Individuo e individuazione. Una lettura della dissertazione dottorale di Martin Buber

1. Introduzione

Il 19 luglio 1904 Martin Buber consegue il titolo di dottore in filosofia presso l’università di Vienna con una dissertazione dal titolo Zur Geschichte des Individuationsproblems. Nicolaus von Cues und Jakob Böhme.1 Il filosofo ha ventisei anni. Ha alle spalle un’infanzia trascorsa sotto l’egida dei nonni Salomon e Adele Buber nella campagna del lontano da dove2 dell’Ostjudentum, tra Galizia e Bucovina, alle estreme propaggini dell’impero asburgico, e i tormentati ed irripetibili anni di un percorso universitario che si è snodato tra Vienna, Lipsia, Zurigo e Berlino.3 Se l’infanzia passata tra Leopoli e Sadagora ha offerto al piccolo Martin la possibilità di vedere con i propri occhi la mistica chassidica come fenomeno comunitario pienamente in atto, ogni città in cui egli avrebbe sostato, per un semestre o poco più, sarebbe stata foriera di incontri per lui decisivi. Vienna costituisce il luogo per eccellenza dell’educazione estetica buberiana, tra il Burgtheater e i Cafè letterari, consegnando al filosofo amicizie durevoli, come quella con Hugo Von Hofmannsthal;4 Lipsia è la città del destarsi della coscienza ebraica e cultursionista di Buber, attraverso il cugino Aaron Eliasberg;5 Zurigo è la città in cui il pensatore conosce la compagna d’un intera vita, Paula Winkler;6 Berlino è, infine, la città dei grandi maestri, come Dilthey e Simmel, e dei grandi sommovimenti sociali, come la Neue Gemeinschaft fondata dai fratelli Hart, dove avverrà l’incontro con l’anarchico Gustav Landauer.7 Negli anni che preludono il compimento della propria formazione universitaria Buber è inoltre, per sua esplicita ammissione, fortemente influenzato da Kant e Nietzsche,8 non meno che dalla mistica, sia essa ebraica, tedesca o orientale.9

2. Un problema moderno

Questi cenni, necessariamente brachilogici, sono indispensabili per permetterci di comprendere come il pensiero di Martin Buber si formi in un’atmosfera spirituale in cui il Religiöse non può più risolversi integralmente in una Religion storica, nell’antitesi che s’instituisce, stando ai termini del suo maestro Simmel, tra religione e religiosità.10 La formazione di Buber è infatti paradigmatica di un momento storico, il passaggio tra Otto e Novecento, in cui ogni tradizione diventa inderogabilmente questionabile, e in cui l’istanza della coscienza individuale, la cui emersione veniva riconosciuta come l’avvio della modernità da autori come Jacob Burckhardt11 e Wilhelm Dilthey,12 è divenuta tribunale ultimo e supremo, fino alle estreme conseguenze che l’irrompere del pensiero e della figura di Friedrich Nietzsche testimonia in maniera esemplare. Questa temperie estremamente complessa ha nel Nihilismus la propria porta stretta, decisiva nel condurre, rispettivamente, alla comprensione dell’uomo come essere storico da un lato (Historismus) e della vita come istanza ultima del filosofare, dall’altro (Lebensphilosophie).

Considerate queste doverose (e non esaustive) premesse possiamo avvicinarci a capire cosa possa aver condotto Martin Buber a dedicare la propria dissertazione a Niccolò Cusano e a Jakob Böhme, e a scegliere come chiave ermeneutica della medesima il problema dell’individuazione. Sensibile interprete del suo Zeitgeist, Martin Buber sapeva coglierlo come «un’epoca di maturazione culturale»13 in cui ciò che è «vecchio» e ciò che è «giovane» coesistono in maniera non sempre pacifica. Buber sapeva di essere testimone di un momento decisivo per la storia dell’umanità. Per questo era così affascinato dal termine «Rinascimento»,14 erigendolo a linea guida del proprio impegno Kulturzionist nel sintagma Jüdische Renaissance, intendendolo programmaticamente come la radicale messa in discussione di una Legge foriera di schiavitù interiore e di una tradizione divenuta insensata, contrapponendo ad esse una trasformazione interiore capace di generare la semplicità e l’aderenza al vero di un modo di vita libero, abitato così da una nuova bellezza.15

Per questo decise, attraverso Niccolò Cusano, da lui qualificato nel suo scritto del 1904 come «il primo pensatore della modernità»,16 di risalire alle origini di quella modernità medesima, nel cui «individualismo metafisico»17 ed «etica della personalità»18 egli rinveniva, fedele all’esempio di Burckhardt e di Dilthey, i suoi tratti salienti, fin dalle prime battute della dissertazione. Il pensatore ebraico avvertiva con urgenza come l’attuale configurazione del principio d’individuazione, che egli leggeva come uno dei grandi Leitmotiv del pensiero occidentale, da Aristotele a Leibniz, fino ai suoi contemporanei,19 tendesse sempre più a tradursi in un individualismo che faceva dono all’uomo moderno della libertà, ma rischiava di privarlo della coappartenenza ad un (macro-) cosmo capace di ospitarlo,20 rendendolo una soggettività autonoma, ma dispersa in un molteplice senza unità.21 Per questo si rivolgeva agli scritti di Jakob Böhme, di cui localizzava, già nel 1901, il problema fondamentale nella «relazione dell’individuo al mondo»22 — questione fondamentale, in vero, di tutto il pensiero del Buber predialogico — reperendo in lui la possibilità di ricucire lo iato tra l’Uno e il molteplice, valorizzando la tesi del teosofo di Görlitz, fortemente neoplatonica, secondo cui «l’unità di tutte le essenze individuali e la loro differenza sono legate l’una con l’altra».23 Quest’ultimo pensiero costituisce in realtà la riformulazione di un insegnamento, esplicitamente citato già nelle pagine di Über Jakob Böhme, la cui storia procede di pari passo con quella del problema dell’individuazione, e che non a caso guadagnerà centralità nella dissertazione buberiana di pochi anni successiva: è la «grande dottrina rinascimentale del Microcosmo, che avrà effetti su Leibniz e Goethe fino a noi; solo abbozzata negli antichi, tornò in mente alla Scolastica in una forma schematica e senza vita; sviluppata da Cusano, Agrippa, Paracelso e Weigel, verrà portata alla sua forma più bella e dal sentire più intenso proprio da Böhme».24

