nascita dell’opera e della persona, è iniziativa.23

L’iniziativa morale, intesa come opzione, viene presentata dall’autore come coincidenza dinamica di un’esigenza «ch’è la richiesta di un valore, una decisione, che pone in essere un valore, e una valutazione, che riconosce il valore e lo fa riconoscere come tale».24 L’esigenza, come richiesta di un valore, è anche posizione di un’alternativa e perciò valutazione, e la valutazione, come risultato di una discriminazione fatta sulla base di un’alternativa, non può evitare di presupporre un’esigenza. La decisione, in ultimo, come realizzazione di un valore storico, rappresenta il punto di incontro dei due momenti precedenti. In tale contesto, è degna di nota la preoccupazione, da parte dell’autore, di far scaturire la riflessione sui valori per così dire dall’interno stesso della vita spirituale, senza che vengano assorbiti nel suo fluire indifferenziato.

Il discorso assume una forma ancor più pregnante con l’entrata in scena dell’esperienza religiosa. Quest’ultima non viene tirata in ballo a causa di una generica apertura dell’esperienza morale nei suoi confronti, ma appare, al contrario, proprio a motivo dell’emergere delle contraddizioni interne all’esperienza morale stessa. L’esperienza morale, allora, finisce per scoprirsi ancorata ad una dimensione nuova e inedita, che ne sconvolge l’ordine di riferimento fondamentale. Secondo Pareyson, «l’esperienza morale entra in crisi, e diventa problema a se stessa. Ma non soluzione ai propri problemi, i quali, sul piano della pura e semplice esperienza morale, rimangono insoluti eppure irrimediabilmente urgenti».25 L’esperienza morale, come anche la storia e l’iniziativa, entrano in contraddizione. L’iniziativa, in quanto esigenza, è insufficienza. Per tale motivo «tende alla realizzazione, perché manca della realtà».26 Ma, si chiede Pareyson, «se è insufficienza, come può essere decisione, e cioè costituzione di validità? ».27 In altri termini, come può dal negativo scaturire il positivo?

Tale crisi necessita il ricorso ad un esperienza più comprensiva, che contempli in sé l’antinomicità in cui si è arenata l’esperienza morale e riesca a ricomporne la contraddizione finale. Nel momento in cui l’esperienza morale si fa problema a se stessa, tale problematicità potrà risolversi solo in un’esperienza più alta e più ampia. Questa nuova esperienza potrà essere solo l’esperienza religiosa. Quest’ultima viene invocata da Pareyson ricorrendo al paradosso e al contrasto di stampo kierkegaardiano e barthiano. Nella riflessione svolta dall’autore si avverte in maniera vistosa, come ci fa osservare R. Longo, una forte influenza kierkegaardiana, in cui Pareyson, «accogliendo la dialettica dell’incommensurabilità tra finito e infinito, di’ispirazione marceliana, precisa il rapporto tra Dio e l’uomo e propone sottili connessioni fra irrelatività e relatività di Dio; l’esperienza religiosa invocata dalla violenta esplosione delle intrinseche contraddizioni costitutive dell’esperienza morale, che si fa problema a se stessa, viene posta sotto il segno kierkegaardiano e barthiano del paradosso e del contrasto».28 L’esperienza religiosa viene incentrata da Pareyson su una concezione di Dio contrassegnata da una radicale ambivalenza:

Nell’esperienza religiosa Dio è tutto, e, pure, l’uomo è qualcosa. Ma che cos’è questo qualcosa che è l’uomo di fronte a quel tutto che è Dio? Nulla, meno che nulla. Eppure proprio perché l’uomo di fronte a Dio è nulla, proprio per questo esso è costituito, da quel tutto che è Dio, come qualcosa. L’essere assolutamente preponderante, proprio perché di fronte ad esso non si può dire che qualcosa sussista, ma tutto è nulla, proprio per questo, nella sua infinita pienezza, pone in essere questo qualcosa.29

Si tratta di un Dio assolutamente incommensurabile rispetto alle capacità di valutazione umane, completamente al di fuori di ogni schema etico, assiologico e religioso con i quali l’intelletto umano vorrebbe tentare di pensarlo. Con questo Dio non è possibile nessun rapporto, essendo egli assoluta «irrelatività». In questa prospettiva Dio è il tutt’altro, «è lo straripare incontenibile dell’essere», «immenso protagonista che invade il campo e non lascia più luogo ad altro. Tutto di fronte a Dio scompare, dominato e vinto da lui. Non sussiste iniziativa che non sia divina. Il mondo storico s’attenua e scompare, scivolando nell’insignificanza»,30 nel nulla.

Tuttavia, questo stesso Dio è colui che, per una sua deliberazione assolutamente gratuita ed imprescrutabile, decide di iniziare una relazione, di per sé impossibile se vista dal lato umano, con l’uomo, il mondo e la storia, ponendosi a fondamento di questa stessa relazione. Anzi, egli costituisce lo stesso interlocutore umano di tale relazione, abbassandosi fino a porsi egli stesso, come partner dell’uomo, all’interno di una relazione rispetto alla quale dovrebbe essere esterno, per definizione. Quella che viene definita come «irrelatività» di Dio, risulta essere, per Pareyson, il fondamento della sua relatività.

Questo straripare della pienezza divina non ha nulla di quella necessità che certa metafisica, la quale irrigidisce l’esperienza religiosa, rinviene nella processione del mondo da Dio. È, invece, un’abbondanza puramente gratuita, che si dà e dandosi costituisce l’altro termine ponendosi nel rapporto. Il dono è la costituzione della relazione e della dualità. La pienezza dell’essere, nella quale consiste l’irrelatività di Dio, è un puro darsi, e il darsi si pone come interiore a quel rapporto ch’esso stesso costituisce.31

Quello che qui Pareyson azzarda è un accostamento paradossale fra due concezioni di Dio in evidente contrasto, due concezioni che lo comprendono rispettivamente come irrelatività e come relatività, ovvero come il tutt’altro, da un lato, e, dall’altro, come colui che «sana la contraddizione», come «soddisfazione di ogni ansia, compimento di ogni attesa, fine di ogni aspirazione».32 L’audace accostamento è il chiaro segno di una lacerazione che si consuma all’interno di quell’originario orizzonte spiritualistico nel quale il nostro pensatore si era formato, una lacerazione provocata da influssi filosofici di chiara provenienza esistenzialistica. Ma ciò che qui si avverte con chiarezza è ancora una volta la problematica kierkegaardiana dell’esistenza, la quale «viene filtrata e svolta criticamente da Pareyson mediante la «dialettica della incommensurabilità», che si oppone alla concezione del finito essenzialmente negativo e soprattutto alla dialettica dell’implicanza di negativo e positivo, presente in Kierkegaard, ma già di origine hegeliana, come dialessi della necessità».33 Tuttavia, come osserva acutamente uno studioso del pensiero di Pareyson, «da un punto di vista più strettamente teoretico […] questa stessa lacerazione appare estremamente feconda, poiché contiene in se stessa, seppure in maniera soltanto embrionale, le premesse filosofiche per una serie di sviluppi speculativi di incalcolabile importanza, che matureranno nel pensiero pareysoniano a distanza di qualche decennio».34

