Lo specialismo dei filosofi e il futuro della filosofia. Diego Marconi e il mestiere del pensare

1. Marconi e la metafilosofia

La questione della natura della filosofia ha caratterizzato, sin dalle sue prime fasi, la riflessione di Diego Marconi. Accanto alla produzione più settoriale e specializzata, incentrata su temi legati al funzionamento del linguaggio o dei processi cognitivi, è fiorito e si è alimentato nel corso degli anni un percorso di ricerca di chiara matrice metafilosofica. Marconi, filosofo pleno iure analitico, dedito all’analisi e alla soluzione di questioni ben delimitate e circoscritte (la forma logica, il significato delle parole e degli enunciati, la competenza lessicale, la natura dei concetti, la teoria della verità), ha sempre riservato uno spazio non trascurabile ai problemi inerenti al senso e alla finalità della pratica filosofica.1 Senza voler risalire troppo all’indietro nel tempo – si potrebbero chiamare in causa gli scritti degli anni ottanta sull’eredità di Wittgenstein o l’introduzione a Philosophy and The Mirror of Nature di Rorty scritta a quattro mani con Gianni Vattimo o persino l’ambizioso progetto di ricerca sulla dialettica hegeliana2 – si può considerare come esplicito punto d’avvio di un discorso sulla filosofia l’articolo Quine and Wittgenstein on the Science/Philosophy Divide.3 Questo testo – coevo alla disputa fra analitici e continentali della quale, giova ricordarlo, Marconi fu uno dei principali animatori – rappresenta una presa di posizione critica verso il lavoro di Peter Hacker su Wittgenstein che segnò profondamente, nella metà degli anni novanta, la Wirkungsgeschichte wittgensteiniana.4 Marconi cerca di sfumare la netta contrapposizione fra Quine e Wittgenstein sul rapporto fra scienza e filosofia, centrale invece nell’impostazione di Hacker. Quine, com’è noto, è stato un fautore della tesi della continuità fra scienza e filosofia, mentre Wittgenstein – già nel Tractatus, e sempre più decisamente nei testi successivi, fino alle Philosophische Untersuchungen – ha sempre ritenuto che la filosofia fosse più un lavoro di chiarificazione (o dissoluzione) sui concetti e sul linguaggio che un’attività di ricerca empirica e/o sperimentale. Pur non obiettando direttamente su questo punto Marconi tuttavia tenta a) di sollevare dubbi sulla cogenza degli argomenti di Wittgenstein contro la tesi della continuità e, nel contempo, b) di far vedere come, negli scritti dell’ultima fase, il filosofo austriaco sembrasse riconoscere uno spazio sempre più ampio ai risultati della ricerca scientifica nel contesto dell’attività filosofica. La questione è solo in apparenza una disputa di natura esegetica, essendovi in gioco qualcosa di più sostanziale, vale a dire la natura stessa dell’impresa filosofica: se ha ragione Hacker, allora davvero la filosofia analitica ha rimosso Wittgenstein e, ponendosi sulla scia di Quine, si è definitivamente collocata nel campo della scienza.

Il problema del rapporto scienza-filosofia è ripreso e affrontato in modo diretto nel testo, di pochi anni successivo, Filosofia e scienza cognitiva.5 Marconi cerca mettere in luce come si sia registrata nel corso degli anni una proficua interazione fra i due ambiti, con la filosofia che sostanzialmente apre il campo di ricerca della scienza cognitiva (decisivo l’articolo di Putnam su menti e macchine degli anni sessanta) e con la scienza cognitiva che dal canto suo offre nuova materia di riflessione alla filosofia (la funzione delle immagini mentali, la natura del ragionamento logico, il rapporto percezione-teoria). Inoltre, non di poco rilievo è il fatto che questo proficuo interscambio ha portato, fra le altre cose, a una riabilitazione del concetto di natura umana, che invece il dibattito filosofico degli anni settanta sembrava aver definitivamente messo fuori gioco (si pensi a Foucault o al post-moderno in genere). Ma è con l’articolo Consolazioni per lo specialista (risalente al settembre 2003) che Marconi generalizza il problema metafilosofico, mettendo in campo per la prima volta l’idea, che diverrà in seguito un tratto costante del suo discorso, della divaricazione sempre più netta fra una filosofia specialistico-professionale – efficace ma sostanzialmente chiusa in se stessa – e una mediatizzata ma non professionale, presente nel dibattito culturale generalista ma del tutto irrilevante dal punto di vista teorico.6 Con il volume Per la verità, apparso a distanza di quattro anni, viene messo in opera una sorta di test applicativo diretto proprio di questo assunto, al fine di porre in evidenza l’utilità sociale che la filosofia analitica potrebbe (e dovrebbe) avere nel contesto delle discussioni pubbliche a fronte dell’irrilevanza delle filosofie «comunicative», presenti nel dibattito ma incapaci di portare anche minimi elementi di chiarificazione (il banco di prova sono i concetti di verità e relativismo).7 A distanza di pochi anni – a cavallo fra il 2011 e il 2012 – Marconi ritorna sul tema con altri due importanti testi che sviluppano assunzioni implicite nei lavori precedenti: Analytic Philosophy and Intrinsic Historicism, dove viene discusso il lavoro di Hans-Johann Glock sull’identità della filosofia analitica (andrà poi quasi interamente a costituire il cap. 2 de Il mestiere di pensare);8 e Tre immagini della filosofia, in cui vengono ampiamente analizzate e discusse le concezioni metafilosofiche di Roberto Casati, Timothy Williamson e Penelope Maddy (rispettivamente: la filosofia come negoziazione concettuale, secondo Casati; come ricerca di genuina conoscenza in alcuni specifici domini come la metafisica e l’epistemologia, secondo Williamson; come scienza peculiare che si applica a questioni indefinite da un punto di vista disciplinare, secondo Maddy).9 Altre note e contributi di minor rilievo completano il quadro.10

Il mestiere di pensare (d’ora in poi: MDP), l’ultimo di questa lunga serie di riflessioni che coprono all’incirca l’arco di un ventennio, si presenta come un punto di raccordo e di chiusura delle linee precedentemente tracciate, quasi un luogo di addensamento e agglutinazione di tutti quei cluster concettuali che si sono sviluppati nel corso degli anni in seno al complesso itinerario del pensiero marconiano.11 Per tali ragioni la posizione metafilosofica di Marconi verrà esaminata nelle pagine che seguono ponendo al centro, come focus discussivo principale, l’argomentazione svolta in (MDP), e contemporaneamente chiamando in causa, laddove si renderà necessario, gli scritti precedenti.

2. Professione: filosofo

Di cosa si occupano oggi i filosofi? In prima battuta, è a questa domanda che cerca di dare una risposta (MDP). Lo scenario presentato da Marconi prevede da una parte una filosofia professionale specializzata ma distante dalla società e dall’altra una filosofia mediatizzata che risulta essere, al contrario, più in connessione diretta con le istanze sociali maggiormente diffuse. Questa impostazione, che si afferma, come si è già osservato, in Consolazioni per lo specialista, viene ora ripresa e sviluppata in modo sistematico.12 Una considerazione va fatta, in via preliminare. È ben riconoscibile nel discorso di Marconi la tendenza a sovrapporre la coppia professionale/non professionale con quella analitico/mediatico. Considerando poi che i filosofi mediatici sono in genere pensatori di formazione continentale, allora il corollario che ne deriva è che «professionale» funziona come termine coestensivo di filosofo analitico mentre «non professionale» di filosofo continentale. È una posizione che affiora negli scritti precedenti e che viene riproposta, nonostante le critiche ricevute, anche in (MDP).13 Non mancano di certo precisazioni e attenuazioni che sembrano talvolta far sfumare questa netta caratterizzazione dicotomica. Ma, bisogna pur dire, il tono complessivo del discorso svolto in (MDP) continua a reggersi su questo assunto che, come si cercherà di mostrare in seguito, rappresenta il tratto forse più caratterizzante della prospettiva metafilosofica marconiana.14 In ogni caso Marconi sembra concedere veramente poco dato che, dopo tutto, i testi continentali che soddisfano standard minimi di professionalità costituiscono, a suo dire, un’entità quasi del tutto trascurabile.15

Marconi prospetta un universo filosofico diviso in due sub-universi. Ad abitare il primo i filosofi professionali i quali sono, nella sua accezione, principalmente i filosofi analitici. Si tratta di una comunità di studiosi la cui organizzazione ricalca chiaramente quella dei ricercatori scientifici. Ci sono diverse aree disciplinari e sub-disciplinari, i convegni, i meeting, le riviste, le peer-review etc. Il lavoro, così come in ambito scientifico, si basa sulle acquisizioni più recenti (non vengono discussi di norma articoli vecchi più di dieci anni), e verte su singoli temi, mentre vige un atteggiamento generalmente svalutativo verso la storia della filosofia. In questo sub-universo, dentro il quale Marconi stesso si colloca, la filosofia appare una disciplina cumulativa, come lo sono la fisica, la biologia o la matematica. Vi sono problemi, ricerche, ipotesi di soluzioni, soluzioni dimostrate; e poi nuovi problemi, nuove ipotesi di soluzione e ancora nuove soluzioni dimostrate dei problemi posti. E così via, in un percorso potenzialmente infinito. La filosofia, come ogni altra scienza, fa progressi. Del tutto diverso il secondo sub-universo. Questo spazio è popolato da filosofi che, lasciatisi alle spalle il lavoro professionale, o pur continuandolo in modo più o meno costante, svolgono principalmente l’attività di opinionisti «prestati» al sistema dei media. Nella prospettiva presentata da Marconi, sembra quasi che i filosofi davvero competenti restino ai margini, quando invece potrebbero offrire soluzioni reali ad alcuni problemi presenti nella società. Il campo viene invece occupato da filosofi che in realtà sono (diventati) intellettuali generalisti che formulano opinioni sugli argomenti più disparati. Trasformandosi a poco a poco in personaggi dello star system, vengono perciò sempre di più interpellati dai media grazie ai quali ottengono un diffuso riconoscimento sociale. Riconoscimento ed eventuale consenso sono due punti cruciali, perché è da essi che in fondo deriva la legittimazione pubblica della filosofia, e da questa di conseguenza derivano i finanziamenti pubblici da parte dello Stato. Quello che Marconi vede come un pericolo da scongiurare è il fatto che la filosofia non professionale mediatizzata finisca a lungo andare per danneggiare l’immagine pubblica della filosofia tout court, generando una sensazione di vacuità e inutilità che potrebbe a sua volta indurre qualcuno – esponenti politici, ricercatori di altri campi disciplinari, organizzazioni professionali o semplici cittadini – a sollevare la questione del perché uno Stato dovrebbe finanziare istituzioni che invece di portare avanti seri programmi di ricerca si limitano a produrre, nella migliore delle ipotesi, sagaci opinionisti televisivi. Ma vediamo più da vicino l’affresco proposto da Marconi.