Per questo motivo il problema dell’individuazione, inteso come il rapporto polare tra l’individuo e il mondo, ovvero tra il molteplice e l’Uno, ovvero ancora tra Microcosmo e Macrocosmo, è la Frage per eccellenza del giovane Buber, lungo una traiettoria che, come ha avuto convincentemente modo di ricostruire Paul Mendes Flohr, viaggia in lui da Schopenhauer a Nietzsche, dall’autore di Also sprach Zarathustra all’esperienza della Neue Gemeinschaft, culminando nella dissertazione del 1904,25 e che continuerà negli anni ad essa immediatamente successivi, in particolare nei saggi firmati dal filosofo viennese in occasione delle antologie Reden und Gleichnisse des Tschuang-Tse ed Ekstatische Konfessionen.26

3. Individuo e individuazione in Cusano e in Böhme

Quanto ho tentato finora di ricostruire trova riscontro fin dalla prefazione della dissertazione buberiana, dove, poco dopo aver affermato come Cusano e Böhme saranno oggetto del suo studio, in virtù del loro summenzionato «individualismo metafisico» ed «etica della personalità», il filosofo viennese esprime nitidamente la propria interpretazione del loro pensiero, prendendo le distanze tanto da quanti hanno trattato unilateralmente il primo come un teorico della conoscenza, piuttosto che il secondo come un teologo: «entrambi rispondo infatti alla questione circa l’origine ed il senso della molteplicità della cose in quanto hanno di essenzialmente comune»,27 e proprio in questo essi esprimono «il rinnovamento del neoplatonismo nella filosofia del Rinascimento».28 Ed è in termini neoplatonici, attingendo rispettivamente alla Scolastica e a Paracelso, che in entrambi vive l’idea «dell’avere tutto dentro di sé di ogni individuo»,29 già esposta dal pensatore ebraico nelle pagine di Über Jakob Böhme; significativamente, anche qui, Buber la qualifica come una «ripresa della dottrina del Microcosmo, attraverso la quale Cusano prepara Bruno, così come Cusano e Böhme preparano Leibniz».30

3.1. Cusano

Nel valore «assolutamente insostituibile»31 che assegna all’individuo, «ponendolo come punto centrale delle sue osservazioni»,32 Niccolò Cusano è qualificato da Buber come il primo pensatore moderno, contrapponendosi tanto alla mistica medievale, rappresentata nelle pagine della dissertazione da Meister Eckhart, quanto alla Scolastica, rappresentata invece da Tommaso, Duns Scoto e Occam. Come all’interno del pensiero del predicatore renano «l’individuo era solamente il portatore di un’esperienza vissuta che comprendeva il trascendente, e mai l’oggetto della contemplazione e dell’analisi. Qui aveva valore solamente il singolo che depone la catena del particolare e giunge ad un’intuizione del fondamento del mondo»33 e, pertanto, «l’individuazione è data solamente in vista del distacco e del superamento di sé»,34 così, all’interno della Scolastica, «né l’individuo trovato nell’esperienza, oppure compreso come personalità intelligibile, né la possibilità metafisica della sua esistenza separata e differenziata sarebbero il vero oggetto della ricerca, che è invece il concetto di individuo e la sua relazione a concetti universali».35 Manca in entrambi, come nell’intero medioevo,36 la sensibilità ermeneutica di fronte alla diversità degli individui e degli enti intramondani, che Buber rintraccia invece nello stoicismo e nel neoplatonismo;37 affinché essa si sviluppi è necessaria la ridefinizione del principio di individuazione, cosicché, è questa è la tesi forte che sostanzia le pagine dedicate da Buber all’autore della Dotta ignoranza:«Proprio nella fondazione del problema dell’individuazione, nella questione della differenziazione individuale e dell’unicità dell’individuo nel suo modo di essere, Cusano si rivela come il primo pensatore della modernità.»38