Non va dunque trascurato, per ciò che attiene a questo contributo in particolare, il debito che Pareyson intrattiene nei confronti della prospettiva kierkegaardiana, che fornisce al nostro autore «gli strumenti concettuali idonei perché egli potesse esprimere ciò che fin dai primi anni giovanili aveva intuito e cioè l’importanza dell’esperienza religiosa come «luogo» in cui l’uomo può cogliere meglio che in altre il senso dell’esistere e può ritrovare elementi universalizzabili».35

Nel momento in cui Pareyson immette, all’interno della propria proposta speculativa, la nozione di «irrelatività» e «relatività» di Dio, con la tensione dialettica che ne consegue, egli giunge ad una conquista teoretica non indifferente, che gli consente di formulare filosoficamente alcune istanze ed esigenze fortemente sentite, che ritorneranno frequentemente nel corso del suo itinerario di pensiero. Anzi, si potrebbe dire che, per molti aspetti, la speculazione pareysoniana nella sua interezza, o perlomeno buona parte di essa, certamente tutta la sua ermeneutica filosofica, può esser compresa come il tentativo di mantenere in tensione e unito il rapporto dialettico che viene a porsi tra i due poli, pur nel loro trasformarsi continuo e nel loro mutare di volto e di nome. Come osservato già da alcuni studiosi del suo pensiero, risiede proprio in questa tensione dialettica l’elemento di novità e di originalità del pensiero di Pareyson, ovvero nell’aver interpretato il rapporto religioso in termini ontologici. Secondo R. Longo, «tale interpretazione può essere colta nel continuo richiamo all’inesauribilità dell’essere e della verità, intesi come principio e origine del vivere, dell’interpretare e del filosofare dell’uomo, il quale più che avere rapporto con l’essere è egli stesso questo rapporto».36 Tale passaggio dal linguaggio religioso a quello più specificamente ontologico segna in Pareyson il percorso verso quel «personalismo ontologico» che troverà la propria compiuta formulazione negli scritti successivi, in particolar modo in Esistenza e persona e, seppur con sfumature diverse, in Verità e interpretazione. Ma la maturazione del personalismo ontologico, che si fonda sulla comprensione della persona come rapporto ontologico e che trova espressione nella coincidenza di autorelazione ed eterorelazione per mezzo della definizione di un rapporto fra irrelatività e relatività, sarebbe impensabile senza l’incidenza esercitata dalla prospettiva kierkegaardiana sul pensiero di Pareyson. Da Kierkegaard Pareyson assume il linguaggio religioso con cui viene descritto il rapporto dell’uomo con Dio, secondo la nota formula secondo cui «l’io è un rapporto che, rapportandosi a se stesso, si rapporta a un altro», e quindi è rapporto con Dio, e lo traspone su di un livello ontologico, in cui sostituendo Dio con l’essere, egli afferma che «l’essere è irrelativo, cioè inoggettivabile, né riducibile o risolvibile nel rapporto, né erigibile a causa o principio esterno del rapporto, eppure è presente nel rapporto, perché proprio per questa sua inoggettivabilità esso solo può costituire il rapporto che con esso si può instaurare; e per l’altro verso l’uomo è in rapporto con l’essere in quanto egli è costitutivamente questo rapporto stesso».37 Queste affermazioni di Pareyson possono essere considerate le linee programmatiche di diversi saggi contenuti in Esistenza e persona. In molti dei contributi presenti nell’opera (in cui è presente anche il saggio Tempo ed eternità che abbiamo appena esaminato) si nota un innegabile debito kierkegaardiano, rintracciabile in temi come la dissoluzione dell’hegelismo, la filosofia come esigenza di verità assoluta, l’assolutezza e la condizionalità storica della verità, la personalità della verità e della filosofia, l’unità di singolarità e universalità della persona, la persona come esistenza, il rapporto fra situazione e libertà, ecc. tutti concetti che mostrano un significativo legame con alcuni elementi fondamentali del pensiero di Kierkegaard. meritano invece una riflessione a parte per i saggi che Pareyson ha consacrato direttamente al pensiero kierkegaardiano in due corsi universitari poi confluiti in due pubblicazioni,38 poiché tali contributi prendono in esame la dimensione etica del pensatore danese, pur intrattenendo comunque un significativo legame con quella speculazione giovanile in cui è maggiormente percepibile l’influsso di Kierkegaard. Inoltre, non mancano in essi spunti interessanti che ritroveranno ampio respiro nell’ultima fase della riflessione di Pareyson, ovvero nella formulazione della sua «ontologia della libertà».

3. Kierkegaard e la dissoluzione dell’hegelismo

Tra i diversi saggi raccolti in Esistenza e persona, pubblicato per la prima volta nel 1950, il contributo che maggiormente e in maniera più esplicita fa riferimento al pensiero di Kierkegaard è sicuramente quello recante il titolo: Due possibilità: Kierkegaard e Feuerbach. Tale saggio si pone in linea con quella riflessione, già avviata dall’autore nei primi anni ’40, sull’esistenzialismo come espressione della dissoluzione dell’hegelismo, o più precisamente come dissoluzione di quell’universo plurisecolare di valori che si è concretizzato in forma filosofica e si è concluso con il pensiero di Hegel.39 In un contributo risalente al 1948 Pareyson afferma:

Tutto ciò ch’è accaduto nel mondo della cultura da cento anni ad oggi, si può, esplicitamente o implicitamente, spiegare come la dissoluzione della conclusione che Hegel ha voluto dare alla storia della civiltà, come la crisi del razionalismo metafisico moderno che in Hegel ha trovato la sua più matura espressione. […] Ora l’esistenzialismo si trova precisamente all’interno di questa dissoluzione della filosofia hegeliana, e non comprenderebbe nulla dell’esistenzialismo chi scordasse ch’esso non è altro che dissoluzione dell’hegelismo.40

Nella sua analisi del problema Pareyson tenta di mostrare come l’esistenzialismo riprenda alcune possibilità implicite in quella «crisi», ed è sulla base di tale presupposto che esso va interpretato e compreso. A tale scopo, l’autore ritiene opportuno un paragone tra Kierkegaard e Feuerbach, in quanto i due pensatori «sono non soltanto due possibilità tipiche, ma anche due istanze perentorie che emergono dallo sfaldamento dell’hegelismo, e la cui ripresa costituisce, oggi, quanto v’è di più caratteristico nell’esistenzialismo».41 Nella nostra sintesi, abbiamo scelto di trascurare i riferimenti diretti al pensiero di Feuerbach, in quanto poco pertinenti con la nostra indagine sul rapporto Kierkegaard-Pareyson.

