Per un platonismo non ingenuo

Il dialogo tra matematica e filosofia solca la storia del pensiero occidentale sin dalle incerte notizie sulle imprese di Talete e dei primi pitagorici. Gli incontri ravvicinati registrati dalle cronache (la porta d’ingresso dell’Accademia, il Discours de la méthode, i giudizi sintetici a priori) non sono che le scintille prodotte dall’estenuante fatica di risolvere una questione che potremmo riassumere così: qual è la natura d’una scienza esatta che ignora liberamente la realtà, pur interpretandola nella maniera più perfetta. Interrogando la natura dei numeri (per dirla con Dedekind, «l’essenza e il significato dei numeri»), o il significato dei postulati nelle diverse geometrie, o i fondamenti di tanta certezza, noi trasformiamo la questione dell’essenza della matematica, altrimenti ineffabile, in un poliedro le cui facce sono, per lo meno, concepibili e osservabili.

Pur avvezzi da millenni a tali ricerche, solo di recente abbiamo ritenuto necessario definire una nuova disciplina: la filosofia della matematica.1 Che cosa sia esattamente questo ramo del sapere, che duecent’anni fa non esisteva, è difficile dedurlo dall’etimologia: «amore per la sapienza in relazione all’arte dell’apprendimento»? La specializzazione (non solo dei saperi, ma dei corsi universitari, delle carriere, dei comparti delle librerie) ha richiesto un’etichetta che separasse quel dialogo sia dalla filosofia che dalla matematica, elevandolo al rango di disciplina autonoma. Nato sotto tali auspici, non meraviglia che il prodotto culturale e commerciale appena battezzato «filosofia della matematica» si frantumi immediatamente in opportuni sottoprodotti, pei quali occorre scegliere i nomi, e cioè altre etichette: logicismo, intuizionismo, realismo, formalismo si affrontano prima mediante i loro profeti, poi mediante gli storici e i biografi di quei profeti; storici e biografi hanno per lo più abbandonato la ricerca (sulla natura dei numeri, sul problema della certezza, eccetera), e dibattono sulle somiglianze e differenze tra le varie scuole. Questioni noiose e irresolubili: i padri fondatori, come tutti i filosofi, han cercato la verità e non la coerenza, confondendo i cartellini delle varie specialità.

In mezzo a questa collezione di filosofie dal respiro corto emerge, grazie al suo nome altisonante, il cosiddetto platonismo matematico. La sua tesi è semplice e non manca di fascino: gli enti matematici godono di un’esistenza reale e indipendente dal soggetto conoscente. Quanto alla realtà, si dice che tutti i matematici siano platonisti: «Il matematico non dubita dell’esistenza di 21000000−7, non più di quanto dubiti dell’esistenza della propria matita».2 Al contrario, l’indipendenza ontologica è, secondo chi scrive, una chiara usurpazione, nel senso che non corrisponde alla posizione di Platone e neppure a quella del platonista per eccellenza, Georg Cantor. Dopo quanto s’è detto, sarà chiaro che non ci interessa partecipare al dibattito storico-biografico sul problema dei fondamenti dell’analisi, bensì denunziare, attraverso l’inadeguatezza del platonismo matematico, l’artificiosità e l’inutilità del sistema delle etichette. Vorremmo che le filosofie della matematica finalmente scomparissero, lasciando spazio al dialogo dell’anima con sé stessa alla ricerca della verità; il quale può dirsi semplicemente filosofia, anche quando l’anima s’interroga sulla matematica.

1. Autopresentazione del platonismo ingenuo

Il platonismo matematico (malgrado il nome) è una novità del Novecento, come la psicanalisi, il futurismo, la teoria della relatività; non dobbiamo perciò rileggere il Fedone o il Fedro, ma le dichiarazioni dei contemporanei:

La tendenza di cui parliamo consiste nel raffigurarsi gli oggetti come distaccati d’ogni legame con il soggetto riflettente. Poiché questa tendenza s’è affermata soprattutto nella filosofia di Platone, mi sia consentito di qualificarla «platonismo».3

Le classi e i concetti della matematica possono essere concepiti come oggetti reali […] esistenti indipendentemente dalle nostre definizioni e costruzioni. Mi sembra che l’ipotesi dell’esistenza di tali oggetti sia altrettanto legittima dell’ipotesi di esistenza di corpi fisici.4

Ogni conoscenza dev’essere riconoscimento, per non essere pura illusione; l’aritmetica deve esser stata scoperta proprio nel senso in cui Colombo scoprì le Indie Occidentali, e noi non creiamo i numeri più di quanto egli creò gli Indiani.5

Nelle cronache troviamo il nome alternativo di platonismo ingenuo,6 non troppo sconveniente per una filosofia che colloca sulla stessa linea d’orizzonte i numeri naturali e gli indiani d’America; le certezze di Russell e la definizione di Bernays presuppongono infatti una sorta di «teoria ingenua delle idee», ovvero un miniplatonismo racchiuso nel mito dell’iperuranio. E benché Platone abbia escluso la possibilità di comprendere le idee secondo la cosiddetta lezione ingenua,7 la suggestiva immagine dei matematici-esploratori, che intravedono i numeri all’orizzonte di prua, ha avuto la fortuna d’uno scoop giornalistico. A distanza di cent’anni e grazie a migliaia di citazioni, Russell è riuscito a imprigionare la teoria delle idee in una caricatura:

Il Grande Castello Matematico svetta da qualche parte, nel Mondo Platonico delle Idee; è un mondo non costruito dai matematici ma da loro svelato a poco a poco, con devozione e umiltà […]. Chi sia il costruttore del Grande Castello non è dato sapere, anche se qualcuno sembra avere certezze al riguardo, come Georg Cantor e la sua infinita collezione di infiniti, direttamente ispirata da Dio.8

La tirata d’orecchi a Cantor è un buon esempio delle innumerevoli digressioni polemiche che infestano i discorsi sulla natura della matematica. È difficile orientare il ragionamento basandosi sui fatti: la matematica non dispone di piselli odorosi, né di pianeti in orbita, né di sogni da analizzare, ma offre, come unico dato di fatto, la propria storia. A partire da questa (nella fattispecie, la storia della teoria degli insiemi) cercheremo di comprendere se gli insiemi (e con essi i numeri transfiniti, ma anche gli irrazionali, dal momento che Cantor stabilisce un legame di necessità reciproca tra i tre tipi di enti) siano esempi adeguati di quel «mondo non costruito dai matematici, ma da loro svelato»; oppure se non sia più giusto dire che quegli enti sono stati inventati, creati, generati.

2. Una lettura matematica del Filebo

La campagna per iscrivere Cantor tra i profeti del platonismo si fonda su questa candida confessione:

Per «molteplicità» o «insieme» intendo ogni Molti che si possa pensare come Uno, ovvero ogni classe composta di elementi determinati che possa essere unita in un tutto da una legge, e credo di definire in questo modo qualcosa di simile all’eidos o idea di Platone, nonché a ciò che lo stesso Platone, nel Filebo, chiama mikton. Egli contrappone questo mikton sia all’apeiron, cioè all’illimitato, che io chiamo infinito improprio, sia al persa o limite, e lo descrive come un «miscuglio» ordinato dei due.9

Questo platonismo è tutt’altro che ingenuo, a cominciare dai puntuali riferimenti al testo dei dialoghi. Per di più, l’accenno al Filebo evoca un’ontologia complessa, nella quale la contemplazione di idee immutabili e eterne è interrotta dalla possibilità di generare nuovi enti:

«Dividiamo in due tutti gli enti che ora sono inclusi nel tutto; o piuttosto, se vuoi, in tre».

«In che modo? Lo potresti dire?»

«Dicevamo che il dio ci ha mostrato l’illimitato e il limite negli enti […]. Allora, poniamo questi due generi, e, come terzo, una unità che deriva dalla mescolanza di questi due […]. Tutte le cose che ci sembrano divenire più e meno si devono tutte porre nel genere dell’illimitato […]. Le realtà che non accettano queste cose, innanzitutto l’uguale e l’uguaglianza, e dopo l’uguale il doppio e tutto quello che sia un numero in rapporto a un altro numero, o una misura in rapporto a una misura, se le riferissimo tutte quante al genere del limite, faremmo bene a farlo, sembra. Tu che dici?»

«Molto bene, Socrate».

«Ma il terzo genere, che è un misto (meikton) degli altri due, quale idea diremo che implica?»

«Dovrai dirmelo tu, credo» […].

«Mescola [al genere dell’illimitato] il genere del limite […]. Quello dell’uguale e del doppio, e in generale quello che fa cessare i rapporti di opposizione che i contrari hanno gli uni rispetto agli altri, e li rende commensurabili e proporzionati, introducendo il numero».

«Capisco. Infatti, mi sembra che tu dica che, nel mescolare queste cose, ne derivano, in ciascuna mescolanza, determinate generazioni».

«Dunque, ho parlato di questi tre generi, se capisci il mio pensiero».

«Ma sì, credo di capirlo. Mi sembra che tu dica che uno è l’illimitato, un altro — e secondo — il limite negli enti. Quanto al terzo, invece, non afferro bene cosa tu voglia indicare».

«In effetti, la molteplicità della generazione del terzo genere, mirabile amico, ti ha sbalordito […]. Come terzo genere dì pure che io, ponendo come unità tutto ciò che è generato dai primi due, intendo una generazione verso l’essere (genesis eis ousian) dalle misure portate a compimento con il limite (ton meta tou peratos apeirgasmenon metron)».10

Il genere misto, che Socrate introduce con una certa riluttanza («dividiamo in due tutti gli enti, o piuttosto, se vuoi, in tre»), è necessario a garantire il lieto fine del dialogo.11 Le idee del Fedone («l’uguale e l’uguaglianza, e dopo l’uguale il doppio e tutto quel che sia un numero in rapporto a un altro numero»)12 vengono relegate nel recinto del limite, fuori dal quale, in un territorio ancora indefinito, spaziano «tutte le cose belle per noi» ,13 e tra esse la vita felice:

Noi abbiamo attribuito la vittoria alla vita mista di piacere e pensiero […]. Dunque, non dobbiamo vedere come sia questa vita e a quale genere appartenga? […] Diremo che essa è una parte del terzo genere, ritengo. Infatti, quel genere è misto (mikton) non solo di due determinati elementi, ma di tutti gli illimitati legati insieme dal limite.14

Il ragionamento di Socrate si lascia trasferire con docilità nel contesto matematico, com’è facile mostrare con l’aiuto d’un esempio illustre: la successione costruita iterando all’infinito l’espressione (1 + 1/n)n.