Lo sguardo del pensatore ebraico non cede tuttavia a parzialità fuorvianti, e sa cogliere tanto l’ossatura medievale quanto le istanze della Neuzeit che convivono nell’edificio teoretico di Cusano. Buber lo riconosce come il prodotto di un «pensatore tra due tempi»,39 in cui convivrebbero «entrambi gli orientamenti spirituali»,40 e non tanto, come in un autore di un’epoca successiva quale Böhme,41 come «l’esito di una costrizione esteriore, bensì come il fondamento più interno del suo pensiero e della formazione delle sue idee».42 In una polarità tra elementi medievali e moderni che innerva in maniera caratteristica il suo Denken, Cusano, «assegnando, nella sua interpretazione dell’individuo, un valore positivo ad esso, si pone in una contrapposizione decisiva con Eckhart, e tuttavia lo segue, allorché questi scorge l’essenza dell’uomo nel suo avere Dio dentro di sé, nel suo partecipare alla divinità».43 Analogamente egli, pur essendo insoddisfatto circa l’approccio scolastico «di fronte al problema della molteplicità di esistenze differenti»,44 non può tuttavia, soprattutto a livello argomentativo, «liberarsi delle formule rigide della Scolastica, ed il suo intero pensiero è ancora soggetto allo schema della disputa degli universali».45 Paradigmaticamente, la tesi di Cusano per cui per cui «l’identità dell’universo può rivelarsi solamente nel dispiegarsi della sua differenziazione, come l’unità nella molteplicità»46 è tanto medievale quanto moderna: in essa è possibile leggere tanto la dottrina dalle contuizione, presente nelle pagine dell’Itinerario dell’anima a Dio di Bonaventura,47 in cui il francescano afferma come sia possibile riconoscere il divino dalle vestigia ch’egli assume nella creazione, quanto l’affermazione di una molteplicità che, dimensione essenziale del moderno, testimoniata nella formula del De pace fidei cusaniano Una religio in rituum varietate,48 non più è negabile, ma ancora riconducibile all’unità. Nondimeno, è senz’altro moderno il riconoscimento cusaniano di come il «valore assoluto dell’individuale»49 possa sfociare nella lotta di tutti contro tutti all’insegna della propria autoconservazione (basti pensare alla fortuna di una simile tesi all’interno del pensiero di Thomas Hobbes), cosicché «il mondo è allora una molteplicità di cose assolutamente differenti e finanche confliggenti, alle quali si contrappone l’assoluta unità e unitarietà del suo fondamento divino»,50 mentre è decisamente scolastico il suo ricorrere a tale proposito alla nozione di potenza,51 in virtù della quale «la domanda si sposta quindi su come si possano unire concettualmente l’unità e l’unitarietà del Dio non ancora dispiegato con la molteplicità e la pluralità del Dio dispiegato».52

Significativa è l’attenzione che Buber dedica all’interpretazione cusananiana del senso della molteplicità, attraverso la teoria dell’explicatio e della partecipatio, che riconduce tale senso a un diverso grado di presenza divina all’interno dei singoli enti. Quel grado distinguerebbe potenza e atto, ovvero possibilità e realtà di ogni singolo ente, cosicchè, pensiero di chiara impronta neoplatonica, «Dio può comunicarsi nella sua interezza con infinita frequenza, in infiniti gradi di chiarezza e di realtà, senza per questo dissolversi».53 Un simile pensiero, per i cui esiti quello di Cusano era già stato qualificato da Buber come «un sistema relativamente monistico»,54 oppure come un «emanatismo»55 nel senso plotiniano del termine, e persino come un «panteismo relativo»,56 dal momento che «in tutte le parti risplende nuovamente l’intero, in ogni cosa è presente il Tutto. […] In ogni cosa è contenuto l’universo, ma in ognuna è contenuto in quanto è quella cosa»,57 sfocia nella tesi, che Buber qualifica, non a caso, come «un approfondimento dell’antica dottrina del Microcosmo»,58 per cui «tutte le cose sono in Dio».59 Attraverso la propria facoltà conoscitiva «l’uomo trova in sé […] tutte le cose create»60: tutto è in tutto, e Dio è presente in tutto (meglio ancora, «tutte le cose si trovano in lui»),61 ma in gradi diversi.

Se «egli si immerge in ogni cosa, fino a un determinato grado di potenza»,62 ne consegue che la differenziazione delle cose consiste nel diverso grado di potenza che è proprio dei diversi enti, ovvero, nella differenza del grado e del modo di partecipazione che essi hanno alla divinità, in un’infinita successione di livelli.63 Una maggiore partecipazione alla divinità significa un maggiore passaggio dalla potenza in atto, ed essere sommamente in atto significa essere in Dio, in uno stato di quiete che non elimina l’individuazione, bensì la ricomprende. Nell’affermazione per cui «Dio non vuole eliminare la differenziazione delle cose in cui si è rivelato, bensì vuole portarla a compimento entro sé»,64 Cusano afferma come la persona non sia avviata al dissolversi della propria individualità, nello stesso modo in cui Dio non si dissolve nel suo comunicarsi nel mondo. Principio d’individuazione e dottrina del Microcosmo si coimplicano allora, in un equilibrio teoretico arditissimo che è la quintessenza della coincidentia oppositurum alla base del pensiero di Cusano: «Dio fa sì che l’individuo porti a compimento se stesso in quanto tale, e tenda parimenti alla quiete della perfezione in lui».65 In questo senso Buber può persino spingersi, in una lettura di Cusano indubbiamente audace, tuttavia legittima, e soprattutto comprensibile, considerando le ascendenze neoplatoniche, eckhartiane e nietzschiane del proprio Denken giovanile, a leggere il pieno passaggio dell’individuo dalla potenza all’atto, che «porta il singolo alla sua perfezione, e dunque, sempre più vicino a Dio»,66 equiparando «il compimento dell’individuazione ed il diventare Dio del singolo individuo».67

3.2. Böhme

Il secondo emisfero della dissertazione buberiana è dedicato a Jakob Böhme, e a giudicare dagli argomenti che vi vengono sviluppati si pone in una chiara continuità con la prima metà della medesima. Non appaiono infatti tesi radicalmente nuove, come testimonia l’affermazione buberiana in apertura di sezione per cui «la filosofia di Böhme è influenzata in quasi tutti i suoi punti da quella di Cusano»,68 pur attraverso la mediazione di Paracelso e di Weigel, puntualmente ricostruita dal filosofo viennese, che mostra una scaltrita padronanza della letteratura primaria e secondaria a riguardo.69