Ciò che, secondo Pareyson, accomuna Kierkegaard e Feuerbach nel loro rapporto con Hegel è il tentativo, compiuto da entrambi i filosofi, di conseguire una «assimilazione pratica» del suo pensiero. Kierkegaard si domanda quale sia il rapporto fra filosofia e vita, mentre Feuerbach sostiene che la filosofia hegeliana esigi dai suoi aderenti un impegno di vita. In quanto hegeliani, i due pensatori pongono il problema della relazione fra filosofia e vita, preoccupandosi di applicare la filosofia hegeliana alla vita vissuta, facendone un impegno personale. Ma essi non tardano a comprendere che l’unica possibile realizzazione pratica del pensiero di Hegel è quella che si riflette nell’immagine del «professore», ovvero in quel soggetto la cui attività è pura contemplazione, poiché il suo fare non consiste in altro che nello spiegare ciò che sa, e quindi nel fare, appunto, il professore. Per colui che è giunto al sapere assoluto, l’unico modo di esistere è quello del professore, figura quanto mai astratta e poco concreta per chi tenta di vedere nella filosofia un impegno personale. Per Kierkegaard, come per Feuerbach, «il filosofo professore è il pensatore astratto che spiega la realtà ch’egli ha dissolto nel pensiero, e il pensiero conciliante che giustifica il presente in cui egli ha concluso la storia».42

Per Kierkegaard il pensatore astratto è colui che vuol porsi sul piano del puro pensiero astraendo dalla propria stessa esistenza. Si tratta di una figura comica e ridicola che vive nel regno della pura astrazione, dove ha compreso tutto tranne il fatto di essere esistente e che, al di fuori del suo ruolo di «signor speculante», conduce una miseranda vita da povero diavolo. È il caso di riportare un brano dello stesso Kierkegaard su tale figura, al di là delle citazioni di Pareyson:

Quando perciò si considera un pensatore astratto che non vuole diventare chiaro a se stesso e confessare in quale rapporto sta il suo pensiero astratto al fatto ch’egli è un esistente, allora egli fa — anche se è così distinto — un’impressione comica, perché egli è sul punto di cessare di essere uomo. Mentre un uomo reale, composto d’infinito e finito, ha precisamente la sua realtà nel mantenere questa sintesi, infinitamente interessato all’esistere, un simile pensatore astratto ha una natura doppia: da una parte, una natura fantastica che vive nell’essere puro dell’astrazione, e dall’altra una grama figura di professore che quell’essere astratto butta in un canto come in un canto si mette un bastone. […] Essere pensatore dovrebbe meno di qualsiasi cosa essere in rapporto di differenza rispetto all’essere uomo. Se la realtà dei fatti mostra che un pensatore astratto manca del senso del comico, questo è una prova eo ipso che il suo pensiero è la produzione di un ingegno forse eminente, ma non quella di un uomo che in senso eminente ha condotto un esistenza da (qua) uomo.43

Dunque il pensatore astratto è colui che vive in una dimensione diversa da quella in cui esercita il suo pensiero, è colui che mentre è occupato a pensare dimentica di essere un uomo esistente, dimentica la propria esistenza, riducendosi a figura grottesca. Egli non potrebbe essere un pensatore se non esistesse, e tuttavia nel suo pensiero astratto questa stessa esistenza grazie alla quale il suo pensiero è possibile, non pare avere spazio alcuno.

Ma costui è anche, nella prospettiva kierkegaardiana, il pensatore conciliante, ovvero «il professore ufficiale che aggiusta tutto secondo l’opinione pubblica e governativa, e rende tutto facile e accomodante nel modo più gradevole e conveniente». Egli «non si impegna in quel che dice perché fa consistere il proprio compito nel facilitare il difficile, nel rendere accettabile ciò che non è pienamente accessibile all’intelletto e alla volontà».44

I caratteri del filosofo come professore, pensatore astratto e conciliante, sono tutti rintracciabili, secondo Kierkegaard e Feuerbach, in Hegel, il «professore» per antonomasia. Egli è stato il prototipo del filosofo come professore in quanto identifica l’autocoscienza della realtà con la coscienza del professore astratto e conciliante. Giunto a questo grado di autocoscienza del reale, a costui non resta altro che «spiegare» la realtà, ovvero fare il professore, giustificando «il presente con l’universale spirito di conciliazione». Nella prospettiva hegeliana, osserva Kierkegaard, la filosofia «non è altro che la realtà diventata «professore assoluto»».45

Per tale motivo il modo di pensare e di vivere di Kierkegaard (come di Feuerbach) si configura come ribellione contro un sistema inteso a risolvere la realtà nel pensiero e proteso alla giustificazione del presente, ponendosi come critica della filosofia assoluta. Quindi, al pensatore astratto è necessario contrapporre il «pensatore concreto». Costui è, in Kierkegaard, il «pensatore esistente e soggettivo».

Il compito del pensiero soggettivo è di comprendere se stesso nell’esistenza. Il pensiero astratto parla senza dubbio della contraddizione e dell’urto immanente della contraddizione, benché esso, astraendo dall’esistenza e dall’esistenza, tolga la difficoltà e la contraddizione. Ma il pensatore soggettivo è un esistente, eppure è un pensante: egli non astrae dall’esistenza e dalla sua contraddizione, ma ci si trova dentro, e tuttavia deve pensare. In tutto il suo pensare egli deve pensare insieme di essere egli stesso un esistente. Ma allora egli avrà sempre a sua volta abbastanza da pensare. […] A differenza del pensiero astratto che mira a comprendere il concreto astrattamente, il pensatore soggettivo mira invece a comprendere l’astratto concretamente. Il pensiero astratto astrae dagli uomini concreti un uomo pure; il pensiero soggettivo comprende l’astratto essere uomo nel concreto, nell’essere questo singolo uomo esistente.46

Le categorie in cui il pensatore soggettivo pensa sono le stesse in cui vive. nel momento in cui la filosofia astratta pretende di filosofiare come puro pensante, dimentica che lo stesso pensante, il filosofo professore, è anch’egli esistente. Per tale motivo bisogna rivolgersi al pensiero concreto, secondo il quale il pensante è anche esistente.

Tale critica contro la filosofia hegeliana implica una critica dell’intera dottrina di Hegel in quanto «filosofia assoluta». Questa, nel sistema hegeliano, è assoluta perché come autocoscienza della realtà è priva di presupposti e come autocoscienza della storia si pone come definitiva. Sia Kierkegaard che Feuerbach tentando di mostrare che tale filosofia assoluta non è affatto priva di presupposti né tantomeno definitiva.