(1) 2/1, 9/4, 64/27, 625/256 …

In base a una chiara indicazione di Socrate,15 ciascun rapporto, preso singolarmente, appartiene al genere del limite. La successione (1) appartiene invece al genere dell’illimitato, ma il senso di quest’appartenenza è ambiguo: si può constatare che contiene infiniti termini, ma allora, per definizione, ogni successione è nel genere dell’illimitato. Il testo del Filebo può suggerire una condizione più restrittiva: la successione (1) è condannata all’infelice condizione di «assoluta illimitatezza» perché non converge verso alcun limite razionale, e quindi non conoscerà mai una «giusta misura»;16 è impossibile associarle un valore, un numero, insomma un ente del secondo genere.17 Come suggerisce Socrate («mescola ad esso la stirpe del limite […] introducendo il numero»)18 l’operazione di assegnare comunque un valore limite alla successione richiede la definizione di un nuovo numero (cioè, un numero irrazionale): e = limn→∞ (1 + 1/n)n. In tal modo l’illimitato viene «legato insieme con il limite»:

(2) 2/1, 9/4, 64/27, 625/256, … → e

La generazione di e «dalle misure portate a compimento con il limite» elimina il carattere d’indeterminatezza dell’espressione (1), e la trasforma nella (2), fotografia del felice processo evolutivo. Naturalmente nel Filebo non c’è alcuna allusione al numero di Nepero. Eppure, anche a prescindere dall’importanza dell’insegnamento orale nell’Accademia, il contesto storico, che vede i pitagorici generare la misura della diagonale del quadrato,19 rende plausibile l’interpretazione matematica. Del resto, la questione delle grandezze incommensurabili fa capolino continuamente nei dialoghi, talvolta in sordina talaltra con prepotenza.20 Ora, mentre intesse la sua teoria degli insiemi, Cantor, consapevolmente o meno, riprende e generalizza il risultato dei pitagorici e da qui lancia la sua celebre definizione di numero irrazionale; perciò la proiezione del Filebo sullo sfondo di quelle pagine matematiche, scritte duemila anni dopo, non è un anacronismo.

3. Il platonismo ingenuo di fronte alla generazione dei numeri transfiniti

Il platonista ingenuo non vede la necessità di scomodare il genere mikton, «sostanza mista e generata»,21 laddove quel «Molti che si possa pensare come Uno» può essere assorbito tranquillamente dalla teoria ingenua delle idee. Già si profila un dibattito talmente astratto che chiunque potrà dire qualunque cosa: meglio limitarsi ai fatti. Il nostro dato di fatto, come s’è detto, è la storia della teoria degli insiemi, perciò andiamo a leggere quelle pagine nelle quali tale teoria prende forma:

L’esposizione delle mie ricerche sulla teoria delle molteplicità è giunta a un punto tale che la possibilità di proseguirla dipende da un ampliamento del concetto di numero intero reale al di là dei limiti che esso ha avuto finora.22

I numeri transfiniti sono numeri interi maggiori dei numeri naturali:

1, 2, 3, … , 10, 11, 12, . . ., 100, 101, … ω, ω+1, ω+2, ω+3 …

La successione non va confusa con la seguente:

1, 2, 3, … , 10, 11, 12, . . ., 100, 101, … n, n+1

perché in quest’ultima n è il successore di n-1; mentre ω non è il successore di alcun numero.

È senz’altro lecito pensare questo numero ω appena creato come il limite al quale tendono i numeri n, se con ciò s’intende solamente che ω dev’essere il primo numero intero che segue tutti gli n, ovvero è da considerare maggiore di ciascuno di essi.23

La successione 1, 2, 3, … , 10, 11, 12, . . ., 100, 101, … n, n+1… appartiene all’apeiron: non esiste infatti un limite, un valore, un numero, che le si possa associare; e ciò le dà il carattere di infinito indeterminato. Di contro, ω è un infinito esattamente determinato: «il primo numero intero che segue tutti gli n». Evidentemente ω non appartiene al genere peras (cioè, del limite, della misura), perché non è un numero finito, limitato, come 1 o 1000 o 3/4, ma si ottiene a partire dall’apeiron:

1, 2, 3, … , 10, 11, 12, . . ., 100, 101, … n, n+1

e poi, seguendo l’invito di Socrate («mescola ad esso la stirpe del limite […] introducendo il numero»),24 chiudendo la successione:

1, 2, 3, … , 10, 11, 12, . . ., 100, 101, … n, n+1… → ω

Così viene a generarsi il nuovo ente ω.

Primo genere dico l’illimitato, secondo il limite, poi, come terzo, derivato da questi due, la sostanza mista e generata (meikten kai gegenemenen ousian).^[25]

Infatti mi sembra che tu dica che, nel mescolare queste cose, ne derivano, in ciascuna mescolanza, determinate generazioni.25