Anzitutto, viene ripreso il confronto con Eckhart, dove Buber avanza l’ipotesi per cui, in recisa differenza col predicatore renano, Böhme potrebbe essere chiamato «l’individualista della mistica tedesca».70 Il motivo di una simile affermazione risiede nel fatto che la modernità che Cusano inaugurava si trova, grossomodo un secolo dopo, passando attraverso il punto di non ritorno della riforma protestante, a essere pienamente matura in Böhme. La traccia più visibile di ciò è quanto sia divenuta centrale «la questione dello scopo di una molteplicità di esistenze differenti e separate»,71 fino a guadagnare, nel teosofo di Görlitz, il rango di «problema che concerne il vero senso dell’essere».72 «L’assoluta differenziazione e separatezza degli individui»,73 il mondo come molteplice, in una dispersione che deve essere ricondotta all’unità, sono dati ormai assodati. Nell’arco di un centinaio d’anni il mondo è diventato il luogo in cui «si trovano l’una di fronte all’altra l’unità, l’unicità e l’unitarietà di Dio e la molteplicità, la differenziazione e la separazione delle cose»74 che nessuna filosofia medievale — considerazione, anch’essa, che Buber riprende dalla prima metà della dissertazione — avrebbe potuto anche solo concepire.

Tale differenziazione si mostra paradigmaticamente in quel gioco che, già descritto nelle pagine di Über Jakob Böhme, scaturisce dal movimento e dall’azione reciproca di tutti gli esseri: in esso può prevalere la lotta, e quindi l’individuo, ovvero la molteplicità, piuttosto che l’amore, e quindi Dio, ovvero l’unità. Ma ciò che viene invece affermato per la prima volta nelle pagine della dissertazione, segnando un’evoluzione di pensiero buberiana rispetto all’articolo del 1901 — il filosofo ha nel frattempo fatto tesoro della lettura di Cusano e la applica a Böhme — è come il prevalere della lotta, e la conseguente affermazione dell’individuazione, non volga nella direzione opposta a Dio. Nella tesi per cui «l’individuazione è il presupposto del diventare operante di ogni movimento e di ogni realtà»,75 e che quindi anche le forze dell’individuazione giacciono all’interno di Dio, Buber ricostruisce l’affermazione di Böhme per cui «Dio nel mondo è interamente individuazione»,76 ovvero, «l’unità senza essenza ed irrazionale di Dio diventa l’unità naturale proprio attraverso l’individuazione, che è il compendio e l’anima di tutto ciò che è differenziato».77 Quei processi di gioco, nati dall’interazione reciproca degli esseri, pertanto, «non conducono al superamento, ma all’accrescimento ed all’ampliamento dell’individuazione».78 Essi, tra il prevalere del movimento dell’amore e di quello della lotta, sono «al servizio dell’individuazione»,79 e mostrano come, nel profondo, «tutte le cose sono in Dio».80

La dottrina del Microcosmo, già posta al centro delle considerazioni buberiane intorno al sistema di pensiero di Cusano, viene così riaffermata in Böhme, proprio attraverso la mediazione dei succitati Paracelso e Weigel81 (traducendosi, in quest’ultimo, nella tesi che «tutte le cose e gli esseri sono, nella loro differenziazione, differenti stadi di dispiegamento della vita divina»).82 Con ulteriore affinità riguardo quanto già sosteneva circa l’impianto filosofico di Cusano, Buber può affermare come il pensiero di Böhme «oscilla tra teismo e panteismo»,83 dove la tesi di Weigel di uno «sviluppo di Dio nel mondo»,84 per cui, in un incessante divenire, «ogni cosa sta ancora oggi nella creazione»,85 va di pari passo con la possibilità (assumendo da Cusano in questo caso la ripresa della dialettica atto/potenza) di «definire il Dio di Böhme come una infinitezza potenziale di forze che non forma però una molteplicità, bensì una unità irrazionale, cui è intrinseca una tensione a passare all’atto»,86 fino all’esito, anch’esso consonante a quello di Cusano, per cui «Dio entra interamente nella creazione, in modo così perfetto che si può identificare con le sue forze passate all’atto».87

Böhme approda così ad un «monismo panteistico»88 (che avrebbe, non a caso, attirato sul teosofo «accuse di eresia»),89 rinnovando l’affermazione neoplatonica per cui «se dunque Dio è interamente nella creazione, allora egli è anche in ogni cosa»90 — tesi che, se gettiamo il nostro sguardo un paio d’anni oltre la dissertazione del filosofo, alle prime due antologie chassidiche buberiane, comprendiamo come profondamente radicata nel suo pensiero — e pertanto, sempre sulla stessa lunghezza d’onda di Cusano, «in ogni cosa si trovano tutte le proprietà di cui consiste il mondo».91 Lo sviluppo individuale dell’uomo sarà inteso, infine, da Böhme come il «destarsi di questa o di quella proprietà»,92 ad opera di un Dio che agisce come un «principio d’individuazione dinamico»,93 come il Separatore che «introduce la sua potenza nella differenziabilità»,94 dove la massima realizzazione della forma individuale concorre, paradossalmente, «a realizzare sempre di più il Tutto»,95 dal momento che — ultima, grande affinità col pensiero di Cusano — «quanto più ogni essere trasforma la sua potenza in forma individuale, tanto più perfetta diventa l’individuazione divina».96