3. Filosofi specialisti. Alcune virtù, e qualche inconveniente

Tramontata l’epoca – approssimativamente, la prima metà del Novecento – in cui esisteva ancora la figura del Grande Filosofo, impegnato nel compito di sintetizzare la totalità del sapere e di delineare una complessiva visione del mondo e della storia (si pensi a figure come Hegel, Marx, Heidegger o Sartre), la condizione del filosofo appare oggi quella, inevitabile, della specializzazione. Analogamente a quanto accade negli altri ambiti disciplinari, la produzione di testi filosofici ha conosciuto una crescita esponenziale. Il numero di contributi pubblicati ogni anno raggiunge cifre talmente elevate da renderne materialmente impossibile il controllo da parte di un singolo studioso. Ciò accade perché a essere aumentato è il numero dei filosofi, di coloro i quali professionalmente scrivono e pubblicano testi di carattere filosofico. Nel 1880 in Italia si contavano poco più di un centinaio di filosofi a fronte degli attuali mille tra docenti e ricercatori universitari, cui sono da aggiungere i ricercatori del CNR, i titolari di assegni di ricerca, i dottori di ricerca. Complessivamente – questo il calcolo di Marconi – il numero dei filosofi attivi oggi in Italia è trenta volte quello della fine dell’ottocento. In una simile situazione, la via obbligata di un ricercatore è quella che lo conduce ad abbracciare, all’interno del panorama filosofico generale, uno specifico spazio sub-disciplinare e dedicarsi, ancora all’interno di esso, alla soluzione di uno o al massimo due problemi.

Naturalmente, accanto a questo lavoro che Marconi, richiamandosi a Kuhn, definisce «intraparadigmatico», può ben darsi la possibilità di una messa in discussione del paradigma dominante all’interno di un determinato spazio sub-disciplinare. Per fare un esempio, nella filosofia del linguaggio le riflessioni sui nomi propri, sui nomi di sostanza e di specie naturale proposte da Saul Kripke e Hilary Putnam minano alle radici il paradigma fregeano che fino ad allora – gli inizi degli anni settanta – aveva avuto una indiscussa centralità. Anche in questo caso però i confini dello specialismo non vengono oltrepassati: ciò che si determina è l’abbandono di un paradigma (nel caso in specie, la semantica fregeana) e l’apertura di nuovi percorsi (ad esempio, lo sviluppo dell’ontologia dei mondi possibili grazie all’apporto fornito dalla teoria di Kripke) i quali sono, ovviamente, altrettanto specialistici. Questa situazione organizzativa del sapere filosofico ha prodotto, a dire di Marconi, due effetti: il primo positivo, il secondo invece problematico. La crescente specializzazione ha determinato uno significativo incremento sia di mezzi (si pensi alla centralità della logica formale nelle questioni metafisiche) che di risultati, filosofici e/o extrafilosofici (un esempio potrebbe essere il funzionalismo e la nascita della scienza cognitiva). Il dibattito nella seconda metà del XX secolo è stato ricco di soluzioni stimolanti quando non di vere e proprie innovazioni teoriche.16 La ricchezza tematica e argomentativa, la crescente specializzazione hanno però avuto un inconveniente: la mancanza di comunicatività del pensiero filosofico e, di conseguenza, la recisione dei suoi legami con il senso comune. La filosofia, così come la fisica delle particelle o la biologia molecolare, è diventata un sapere quasi-esoterico che sempre di più tende a scomparire dall’orizzonte della everyday life. Non solo: tende sempre più a scomparire anche dall’orizzonte delle persone colte, di tutti coloro che, pur esperti in un settore disciplinare, o comunque dotati di una cultura generale di livello medio-alto, sono comunque impossibilitati ad accedervi perché privi di una specifica formazione filosofica. Un medico, un biologo, un ingegnere ma anche uno storico, un filologo classico o un critico letterario così come un semplice laureato in una qualsiasi disciplina si troverebbero certamente disarmati nell’affrontare alcuni classici della filosofia analitica. Per fare solo qualche esempio, testi come Meaning and Necessity di Carnap, Science and Metaphysics di Sellars, o anche Truth and Interpretation di Davidson metterebbero a dura prova qualunque tipo di lettore non specificamente attrezzato.

Questo fatto, però, potrebbe costituire un problema. La filosofia in fondo ha sempre mostrato un carattere generalista, fin dalle sue origini. I filosofi affrontavano questioni di immediata rilevanza esistenziale, e i loro discorsi erano svolti in modo tale da poter essere facilmente compresi da tutti. l’immagine di Socrate che discute con mercanti e ciabattini, mescolandosi alla folla, è più che emblematica per raffigurare la condizione e il ruolo del filosofo del passato. La filosofia è oggi diventata qualcosa di molto diverso: un sapere tecnico come tanti altri, perciò rivolto necessariamente a pochi. Quella che possiamo definire la sua vocazione tradizionale sembra così essere definitivamente perduta. Purtuttavia, lo specialismo, che si ritiene un dato ormai quasi naturale, la condizione permanente del sapere contemporaneo in ogni sua forma, continua ad apparire non accettabile nel caso della filosofia. l’espressione «filosofo specialista», nonostante tutto, non riesce ad essere del tutto esente da perplessità. Si tratta di vedere, allora, se c’è qualcosa che realmente non va o è solo questa, come direbbe Wittgenstein, una cattiva immagine che ci tiene prigionieri, e dalla quale dovremmo essere in grado di prendere le distanze. Marconi è un deciso fautore dello specialismo anche se, al tempo stesso, sembra orientato a riconoscere la serietà delle obiezioni «generaliste» (perlomeno di alcune). In Consolazioni per lo specialista veniva messo a fuoco questo problema, e sommariamente venivano elencati i motivi principali di insoddisfazione verso la parcellizzazione della filosofia in campi disciplinari e sub-disciplinari. Si osservava che: i) la filosofia è problematizzazione radicale che non dà nulla per scontato, né il metodo di lavoro né l’oggetto della ricerca; ii) i problemi filosofici non sono isolabili; iii) la filosofia è connessa con la saggezza; iv) la filosofia deve rispondere a domande che arrivano dalla società (ad esempio il problema del dialogo interculturale o le questioni bioetiche). Tuttavia l’analisi e la discussione di questi motivi veniva rimandata ad altra occasione.17 In (MDP) lo schema si ripete: le obiezioni allo specialismo vengono riproposte negli stessi termini ma, anche qui, non ne vengono discusse a fondo le implicazioni.18 Con l’unica eccezione di iv): sia in (MDP), come anche, e soprattutto, in Per la verità, Marconi cercherà di far vedere come e perché i filosofi analitici sono in grado di offrire talvolta risposte più efficaci dei loro colleghi continentali ai problemi che arrivano dalla società.

4. Dalle aule «sorde e grigie» ai riflettori della tv. La filosofia extra moenia

La filosofia professionale, come si è visto, non esaurisce l’intero scenario. Marconi individua un secondo tipo di offerta filosofica presente sul campo, la «filosofia mediatica». l’espressione non viene precisata in termini rigorosi ma grosso modo con essa viene designato l’insieme di quei pensatori che più o meno abitualmente, espletano la loro attività mediante l’uso dei mezzi di comunicazione di massa. Naturalmente, anche i filosofi mediatici sono filosofi professionali, perlomeno nel senso che si tratta per lo più di studiosi incardinati nel sistema universitario. Anche loro sono, in un certo senso degli «specialisti»: lavorare molti anni sul pensiero di Hegel, Kant o Husserl significa praticare comunque una certa forma di specialismo. A differenza però dei loro colleghi analitici sembrano avere una maggior propensione per la generalità: si occupano di questioni di attualità politica e culturale e partecipano al dibattito pubblico avvalendosi dei mezzi di comunicazione di massa. Ciò, inevitabilmente, conferisce loro popolarità. È indubbio infatti che scrivere su giornali ad ampia diffusione, frequentare talk show e altre trasmissioni televisive rende uno studioso noto ad un pubblico più vasto rispetto a chi invece opta in modo esclusivo per la scelta professionale-universitaria: in Italia un quotidiano a diffusione nazionale può avere diverse centinaia di migliaia di lettori, a fronte delle centinaia di una rivista specializzata; per non dire di un programma televisivo che, quand’anche di successo non eclatante, può comunque contare su qualche milione di spettatori. La presenza costante nei media, soprattutto in tv, permette ad un filosofo di essere identificato e facilmente riconosciuto dal pubblico. Inoltre, dato che i media hanno una necessità strutturale di enfatizzare ed etichettare i loro «prodotti», in un breve lasso di tempo, nota giustamente Marconi, un semplice, comune filosofo non può che diventare un «grande filosofo contemporaneo» (senza che ciò ovviamente implichi che lo sia davvero).