Occorre adesso ricordare altri due dati di fatto: primo, i numeri naturali non sono equipotenti ai numeri reali; in termini grossolani ma in fondo esatti, ℕ e ℝ sono infiniti di diversa grandezza. Secondo, è stato proprio Cantor a scoprire e a dimostrare il fatto precedente.26 Questa scoperta convince Cantor della necessità di definire nuovi numeri da associare alle grandezze infinite, per purgarle dall’apeiron, ed è a questo punto che il platonismo ingenuo rimane irrimediabilmente lontano dallo sviluppo degli eventi: è certamente possibile pensare a tutti i numeri naturali come a un Uno, e l’oggetto di questo pensiero è l’insieme ℕ; il quale potrebbe abitare qualche stanza del grande castello matematico, forse la stessa di ℚ e di ℝ. Ma le domande «quanti sono i numeri naturali» e «quanti sono i numeri reali» hanno due risposte diverse, e affinché queste risposte siano date in forma esatta (come s’usa in matematica) occorre che siano dei numeri. Quindi, anche se gli insiemi ℕ e ℝ esistono prima di Cantor, come gli Indiani d’America prima del 1492; e anche se Cantor ha svelato che ℕ e ℝ non sono infiniti equivalenti, così come Colombo scoprì i pomodori e i pappagalli; ebbene, il fatto che ℕ e ℝ non sono infiniti equivalenti ci pone di fronte all’obbligo di fornire una risposta matematica, cioè esatta, alla domanda «quanti sono i numeri naturali», il che significa che è necessario generare (Cantor, con ancor meno scrupoli, dice creare)27 i numeri transfiniti; ω è il frutto della mescolanza di apeiron (la successione illimitata e indeterminata dei naturali) e di peras (il concetto di numero intero reale opportunamente «ampliato», per dirla con Cantor). Nell’assolvere questo compito, sottolinea compiaciuto Cantor, consiste l’esercizio della libertà.

4. Ancora sui numeri transfiniti, ovvero le «nuove irrazionalità»

Secondo l’autorevole parere di Zermelo, l’intera teoria degli insiemi è una conseguenza della ricerca di Cantor sui numeri irrazionali.28 Cantor definisce successione fondamentale29 di razionali una molteplicità infinita di numeri (an) tali che limn→∞(an+man) = 0. Alcune di queste successioni hanno limite razionale,30 mentre a ogni successione che non ha un limite razionale viene associato «un numero b da definire per suo mezzo»; per evitare la circolarità, Cantor è ben attento a non definire b come il limite di (an):

Mediante le definizioni date sopra il concetto b è stato pensato come un oggetto avente determinate proprietà e relazioni con i numeri razionali, dalle quali si può dedurre con evidenza logica che limn→∞(an) = b.31

Cantor riconosce che al posto del segno b si potrebbe scrivere direttamente «lo stesso segno (an), proposto da Heine».32 Ma il segno (an) denota già una molteplicità infinita; ora lo si vuole identificare con un «uno», cioè col nuovo concetto. Questa necessaria confusione tra un’infinita molteplicità di razionali e il limite della successione apre la porta al concetto di insieme, e il numero irrazionale è infatti già un prototipo di insieme: un «molti che si lascia pensare come uno», ma anche una «sostanza mista e generata», frutto del processo di «generazione verso l’essere dalle misure portate a compimento con il limite», ovvero «misto di tutti gli illimitati legati insieme con il limite».

Cantor sottolinea che la propria definizione di numero irrazionale, pur essendo logicamente equivalente a quelle di Weiestrass e Dedekind, presenta una differenza «al momento della produzione (Erzeugungsmoment), che collega l’insieme col numero definito per suo mezzo».33 Quest’idea della produzione di nuovi numeri deve esser stata, per Cantor, di grande ispirazione, tanto da governare la nascita dei transfiniti. Egli rilegge liberamente il secondo assioma di Peano (’ogni numero ha un successore’) come un primo principio di produzione, grazie al si costruisce la serie dei naturali: in pratica, si aggiunge ogni volta l’unità, p. es. 5=4+1; ancor più liberamente, facendo appello a una sorta di diritto d’estensione, Cantor aggiunge un secondo principio di produzione:34

Data una successione di numeri interi reali tale che non ve ne sia uno massimo, viene creato un nuovo numero (eine neue Zahl geschaffen wird) che può essere pensato come il limite dei precedenti, ovvero come il primo numero maggiore di ciascuno di essi.35

Sembra evidente che ω, il primo numero transfinito, venga creato e non scoperto. A questo punto torniamo a usare il primo principio per produrre il suo successore immediato ω+1, e così via:

1, 2, 3, … , n, n+1, … ω, ω+1, ω+2, ω+3 …

La giustificazione del secondo principio è elementare: così come ad esempio il numero 5 esprime il fatto che «una certa enumerazione finita di unità viene unita in un tutto», allo stesso modo «non c’è niente di assurdo nell’immaginare un nuovo numero — chiamiamolo ω — il quale esprima il fatto che è data secondo una legge l’intera classe dei numeri naturali». Insomma, poiché c’è una risposta precisa alla domanda: quante sono le dita di una mano? Ebbene, non si vede perché non possa esservi una risposta altrettanto precisa (quindi un numero, cioè ω; «infiniti» non è una risposta!) alla domanda: quanti sono i numeri naturali?

Insistiamo, perché insiste Cantor, sull’altra faccia di ω: «è lecito pensare questo numero ω appena creato36 come il limite al quale tendono i numeri naturali».37 Queste parole hanno un senso grazie alla precedente definizione di numero irrazionale: quel «momento di produzione» che ha permesso al numero √2 di essere stabilisce il precedente grazie al quale sono gli altrimenti inconcepibili numeri transfiniti.