4. Conclusioni

Individuo ed individuazione escono rafforzati nella dissertazione buberiana del 1904, e trovano quella conciliazione agognata, quell’Uno, necessario97 anche in una modernità pienamente compiuta, ovvero, irrimediabilmente molteplice. In essa, «etica della personalità» e «individualismo metafisico» sono dati di fatto che l’uomo occidentale ha acquisito in maniera irrefutabile. Questo non significa che individuo e cosmo cessino di essere stretti in un vincolo di coappartenenza (un pensiero, questo, alla luce del quale è possibile leggere anche le più mature acquisizioni teoretiche del dialogisches Denken buberiano)98: in esso il primo non viene leso nella propria autonomia, così come il secondo mantiene intatta la propria onnicomprensività.

In questo senso Buber poteva rifarsi, fin dalla prefazione della sua dissertazione, alla dottrina del Microcosmo, intendendo come essa non dovesse essere intesa come un ritrovare «le stesse proprietà fondamentali o le stesse potenze fondamentali nel singolo individuo e nel cosmo, bensì [come] l’idea neoplatonica dell’avere tutto dentro di sé di ogni individuo».99 Alla luce del proprio sforzo ermeneutico rivolto alla pagina di Böhme, Buber ha saputo cogliere come «l’eterna tensione verso il passaggio all’atto, verso l’individuazione, verso la realizzazione di Dio»100 sono in realtà un unico grande moto, dal momento che il gioco delle forze presenti nel mondo non contrasta l’individuazione. Analogamente, volgendosi a quella di Cusano, egli ha tracciato il pensiero, che reputo possa assurgere a tesi portante dell’intera dissertazione, per cui «l’individuo è il punto medio di un infinito processo del mondo; gli elementi si compongono in lui, formando un essere legato e limitato, e da lui si scompongono, sciogliendosi nuovamente nel fluire dell’intero».101


  1. M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme. Per la storia del problema dell’individuazione, a cura di F. Ferrari, Il Melangolo, Genova 2013. Tale volume costituisce la prima edizione critica della dissertazione buberiana, rimasta fino a pochi mesi fa inedita. ↩︎

  2. Il riferimento è naturalmente a C. Magris, Lontano da dove? Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, Einaudi, Torino 1971. ↩︎

  3. A questo proposito si vedano M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografici, introduzione di D. Bidussa, traduzione di A. Franceschini, Città Nuova, Roma 1994, in particolare pp. 35-61 e M. Buber, La mia via al chassidismo, in Id., Storie e leggende chassidiche, a cura di A. Lavagetto, Mondadori, Milano 2008. ↩︎

  4. A Hugo von Hofmannsthal, nonché a Hermann Bahr, Peter Altenberg ed Arthur Schnitzler sono dedicati quattro brevi saggi scritti in polacco, che costituiscono l’esordio letterario buberiano: Z literatury wiedeñskiej, in Przeglad Tygodniowy Zycia Spolecznego, Literatury i Sztuk Pieknych, XXXII, 25, 19.6.1897, pp. 297-298; 27, 3.7.1897, pp. 321-322, e riediti (in tedesco) in M. Buber, Werkausgabe, Frühe kulturkritische und philosophische Schriften 1891-1924, vol. I, a cura di M. Treml, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2001. ↩︎

  5. Cfr. A. Eliasberg, Aus Martin Bubers Jugendzeit: Erinnerungen, in Blätter des Heine-Bundes, Berlin, vol. I. n. 1. (Aprile 1928), pp. 1-7. ↩︎

  6. Paula, futura autrice di diversi romanzi sotto lo pseudonimo di Georg Munk, avrebbe aderito con entusiasmo alla causa sionista, cfr. P. Winkler, Betrachtungen einer Philozionistin, in Die Welt, 5/36, 1901, pp. 4-6. ↩︎

  7. Cfr. «Simmel e Dilthey furono i miei maestri. Essi influenzarono fortemente il mio pensiero tra il 1898 ed il 1904» (lettera di Buber a M. Friedman del 11.8.1951, in M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, a cura di G. Schaeder, Lambert Schneider, Heidelberg 1975, vol. III, p. 290). Presso la Neue Gemeinschaft Landauer e Buber tennero due conferenze ciascuno: Durch Absonderung zur Gemeinschaft e Friedrich Nietzsche il primo, Alte und neue Gemeinschaft e Über Jakob Böhme il secondo. Landauer avrebbe realizzato, di lì a pochi anni, la prima antologia di Meister Eckhart in tedesco moderno. Per uno sguardo più approfondito, rimando al mio F. Ferrari, Jakob Böhme: Il primo incontro di Martin Buber con la mistica tedesca (1901-1904), in Rivista di ascetica e mistica, n. 3, 2012, pp. 573-604. ↩︎

  8. Cfr. M. Buber, Incontro, cit., pp. 49-52; in occasione della morte del filosofo di Röcken Buber stese un acuto necrologio: M. Buber, Ein Wort über Nietzsche und die Lebenswerte, in Die Kunst im Leben, I/2, 12. 1900, p. 13. ↩︎