Il sistema comincia con l’immediato e quindi senza presupposti, cioè l’inizio del sistema è l’inizio assoluto. […] . Ma perché, prima ancora di cominciare col sistema, non si è posta la questione così importante per chiarire e rispettare il suo contenuto: Com’è che il sistema comincia cioè forsechè comincia immediatamente con esso? A questa domanda bisogna rispondere assolutamente di no. Se si ammette che il sistema è dopo l’esistenza […] allora il sistema viene dopo, e così non comincia immediatamente con l’immediato col quale cominciò l’esistenza, anche se in un altro senso essa non cominciò con esso, perché l’immediato non è mai, ma esso è tolto quando è. L’inizio del sistema che comincia con l’immediato è allora affetto per suo conto da una riflessione. […] Se infatti non si può cominciare immediatamente con l’immediato (un immediato che dovrebbe essere pensato come un caso o un miracolo, cioè qualcosa che non si può pensare!) e se invece quest’inizio deve’essere affetto da una riflessione — ci si domanda allora molto alla semplice: com’è che io arresto la riflessione che fu posta in movimento perché io ottenga l’inizio?47

La riflessione non si ferma da sé, perché l’atto del fermarsi è ancora riflessione. Se la riflessione si ferma è perché qualcosa d’altro, completamente diverso dalla logica, ne provoca l’arresto, e questo altro non è, per Kierkegaard, che la decisione (risoluzione). Ma risulta chiaro che quest’ultima elimina la mancanza di presupposti. Nel momento in cui il sistema presuppone una scelta, una decisione, allora il presupposto c’è inevitabilmente. Il filosofo speculativo ha suo malgrado un presupposto che, se non altro, è quello di voler spiegare tutto per mezzo del pensiero, affermando la coincidenza di essere e pensare. Il sistema, paradossalmente, presuppone la decisione di voler esser senza presupposti, e ciò costituisce già un presupposto, che si fonda sul fatto che il filosofo speculativo, ancor prima di compiere questa scelta, ha un’esistenza che decide e sceglie. Ma nonostante ciò egli lascia fuori di sé l’esistenza. «Il sistema che vuol dissolvere l’esistenza è dunque a sua volta avviluppato dall’esistenza e relativato ad essa».48

Inoltre per Kierkegaard la filosofia hegeliana non può vantare la pretesa di definitività, poiché il tempo e la storia smentiranno questa pretesa. Verrà il tempo in cui anche il sistema hegeliano apparterrà al passato. «La filosofia hegeliana ha voluto essere la comprensione del tempo e lascia fuori di sé la «realtà» del tempo: lo stesso tempo la confinerà nel passato».49

La polemica kierkegaardiana contro Hegel si propone di raggiungere la realtà sbriciolando il sistema, «sconnettendone i paragrafi», immagine con cui il danese esprime il suo combattere contro «la totalità in cui si perde il senso della singolarità e dell’irripetibilità: di questa totalità è simbolo l’organizzazione hegeliana della filosofia per paragrafi strettamente connessi fra di loro. Ma il singolo e il particolare non si lasciano immergere e negare nella totalità: un paragrafo prende in giro il sistema, è una protesta assoluta contro il sistema; si tratta perciò di ridargli realtà isolandolo dal sistema, il che significa dissociare il particolare dalla totalità e l’individuale dall’universalità». Con ciò avviene la rottura del sistema, in cui tutte le conciliazioni hegeliane si scindono e si sfaldano. Rompere il sistema significa, per Kierkegaard, ritrovare la particolarità e la singolarità dell’esistenza, che la totalità del sistema di Hegel assorbiva e annullava. Ciò comporta il capovolgimento di tutte le conciliazioni hegeliane: Kierkegaard scinde la conciliazione hegeliana di pensare ed essere, concetto e realtà, essenza ed esistenza. Il pensiero, nel sistema di Hegel, restituisce l’essere come mera tautologia del pensiero in quanto pensiero, prescindendo dall’esistenza e riducendo la realtà a possibilità. L’indagine astratta sulla realtà restituisce una immagine di realtà ridotta a possibilità, in cui non si considera la realtà del singolo e dell’accidentale. Come Kierkegaard afferma:

Rispetto alla realtà la possibilità è, dal punto di vista poetico e intellettuale, superiore; la sfera estetica e intellettuale (pura) è senza interesse. Ma non c’è che un interesse, esistere; la mancanza d’interesse è l’espressione dell’indifferenza verso la realtà. Tale indifferenza è dimenticata nel cartesiano cogito-ergo sum e ciò inquieta l’assenza d’interessa da parte dell’intellettualità e offende la speculazione come se dovesse derivare da altra cosa. […] . Quando penso qualcosa ch’io voglio fare ma che non ho ancora fatta, allora questa cosa pensata, per quanto accurato ne sia il pensiero che si possa veramente chiamarla una realtà pensata, è una possibilità. Viceversa, quando penso qualcosa fatta da un altro, dunque una realtà, allora io tolgo questa realtà data dalla sfera della realtà e la trasferisco nella sfera della possibilità, perché una realtà pensata è una possibiltà e, nella sfera del pensiero, è più alta della realtà, ma non nella sfera della realtà. […] La proposizione filosofica dell’identità di pensiero e di essere dice esattamente l’opposto di quel che sembra: essa esprime che il pensiero ha completamente abbandonato l’esistenza, che he emigrato e scoperto una sesta parte del mondo ove, nell’identità assoluta di pensiero e di essere, essa basta assolutamente a se stessa.50

Ma nell’esistenza non c’è identità di essere e pensare, in quanto l’esistenza non è esistenza dell’idea. Della possibilità si può fare un sistema, quello logico, che astrae dall’esistenza, ma dell’esistenza e della realtà non è possibile fare un sistema. «La confusione è la stessa di voler spiegare la realtà col pensiero puro: il paragrafo di Hegel porta il titolo: «realtà», e, si è spiegata la realtà dimenticando che tutto è rimasto nella possibilità del pensiero puro».51

Il sistema hegeliano è dunque quello che svuota la realtà trasformandola in possibilità. Per giungere a una filosofia della realtà è necessario abolire il sistema, soluzione col quale si potrà vedere come la realtà non ridotta a possibilità, la realtà piena e integrale, altro non è che l’esistenza. Ma quest’ultima, per Kierkegaard, non potrà mai ridursi a mera possibilità, né tanto meno a necessità, come vorrebbe il sistema hegeliano.