Indico il più piccolo numero transfinito […] col simbolo ω. D’altra parte ω può esser visto come il limite al quale tende il numero intero finito variabile ν, tuttavia solo in questo senso, che ω è il più piccolo ordinale transfinito, e cioè il più piccolo numero esattamente determinato che sia più grande di ogni numero finito ν. Precisamente come √2 è il limite di determinati numeri razionali variabili e crescenti, solo che qui interviene anche questo fatto, che la differenza tra √2 e le frazioni che lo approssimano diviene piccola a piacere, laddove la differenza ω−ν è sempre uguale a ω; ma questa distinzione non cambia il fatto che ω è completamente determinato e identificabile quanto √2, né cambia il fatto che ω conserva in sé altrettanto scarsa traccia del numero variabile ν che ad esso tende, quanto √2 conserva qualcosa delle frazioni razionali che lo approssimano. I numeri transfiniti sono essi stessi, in un certo senso, nuove irrazionalità.38

5. Matematica e libertà in Cantor

Nel Filebo l’armoniosa soluzione del problema etico ha richiesto il sacrificio di quell’ontologia chiara e distinta, tramandata dagli antichi e dagli dèi, che ripartiva gli enti in due generi disgiunti e esaustivi.

La vita mista di piacere e pensiero […] è una parte del terzo genere, […] misto di tutti gli illimitati legati insieme dal limite.39

Qualcosa di simile è accaduto a Cantor e a Lobačevskij, che per risolvere un problema matematico hanno modificato il concetto di essere. La sorprendente affinità tra l’etica e la matematica suggerisce che anche nella più esatta delle scienze via sia uno spazio per la libertà dell’individuo, intesa come la libertà di scegliere ciò che è giusto, e di creare ciò che è necessario. Va infatti ricordato, come dato di fatto matematico, che i triangoli non euclidei e i numeri transfiniti non sono il frutto del caso, ma della necessità: essi nascono figli legittimi di quelle stesse certezze ch’essi distruggono, e cioè il postulato delle parallele e la successione dei numeri naturali. Il primo, infatti, è indimostrabile, e i numeri, come abbiamo scoperto, devono essere contati.

Cantor, che non è un filosofo della matematica, ha provato a spiegare l’esercizio della libertà dall’interno della propria esperienza, mescolando metafisica e teoremi con risultati tutto sommato convincenti. Ogni ente può avere una realtà immanente (o intrasoggettiva) oppure transiente (o transoggettiva); ma ogni concetto esistente in senso immanente «possiederà sempre anche una realtà transiente».40 Benché, in particolare, i numeri interi («finiti o infiniti») siano reali in entrambi i sensi, la matematica ha uno straordinario privilegio:

Nell’elaborare il proprio materiale la matematica deve tener conto solo e unicamente della realtà immanente dei propri concetti e perciò non è in alcun modo tenuta a controllarne anche la realtà transiente. Grazie a questa eccellente posizione, che la distingue da tutte le altre scienze, la matematica merita — e lo merita essa sola — il nome di libera, un attributo che, se stesse a me scegliere, io preferirei a quello ormai usuale di pura.41

Questa stupefacente libertà non costringe a sacrificare la certezza della conoscenza:

Non credo ci sia da temere che da questi principi possa venire un qualsiasi pericolo per la scienza; da un lato le condizione indicate sopra,42 le sole che permettono di praticare la libera costruzione dei numeri, lasciano una spazio ristrettissimo all’arbitrio, dall’altro ogni concetto matematico ha in se stesso il proprio indispensabile correttivo: se è sterile o inadatto allo scopo la sua inutilità si rivelerà assai presto, e lo si lascerà cadere per mancanza di risultati.43

Per esempio, sia la teoria delle funzioni che quella delle equazioni differenziali si devono al coraggio dei vari Gauss, Cauchy, Poincaré eccetera, i quali non han permesso che le loro «splendide energie fossero intralciate da influssi non matematici». E infatti i matematici continuano a creare, costruire, generare, produrre, indifferenti a ogni tipo di influsso, platonismo ingenuo compreso. Da alcuni esempi di Cantor traspare la consapevolezza, che in Dedekind troveremo esplicita, del significato negativo della libertà: il primo atto libero è sempre la negazione dei princìpi già stabiliti.

Nell’età moderna non si è forse giunti all’idea (così importante per lo sviluppo dell’analisi, e che tanti progressi ha reso possibili) di introdurre le grandezze complesse senza arrestarsi davanti al fatto di non poterle dire né positive né negative? Quello che qui oso compiere è un passo del tutto analogo […]. Torniamo a quell’osservazione sull’essere pari e dispari, consideriamo di nuovo il numero ω per mostrare come tali caratteri, incompatibili nei numeri finiti, si uniscano in esso senza contraddizione alcuna […]: [si possono derivare] queste due forme di ω: ω=ω·2, e ω=1+ω·2, in base alle quali ω può essere concepito sia come un numero pari che come un numero dispari.44

Certo, è pericoloso introdurre numeri che non sono né positivi né negativi, o che sono sia pari che dispari. Ma i matematici preferiscono il pericolo dei nuovi numeri piuttosto che la fedeltà alla tradizione:

Trovo che ogni limitazione non necessaria dell’impulso matematico porti con sé un pericolo molto maggiore, tanto più che non se ne può ricavare giustificazione alcuna dall’essenza della disciplina: l’essenza della matematica, infatti, sta proprio nella sua libertà.45

6. Matematica e libertà in Dedekind

L’altro padre degli irrazionali è Richard Dedekind, qui menzionato perché, pur apparecchiando una diversa matematica (nella quale non ci sono limiti e successioni, ma punti e sezioni), si premura di metter per iscritto un’ontologia negativa perfettamente equivalente a quella di Cantor: i numeri irrazionali esistono perché l’uomo, liberamente, li crea, negando loro il carattere di «non essere» imposto dalla logica e dall’algebra.46