Ma non è tutto. Il fenomeno del filosofo mediatico – caso particolare di quello, più generale, dell’intellettuale mediatico – ha dato luogo in Italia negli ultimi decenni a una tendenza ormai ben consolidata, l’organizzazione di una categoria speciale di eventi, i festival di filosofia. Se ne contano più d’uno in tutta Italia, e il loro successo (si parla di decine di migliaia di presenze) non sembra diminuire.19 Migliaia di persone vi accorrono, interessati ai temi proposti ma anche, forse soprattutto, attratti dalla fama dei pensatori presenti; fama che, a sua volta, viene ancora di più accresciuta dall’evento in questione. I filosofi mediatici non soffrono il problema della comunicatività che affligge i loro colleghi specialisti analitici. La presenza nei mezzi di informazione garantisce loro la disponibilità di una platea niente affatto esigua cui presentare e comunicare le loro idee. Tuttavia, anche la loro attività presenta degli inconvenienti. Intanto, il fatto di occuparsi spesso di temi non propriamente filosofici rischia di portare un pensatore, forse non troppo paradossalmente, lontano proprio dalla filosofia, trasformandolo in opinionista a tempo pieno. Filosofi rispettabili finiscono così per lasciar sempre più ai margini il loro specifico lavoro professionale. Inoltre, proprio perché chiamati a pronunciarsi sulle questioni più disparate, anche come opinionisti «tuttologi» mostrano le loro debolezze. Marconi, convinto sostenitore del principio di competenza,20 considera questa una china pericolosa: Vattimo, Cacciari o Severino che esprimono pareri sulla politica estera italiana o su uno specifico progetto di riforma costituzionale non avrebbero, a suo dire, un’autorevolezza maggiore di un qualsiasi altro semplice cittadino informato sull’argomento. Dunque, per riassumere: mentre i primi, i filosofi specialisti, fanno un buon lavoro, producono ricerche di qualità ma hanno il limite di restare troppo chiusi dentro i loro spazi professionali, privando la società dei risultati, spesso decisivi, che conseguono, i secondi stanno nella piazza, si mescolano alla gente ma, in quanto filosofi, non hanno più nulla da dire. Parlano, discutono, scrivono. Ma, se non è puro flatus vocis, poco ci manca.

5. Due sensi (almeno) di «mediatico»

Nonostante la filosofia mediatica sia il principale polo negativo del discorso svolto in (MDP), bisogna pur dire che la caratterizzazione che ne viene offerta, rispetto alle altre tipologie di attività filosofica trattate, è piuttosto scarna. Un intero capitolo viene dedicato all’identità della filosofia analitica, un altro alla storia della filosofia e a ciò che da essa in sede teorica si può ricavare, diverse sezioni a discutere di filosofia continentale e/o tradizionalista, un lungo paragrafo alla genealogia e solo poche pagine invece per descrivere il fenomeno che rappresenta, fin dalla prima di copertina, la pars destruens del libro. Ciò di per sé non vuol dir nulla: è possibile talvolta con pochi tratti cogliere l’essenza di un fenomeno meglio di quanto non lo si possa fare diffondendosi lungamente per decine e decine di pagine. A generare tuttavia una concreta sensazione di insoddisfazione, al di là della (forse) eccessiva brevità dello spazio utilizzato, è invece proprio la consistenza del ritratto che viene offerto al lettore. Nella rappresentazione di Marconi i filosofi mediatici sono identificabili come quei pensatori che sono accomunati da tre caratteristiche fondamentali, e cioè dal fatto di a) frequentare con una certa assiduità i talk show televisivi, b) scrivere articoli o curare rubriche su giornali e/o su settimanali, c) tenere conferenze nei festival di filosofia. Le tre caratteristiche sono viste come coesistenti: la presenza in tv implica presenza sui giornali (o viceversa) e, di conseguenza, la presenza nei festival ai quali si viene invitati perché già noti ad un pubblico vasto. Come si è già ricordato, il problema principale di questa forma peculiare di attività culturale è che i tempi stretti della televisione o gli spazi angusti della rubrica di un settimanale, impediscono di svolgere compiutamente un ragionamento anche abbastanza elementare. Inoltre, per un meccanismo intrinseco al funzionamento dei mezzi di comunicazione, chiamare il filosofo X ad esprimere un’opinione sulla riforma fiscale di Trump o sulla guerra in Yemen o sulla situazione siriana è un’operazione non molto sensata. Un filosofo, per quanto brillante, può trovarsi molto facilmente nella situazione di sapere assai poco (per non dire nulla) degli argomenti su cui viene chiamato a pronunciarsi. Naturalmente grazie alla sua abilità dialettica, e a una certa esperienza, può riuscire comunque a imbastire velocemente un’opinione per offrirla al pubblico. Ma si tratta, come si è già osservato, di un’opinione non qualificata: un cittadino qualunque ben informato sull’argomento potrebbe dire più o meno le stesse cose.

Questa caratterizzazione però, a prima vista plausibile, non è priva di difetti. C’è, innanzitutto, un problema di accuratezza descrittiva. Marconi, mettendo a) b) e c) sullo stesso piano e facendone così dei fenomeni ai fini del suo discorso di fatto intercambiabili, mostra di non tenere nel debito conto alcune importanti differenze. A partire da McLuhan in poi è noto il fatto che ogni mezzo di comunicazione di massa possieda le sue specifiche «leggi», una sua propria forma enunciativa e una sua specifica sintassi che attengono tanto ai modi della produzione quanto a quelli della fruizione.21 Marconi trascura questo semplice assunto, e pertanto con l’espressione «filosofo mediatico» si riferisce indistintamente, ed equivalentemente, a: il filosofo che va in tv, il filosofo che scrive sui giornali e (come conseguenza) il filosofo che va ai festival di filosofia. Si dovrebbe tener conto, tuttavia, del fatto che la parola «mediatico», usata genericamente per indicare tutto ciò che afferisce al sistema dei media, a un livello più tecnico (la teoria della comunicazione) designa fenomeni diversi. Abbiamo infatti (almeno) due sensi, che possiamo indicare con mediatico1, laddove la parola viene usata per riferirsi a tutto ciò che riguarda la tv e le sue produzioni e mediatico2, quando serve per indicare la comunicazione sulla carta stampata o, più in generale, la forma scritta – cui sarebbero da aggiungere mediatico3, in riferimento alla comunicazione radiofonica e mediatico4 per le forme di crossmedialità rese possibili dalla rete internet e dai dispositivi elettronici.22 Ognuna di queste modalità comunicative possiede la propria peculiarità espressiva. Per limitarci solo ai primi due sensi (quelli implicati dal discorso di Marconi), va rilevato che i codici che regolano la comunicazione televisiva sono profondamente diversi da quelli che vigono nella comunicazione scritta. Mentre la «grammatica» di un talk prevede, all’interno di una cornice di antagonismo emotivo, variazioni continue, frequenti interruzioni delle catene discorsive, inclusione di elementi di intrattenimento, un articolo di giornale risponde a norme ed esigenze diverse: seppur soggetto anch’esso a limitazioni di spazio, permette comunque di articolare una tesi, di svolgerla in modo completo nel suo sviluppo logico essenziale, senza sacrificare il nucleo principale dell’argomentazione che la sorregge. La differenza è che nella comunicazione scritta il processo semiotico è incentrato sulla parola, in quella audiovisiva il primato è riservato all’immagine, cha possiede la sua specifica sintassi (composizione, inquadratura, angolazione)23 e le sue specifiche peculiarità cognitive.24 Quando Marconi parla indistintamente del formato della comunicazione «dell’articolo di giornale, della rubrichetta o dell’intervento televisivo di 45 secondi»,25 opera una fuorviante sovrapposizione fra mediatico1 a mediatico2. Cosa che poi, inevitabilmente, lo conduce a ritenere vero il corollario conseguente, che cioè giornali, tv e festival funzionino quasi come dei vasi comunicanti, per cui chi scrive sui giornali è anche presente in tv e nei festival di filosofia. Non sempre le cose stanno così. Vi sono filosofi che mantengono una presenza principalmente nella carta stampata (ad esempio d’Agostini, Esposito, Bodei, lo stesso Marconi), altri che associano ad essa di tanto in tanto qualche presenza televisiva (Vattimo, Severino, Galimberti, Natoli, Giorello) e altri ancora presenti di solito ai festival ma quasi completamente assenti dai media (Sini, Gregory).

A dire il vero, limitandoci alla situazione italiana (che è quella su cui verte il discorso di Marconi), con l’eccezione di Massimo Cacciari, la cui presenza mediatica è legata al suo status specifico di commentatore politico, la situazione non sembra essere quella rappresentata in (MDP), cioè di un’invasione di massa di filosofi nella televisione o nei media in genere. Se si aggiunge poi che la presenza ai festival di filosofia non è a rigore caratterizzabile come un evento mediatico – semmai si tratta di evento mediatizzabile, cioè soggetto all’interesse dei media – si può comprendere come la categoria della «filosofia mediatica», nel modo in cui viene costruita da Marconi, appaia debole sia sotto il profilo intensionale che estensionale. Parlare di «clamore dei festival tuttologici e dei talk show»26 è privo di senso – si associano due fenomeni di natura diversa – oltre ad essere inesatto –non è vero che i filosofi dominano i talk così come non è vero che i festival sono «tuttologici»: vi sono temi specifici, definiti di anno in anno trattati da specialisti di diversi ambiti disciplinari (ad esempio teologi, fisici, architetti, psicanalisti). Se proprio non è dunque, quello del filosofo mediatico, uno straw man argument, poco vi manca. Un’ultima notazione. Sembra a priva vista ragionevole l’idea di Marconi che un filosofo, sia pur bravo, non possa dire su un argomento su cui non ha una specifica competenza (es. i dazi commerciali di Trump) molto di più di un semplice cittadino informato sui fatti. Ciò è in parte vero: l’analisi delle questioni pubbliche richiede sempre più competenze tecniche specifiche, i problemi sono spesso la risultante di una molteplicità di fattori (economici, giuridici, costituzionali). Ma è solo una parte della verità, questa. l’altra parte, non presa in considerazione da Marconi, riguarda il fatto che lo status di un filosofo, la sua specifica formazione intellettuale, interferisce inevitabilmente nel processo interpretativo di un fenomeno sociale o politico, per cui l’opinione del filosofo, seppur non tecnicamente connotata, avrà pur sempre caratteristiche diverse da quella di qualsiasi altro individuo genericamente colto ma non filosoficamente attrezzato. Paradossalmente poi, proprio la «non competenza» del filosofo, la sua collocazione, per così dire, trans-paradigmatica potrebbe rappresentare un guadagno positivo, portando all’apertura di punti di vista inusuali e deangolanti sul mondo e sulle cose, un po» sul modello di quella fuga nei lógoi che Platone riconosceva essere il tratto peculiare del filosofare socratico.