La critica che Kierkegaard rivolge al sistema mira inoltre a scindere la conciliazione hegeliana di finito e infinito. Per Kierkegaard tale concezione è definita come teocentrica, in quanto la realtà del finito è considerata da Hegel solamente nella sua negazione nell’infinito, ovvero come momento che viene superato e negato dall’infinito, in modo tale che l’individuo diviene immortale solo in quanto soppresso come individuo.52 Pareyson sottolinea ciò che probabilmente costituisce l’elemento centrale della polemica anti-hegeliana formulata da Kierkegaard, ovvero l’affermazione del finito come contrapposto all’infinito, del finito come ciò che sta di fronte all’infinito e non, come avviene nel sistema, affermato come negato. Guardare l’esistenza dal punto di vista dell’eternità significa eliminare il movimento, la temporalità, il divenire, perché l’esistenza è proprio tutto questo. L’esistenza si pone, per Kierkegaard, all’interno della contraddizione, che il sistema conciliante di Hegel ha inteso eliminare. Seguiamo direttamente il danese nella sua riflessione:

Pensare l’esistenza in abstracto e sub specie aeterni è sopprimerla nella sua essenza, e ha il suo riscontro nel merito tanto strombazzato della liquidazione del principio di contraddizione. L’esistenza non può essere pensata senza movimento e il movimento non può essere pensato sub specie aeterni. Trascurare il movimento non è propriamente un capolavoro, e introdurlo come passaggio nella logica, e con esso il tempo e lo spazio, non è che una nuova confusione.53

È necessario separare e contrapporre finito e infinito, tempo ed eternità, interponendo una infinita distanza qualitativa fra uomo e Dio. Rispetto ad Hegel, che annulla la singolarità dell’uomo facendola assorbire dall’infinito, Kierkegaard afferma la propria prospettiva religiosa, in cui la negatività dell’uomo, cioè del finito, è soltanto quella che emerge di fronte a Dio a causa della sua creaturalità e del suo essere peccatore. Secondo tale visione, sintetizza Pareyson, la negatività radicale del finito si manifesta «nel fatto che l’uomo è negato da Dio in quanto peccatore. Di fronte a Dio l’uomo non può che esser peccatore, finito, miserabile».54

Analogamente Kierkegaard opera una scissione della conciliazione hegeliana di umano e divino, affermando che si tratta di un punto di vista teocentrico, «che non interessa l’esistente, il quale deve accontentarsi di esistere, chiuso nella sua soggettività e interiorità».55 L’obiettivo di Kierkegaard è quello di sostituire il punto di vista di Dio, nel quale l’uomo può essere in rapporto con se stesso solo mediante quell’autocoscienza divina con Dio entra in rapporto con sé, con il punto di vista dell’uomo, in cui l’autocoscienza umana si fonda sulla relazione dell’uomo con Dio. «L’autocoscienza è umana, e non divina, ma sussiste la relazione con Dio, che rende possbile la relazione dell’uomo con sé».56 In questo modo, Kierkegaard rompe la mediazione hegeliana in cui il rapporto dell’uomo con sé è sempre mediato dal rapporto di Dio con se stesso, affermando la soggettività e l’interiorità dell’esistenza, la quale è rapporto con Dio e si rapporta a se stessa rapportandosi a Dio.

Quella operata da Kierkegaard è dunque una «sconnessione dei paragrafi», come la definisce Pareyson, con la quale egli raggiunge l’esistenza nella sua concretezza, spezzando la totalità del sistema e scindendo la conciliazione hegeliana. Ne emerge la contrapposizione tra finito e infinito, in cui la soggettività dell’esistenza ha il proprio fondamento nel rapporto fra uomo e Dio, e nasce l’importantissimo concetto kierkegaardiano di «soggettività della verità» e dell’esistenza, la quale si rapporta a se stessa in quanto posta in rapporto con Dio. Secondo la lettura data da Pareyson del rapporto fra il danese ed Hegel, il primo avrebbe operato l’esplicitazione di due possibilità che si trovano già implicite nell’hegelismo e cioè il finito di fronte all’infinito e il finito come infinito. Si tratta di due possbilità già presenti in Hegel, in quanto costui le concilia attraverso la mediazione. Esse emergono con la scissione e il capovolgimento della conciliazione, in quanto sussistono come due anime opposte del pensiero hegeliano. Ecco perché per Pareyson, Kierkegaard (come anche Feuerbach) rimane singolarmente hegeliano, pur nel suo deciso antihegelismo.

Per quanto riguarda Kierkegaard la stessa esigenza che lo muove a rompere il sistema hegeliano lo induce a mantenerlo intero di fronte a sé come una totalità, oggetto di una scelta e d’una decisione possibile da parte dell’esistente; la filosofia hegeliana è sempre per lui la filosofia, conclusa e perfetta in sé: si tratta di scegliere la filosofia o la non filosofia.57

In tal modo, conclude Pareyson, Kierkegaard pone fra sé e il sistema di Hegel un vero e proprio aut aut, poiché egli compie il tentativo di spezzare e rompere tale sistema. Con tale azione di riconquista della realtà, Kierkegaard propone, diversamente da Hegel, il «pensatore soggettivo», ovvero colui che pensa ma nel contempo esiste e non dimentica di esistere. Seguiamo direttamente le pagine che il danese dedica alla figura del pensatore soggettivo, visto come l’antitesi del pensatore astratto:

Il compito del pensatore soggettivo è di comprendere se stesso nell’esistenza. Il pensiero astratto parla senza dubbio della contraddizione e dell’urto immanente della contraddizione, benché esso, astraendo dall’esistenza, tolga la difficoltà e la contraddizione. Ma il pensatore soggettivo è un esistente, eppure è un pensante: egli non astrae dall’esistenza e dalla sua contraddizione, ma ci si trova dentro, e tuttavia deve pensare. In tutto il suo pensare egli deve pensare insieme di essere egli stesso un esistente. Ma allora egli avrà sempre a sua volta abbastanza da pensare. […] Né si tratta d’un divertimento, perché l’esistenza è la cosa più difficile per un pensatore che deve rimanere in essa.58

Ciò a cui il pensatore soggettivo mira è dunque, per Kierkegaard, un obiettivo ben più arduo rispetto a quello del pensatore astratto, in quanto quest’ultimo «mira a comprendere il concreto astrattamente», mentre il pensatore soggettivo mira «a comprendere l’astratto concretamente».59 Il pensatore soggettivo è colui che non evita la difficoltà parlando dell’umanità pura, ma parlando di questo uomo singolo, concretamente esistente.

Il carattere conclusivo della filosofia hegeliana, in quanto comprensione del passato e giustificazione del presente conclusivo, viene posto in crisi da pensatori come Kierkegaard e Feuerbach in quanto essi auspicano la dissoluzione della conclusione e la problematizzazione di un nuovo principio, cioè il tempo, quel tempo che era stato escluso dal sistema e di cui ora si rivendica la realtà nella preoccupazione per il futuro.