Quale che sia stata l’occasione immediata […] che ha condotto a introdurre la sottrazione e la divisione, qui basta osservare che la vera causa di un nuovo atto creativo è sempre appunto la limitazione della possibilità di eseguire le operazioni indirette; così lo spirito umano ha creato i numeri negativi e quelli frazionari […]. Come i razionali negativi e frazionari debbono e possono essere introdotti con un libero atto creativo (eine freie Schöpfung), così si deve cercare il modo di definire completamente i numeri irrazionali. Rimane solo il problema di come farlo.47

Dedekind definisce «sezione» (Schnitt) ogni partizione della retta in due classi A1 e A2, tali che ogni punto della prima classe giaccia a sinistra di ogni punto della seconda classe; ovvero, considerando i numeri corrispondenti ai punti: ogni numero della prima classe è minore di ogni numero della seconda classe. L’elemento di separazione è unico e può esser visto tanto come il maggiore (l’ultimo) di A1 quanto come il minore (il primo) di A2. Dopo aver posto come assioma di continuità che ogni punto genera una sezione, Dedekind osserva che vi sono infinite sezioni per le quali non esiste nessun numero razionale a fungere da elemento di separazione. L’esempio del numero che non c’è, manco a dirlo, è quello che dovrebbe separare le due classi di numeri, tali che tutti i quadrati della prima sono minori di 2, e quelli della seconda maggiori di 2. Nessun calcolo può generare un numero razionale il cui quadrato sia esattamente 2, benché il punto sulla retta sia facilmente disegnabile.48 Siamo di fronte al remake del grottesco cortometraggio (meglio noto come «esperimento maieutico»), in cui Socrate invita lo schiavo di Menone a dirgli, «con esattezza» (!), quale numero esprima la lunghezza del lato d’un quadrato di area 8:

«Da un lato di tre piedi non deriva per nulla la superficie di otto».

«No, certo».

«Ma allora da quale lato? Cerca di dircelo con esattezza. Ma se non vuoi fare calcoli, disegnalo almeno».49

La soluzione di Dedekind è veramente degna d’un uomo libero:

Esistono infinite sezioni che non sono generate da alcun numero razionale; l’esempio più immediato è il seguente [la sezione generata dal numero il cui quadrato è 2]. […] Ogni volta che si presenti una sezione (A1, A2) che non è generata da alcun numero razionale, noi creiamo un nuovo numero a, un numero irrazionale, che consideriamo esattamente definito da questa sezione (A1, A2); e diremo che a corrisponde a questa sezione, oppure che egli genera questa sezione.50

Come si vede, la nascita dei numeri irrazionali, che si scelga il limite di Cantor o la sezione di Dedekind, consiste nella creazione di un numero mancante e costringe a riscrivere le regole: un’ontologia negativa, appunto, nella quale frana la profezia del platonismo ingenuo, secondo il quale conoscere la verità significa contemplare realtà «distaccate dal soggetto riflettente».

7. Conclusione: tre spunti per un platonismo non ingenuo

  1. Resta ancora da chiudere la polemica sull’ingenuità di Cantor, in particolare su quella «infinita collezione di infiniti, direttamente ispirata da Dio».51 Il rifiuto aristotelico dell’infinito52 è talmente categorico e limitativo dei nostri orizzonti, da richiedere un esercizio di libertà che lo mandi in frantumi. Tuttavia, Cantor mette prudentemente da parte l’irraggiungibile infinito assoluto53 (das Absolute: per il momento, Dio, ma in seguito qualunque concetto sia passibile di generare una contraddizione, ad es. «la classe di tutto il pensabile»), e dispone l’infinito rimanente in una ben precisa gerarchia (una «collezione di infiniti», appunto): si ottiene così l’infinito proprio (Eigentlich-unendliche) o determinato, che si distingue a sua volta dall’infinito improprio (Uneigentlich-unendliche), «variabile che cresce al di là di ogni limite, ma restando sempre finita».54 Con quest’intuizione Cantor «individua con sicurezza una via d’uscita dai paradossi della teoria degli insiemi che poi sarà seguita, in maniere diverse, da Russell, Zermelo e Von Neumann».55 Siamo, però, ancora nel vago; l’infinito determinato, per esser tale, ha bisogno d’un numero:

Oltre al finito c’è un transfinitum (ma lo si potrebbe chiamare suprafinitum), cioè una scala illimitata di modi determinati che per loro natura non sono finiti ma infiniti, e però possono essere determinati, proprio come il finito, mediante numeri esatti, ben definiti e diversi l’uno dall’altro.56

Manco a dirlo, è stato proprio Platone (e proprio nel Filebo) a proporre un’indagine sull’infinito improprio (o illimitato: insomma, l’apeiron) per far sì ch’esso divenga, da indeterminato, determinato, mediante l’assegnazione di un numero:

Bisogna che noi poniamo e cerchiamo, ogni volta, sempre un’unica idea per ogni cosa; se poi l’abbiamo colta, dopo una dobbiamo esaminare se ve ne siano due, e se no tre o qualche altro numero, e, di nuovo, allo stesso modo per ciascuna di quelle unità, finché non si veda non solo che l’uno iniziale è uno e molti e illimitati, bensì anche quanto è numeroso (??????). E l’idea dell’illimitato non bisogna riferirla alla molteplicità, prima che si sia individuato tutto quanto il numero (ton arithmon) di essa, quello che sta a mezzo tra l’illimitato e l’uno, ed è solo allora che si può lasciar andare ciascuna unità di tutte le cose nell’illimitato.57