6. Utilità della filosofia analitica

Una cosa va detta: la scarsa propensione alla retorica e all’uso delle immagini rende i filosofi analitici poco congruenti con le esigenze del sistema mediatico che, com’è noto, privilegia le frasi brevi e ad effetto o al limite l’escandescenza verbale. Mal si adattano perciò alla velocità richiesta dai mezzi di comunicazione le distinzioni sottili, il linguaggio tecnico, le catene argomentative. Probabilmente ciò ha a che fare in parte con il cursus studiorum che prevede, per i filosofi analitici, una certa dose di logica e di matematica, o comunque una buona familiarità con almeno una disciplina scientifica (ad. es. la fisica, la psicologia o la biologia), oltre naturalmente ai classici della tradizione (Frege, Russell, Carnap, Quine, Kripke ecc.) che di solito non brillano per vivacità di scrittura (unica eccezione, forse, Wittgenstein). Per i filosofi continentali i percorsi formativi prevedono invece più storia, arte e letteratura, humanities in genere, e meno materie scientifiche: di qui la maggiore scioltezza comunicativa. Un filosofo analitico sembrerebbe destinato ad essere perciò un filosofo antimediatico. Ma non è così. O meglio, non è necessariamente così. Le ricerche condotte dai filosofi analitici hanno una rilevanza pubblica non trascurabile la quale però solo raramente viene percepita. Forse le connessioni con i problemi sociali non sono immediatamente evidenti, ma è indubbio che esse sussistano: i filosofi analitici avrebbero da dire molte cose sui temi che spesso stanno al centro del dibattito culturale, ed è un fatto ingiustificabile perciò che i loro contributi debbano rimanerne fuori. Con un po» di pazienza, potrebbero imparare a rivolgersi ad un pubblico più vasto e, magari sfruttando proprio le potenzialità dei media, arrivare a ridurre lo iato che li separa dalla sfera pubblica.

Bisogna dire, a onor del vero, che Marconi ha buon gioco nel rivendicare tutto ciò. Le questioni di cui si occupano gli analitici in alcuni casi sono solo apparentemente questioni tecniche, prive di riscontri concreti. In realtà, esse hanno implicazioni tutt’altro che banali, che vanno a toccare problemi talvolta centrali nelle discussioni pubbliche. In (MDP) vengono proposti due esempi di discussioni analitiche ricche di implicazioni di non poco rilievo: la critica di Quine alla differenza analitico/sintetico e l’argomento di Wittgenstein contro la possibilità di un linguaggio privato.27 Il credere o il non credere all’esistenza della distinzione tra analitico e sintetico potrebbe sembrare una questione oziosa ma ha invece una serie di importanti conseguenze. Se si sostiene, pace Quine, che essa sussiste, allora ne consegue che possiamo distinguere i) tra informazioni costitutive del significato e informazioni che lo presuppongono senza costituirlo; ii) tra il concetto di gatto e le teorie sui gatti; iii) tra competenza semantica e conoscenza enciclopedica – per essere competenti sulla parola «gatto» bisogna sapere che «i gatti sono animali» (enunciato analitico) ma non che «i gatti dell’Isola di Man hanno la coda mozza» (enunciato sintetico). Viceversa, se si accetta la critica di Quine, non sussistendo più una distinzione tra enunciati analitici ed enunciati sintetici, non sussiste nemmeno quella tra concetti e teorie, per cui, ad esempio nella scienza, cambiamenti teorici conducono a cambiamenti concettuali: la conseguenza che da ciò traggono filosofi come Thomas Kuhn o Paul Feyerabend è quella, nota, dell’incommensurabilità teorica e concettuale fra i diversi paradigmi scientifici. Dunque la questione è tutt’altro che futile. Discorso analogo per l’argomento di Wittgenstein. Se Wittgenstein ha ragione a dire che non può esistere un linguaggio privato, allora la concezione meramente associativa del significato, l’idea «agostiniana» secondo cui a ogni parola corrisponde un ente o un’immagine mentale, perde ogni ragion d’essere. Inoltre, viene a cadere anche uno dei pilastri dell’intera filosofia moderna, l’idea, risalente a Descartes, che ciascuno di noi possieda una conoscenza privilegiata dei contenuti della propria mente. Pertanto, nell’uno come nell’altro caso, abbiamo a che fare con discussioni e argomentazioni la cui rilevanza, filosofica ma anche extrafilosofica, è tutt’altro che trascurabile.

I due esempi proposti potrebbero suscitare un qualche interesse in un generico lettore colto ma la loro connessione con i temi dell’attualità «scottante» potrebbe non apparire del tutto evidente. In Per la verità Marconi aveva messo in atto un’operazione analoga, prendendo ad esempio due temi che dominavano il dibattito pubblico e mostrando, qui forse in maniera più convincente, come l’apporto della filosofia analitica avrebbe potuto fornire un contributo importante per superare alcune impasse che affliggevano quel dibattito. I due argomenti in questione erano la verità e il relativismo. Pescando nel dibattito pubblico italiano del tempo (anno di grazia, 2007) Marconi metteva in luce alcune distorsioni nell’uso del concetto di verità.28 Il pubblico ministero Gherardo Colombo (attualmente fuori dall’ordine giudiziario), in una conversazione radiofonica, aveva sostenuto che il compito del giudice non è quello di stabilire la verità ma «soltanto» di accertare i fatti. Singolare affermazione, che presuppone l’idea che la verità sia qualcosa di diverso – e di più sublime – della semplice, forse banale (noiosa?) operazione di accertamento dei fatti. In realtà «vero», così come insegna Tarski, non significa altro che «corrispondente ai fatti». Dunque, niente di misterioso, niente di soprannaturale. Altro errore ricorrente, la confusione fra verità e giustificazione. Spesso si ritiene che la verità coincida con la giustificazione, dunque se una proposizione non è giustificata non è vera, mentre è vera se è giustificata. Il corollario è che, dato che talvolta una giustificazione definitiva non è conseguibile, allora nemmeno la verità lo è. Marconi mostra che bisogna distinguere almeno tre sensi di «giustificato», e che solo uno di questi sensi implica il concetto di verità (in realtà lo presuppone). Infatti, se giustificato significa semplicemente argomentato oppure plausibilmente argomentato, allora può ben darsi che una proposizione sia giustificata (cioè argomentata, nell’uno o nell’altro modo) ma non vera. Insomma «giustificato» non implica necessariamente vero. A meno che non si intenda nel senso di «corrispondente ai fatti». In tal caso, giustificato equivale a dimostrato vero. Per esempio, possiamo dire che la teoria tolemaica era giustificata (nel senso che vi erano diversi elementi di osservazione che la supportavano) ma non vera, perché nuove procedure di osservazione prima non disponibili (l’uso del cannocchiale) ne svelarono la falsità, dimostrando invece la verità della teoria opposta, l’eliocentrismo. D’altra parte, che la verità sia slegata dal concetto di giustificazione (inteso nei primi due sensi) lo si può vedere dal fatto che vi sono proposizioni probabilmente vere, anche se non ancora dimostrate tali (giustificate, nel terzo senso). Ad esempio, la proposizione «il DC9 che volava sui cieli di Ustica è stato abbattuto da un missile» è molto probabilmente vera, anche se ancora non lo sappiamo con certezza (e forse non lo sapremo mai). Oppure: «nel vaso ci sono 235» fagioli» è vera anche se noi non lo sappiamo (possiamo esserne certi solo dopo aver contato i fagioli). La morale è che ci dev’essere per forza un modo in cui le cose effettivamente stanno, anche se noi al momento non possiamo saperlo: l’incertezza sulla giustificazione non intacca il concetto di verità. Da queste confusioni di base sul concetto di verità discendono poi i principali problemi con il concetto di «relativismo», che invece si potrebbero evitare semplicemente tenendo conto delle discussioni che la filosofia analitica degli ultimi decenni ha sviluppato.29 Il dibattito pubblico dunque dovrebbe tenerne conto.

La situazione dunque appare essere la seguente. C’è un’evidente domanda sociale di filosofia, da una parte; dall’altra, c’è una ricca offerta di discussioni, teorie, argomentazioni soluzioni che la filosofia analitica mette a diposizione. Il problema, che sta al cuore del discorso di Marconi, è che questa domanda e questa offerta si incontrano assai di rado, e questo arreca grave nocumento alla società. Occorre rimediare, e per farlo una sola sembra essere la strada perseguibile: la buona divulgazione. Purtroppo, a parte qualche esempio positivo (il classico di Nagel, il libro di Warburton, e qualche altro), i filosofi analitici sembrano essere poco interessati a diffondere i loro risultati, spesso tecnici e astrusi, al di fuori della cerchia ristretta dei cultori. Il motivo principale di questo rifiuto viene individuato nello scarso valore di riconoscimento accademico che la divulgazione offre, essendo invece assai più remunerativo in termini di carriera impegnarsi nella soluzione di qualche problema ancora aperto. La divulgazione inoltre serve, oltre che alle esigenze della società in genere, anche agli studiosi degli altri settori disciplinari (psicologi, informatici, fisici ecc.) che possono beneficiare per le loro ricerche dei risultati raggiunti in ambito filosofico evitando così di replicarne inutilmente i percorsi (ad esempio gli informatici che «reinventano» la logica modale cui hanno già lavorato i filosofi o i neuropsicologi che riscoprono la distinzione fregeana fra senso e riferimento). Un impegno in tal senso è perciò tutt’altro che trascurabile, se si tiene oltretutto conto del fatto che la buona divulgazione può contribuire in modo significativo alla legittimazione sociale della filosofia analitica. In caso contrario, si reciderebbe davvero il legame con la società, e a qualcuno dopotutto potrebbe venire in mente di chiedere a che serve questo tipo di ricerca e, in fin dei conti, perché uno Stato dovrebbe farsi carico di finanziarla.30