Per lo stesso motivo sia Feuerbach che Kierkegaard contestano la conciliazione hegeliana di filosofia e religione, dimostrando che la filosofia che emerge dal sistema è inconciliabile con la vera essenza della religione. Per il danese infatti la filosofia è sapere mentre il cristianesimo è fede. La figura del Cristo può essere soltanto oggetto di fede ma mai oggetto di sapere. Il sapere è oggettività mentre il cristianesimo è soggettività, quindi interiorità e passione infinitamente interessata alla propria beatitudine eterna. Il cristianesimo esige, contro ogni oggettività, che il soggetto si interessi infinitamente a se stesso, in quanto la fede ha come sua condizione l’infinito e appassionato interesse personale del soggetto. La soggettività è la verità e la soggettività è soggettività esistente. Per tale motivo la verità del cristianesimo risiede in un vivere soggettivo nella verità cristiana. Se si assume la religione cristiana nella speculazione si nega l’essenza della fede: ciò ha compiuto Hegel conciliando la fede e il cristianesimo con la ragione speculativa, ma le due realtà sono irriducibili l’una all’altra. Kierkegaard spezza la conciliazione hegeliana fra filosofia e cristianesimo, dissipando l’equivoco che aveva condotto a smarrire la distinzione fra speculazione ambigua e la fede come tale. La conciliazione hegeliana di filosofia e cristianesimo, in cui quest’ultimo è concepito come religione assoluta, risulta essere, per Kierkegaard, la traduzione in senso speculativo di quella negazione pratica del cristianesimo che è il riflesso di quella indifferenza verso il cristianesimo che emerge dalla filosofia hegeliana della religione. Quest’ultima si riduce ad essere più che altro un’affermazione di paganesimo, in quanto speculazione che «prescinde dall’eternità del cristianesimo e dalla contemporaneità del cristiano col Cristo, e quindi sviluppa il cristianesimo dal paganesimo».60

Per Kierkegaard il sistema speculativo di Hegel segna la fine della filosofia e dal dissolvimento di tale sistema emerge la necessità di decidersi a favore o contro il cristianesimo. L’alternativa perentoria che si pone in seguito al capovolgimento del pensiero di Hegel operato da Kierkegaard e da Feuerbach sarà: fine o ritrovamento del cristianesimo? Per Kierkegaard la negazione del cristianesimo che si nasconde nella concezione hegeliana richiede una scelta, mentre per Feuerbach richiede una presa di coscienza. Ma le due istanze poste dai due pensatori possono considerarsi le due anime opposte di Hegel, che nel rovesciamento del suo sistema si separano e operano autonomamente. Quest’ultimo aspetto, per Pareyson, indica che Kierkegaard e Feuerbach, nonostante il loro antihegelismo, rimangono sostanzialmente hegeliani: l’uno perché concepisce la fede in contrasto con il carattere speculativo della filosofia hegeliana, l’altro perché la rivendicazione dell’esigenza della fine del cristianesimo si colloca all’interno dello schema hegeliano dell’aufhebung, secondo cui la filosofia è l’inveramento della religione e quindi del cristianesimo. Il cristianesimo si riduce ad essere una realizzazione provvisoria e parziale di quella religione assoluta che, nel suo stadio finale non è altro che la stessa filosofia.

In ultima analisi, l’alternativa posta da Kierkegaard in considerazione del dissolvimento dell’hegelismo è: essere cristiani autentici, ovvero credenti per fede contro la speculazione, oppure pagani schietti, speculanti che accettano che il cristianesimo si risolva nella filosofia. L’alternativa di Feuerbach è invece quella di essere o cristiani ipocriti o sinceri non cristiani. In Kierkegaard c’è però una nuova possibilità di affermare il cristianesimo contro la sua fine, ravvisabile in quel cristianesimo laico e secolarizzato che lo stesso Feuerbach giudica ipocrita. Ma Feuerbach, rispetto al pensatore danese non si è spinto verso questa possibilità. Il cristianesimo laico è certo un equivoco, ma questo equivoco, ad avviso di Pareyson, si può dissipare soltanto eliminando l’equivoco del razionalismo metafisico. E qui Pareyson pone, alla fine della sua riflessione, l’interrogativo centrale, che fa emergere ciò che realmente distingue Kierkegaard da Feuerbach: per superare davvero il razionalismo, ovvero il sistema hegeliano, è necessario ricorrere al finitismo e allo strumentalismo o piuttosto ad una riaffermazione del valore speculativo del pensiero e dell’incommensurabilità tra finito e infinito? Questa seconda possibilità espressa dall’autore sembrerebbe essere un’allusione al pensiero di Kierkegaard e a ciò che lo distingue dal razionalismo, anche se ciò non viene affermato esplicitamente. Non risulta del tutto chiaro, infatti, se nella conclusione di questo studio Pareyson propenda per vedere in Kierkegaard la possibilità di un ritrovamento del cristianesimo dopo la fine del sistema hegeliano, oppure se la critica diretta nei confronti di un finitismo che non uscirebbe dall’impostazione hegeliana abbia proprio il pensatore danese come obiettivo.61 Un autorevole interprete di Pareyson come S. Givone dà una lettura in linea con la prima ipotesi:

Secondo Pareyson tutto ciò pone Kierkegaard in una posizione per così dire superiore e più attuale rispetto a Feuerbach. Il pensiero kierkegaardiano, che pure è un episodio della dissoluzione del razionalismo metafisico, ne è del tutto indipendente rispetto al suo principio (che è la fede, la decisione del singolo e non la ragione), mentre il pensiero feuerbachiano ne resta all’interno (a misura che Feuerbach, con Hegel, pensa razionalmente il cristianesimo). Inoltre, cosa anche più importante, Feuerbach, porta a fondo Hegel ma non vede la possibilità kierkegaardiana della fede, e Kierkegaard invece compie lo stesso passo ma vede e insieme esclude la possibilità feuerbachiana dell’ateismo.62

4. Conclusioni

È fuor di dubbio che nella fase giovanile della meditazione di Pareyson, Kierkegaard assume un ruolo oltremodo decisivo. L’incontro con Kierkagaard si pone nell’ambito del suo primo approccio alla filosofia dell’esistenza e avrà quale esito fondamentale l’assunzione del filosofo danese come maestro e ispiratore delle correnti tedesca e francese dell’esistenzialismo.

L’influsso esercitato da Kierkegaard nella riflessione pareysoniana di questa prima fase, che si qualifica come esistenzialismo personalistico, esistenzialismo secondo la sua origine kierkegaardiana, si esprime nella formulazione di una serie di tematiche che assumeranno un ruolo fondante in tutto l’itinerario speculativo del nostro autore. Innanzitutto l’esigenza, di derivazione personalistica, di riaffermare l’assoluta irripetibilità del singolo, insieme all’assoluta trascendenza di Dio come espressa nel concetto kierkegaardiano di paradosso; in secondo luogo la concezione, di matrice kierkegaardiana, dell’esistenza come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione, secondo la quale io riesco a relazionarmi a me solamente in quanto mi relaziono ad altro, in particolare all’assolutamente Altro che è la trascendenza.