Poche pagine dopo Platone introduce infatti il terzo genere di enti: un numero che stia « a mezzo tra l’illimitato e l’uno» non esiste e dev’essere generato. La corrispondenza biunivoca tra tutti gli insiemi con cinque elementi e il numero «cinque», grazie alla quale Frege tentò di definire l’ineffabile, si replica negli insiemi infiniti: anche questi, ognuno per proprio conto, si identificano con il loro numero transfinito. Nel genere mikton Cantor trova quello spazio ontologico che può accogliere i suoi insiemi perché prima di tutto è nel mikton che si risolve il grave problema, che Platone pone con acutezza prima della discussione sui generi, di individuare il numero della molteplicità illimitata, cioè di saper dire, di essa, «quanto è numerosa».

  1. Nella sua battaglia per difendere l’oggettività della conoscenza «dall’empirismo, dal sensismo e dallo scetticismo moderni, così come dal criticismo kantiano da essi derivato»,58 Cantor potrebbe trovare un autorevole sostegno nel mito della reminiscenza:

Ora, come in un sogno, si sono destate in lui queste opinioni; e interrogandolo di nuovo più volte e in molti modi su queste stesse cose, puoi esser certo che finirà col sapere con precisione, sulle medesime, non meno esattamente di ogni altro […]. Vi sono in lui opinioni vere, le quali, risvegliate mediante l’interrogazione, diventano conoscenze […]. Dunque, sempre la verità degli esseri è nella nostra anima […]. Sicché bisogna mettersi con fiducia a ricercare e a ricordare ciò che attualmente non si sa.59

Gli uomini, quando sono interrogati, se li si interroga bene, da soli dicono ogni cosa com’è veramente. E se in essi non ci fossero scienza e retta ragione non sarebbero in grado di farlo. Se poi qualcuno li pone davanti a figure o a qualcosa di simile, allora si ha la manifestazione più evidente che è così.60

E infatti, in uno dei tanti passaggi filosofici coi quali orna i suoi Fondamenti, Cantor si cimenta in una parafrasi del mito della reminiscenza:

La conoscenza sicura può essere raggiunta solo grazie a concetti e idee che l’esperienza esterna è in grado al massimo di stimolare, ma sostanzialmente vengono costruiti da un’induzione e deduzione interna come un qualcosa che stava già in noi e viene solo risvegliato e reso cosciente […] Se si porta a compimento questo processo sono date tutte le condizioni affinché il concetto, che in noi era assopito, si risvegli, ed esso viene in essere già completo.61

Questa spoetizzazione del mito è il presupposto teoretico sul quale si fonda la non circolarità della definizione di numero irrazionale:

Il numero b non viene definito come «limite» dei membri aν di una successione fondamentale (aν). Questo sarebbe un errore logico […]. Le cose stanno esattamente al contrario, cioè mediante le definizioni date sopra il concetto b è stato pensato come un oggetto avente proprietà e relazioni coi numeri razionali dalle quali si possa dedurre, con evidenza logica, che limν→∞aν esiste ed è uguale a b […]. Grazie al carattere conferitogli dalle definizioni il numero irrazionale ha nel nostro spirito altrettanta una realtà altrettanto determinata del numero razionale […] e non abbiamo bisogno di ricavarlo da un passaggio al limite ma, al contrario, ci possiamo convincere dell’eseguibilità dei passaggi al limite in quanto lo possediamo.62

  1. L’entusiasmo di Cantor, che vede nella libertà l’essenza della matematica, non spiega come possano i risultati matematici, se sono tanto liberi, essere oggettivi e universali. Evidentemente il problema trascende la matematica e investe la relazione tra libertà e necessità. Probabilmente per primo nella storia del pensiero, Platone ebbe il coraggio di scorgere nella libertà consapevole la condicio sine qua non della vera conoscenza, proponendo, nel mito della caverna, tanto l’identificazione tra libertà e verità, quanto tra schiavitù e ignoranza. Meno solenne di quel mito, ma più significativa per la nostra ricerca, è l’irripetibile intreccio tra filosofia e matematica che plasma il Teeteto; ivi il teorema che definisce con esattezza il concetto di «radice quadrata»63 si mescola all’esaltazione della libertà del filosofo e alla precisa definizione del suo dovere.64

In conclusione, un platonismo non ingenuo richiede prima di tutto, com’è ovvio, l’evasione dalla teoria ingenua delle idee, e lo studio attento della dialettica platonica quale si dispiega dal Parmenide al Filebo. Tuttavia, nessun platonismo può pretendere d’essere un’interpretazione di Platone: per questa occorre lasciar fare a chi di mestiere, mentre il matematico può comunque, a buon diritto, rileggere i dialoghi in cerca di suggestioni. Nel frattempo la cura (radicale) è già pronta: la questione dell’indipendenza ontologica va rescissa da quella della vera realtà, e lasciata cadere; insomma, se è vero che gli enti matematici sono oggettivi e universali, e rappresentano il vero essere, non per questo devono a tutt’i costi non aver nulla a che fare con gli esseri umani; e lo stesso si deve poter dire, di conseguenza, delle idee platoniche in generale. La commistione tra oggettività e autocoscienza, dietro la quale s’intravede quella tra scoperta e invenzione, è già nel mito della reminiscenza e questo ci rimanda al secondo dei nostri brevi suggerimenti.65 In breve, non c’è che da recuperare e migliorare la professione di Gödel,66 immaginando per le idee, e in particolare per gli enti matematici, un’esistenza reale ma non indipendente. Come ciò sia possibile, come, cioè, l’animo umano possa forgiare realtà oggettive e universali rimanendo libero di generare ciò che ancora non è, ebbene questa è questione per uomini «di grandissimo acume».67