7. Seguire una regola. Il problema degli standard in filosofia

Come si è già avuto modo di rilevare, uno dei punti maggiormente qualificanti del discorso di Marconi prevede l’esistenza di un elevato grado di affinità tra la filosofia continentale e un certo tipo di retorica pubblica incarnata dai media, dotata di forte impatto comunicativo ma priva di reale efficacia. Questa impostazione, che prende corpo per la prima volta in Consolazioni per lo specialista, subisce negli anni successivi uno slittamento ulteriore verso l’idea, riproposta anche in (MDP),31 che un certo tipo di filosofia sia non solo sostanzialmente improduttiva ma talvolta anche accostabile a quel fenomeno che, nella metà degli anni »80, il filosofo Harry Frankfurt aveva qualificato come bullshitting,32 ovverosia la tendenza, indotta dall’espansione e dalla pervasività del circuito mediatico, a mettere in campo opinioni del tutto casuali e approssimative al solo fine di di impressionare un vasto uditorio, senza curarsi né dell’aderenza all’argomento in discussione né del loro valore di verità né degli effetti negativi che da esse possono scaturire.33 Questo investe direttamente il tema della professionalità, laddove però il discorso di Marconi si fa ambiguo e al limite contraddittorio. Da un lato infatti (MDP) sembra riconoscere come legittimamente professionale la filosofia continentale/tradizionalista (è il caso ad esempio dell’ermeneutica)34 e dall’altro però la destituisce di validità perché in fondo non rispettosa di standard definiti di accuratezza35 e sostanzialmente inutile o comunque, nel migliore dei casi, semplicemente integrativa rispetto alla filosofia teorica (così, lo vedremo più avanti, Marconi considera la genealogia). l’esatto contrario della filosofia analitica che invece rispetta gli standard e, probabilmente proprio per questo, fornisce talvolta utili soluzioni ai problemi. Il rispetto degli standard inoltre serve, oltre alla qualità intrinseca del lavoro filosofico, anche a rispettare il principio di non interferenza in campi disciplinari non propri. Il filosofo analitico si troverebbe, così, in una condizione di «igiene intellettuale» (Rorty) tale da essere ben immunizzato dal rischio del bullshitting.

Secondo Marconi, un contributo alla filosofia analitica deve possedere almeno i seguenti requisiti: 1) essere teorico e non ermeneutico, cioè avanzare tesi originali e sostantive; 2) essere argomentativo anziché dogmatico; 3) essere rigoroso ma non impreciso e oscuro; 4) fornire un contributo alla discussione in corso nella comunità di riferimento. I filosofi continentali non rispettano questi criteri. Ciò di per sé non significa molto, com’è ovvio. Si può infatti sempre obiettare che i filosofi continentali non rispettano gli standard posti dagli analitici, ma che si conformano invece ad altri standard di professionalità, magari meno definiti e meno precisabili, ma pur sempre vigenti all’interno della loro comunità di riferimento. Sarebbe davvero arduo sostenere che filosofi come Heidegger, Levinas, Habermas non dicano nulla di interessante dato che non rispettano i criteri proposti da Marconi (o da Glock o da Beckermann). Marconi non arriva a questo punto limite ma al tempo stesso non intende rinunciare alla sua idea di «normativismo forte» in campo metafilosofico. Tuttavia, se si tiene conto del fatto che talvolta nemmeno importanti testi analitici hanno rispettato quegli standard e che, come Marconi stesso riconosce, oggi persino un filosofo come Wittgenstein – uno dei padri fondatori riconosciuti della filosofia analitica – non li avrebbe rispettati (i suoi testi difficilmente sarebbero accettati da una rivista di filosofia analitica contemporanea) allora tutta l’argomentazione su standard e professionalità si indebolisce molto. Inoltre gli standard, i criteri – e anche di questo Marconi si mostra consapevole – non sono da soli una garanzia assoluta di qualità: non basta essere un filosofo analitico per essere ipso facto un buon filosofo analitico (è questa quella che Marconi chiama la «concezione onorifica» della filosofia analitica). Ma allora, se davvero le cose stanno in questi termini, rimane difficile comprendere perché standard siffatti debbano essere un titolo di merito per la filosofia analitica e di demerito per il resto del mondo filosofico che non li osserva.

Un’ultima considerazione, di ordine più generale. (MDP), a dispetto della retorica minimalista che lo pervade, e dei segnali di appeasement che qua e là sembra lanciare verso gli altri «schieramenti» del mondo filosofico, sembra assumere, specialmente in alcuni passaggi, i tratti di un vero e proprio pamphlet polemico, al limite ideologico, che tende, da un lato, ad innalzare la filosofia analitica a modello esclusivo dell’attività filosofica, e dall’altro a svalutare gli altri modi del filosofare (Claudio La Rocca parla giustamente di «quasi involontari eccessi polemici in un libro molto ragionato»).36 Probabilmente è proprio questa enfasi polemica che induce talvolta Marconi, per suffragare le sue tesi, a forzare all’interno del discorso testi che vanno in direzioni diverse. Mediante la tecnica – tipicamente mediatica – dell’estrazione decontestualizzante, vengono ritagliati e citati brani ad hoc, ingenerando così nel lettore la sensazione che gli autori chiamati in causa possano fungere da sostegno alle tesi di (MDP), quando in realtà si trovano su posizioni complessivamente diverse. I due esempi più rilevanti sono quelli che riguardano Roberto Esposito e Michael Dummett. Mentre sviluppa la sua critica verso i filosofi-tuttologi che discutono di tutto senza disporre di competenze adeguate Marconi cita il seguente brano di un articolo di Esposito:

nel momento in cui tralascia del tutto il proprio canone disciplinare, e anche un certo strumentario tecnico, il discorso filosofico perde la necessità dell’aggettivo per farsi semplicemente discorso, naturalmente legittimo e utile, ma sfornito di ogni qualificazione caratterizzante (MDP, p. 55).

Queste parole, inserite nel contesto discorsivo che Marconi sta sviluppando, fanno apparire Esposito come un critico della filosofia mediatica, quando in realtà il suo discorso è segnatamente rivolto non contro quella specifica tendenza (come indurrebbe a credere la citazione) ma contro la Pop filosofia – la filosofia costruita con i «materiali» della cultura pop – ed è per di più animato da uno spirito molto simpatetico. Dopo averne enunciato infatti i meriti e le buone ragioni (ne viene ad esempio riconosciuta la carica innovativa), Esposito parla dei rischi che quel particolare tipo di pratica può comportare, se dimentica del tutto la sua funzione e soprattutto la sua origine. Come altrettanto simpatetiche sono le considerazioni che, nello stesso articolo, vengono rivolte ai filosofi mediatici. Esposito ritiene coerente con la professionalità propria del filosofo l’uso del mezzo televisivo. A differenza di Marconi che, in virtù del principio di competenza, giudica poco sensato e dunque sostanzialmente inutile che un filosofo vada in televisione a parlare di politiche fiscali o di riforme costituzionali, Esposito ritiene opportuna la presenza dei filosofi nei dibattiti televisivi. Con un unico caveat: se non vogliono rischiare di soccombere in una discussione, e quindi risultare sostanzialmente inefficaci, debbono esser in grado di padroneggiare le tecniche comunicative utilizzate dagli operatori della televisione (viene proposto, come esempio positivo, quello di Cacciari, uno dei pochi filosofi in grado di ricavarsi uno spazio comunicativo e di incidere così nella discussione). Il filosofo napoletano quindi guarda complessivamente con occhio benevolo ad alcune possibili alternative alla filosofia accademica, esprimendo solo delle perplessità per alcuni esiti cui esse possono andare incontro. Non proprio lo stesso discorso che Marconi cerca di proporre nel suo libro.37

Un po» diverso, sebbene simile nella sostanza, è il caso di Michael Dummett fautore, com’è noto, di una concezione «progressivista» della filosofia. Circola spesso, fra i filosofi, l’idea che lavoro di un pensatore consista principalmente nel formulare domande e nel porre problemi sempre nuovi. Dummett ritiene questa visione fuorviante. In filosofia si può anche registrare talvolta, oltre alle domande, e alla formulazione di nuovi problemi, la soluzione dei problemi posti. Esistono cioè anche acquisizioni positive che la filosofia di tanto in tanto può rivendicare come propri titoli di merito. Dummett cita alcuni esempi («le relazioni non si riducono a proprietà», «esistenza e numero non sono proprietà di cose ma di tipi di cose», «il corpo e l’anima non sono sostanze separate connessa tra loro in modo contingente») e conclude che se non vi fossero questi risultati non varrebbe forse nemmeno la pena di lavorare nel campo della filosofia.38 Marconi assume in pieno questo punto di vista, che peraltro si trova ad essere in sintonia con la sua concezione sostantiva della filosofia.39 Il lettore di (MDP), però, non viene avvertito del fatto che la convergenza con Dummett è limitata solamente a questo singolo aspetto (il progressivismo), mentre una divergenza molto netta si rileva sul tema fondamentale riguardante la natura stessa della filosofia, che Dummett vede come analisi della struttura dei pensieri mediante lo studio del linguaggio, rifiutando in modo netto l’assimilazione alla scienza – un punto centrale invece nella prospettiva di Marconi, che vede scienza e filosofia in un rapporto sostanziale di parità/continuità.40 Dunque anche qui si opera, in termini più generali, una decontestualizzazione simile a quella praticata sul testo di Esposito. Solo gli eccessi polemici di cui parla La Rocca possono spiegare queste forzature.