  9. Nel corso delle lezioni Il problema dell’uomo Buber rammenterà gli anni della dissertazione in questi termini: «dopo il 1900 mi ero trovato prima sotto l’influenza della mistica tedesca, da Meister Eckhart ad Angelo Silesio, per la quale il fondamento primo dell’essere, la divinità senza nome e impersonale, giunge a nascimento solo nell’anima umana; poi sotto l’influenza del tardo pensiero cabalistico, secondo cui l’uomo avrebbe il potere di unire Dio, che è aldilà del mondo, alla sua Shekinah, immanente nel mondo. Si era formata così in me l’idea di una realizzazione di Dio mediante l’uomo; nell’uomo vedevo l’essere attraverso la cui esistenza l’Assoluto, che riposa nella sua verità, può acquisire il carattere della realtà concreta» (M. Buber, Il problema delluomo, a cura di I. Kajon, Marietti, Genova 2004, p. 93). Sulla presenza di elementi orientali nel suo pensiero d’inizio Novecento, ben prima di Confessioni estatiche e delle due antologie Reden und Gleichnisse des Tschaung Tse e Chinesische Geister- und Liebesgeschichten possiamo leggere in una lettera buberiana del 1900: «vivo attualmente una parte della giornata nell’antico Egitto, nel mondo della storia di Satu» (lettera di Buber a P. Winkler del 4.8.1900, in M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, cit, vol. I, pp. 156, 157) non meno che un esplicito riferimento al Vedanta in M. Buber, Jakob Böhme, in F. Ferrari, Jakob Böhme: il primo incontro di Martin Buber con la mistica tedesca (1901-1904), cit, pp. 598-604 (il riferimento è a p. 601). ↩︎

  10. G. Simmel, Die Religion, Rütten & Loening, Frankfurt a. M. 1906. Tale testo apparve all’interno della serie di monografie Die Gesellschaft, coordinata da Martin Buber medesimo (trad. it: G. Simmel, La religione, in Id., Scritti di sociologia della religione, a cura di R. Cipriani, Borla, Roma 1993). ↩︎

  11. J. Burckhardt, Die Cultur der Renaissance in Italien, Schweighauser, Basel 1860 (trad. it: J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, a cura di E. Garin, Sansoni, Firenze 1968). ↩︎

  12. Dilthey pubblicò sull’Archiv für Geschichte der Philosophie numerosi saggi a questo proposito tra il 1891 e il 1904. Georg Misch li raccolse all’interno dei Gesammelte Schriften diltheyani nel volume Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation (Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1914), edito in italiano in due tomi come L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura (a cura di G. Sanna, La Nuova Italia, Venezia 1927). ↩︎

  13. Si veda a questo proposito M. Buber, Kultur und Zivilisation. Einige gedänken zu diesem Thema (in Kunstwart, XIV/15, 1. Maggio 1901, pp. 81-83; ripubblicato in M. Buber, Frühe kulturkritische und philosophische Schriften (1891-1924), a cura di M. Treml, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2001), dove il filosofo propone la contrapposizione tra «epoche di gestazione culturale» ed «epoche di maturazione culturale». ↩︎

  14. M. Buber, Jüdische Renaissance, in Ost und West, I/1, gennaio 1901, cols. 7-10 (ripubblicato in M. Buber, Frühe jüdische Schriften, 1900-1922, a cura di B. Schäfer, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2007). Per le diverse valenze del Rinascimento nel pensatore ebraico rimando al mio saggio introduttivo Il Rinascimento di Buber (in M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme, cit, pp. 7-38) e al volume di A. Biemann, Inventing new beginnings: on the idea of Renaissance in modern Judaism, Stanford University Press, Stanford 2009. ↩︎

  15. Cfr. M. Buber, Jüdische Renaissance, in Id., Frühe jüdische Schriften, 1900-1922, cit, pp. 145, 146. ↩︎

  16. M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme, cit, p. 59. ↩︎

  17. Ivi, p. 43. ↩︎

  18. Ivi, p. 45. ↩︎

  19. Ivi, p. 43. ↩︎

  20. Circa la possibilità di affermare contemporaneamente individualità e coappartenenza, significative riflessioni erano già state formulate dell’amico Landauer in Zur Entwicklungsgeschichte des Individuums. Tale scritto fu pubblicato tra il 1895 ed il 1896 in Der Sozialist, V, n. 12, 2 novembre 1895, pp. 67-68; Der Sozialist, V, n. 14, 16 novembre 1895, pp. 83-84; Der Sozialist, V, n. 16, 30 novembre 1895, p. 94; Der Sozialist, VI, n. 2, 11 gennaio 1896, pp. 9-10; Der Sozialist, VI, n. 6, 8 febbraio 1896, pp. 33-34 (riedito in G. Landauer, Signatur: g.l. Gustav Landauer im Sozialist (1892-1899), a cura di R. Link-Salinger, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, pp. 324-349). ↩︎

  21. Proprio in questi termini avrebbe definito il se stesso degli anni universitari: «fino ai miei vent’anni, e in minor misura anche dopo, il mio spirito fu in costante e molteplice movimento, in un alternarsi di tensioni e allentamenti determinato da molteplici influssi, dai volti sempre nuovi, ma senza centro e senza sostanza che crescesse; quello che vivevo era davvero lo Olam ha tohu, il mondo del disordine, la mitica dimora delle anime erranti: in mobile ricchezza dello spirito ma senza ebraismo, e anche senza umanità e senza presenza del divino» (M. Buber, La mia via al chassidismo, cit, p. 411). ↩︎