Nelle pagine che il giovane Pareyson dedica al pensiero del danese, inizia a delinearsi la comprensione di un legame significativo tra il pensiero di Hegel e quello di Kierkegaard, che influenzerà la visione pareysoniana dell’esistenzialismo. Quest’ultimo è compreso dall’autore come fortemente radicato nella dissoluzione dell’hegelismo e come orientamento filosofico che sorge con il programma di analizzare e problematizzare la crisi rappresentata dal crollo dell’edificio hegeliano. Il confronto tra Kierkegaard e Feuerbach viene operato da Pareyson proprio per approfondire questo rapporto e con l’intento di illustrare le più significative implicazioni dell’esistenzialismo contemporaneo. Entrambi i pensatori sono per Pareyson hageliani e antihegeliani a un tempo, rimanendo essi all’interno di un hegelismo in dissoluzione, di cui rappresentano le due anime contrapposte. Tuttavia, Pareyson, nonostante la presa di distanza da alcune posizioni kierkegaardiane, intravede nel filosofo di Copenaghen una possibilità in più rispetto a Feuerbach: l’esigenza di un ritrovamento del cristianesimo come fede di contro a quella sorta di cristianesimo laico e secolarizzato che il sistema hegeliano aveva creato auspicandone il superamento nella filosofia. Pareyson riconosce in Kierkegaard colui che «ha affilato le armi del suo pensiero contro l’ateismo di Feuerbach e in tale contrato si è forgiata la figura drammatica e problematica del cristiano contemporaneo».63 Si tratta di una distinzione che Pareyson, nonostante l’impostazione critica, compie già in questa fase giovanile e che lo condurrà a sfumare, negli anni successivi, il proprio giudizio, sostenendo che, grazie a questo recupero problematico del cristianesimo, Kierkegaard «trascende di gran lunga la sua derivazione posthegeliana e la sua posterità esistenzialistica».64 Un riconoscimento prezioso, che si rivelerà determinante nell’ultima fase della riflessione pareysoniana, quando Kierkegaard costituirà uno degli autori prediletti per la formulazione di quel cristianesimo tragico e di quell’ontologia della libertà che rappresentano la fase più audace e affascinante della parabola filosofica di Pareyson.


  1. L. Pareyson, Rettifiche sull’esistenzialismo, in ID., Esistenza e persona, Il melangolo, Genova 19854, p. 232. ↩︎

  2. G. Modica, L’etica di Kierkegaard secondo Pareyson, in ID., Una verità per me. Itinerari kierkegaardiani, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 111-141, qui p. 111. ↩︎

  3. Pareyson, Nota kierkegaardiana, in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», fasc. 1, 1939, pp. 53-68; ID., L’esistenzialismo di Karl Barth, in «Giornale critico della filosofia italiana», fasc. 3-4, 1939, pp. 304-356; in seguito confluiti in ID., Studi sull’esistenzialismo, Mursia, Milano 20014, rispettivamente alle pp. 59-79 e alle pp. 81-125. ↩︎

  4. K. Barth, Der Römerbrief, Munich, Kaiser 19222 (1a edizione Bäschlin, Bern 1919), tr. it. a cura di G. Miegge, La lettera ai Romani, Feltrinelli, Milano 1962. ↩︎

  5. Per la nostra ricerca su questa fase della riflessione dell’autore abbiamo fatto costante riferimento alla ricostruzione dell’itinerario intellettuale di Pareyson proposta da F. P. Ciglia nella sua bella e approfondita monografia: Ermeneutica e libertà, Bulzoni, Roma 1995. ↩︎

  6. Jean Wahl (Marsiglia, 1888 - Parigi, 1974), storico della filosofia e filosofo. Autore di lavori di storia della filosofia (tra cui: Philosophies pluralistes d’Angleterre et d’Amérique, 1920; Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, 1929, trad. it. 1972), Wahl è noto particolarmente come storico e critico dell’esistenzialismo: Vers le concret (1932); Études kierkegaardiennes (1938), il suo libro più fortunato; La pensée de l’existence (1951); Les philosophies de l’existence (1954). Notevoli anche Traité de métaphysique (1953); L’expérience métaphysique (1962); Vers la fin de l’ontologie (1956; tr. it. 1971). Sul significato e l’importanza che gli studi di Jean Wahl su Kierekgaard hanno avuto per la formazione del pensiero di Pareyson cfr. Pareyson, Søren Kierkegaard e l’esistenzialismo in ID., Studi sull’esistenzialismo, Mursia, Milano 20014 (1a edizione Sansoni, Firenze 1943), p. 59-79. ↩︎

  7. Cfr. Id., Studi sull’esistenzialismo, cit., pp. 59-60. ↩︎

  8. Cfr. ib., pp. 72-79. ↩︎

  9. Cfr. Id., Note sulla filosofia dell’esistenza, in «Giornale critico della filosofia italiana», fasc. 6, 1938, pp. 407-438, in seguito ripreso, con alcune modifiche, in Studi sull’esistenzialismo, Mursia, Milano 20014, col titolo: Esistenziale ed esistentivo nel pensiero di M. Heidegger e K. Jaspers, pp. 141-173. ↩︎

  10. Id., Studi sull’esistenzialismo, cit., p. 67. ↩︎

  11. Ci sembra significativa, su questo aspetto, l’osservazione di uno dei più noti studiosi del pensiero di Pareyson: «Nella prima fase, quella di un esistenzialismo personalistico […], il problema di Pareyson era quello dell’effettiva assunzione dell’esigenza esistenzialistica, dell’esistenzialismo secondo la sua origine kierkegaardiana, secondo la concezione di Kierkegaard dell’esistenza come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione. L’idea di Kierkegaard è che io riesco a relazionarmi a me, a comprendere me, solamente in quanto mi relaziono ad altro — e in particolare all’assolutamente Altro che è la trascendenza. In Kierkegaard le due cose coincidono paradossalmente: temporalità ed eternità coincidono nel paradosso che è la singola esistenza, «questo singolo»» (F. TOMATIS, Esistenzialismo, ermeneutica, ontologia della libertà in Pareyson, in A. DI CHIARA (ed.), Luigi Pareyson filosofo della libertà, La Città del Sole, Napoli 1996, pp. 123-134, qui p. 124). ↩︎

  12. F. Tomatis, Ontologia del male. L’ermeneutica di Pareyson, Città Nuova, Roma 1995, p. 23. ↩︎

  13. Kierkegaard, La malattia mortale, in ID., Opere, tr. it. di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, pp. 619-692, qui pp. 625-626. ↩︎