8. Genealogia della genealogia

Marconi, come si diceva, riconosce, sia pur con qualche riserva, legittimità professionale all’ermeneutica. Nello stesso tempo, però, ne afferma la non indispensabilità visto che, a livello teorico, svolgerebbe una funzione poco più che ancillare. l’attenzione si ferma sulla genealogia, che si può considerare il movimento più tipico del procedere ermeneutico. A volte può risultare utile, dice Marconi, conoscere il processo di formazione di un certo vocabolario, come si sono «imposti» certi concetti, certi schemi di pensiero e certe soluzioni (si pensi ad esempio al modo in cui Rorty in Philosophy and Mirror of Nature ricostruisce e decostruisce il concetto cartesiano di mente o alla critica feyerabendiana ai concetti della meccanica galileiana). l’effetto di questo genere di operazioni è quello di produrre una sorta di perdita dell’innocenza, cioè a dire una forma di distanziamento da un modello teorico, da un quadro concettuale. Ma oltre a questo non c’è molto altro. Per mettere davvero in crisi un paradigma ci vuole qualcosa di più forte, ci vuole una critica teorica diretta che metta in evidenza incongruenze e contraddittorietà. Il lavoro genealogico non è sufficiente cioè a screditare un concetto o un insieme di concetti, può al massimo svolgere una funzione di supporto ad un attacco teorico diretto, soprattutto quando un paradigma è già entrato in crisi.41

c’è però un problema che (MDP) non affronta. Resta da capire infatti se la genealogia abbia davvero come obiettivo la messa in crisi di un paradigma o se non invece sia rivolta ad altro, anche, e soprattutto, quando si configura come esercizio critico. Se ci soffermiamo sull’esempio di Rorty, possiamo vedere come la decostruzione del concetto cartesiano di mente non si configuri come una confutazione scientifica di quel concetto e dei suoi correlati quanto piuttosto come una critica filosofica in stile wittgensteiniano/ryleano volta a dissolvere certe problematiche a partire da certe inferenze concettuali che le avevano generate (quelli che Ryle chiama gli errori di categoria). Ricostruire i passaggi di un certo percorso storico-concettuale non equivale a mostrarne l’inconsistenza o la contraddittorietà quanto piuttosto a metterne in luce la contingenza. l’evoluzione delle prospettive filosofiche non è qualcosa di analogo al procedere scientifico, dove un esperimento può confutare (o confermare) una teoria. Wittgenstein, Heidegger e Dewey, le tre figure che Rorty considera decisive nello sviluppo della filosofia novecentesca, lasciano definitivamente cadere il progetto filosofico fondazionalista per abbracciare una concezione della filosofia come sapere «edificante». Ma nel fare questo, dice Rorty, non vuol dire che essi «dispongano di «teorie della conoscenza» o di «filosofie della mente» alternative».42 Essi non «argomentano contro» la metafisica e l’epistemologia, piuttosto mostrano la possibilità di una forma di vita dove quel vocabolario, con tutto il suo carico di problemi, diviene irrilevante. È qualcosa di simile all’introduzione di «nuove mappe del territorio (cioè dell’intero panorama delle attività umane), che semplicemente non includono quegli aspetti che in precedenza sembravano dominare».43

Partendo da queste premesse Rorty cerca di trarre le conseguenze che derivano dagli insegnamenti dei suoi «eroi» filosofici. Lo scopo del suo lavoro è quello di mettere in dubbio nozioni come «mente», «conoscenza», «filosofia» intese come entità metafisiche, per collocarle dentro un orizzonte storico. Semplicemente per far vedere che questa scelta fatta a suo tempo è stata un pessimo affare, una brutta piega che la filosofia, a partire da Cartesio, e fino a Kant, ha preso in una certa fase del suo sviluppo. La genealogia di Rorty non è perciò «critica» nel senso in cui può esserlo una teoria scientifica verso una teoria rivale – per esempio la teoria dell’ossidazione verso quella del flogisto o la relatività einsteiniana verso la meccanica newtoniana. Rorty non intende mettere in discussione le soluzioni al problema mente-corpo perché sbagliate e proporne, di conseguenza, altre migliori. Riprendendo una vecchia istanza del neopositivismo, e ovviamente sulla scia di Wittgenstein, la genealogia di Rorty è «critica» in senso terapeutico, è protesa a mostrare che certi problemi che sembra(va)no ineludibili sono in realtà pseudo-problemi, e che quindi dovremmo imparare a resistere alla tentazione di porli come tali. Non si tratta dunque di trovare una via per risolverli quanto per dissolverli, cioè a dire un modo per farli sparire in quanto problemi filosofici genuini. Anche questo, ovviamente, può essere interpretato come una forma di progresso, solo che in questo caso non c’è, come invece accade nel campo scientifico, una nuova teoria che spiega meglio i fenomeni e meglio si accorda con essi e che perciò rimpiazza quella precedente. Quello che si può guadagnare, dopo un’operazione terapeutica di questo genere, è semmai un nuovo orientamento, – non a caso Rorty parla di «mappe» – un modo nuovo di vedere le cose in generale che può in ultima analisi aiutarci a rendere migliori le nostre vite liberandole da reti di pseudoproblemi. La genealogia si configura perciò come una pratica genuinamente esistenziale. In linea con l’insegnamento di Wittgenstein secondo cui la filosofia è, in ultima analisi, un lavoro su se stessi.

Marconi non sembra tener conto di ciò. Ragiona piuttosto come se lo scopo della genealogia fosse quello di confutare more scientifico un particolare assetto teorico e conclude che per questo scopo ad essere decisivo è l’attacco diretto piuttosto che la ricostruzione di come si è formato il vocabolario intra-paradigmatico; ricostruzione che può, al limite, integrare il lavoro teorico ma non sostituirlo. l’attacco si basa su due mosse: prima si deforma la genealogia facendone una procedura, per così dire, wissenschaftliche, poi se ne deduce la sua sostanziale inutilità. Naturalmente, ciò sottende anche un certo modo di intendere il lavoro filosofico, presuppone l’idea che la filosofia sia un’impresa sostantiva del tutto analoga alle altre discipline scientifiche. l’esatto opposto di quanto sostiene qui Rorty e di quanto sosteneva a suo tempo Wittgenstein.44

Come si è detto però non è questo lo scopo della genealogia il quale può anche essere messo in connessione, in ultima analisi, con il compito indicato da Wilfrid Sellars, con l’esigenza cioè, per la filosofia, di «comprendere come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, stiano insieme, nel senso più ampio possibile del termine».45 Cioè a dire: elaborare un punto di vista sempre più generale in grado di fornire ordine e senso alla caotica e frastornante molteplicità dei campi dell’esperienza. Intenderlo alla maniera di una procedura scientifica è perciò un modo obliquo e irricevibile di snaturarlo. E si tratta oltretutto di un fraintendimento non infrequente, e soprattutto non innocuo, a tal punto da aver destato la preoccupazione di Bernard Williams il quale, nel contesto di un’argomentazione in favore dell’uso della storia all’interno del lavoro filosofico, cerca di mostrare come una ricostruzione storico-genealogica – una «narrazione» – non è qualcosa che può anche solo vagamente assomigliare alla confutazione di una teoria scientifica. Mostrare come si è passati da una certa epoca concettuale a un’altra, come si sono affermati certi schemi a scapito di altri risponde, più che ad un’esigenza di descrizione accurata di uno stato di cose in vista di un obiettivo esplicativo, al compito di illuminare riflessivamente le nostre idee, rendendo espliciti i modi di concettualizzazione della realtà: una maniera diversa ma uguale nella sostanza di enunciare l’ideale di Sellars.46 La filosofia dopotutto, suggerisce Williams, rimane connessa al problema del senso, e per questo è stata e continuerà ad essere una disciplina umanistica. Forse però, per Marconi, tutto questo è troppo.

9. La filosofia botanizzata

All’inizio della sezione IX di Empiricism and the Philosophy of Mind, nel quadro di una discussione incentrata sul rapporto fra scienza e senso comune, Sellars descrive il progressivo dividersi della filosofia in discipline e sub-discipline come un processo di «botanizzazione».47 È inevitabile che il «giardino» della filosofia si popoli di specie e varietà sempre nuove (epistemologia, ontologia, cosmologia ecc.). Tuttavia va evitato un equivoco: queste nuove forme devono essere intese più come diramazioni peninsulari del «continente» filosofico che come nuove isole distaccate dalla terra d’origine. Fuor di metafora, quello su cui Sellars cerca di richiamare l’attenzione è il fatto che lo specialismo della filosofia non implica, o non dovrebbe implicare, a differenza di quanto accade nel campo della scienza, una rigida o comunque netta divisione fra settori disciplinari. In filosofia non è possibile occuparsi, poniamo, del campo X, e poi lasciar fuori tutto il resto. Vale innanzitutto per la filosofia della scienza, ma vale anche per tutte le altre forme di specializzazione filosofica. I concetti filosofici sono implicati in più di una dimensione del discorso, e ciò accade perché in fondo l’obiettivo principale della filosofia resta la visione articolata e globale dell’«uomo nell’universo» – the discourse-about-man-in-all-discourse. Da questo punto di vista, quello che Sellars chiama «l’atomismo prima maniera», che concepisce il lavoro del filosofo come una coltivazione, in totale isolamento, di piccoli spazi del sapere, che vengono così analizzati in modo sempre più sottile e accurato, confligge proprio con la natura stessa dell’impresa filosofica.48 Se un filosofo finisce per ridursi a dissezionare all’infinito un sottospazio del sapere, praticando un estenuante quanto innocuo hairsplitting, allora possiamo ben dire che così facendo sta rinunciando alla propria vocazione e alla propria responsabilità.49

Marconi mostra di avvertire questa tensione, ma piuttosto che farsene carico per risolverla mediante un’operazione di sintesi, sembra orientato a dissolverla attraverso l’eliminazione di uno dei due poli dialettici, quello generalista. La botanizzazione della filosofia stigmatizzata da Sellars rappresenta, nella sua prospettiva, un approdo decisivo, l’uscita definitiva da uno stato di minorità. La specializzazione e la parcellizzazione del lavoro filosofico sono una garanzia della qualità della ricerca, l’unica possibilità che hanno i filosofi per dire qualcosa di sensato, e soprattutto di utile. La divisione del lavoro combinata col principio di competenza, come accade in altri ambiti disciplinari, dovrebbero piuttosto costantemente ispirare l’attività filosofica. Il filosofo come «operaio specializzato» (jouneyman), cui Sellars guarda con diffidenza perché essendo intento ad occuparsi metodicamente di micro-questioni perde di vista l’orizzonte generale (che, nella sua prospettiva, rimane il compito principale del filosofo), è invece guardato con favore da Marconi per il quale, come si è visto, quella del filosofo non è un’attività eccezionale: non ha in sé nulla di grandioso, di epocale o destinale. È solo un mestiere come un altro.