  22. M. Buber, Jakob Böhme, cit, p. 598. ↩︎

  23. Ivi, p. 602. La pagina di Buber si segnala inoltre per tonalità weigeliane/nietzschiane da un lato, apertamente panteistiche dall’altro, che il filosofo in seguito rinnegherà, anche recisamente. Qui egli appoggia con entusiasmo l’argomento di Böhme del Dio in divenire, per cui se la creazione è ancora in atto e noi uomini creiamo il mondo continuamente riversandovi la nostra potenza, allora interveniamo sul suo destino con un «nuovo Dio, che noi creiamo» (Ivi, p. 601). Buber approda in queste pagine alla tesi che «noi conosciamo il mondo perché lo possediamo dentro di noi» (Ivi, p. 603) dal momento che «l’Io è il mondo» (Ivi, p. 602), e si esprime con enfasi, nelle pagine finali dell’articolo, nei termini di Weltgefühl, ricorrendo anche alla prima persona, indicando la coappartenenza del singolo io con il frutto che mangia, il vino che beve, con un albero che abbraccia, con un animale cui restituisce lo sguardo, con il movimento delle stelle (Ivi, p. 603). ↩︎

  24. Ivi, p. 602. ↩︎

  25. Nella sua monografia From mysticism to dialogue, P. Mendes-Flohr offre un ripercorrimento del pensiero Erlebnis-mystisch buberiano, evidenziando diverse influenze presenti nella sua trattazione del problema dell’individuazione (P. Mendes-Flohr, From mysticism to dialogue. Martin Buber’s transformation of German social Thought, Wayne State U. P., Detroit 1989, pp. 49-62). Anzitutto, Schopenhauer, per cui «il mondo empirico è principalmente un fatto di individuazione: una pluralità di unità discrete ed autonome, tutte separate eternamente le une dalle altre» (Ivi, pp. 50,51) che, kantianamente, possono essere percepite tramite tempo e spazio. Una pluralità che tuttavia si rivela solo illusoria, frutto del velo di Maya, oltre il quale è sita l’unità noumenica del principio della volontà, dove proprio il principium individuationis è la sorgente di ogni dolore. Quindi, il problema dell’individuazione troverebbe sviluppo nella Nascita della tragedia (Ivi, pp. 52-54), nell’atteggiamento di Apollo, che ne attuerebbe una vera e propria «divinizzazione», laddove Dioniso ne rappresenterebbe invece il superamento, reimmettendo il singolo nel flusso perpetuo ed organico di cui è parte, nell’affermazione, posta esplicitamente da Nietzsche, dell’unità del tutto. Quindi, la Neue Gemeinschaft diventerà un uditorio ricettivo all’intento buberiano di oltrepassare il principio di individuazione, oltre il tempo e lo spazio, le coordinate kantiane che Buber aveva appreso dai Prolegomena. Nel pensiero di Julius Hart, colui che poteva essere chiamato individuo era invece «diventato l’universo, l’eternità» (J. Hart, Der neue Mensch, in J. e H. Hart, Das Reich der Erfüllung, Diederichs, Leipzig 1901, p. 21) senza più distinzione alcuna tra l’Io e il mondo (J. Hart, Von der Überwindung der Gegensätze, Ivi, p. 40). ↩︎

  26. M.Buber (a cura di), Die Lehre vom Tao, in Id., Reden und Gleichnisse des Tschaung Tse, Insel, Leipzig 1910; M. Buber, Estasi e confessione, in Id., Confessioni estatiche, a cura di C. Romani, Adelphi, Milano 1987. ↩︎

  27. M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme, cit, p. 45. ↩︎

  28. Ibid. ↩︎

  29. Ivi, p. 47. ↩︎

  30. Ibid. ↩︎

  31. Ivi, p. 59. ↩︎

  32. Ibid. ↩︎

  33. Ivi, p. 51. ↩︎

  34. Ibid. ↩︎

  35. Ivi, p. 55. ↩︎

  36. Ivi, p. 59. ↩︎

  37. Ivi, p. 55 e p. 59. ↩︎

  38. Ibid. Tale tesi era già stata introdotta a p. 51. ↩︎

  39. Ibid. ↩︎

  40. Ivi, p. 57. ↩︎

  41. Ivi, p. 111. ↩︎

  42. Ivi, p. 59. ↩︎

  43. Ivi, p. 57. Poco più avanti, Buber definirà, con tonalità indubbiamente eckhartiane, quello di Cusano come «un sistema relativamente monistico […], per cui il mondo è il Deus sensibilis , e Dio vive nell’individuo come l’anima di un uomo vive nei suoi organi, interamente in ognuno, inserito all’interno di ognuno. Tutto è Dio: origine indivisa, mondo dispiegato e meta dell’unificazione di tutto l’essere» (Ivi, p. 67). Buber accennerà anche come, a tale proposito, il sistema di Cusano sia stato definito, alla stregua di quello di Plotino, nei termini di un «emanatismo» (Ibid). Si noti, per inciso, l’insospettata consonanza tra la tesi della nascita di Dio nell’uomo e del Grund der Seele eckhartiano con la dottrina cabalistica delle scintille esposta nelle prefazioni buberiane alle Storie di rabbi Nachman (1906) e della Leggenda del Baal Schem (1908). ↩︎

  44. M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme, cit, p. 57. ↩︎

  45. Ibid. ↩︎

  46. Ivi, p. 63. ↩︎

  47. Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario dell’anima a Dio, a cura di L. Mauro, Rusconi, Milano 1985. ↩︎

  48. Per un’articolata interpretazione del nesso tra libertà religiosa e modernità rimando a R. Celada Ballanti, Pensiero religioso liberale. Lineamenti, figure, prospettive, Morcelliana, Brescia 2009. ↩︎