  14. Pareyson, Karl Jaspers, Marietti, Genova 19972. ↩︎

  15. Ib., p. 7. ↩︎

  16. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, cit., p. 66. ↩︎

  17. Ib., p. 67. ↩︎

  18. Sull’interpretazione kierkegaardiana di Barth e su come fu accolta da Pareyson, Tomatis osserva: «Nella Kierkegaard-Reinassance primonovecentesca le possibilità tenute insieme dalla vivacità e complessità del pensiero kierkegaardiano vengono radicalizzate. Pareyson sottolinea l’importanza di Barth e della sua teologia dialettica come trait d’union tra Kierkegaard e l’esistenzialismo tedesco. Tanto da vedere in Barth un’assunzione teocentrica dell’implicanza kierkegaardiana di negativo e positivo, controcanto della quale sarebbe l’umanismo della lettura di Heidegger della coincidenza tra autorelazione ed eterorelazione» (F. Tomatis, Ontologia del male, cit., p. 26). ↩︎

  19. Id., Esistenza e persona, cit., pp. 240-241. ↩︎

  20. Si tratta di una conferenza tenuta da Pareyson presso la Sezione torinese dell’Istituto di Studi filosofici, il 25 giugno 1943. Dapprima pubblicato, senza titolo, in «Archivio di Filosofia», fasc. III-IV, 1943, alle pp- 360-367, in seguito, con il titolo Tempo ed eternità, nelle diverse edizioni di Esistenza e persona. Le nostre citazioni si riferiranno all’ultima edizione di Esistenza e persona, Il melangolo, Genova 20024. ↩︎

  21. R. Longo, Esistere e interpretare, cit., p. 76 ↩︎

  22. Cfr., ivi, n. 97. ↩︎

  23. Pareyson, Tempo ed eternità, in Id., Esistenza e persona, cit., p. 151-152. ↩︎

  24. Ib., p. 153. ↩︎

  25. Ib., p. 158. ↩︎

  26. Ivi. ↩︎

  27. Ivi. ↩︎

  28. R. Longo, Esistere e interpretare, cit., p. 77. ↩︎

  29. Pareyson, Tempo ed eternità, cit., pp. 158-159. ↩︎

  30. Ib., p. 160. ↩︎

  31. Ib., p. 161. ↩︎

  32. Ib., p. 159. ↩︎

  33. R. Longo, Esistere e interpretare, cit., p. 77. ↩︎

  34. F. P. Ciglia, Ermeneutica e libertà, cit., p. 72. ↩︎

  35. R. Longo, Esistere e interpretare, cit., p. 78. ↩︎

  36. Ivi. ↩︎

  37. Pareyson, Tempo ed eternità, in Esistenza e persona, cit., p. 16. ↩︎

  38. Cfr. Id., L’etica di Kierkegaard nella prima fase del suo pensiero, Giappichelli, Torino 1965 e ID., L’etica di Kierkegaard nella «Postilla», Giappichelli, Torino 1971, ora raccolti in ID., Kiekrgegaard e Pascal, Mursia, Milano 1998. ↩︎

  39. In quegli anni anche K. Löwith, nel suo importantissimo studio dal titolo Von Hegel zu Nietzsche. Der revolutionäre Bruch im Denken des neunzehnten Jahrhunderts, Europa Verlag, Zürich 1941 (tr. it. Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivolizionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi, Torino 1949), formulava la propria lettura del pensiero contemporaneo come dissoluzione del pensiero hegeliano. ↩︎

  40. Pareyson, Attualità dell’esistenzialismo, in ID., Esistenza e persona, cit., pp. 75-76. ↩︎

  41. Id., La dissoluzione dell’hegelismo e l’esistenzialismo, in ID., Studi sull’esistenzialismo, cit., p. 51. ↩︎

  42. Id., Due possiblità: Kierkegaard e Feuerbach, in ID., Esistenza e persona, cit., pp. 39-73, qui p. 41. ↩︎

  43. S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia», in ID., Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, pp. 424-425. ↩︎

  44. Pareyson, Due possiblità: Kierkegaard e Feuerbach, cit., p. 43. ↩︎

  45. Ib., p. 45. ↩︎

  46. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, cit., p. 452-453. ↩︎

  47. Ib., p. 318. ↩︎

  48. Pareyson, Kierlegaard e Feurebach: due possibilità, cit., p. 48. ↩︎

  49. Ib., p. 50. ↩︎

  50. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, cit., p. 433-434. ↩︎

  51. Ivi. ↩︎

  52. Come spiega Kierkegaard in un passaggio decisivo: «Nel linguaggio dell’astrazione non viene in fondo mai fuori ciò che costituisce l’esistenza e la difficoltà dell’esistenza, tanto meno se ne spiega la difficoltà. Proprio perché il pensiero astratto e sub specie aeterni, esso prescinde dal concreto, dal temporale, dal mondo dell’esistenza, dal disagio dell’esistente di essere composto di tempo ed eternità nella situazione dell’esistenza. […]. Porre in astratto il problema della realtà (se pure è esatto porre in astratto il problema, giacché mi sembra che il particolare e il casuale siano qualcosa che appartiene al reale e siano opposti all’astrazione) e rispondere astrattamente a questo problema, è molto meno difficile del chiedersi e rispondere cosa significa che una certa determinata cosa è una realtà. Infatti il pensiero astratto prescinde da questa cosa determinata, ma la difficoltà consiste precisamente nel comporre, nell’atto del pensare, questa cosa determinata con l’idealità del pensiero. […]. L’equivoco dell’astrazione si mostra precisamente in tutte le questioni che riguardano l’esistenza, dove l’astrazione scansa le difficoltà trascurandole, per poi vantarsi di spiegare tutto. Essa spiega l’immortalità in generale ed ecco, la cosa va a gonfie vele, in quanto l’immortalità diventa identica con l’eternità, con quell’eternità ch’è essenzialmente il medio del pensiero. ma se un singolo esistente sia immortale, ch’è ciò in cui precisamente risiede la difficoltà, di questo l’astrazione non si preoccupa» (ib., pp. 423-424). ↩︎

  53. Ib., pp. 427-248. ↩︎

  54. Ib., p. 54. ↩︎

  55. Ib., p. 56. ↩︎

  56. Ivi. ↩︎

  57. Ib., p. 58. ↩︎

  58. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, cit., pp. 452-453. ↩︎

  59. Ivi. ↩︎

  60. Pareyson, Due possibilità: Kierkegaard e Feurebach, cit., p. 65. ↩︎

  61. Non va dimenticato, in ogni caso, che a proposito del capovolgimento della conciliazione hegeliana di finito e infinito, Pareyson afferma che il finito secondo Kierkegaard è lo stesso finito di Hegel, ma posto davanti all’infinito. ↩︎

  62. S. Givone, Premessa a Pareyson, Kierkegaard e Pascal, Mursia, Milano 1998, p. 10. ↩︎

  63. F. Russo, Esistenza e libertà, cit., p. 65. ↩︎

  64. Pareyson, Rettifiche sull’esistenzialismo, cit., p. 241. ↩︎