Agisce qui, com’è evidente, una chiara matrice scientista, che segna alla radice l’impostazione metafilosofica marconiana. Non è un caso se in (MDP), più marcatamente che negli scritti precedenti v’è, da un canto, la pretesa esplicita di presentare l’intero panorama del lavoro filosofico contemporaneo, d’altro canto però, nonostante tale intenzione, rimangano fuori dall’obiettivo esperienze tutt’altro che trascurabili, il cui unico limite (agli occhi di Marconi) è quello di non essere sufficientemente riconducibili a una prospettiva scientistica e/o naturalistica. Nessun cenno viene riservato, ad esempio, ai recenti sviluppi della fenomenologia (si pensi soltanto all’opera sistematica di Hermann Schmitz, fondatore della scuola neofenomenologica),50 o a un pensatore – analitico ma al tempo stesso sistematico – come Robert Brandom i cui lavori sono considerati ormai quasi dei classici della filosofia contemporanea.51 Ma a non essere presi in considerazione sono anche fenomeni, rilevanti per portata e impatto sociale, come la consulenza filosofica e la Pop filosofia. In entrambi i casi si tratta modi di concepire la pratica filosofica che vanno incontro a esigenze diffuse nella società, a livello sia individuale che collettivo: il primo sviluppando, attraverso il dialogo, una «tecnica» di ordinamento di emozioni e pensieri, sulla evidente scia del modello socratico, il secondo cercando di mescolarsi con la cultura pop e di partire proprio dai materiali pop in senso stretto (film, fiction, fumetti) per sviluppare un discorso genuinamente filosofico.52 Infine, gli stessi filosofi mediatici, visti con sospetto da Marconi in quanto potenzialmente dannosi per la (immagine della) filosofia, si collocano pur sempre nel solco di quella tradizione educativo-emancipativa che vede il filosofo come speciale «agente» culturale proiettato nello spazio pubblico, nel solco dei Philosophes della Francia illuminista o dei Popularphilosophen attivi fra Berlino e Gottinga nella seconda metà del settecento.

La filosofia professionale tecnicistica, così come la intende (e la pratica) Marconi, risponde, certo, anch’essa ad alcune istanze di chiarificazione che provengono dalla società. Anche le altre forme di pratica filosofica però, che Marconi tende a deflazionare quando non ad espungere del tutto, vanno incontro a esigenze ugualmente diffuse, soprattutto in quelle situazioni dove a divenir problematico è lo sfondo più generale dei fenomeni e si mettono perciò in atto processi di revisione che richiedono nuove elaborazioni o, per riprendere un’espressione di Roberto Casati, nuovi «negoziati concettuali».53 Articolare le presupposizioni implicite di ciò che è «dato», ridisegnare le mappe concettuali del common sense e delineare nuovi e aggiornati scenari di senso sembrano infatti destinate ad essere, anche (o soprattutto?) nell’epoca dello specialismo e della professionalizzazione, componenti essenziali del Beruf del filosofo.54


  1. Una ricostruzione ampia e dettagliata dell’intero itinerario intellettuale di Diego Marconi si può leggere in P. Tripodi, Conversazione con Diego Marconi, «APhEx», n. 11, 2015, consultabile all’indirizzo: http://www.aphex.it/index.php?Interviste=557D0301220208755772040302732771↩︎

  2. D. Marconi, G. Vattimo, Nota introduttiva a R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano, 1986, pp. VII- XXXII; D. Marconi, l’eredità di Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari, 1987; D. Marconi (a cura di), La formalizzazione della dialettica. Hegel, Marx e la logica contemporanea, Rosenberg&Sellier, Torino, 1979; D. Marconi, Logique et dialectique. Sur la justification de certaines argumentations hégéliennes, «Revue philosophique de Louvain», Anneé 1983, n. 52, pp. 563-579. Sul lavoro di Marconi su Hegel cfr. F. Berto, Un’interpretazione analitica della dialettica hegeliana, «Iride», a. XVII, n. 43, settembre-dicembre 2004, pp. 569-590. ↩︎

  3. Il testo fu presentato al Convegno SIFA del settembre 1998. Disponibile per lungo tempo nella pagina web dell’autore presso l’università di Torino, è stato pubblicato solo alcuni anni or sono. Cfr. D. Marconi, Quine and Wittgenstein on the Science/Philosophy Divide, «Humana.Mente Journal of Philosophical Studies», Vol. 21, anno 2012, pp. 173-189. I principali testi della discussione analitici/continentali sono raccolti in A. Massarenti (a cura di), Analitici e continentali, «Rivista di Estetica», anno XXXVIII, n. 7, 1998. ↩︎

  4. P. S. M. Hacker, Wittgenstein’s Place in Twentieth-Century Analytic Philosophy, Blackwell, Oxford, 1996. ↩︎

  5. Filosofia e scienza cognitiva, Laterza, Roma-Bari, 2001 ↩︎

  6. Consolazioni per lo specialista, «Iride», n. 40, settembre-dicembre 2003, pp. 625-631 ↩︎

  7. Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007 ↩︎

  8. H.J. Glock, What Is Analytic Philosophy?, Cambridge, University Press, 2008 ↩︎

  9. Analytic Philosophy and Intrinsic Historicism, «Teorema: Revista Internacional de Filosofía», Vol. 30, No. 1, 2011 (Simposio sobre el libro/ Book Symposium: What is Analytic Philosophy?), pp. 23-32; Tre immagini della filosofia, «Rivista di filosofia», n. 3, dicembre 2012, pp. 437-464. I libri in discussione in questo articolo sono: R. Casati, Prima lezione di filosofia, Laterza, Roma-Bari, 2011; T. Williamson, The Philosophy of Philosophy, Blackwell, Oxford, 2007; P. Maddy, Second Philosophy, OUP, Oxford, 2007. ↩︎

  10. Wittgenstein e l’interpretazione in S. Marcucci (a cura di), Scienza e filosofia, Giardini, Pisa, 1995, pp. 295-308; Wittgenstein e la filosofia, Introduzione a L. Wittgenstein, La filosofia, Donzelli, Roma, 1996, pp. VII-XXXVII; Il secolo di Wittgenstein, «Il Sole 24 ore Domenica», 14 settembre 1997, p. 28; La natura della conoscenza, «Il Sole 24 ore Domenica», 27 settembre 1998, p. 32; Gli analitici si raccontano, «Il Sole 24 ore Domenica», 22 ottobre 2000, p. 34; Alcune osservazioni su Parisi, la filosofia, il naturalismo, «Sistemi intelligenti», a. XII, n. 1, aprile 2000, pp. 125-141; Tradizione analitica e filosofia anglo-americana, «Rivista di storia della filosofia», 2001, n. 2, pp. 275-276; Le ultime sulla verità, «Il Sole 24 ore Domenica», 20 giugno 2004, p. 35; Pensatori senza riflettori, «Il Sole 24 ore Domenica», 12 giugno 2005, p. 36; Wittgenstein, addio, «Il Sole 24 ore Domenica», 4 giugno 2006, p. 32; Senza verità siamo più liberi?, «Il Sole 24 ore Domenica», 7 giugno 2009, p. 35; Ritorno a Hegel?, «Sistemi intelligenti», a. XXIV, n. 1, aprile 2012; Realismo minimale, in M. De Caro, M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Garzanti, Milano, 2012, pp. 113-137; Filosofia da treno. Presentazione di T. Williamson, Io ho ragione e tu hai torto. Un dialogo filosofico, Il Mulino, Bologna, 2016, pp. 7-24. ↩︎

  11. Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino, 2014. ↩︎

  12. Nella seconda parte del libro (capp. 2-5), che costituisce quasi un’unità distinta, sebbene non del tutto irrelata, si affronta il tema, caro a Marconi, dell’identità della filosofia analitica, vista in rapporto alle altre espressioni del pensiero filosofico contemporaneo. ↩︎

  13. È un motivo dominante, ad esempio, in Per la verità. Si ritrova ovviamente in Consolazioni per lo specialista, cit. pp. 628-629. Franca d’Agostini aveva a suo tempo rilevato il punto, trovando discutibile la dicotomizzazione proposta da Marconi. In (MDP), nonostante si dia prova di una certa accoglienza verso questo tipo di critica, viene mantenuta ferma la stessa posizione. Cfr. (MDP), p. 99. La critica di D’Agostini è formulata in F. D’Agostini, Professionalità e specializzazione in filosofia, «Iride», n. 42, agosto 2004, pp. 359-372 ↩︎

  14. Un approccio metafilosofico simile a quello offerto da Marconi era stato sviluppato, verso la metà degli anni ottanta, da Thomas Perry. Cfr. T. D. Perry, Professional Philosophy. What It Is and Why It Matters, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht, 1986. Anche Perry lamentava la condizione di isolamento culturale in cui la filosofia analitica, in parte per cause da imputare a se stessa, si trovava ad essere relegata e cercava di mostrare quanto di utile essa avesse invece prodotto nei diversi ambiti in cui si era cimentata (epistemologia, filosofia del linguaggio, metafisica, etica, filosofia politica). A differenza di Marconi però vi era in Perry un atteggiamento meno svalutativo verso le altre forme di pratica filosofica, filosofia continentale in primis↩︎

  15. A dire il vero in (MDP) viene introdotta, seguendo Glock, una nuova categoria, la filosofia «tradizionalista», che dovrebbe risultare distinta da quella continentale (cfr. (MDP), pp. 76-81). I filosofi tradizionalisti sarebbero essenzialmente dediti all’interpretazione dei filosofi del passato, a differenza dei continentali la cui peculiarità consisterebbe nel proporre nuove ipotesi (o prospettive) teoretiche (es. la différance, il pensiero debole, l’agire comunicativo). Marconi accoglie questa distinzione probabilmente al fine di attenuare la polemicità del suo discorso, «salvando» almeno dall’accusa di dilettantismo i filosofi tradizionalisti (svolgono un lavoro di tipo professionale, benché sostanzialmente inutile) e isolando così, come unico bersaglio polemico, la filosofia continentale, meno professionale, maggiormente incline a lasciarsi «contaminare» da elementi retorici e perciò quasi geneticamente connessa con il sistema mediatico. Tuttavia, la distinzione proposta da Glock appare fin da subito problematica – non sempre sembrano isolabili il momento teoretico da quello interpretativo: non è esercizio di facile svolgimento dissociare ad esempio in pensatori continentali (nell’accezione di Glock) come Deleuze, Vattimo, Agamben o Habermas, o persino in esponenti analitici come Dummett, il lavoro costruttivo da quello più strettamente esegetico: Deleuze teorizza interpretando Leibniz, così come Vattimo leggendo Heidegger o Dummett interpretando Frege o Habermas rileggendo Grice e Wittgenstein. Collassando la distinzione proposta però, l’intento di Marconi di precisare e focalizzare il suo obiettivo polemico perde la sua ragion d’essere. La distinzione continentale/tradizionalista è tracciata da Glock in H.J. Glock, What Is Analytic Philosophy?, cit., pp. 85-88. ↩︎