  49. M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme, cit, p. 65. ↩︎

  50. Ibid. ↩︎

  51. Ivi, p. 77. ↩︎

  52. Ivi, p. 67. ↩︎

  53. Ivi, p. 73. ↩︎

  54. Ivi, p. 59. ↩︎

  55. Ivi, p. 67. ↩︎

  56. Ibid. ↩︎

  57. Ivi, p. 75. ↩︎

  58. Ivi, p. 73. ↩︎

  59. Ivi, p. 69. ↩︎

  60. Ivi, p. 75. ↩︎

  61. Ivi, p. 83. ↩︎

  62. Ivi, p. 77. ↩︎

  63. Cfr. Ivi, p. 81. ↩︎

  64. Ivi, p. 85. ↩︎

  65. Ibid. ↩︎

  66. Ivi, p. 83. ↩︎

  67. Ivi, p. 87. ↩︎

  68. Ivi, p. 89. ↩︎

  69. Si vedano in particolare le pp. 91-93. ↩︎

  70. Ivi, p. 89. ↩︎

  71. Ibid. ↩︎

  72. Ibid. ↩︎

  73. Ivi, p. 97. ↩︎

  74. Ivi, p. 99. ↩︎

  75. Ivi, p. 107. ↩︎

  76. Ibid. ↩︎

  77. Ivi, p. 109. ↩︎

  78. Ivi, p. 119. ↩︎

  79. Ivi, p. 117. ↩︎

  80. Ibid. ↩︎

  81. Ivi, p. 91. ↩︎

  82. Ivi, p. 97. ↩︎

  83. Ivi, p. 99. ↩︎

  84. Ivi, p. 101. ↩︎

  85. Ivi, p. 115. ↩︎

  86. Ivi, p. 105. ↩︎

  87. Ivi, p. 111. ↩︎

  88. Ivi, p. 99. ↩︎

  89. Ivi, p. 111. ↩︎

  90. Ibid. Nelle prefazioni buberiane alle Storie di rabbi Nachman (1906) e della Leggenda del Baal Schem (1908) leggiamo: «ogni azione in sé consacrata, per quanto umile e insensata possa apparire a chi giunga dall’esterno, è la via per il cuore del mondo. In tutte le cose, anche in quelle apparentemente morte, abitano scintille di vita che cadono nell’anima pronta ad accoglierle» (M. Buber, Le storie di Rabbi Nachman, in Id., Storie e leggende chassidiche, cit, p. 48); «le scintille gli appartengono, sorelle della radice della sua anima: sono le sue forze, ciò che deve redimere. Egli le redime quando restituisce ogni pensiero torbido alla sua pura sorgente, quando riversa nel divino impulso universale ogni impulso che medita separazione, e dissolve ogni cosa estranea nell’appartenenza» (M. Buber, La leggenda del Baal Schem, pp. 231, 232). Un ulteriore motivo offerto dalla dissertazione che tornerà prepotentemente nell’interpretazione buberiana del chassidismo è quello del plesso problematico che lega panenteismo e pansacralità (M. Buber, Esistenza simbolica e sacramentale, in Id., Il messaggio del chassidismo, a cura di F. Ferrari, Giuntina, Firenze 2012, p. 145), introdotto dal filosofo viennese fin dalla prima sezione della dissertazione, allorché definiva il pensiero di Cusano come un «panteismo relativo, che vede Dio in tutto, ma anche al di fuori di tutto; la natura come il Dio esperibile, ma solamente come indicazione della trascendenza dell’inesperibile; ogni singolo essere come divino, ma solamente come efflusso di una origine unitaria, la cui unità e interezza accade attraverso questa emanazione o dispiegamento, senza alcuna interruzione» (M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme, cit, p. 67). ↩︎

  91. M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme, cit, p. 111. ↩︎

  92. Ivi, p. 113. ↩︎

  93. Ivi, p. 115. ↩︎

  94. Ibid. ↩︎

  95. Ibid. ↩︎

  96. Ivi, p. 117. ↩︎

  97. L’espressione Eins tut Not (Luca 10, 42) è un Leitmotiv negli scritti giovanili buberiani, attestabile già in Weltzionistentag (M. Buber, Weltzionistentag, in Die Welt, V/38, 20.9.1901, pp. 1-2), presente quindi in L’Ebraismo e l’umanità, Lo spirito dell’Oriente e l’Ebraismo e Religiosità ebraica (M. Buber, Discorsi sull’Ebraismo, introduzione di Andrea Poma, traduzione di Dante Lattes e Mosè Beilinson, Gribaudi, Milano 1996), nonché nel già citato Estasi e confessione, in scritti dedicati alle religioni orientali come Buddha e Die Lehre vom Tao (pubblicati rispettivamente in M. Buber, Ereignisse und Begegnungen, Insel, Leipzig 1917, sebbene composto nell’estate 1907, e nel già ricordato Reden und Gleichnisse des Tschuang-Tse) fino a Daniel (pubblicato nel 1913, disponibile in italiano come M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, a cura di Francesca Albertini, Giuntina, Firenze 2003). ↩︎

  98. A questo proposito rimando al capitolo Cosmo e relazione ed al paragrafo «Relazione è reciprocità»(spirito e cosmo) del mio Presenza e relazione nel pensiero di Martin Buber (Edizioni dell’Orso, Alessandria 2012, rispettivamente alle pp. 90-102 e 182-186) ↩︎

  99. M. Buber, Niccolò Cusano e Jakob Böhme, cit, p. 47. ↩︎

  100. Ivi, p. 119. ↩︎

  101. Ivi, p. 63. ↩︎