  16. Secondo il parere di Tyler Burge (che peraltro limitava il suo giudizio alla sola filosofia della mente), avervi preso parte ha rappresentato una non comune o comunque non facilmente ripetibile esperienza intellettuale. Cfr. T. Burge, Linguaggio e mente, De Ferrari, Genova, 2005, p. 5. ↩︎

  17. Consolazioni per lo specialista, cit., pp. 628-629. ↩︎

  18. (MDP), pp. 96-97 ↩︎

  19. Il più longevo e più celebre è quello che si tiene annualmente a Modena, Carpi e Sassuolo. ↩︎

  20. Cfr. Per la verità, cit. p. VII ↩︎

  21. Per una panoramica sull’argomento cfr. E. Menduni, I linguaggi della radio e della televisione. Teorie e tecniche, Laterza, Roma-Bari, 2003. Si veda anche G. Bettetini, La conversazione audiovisiva. Problemi dell’enunciazione filmica e televisiva, Bompiani, Milano, 2002. ↩︎

  22. Sulla crossmedialità cfr. E. Negri, La rivoluzione transmediale: dal testo audiovisivo alla progettazione crossmediale di mondi narrativi, Lindau, Torino, 2015 e E. Fleischner, Il Paradiso di Gutenberg. Dalla crossmedialità al media on demand, Rai Eri, 2007 ↩︎

  23. E. Menduni, cit., p. 94. ↩︎

  24. Cfr. A. Pinotti, A. Somaini, Teorie dell’immagine, Cortina, Milano, 2009 e A. Voltolini, Immagine, Il Mulino, Bologna, 2013 ↩︎

  25. (MDP), p. 55 ↩︎

  26. IVI, p. 56. ↩︎

  27. (MDP), pp. 30-38 ↩︎

  28. Cfr. Per la verità, cit., pp. 6-16 ↩︎

  29. IVI, pp. 49-84 ↩︎

  30. Cfr. (MDP), pp. 45-47. ↩︎

  31. IVI, pp. 14-15. ↩︎

  32. H. G. Frankfurt, On Bullshit, Princeton University Press, Princeton, 2005; tr. it. Stronzate, Rizzoli, Milano, 2005 ↩︎

  33. Si vedano gli articoli Pensatori senza riflettori cit., nel quale Marconi mette in contrapposizione le figure di Paolo Casalegno e Emanuele Severino, il primo filosofo «tecnico» poco noto al vasto pubblico, il secondo presente regolarmente nei media; e Senza verità siamo più liberi? cit., dove si parla del filosofo continentale quasi come bullshitter di professione (lo spunto della discussione viene da un libro di Gianni Vattimo). ↩︎

  34. (MDP), pp. 20-22. ↩︎

  35. IVI, p. 99, nota n. 3. ↩︎

  36. C. La Rocca, Pensare in un paradigma? , in «Rivista di filosofia», n. 1, aprile 2015, p. 32. Replicando a La Rocca Marconi sembra attenuare, rispetto a (MDP), la sua vis polemica, proponendo una visione più «ecumenica» del lavoro filosofico. Cfr. D. Marconi, Concetti, problemi e argomentazioni tra storia e teoria, «Rivista di filosofia», n. 1 aprile 2015, pp. 44-56. Il testo di Marconi risponde anche a critiche e obiezioni sollevate, nello stesso numero di Rivista di filosofia, da Alberto Voltolini e Massimo Mori. ↩︎

  37. Cfr. R. Esposito, Il marketing dei filosofi pop, «La Repubblica», 26 agosto 2013. ↩︎

  38. M. Dummett, Il pensiero fa progressi, «Il Sole 24 ore Domenica», 27 luglio 1997; poi in A. Massarenti (a cura di), Analitici e continentali, cit., pp. 6-10. ↩︎

  39. Cfr. (MDP), p. 90 e p. 42. ↩︎

  40. Scrive Dummett: «La filosofia cerca di esplorare la struttura del pensiero umano, e lo fa chiarificando i nostri modi di concepire la realtà. Coloro che hanno una mentalità scientistica disdegnano le riflessioni filosofiche, così concepite; preferiscono impiegare concetti scientifici, come se la verità fosse di casa solo nei sistemi concettuali concepiti a fini teorici specialistici. Alle spiegazioni filosofiche vengono sostituite le loro versioni «naturalizzate». Queste teorie «naturalizzate» spiegano, poniamo, nozioni che hanno a che vedere col significato in termini che prescindono completamente dall’impiego del linguaggio nella comunicazione da parte degli esseri umani e negano quindi che la teoria del significato debba fornire un’analisi della comprensione che i parlanti hanno degli enunciati prodotti nello scambio linguistico. Il nostro possesso di certi concetti viene talvolta spiegato sulla base di ipotetici vantaggi evolutivi. Questa non è filosofia, e neppure scienza. È il risultato dell’abbaglio preso da coloro che hanno intrapreso una certa indagine intellettuale sulla scia dei successi conseguiti in un altro settore. Il fatto che tanti filosofi analitici siano vittime di questo abbaglio ostacolerà la riconciliazione della scuola analitica con le scuole rivali». M Dummett, La natura e il futuro della filosofia, Il Melangolo, Genova, 2001, pp. 38-39 ↩︎

  41. (MDP), pp. 134-143. ↩︎

  42. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano, 1986, p. 10 (corsivo di Rorty). ↩︎

  43. Ibidem ↩︎

  44. Su una posizione molto vicina al metodo genealogico si trova Roberto Casati (cfr. R. Casati, Prima lezione di filosofia, cit.), per cui la filosofia è un’attività di negoziazione concettuale, una riflessione sul modo in cui evolvono i concetti che reggono le intuizioni-base del senso comune. Il filosofo è cui che lavora direttamente a questi processi di revisione valutandone, di volta in volta, l’impatto sulla vita. Marconi, non a caso, diverge nettamente da questa prospettiva. Cfr. D. Marconi, Tre immagini della filosofia, cit. pp. 438-443. ↩︎

  45. W. Sellars, Philosophy and Scientific Image of Man, in W. Sellars, Science, Perception and Reality, Ridgeview Publishing Company, Atascadero, California, 1963, p. 1; tr. it. di L. Basile, La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo, in W. Sellars, l’immagine scientifica e l’immagine manifesta, Edizioni ETS, Pisa, 2013, p. 5. ↩︎

  46. B. Williams, La filosofia come disciplina umanistica, Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 217 e 225-229. ↩︎

  47. W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, Harvard University Press, Cambridge-London, 1997; tr. it. di L. Bellotti, Empirismo e filosofia della mente, in W. Sellars, l’immagine scientifica e l’immagine manifesta, cit., p. 223. ↩︎

  48. IVI, p. 224. ↩︎

  49. Cfr. G. Vattimo, Vocazione e responsabilità del filosofo, Il Melangolo, Genova, 2002 ↩︎

  50. Durante una presentazione di (MDP), svoltasi il 24 marzo 2015, Marconi stesso riconosce questo limite del libro. Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=fd_4uY38ChA. Sulla nuova fenomenologia si veda H., Schmitz, Nuova fenomenologia. Un’introduzione, Christian Marinotti Edizioni, 2011. ↩︎

  51. Cfr. R. Brandom, Making it Explicit, Harvard University Press, Cambridge-London, 1994. Habermas definisce questo testo «una pietra miliare della filosofia teoretica degli ultimi anni». Ciò che fa di Brandom un filosofo analitico certamente sui generis è il fatto che in lui il lavoro teoretico è costantemente integrato da quello storico-genealogico. Il documento più consistente di questo approccio è Tales of of Mighty Dead. Historical Essays in the Metaphysics of Intentionality, Harvard University Press, Cambridge-London, 2002. ↩︎

  52. Cfr. G. B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità di vita, Feltrinelli, Milano, 2018 e S. Regazzoni (a cura di), Pop filosofia, il melangolo, Genova, 2010. ↩︎

  53. R. Casati, Prima lezione di filosofia, cit. l’importanza per la filosofia di riflettere sui modelli scientifici viene sostenuta da V. Fano, Le lettere immaginarie di Democrito alla figlia. Un invito alla filosofia, Carocci, Roma, 2018. Sempre dallo stesso autore si può leggere una discussione critica di (MDP): cfr. V. Fano, Apologia della filosofia sintetica, «APhEx», n. 10, 2014. Non mancano concezioni o approcci generalisti anche in ambito analitico. Ad esempio Graham Priest intende la filosofia come problematizzazione radicale, un’attività critica senza confini (a critique unchained) che spesso diviene la base per costruire visioni radicalmente alternative. Cfr. G Priest, What is Philosophy?, «Philosophy», n. 316, 2001, pp. 189-207. Analogo il caso di David Chalmers che si propone di «riscrivere», attualizzandolo, l’Aufbau di Carnap. Cfr. D. Chalmers, Constructing the World, Oxford University Press, Oxford, 2012. ↩︎

  54. Cfr. R. Brandom, Articolare le ragioni, Il Saggiatore, Milano, 2000. Una versione «ecumenica» del lavoro filosofico, in cui si ritiene debbano coesistere a livello metodologico tanto gli aspetti più strettamente argomentativi quanto quelli immaginativi, viene proposta da Salvatore Veca in S. Veca, La filosofia come professione, «Rivista di filosofia», 3, 2014, pp. 311-324. ↩︎