  1. All’inizio del Novecento troviamo la celebre Introduction to Mathematical Philosophy di B. Russell (Londra 1920) e l’eccellente Les étapes de la philosophie mathématique (L. Brunschvicg, Blanchard, Parigi 1912). Di qui alla «filosofia della matematica» non c’è che un passo, pur tuttavia significativo. ↩︎

  2. Jean-Paul Delahaye, Arguments et indices dans le débat sur le réalisme mathématique, in M. Panza — J.-M. Salanskis, L’objectivité mathématique, Masson, Parigi 1995, pp. 23-29. ↩︎

  3. Paul Bernays, Sur le platonisme dans les mathématiques, «L’enseignement mathématique», 1935, 34, pp. 52 e ss. Bernays contrappone il platonismo all’intuizionismo: «La tendance dont nous parlons consiste à envisager les objets comme détachés de tout lien avec le sujet refléchissant. Cette tendance s’étant faite valoir surtout dans la philosophie de Platon, qu’il me soit permis de la qualifier du nom de « platonisme ». […] L’intuitionnisme […] c’est un point de vue extrême, contraire à la manière habituelle de faire des mathématiques, consistant à établir des theories détachées autant que possible du sujet pensant […]. Même si nous concédons que la tendance de se détacher du sujet a été poussée trop loin sous le règne du platonisme, nous ne sommes pas portés à croire que le vrai se trouve dans l’extrême contraire». ↩︎

  4. K. Gödel, On Russell’s symbolic logic (1944), trad it. in Opere, II, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 128. ↩︎

  5. B. Russell, The Principles of Mathematics, Londra-Cambridge 1903 (trad. it I princìpi della matematica, a cura di L.Geymonat, Milano 1951, pp. 614-15). ↩︎

  6. «Da un lato, il formalismo proponeva il perfetto rigore delle regole meccaniche come il nocciolo della certezza […]. Sull’altro fronte, la reazione del platonismo ingenuo […] spiegava la certezza e l’oggettività della matematica supponendo enti ontologicamente indipendenti.» G. Longo, The reasonable effectiveness of Mathematics and its cognitive roots, in L. Boi (ed.) Geometries of Nature, Living Systems and Human Cognition, Parigi 2005, p. 2. Ma l’opposto del platonismo non era l’intuizionismo, come asseriva Bernays (v. supra, n. 3)? O forse formalismo e intuizionismo sono la medesima cosa? La guerra delle etichette è incredibilmente noiosa. ↩︎

  7. Il suo caparbio sforzo dialettico anima i dialoghi al punto di assorbire i miti per suggerirne l’interpretazione; tale sforzo è necessario, evidentemente, alla comprensione di un mondo delle idee ben più complesso e intrigante dell’iperuranio. Platone arriva addirittura a confutare la teoria delle idee così come Socrate (cioè, lui stesso) è abituato a esporla, ricorrendo per l’occasione a un personaggio eccezionale, il vecchissimo e autorevolissimo Parmenide. “Socrate, tu davvero poni separate da una parte le idee in sé, e dall’altra le cose che ne partecipano? E ti sembra veramente che ci sia una somiglianza in sé, separata da quella che è in noi?” (Parmenide, 130 b). Socrate difende con onore la «sua» teoria delle idee, ma cade inesorabilmente in contraddizione, se non nel ridicolo. Quelle pagine del Parmenide ci sembrano il miglior commento di Platone al platonismo ingenuo. ↩︎

  8. Y. I. Manin, Matematica e conoscenza, in La matematica: problemi e teoremi, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 3-4. ↩︎

  9. G. Cantor, Grundlagen einer Mannigfaltigkeitslehre, Math. Ann. 1883, pp. 545-586 (trad it. Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, in La formazione della teoria degli insiemi, a cura di G. Rigamonti, pp. 77 e ss.; la citazione è tratta dalla nota a p. 127; nelle note successive la pagina indicata è quella dell’edizione italiana). ↩︎

  10. Filebo, 23 c — 26 d. ↩︎

  11. Il Filebo è un western dialettico (Filebo e Protarco sono ovviamente i cattivi), e la posta in palio è stabilire se a «render la vita felice a tutti gli uomini» sia il piacere o il pensiero. Socrate dimostra però l’ingenuità della contesa, e cioè che il bene è il risultato di un’ordinata mescolanza degli opposti: «Sto pensando a certi discorsi che ho ascoltato una volta, molto tempo fa, in sogno, o forse anche da sveglio, sul piacere e sul pensiero: né l’uno né l’altro di loro è il bene, bensì qualche altra cosa, diversa da questi ma migliore di entrambi». (Filebo, 20 b). ↩︎

  12. Filebo, 25 a; cfr. Fedone, 75 c. ↩︎

  13. Filebo, 26 b. ↩︎

  14. Filebo, 27 d. ↩︎

  15. «Tutto quel che sia un numero in rapporto a un altro numero» (Filebo, 25 a). ↩︎

  16. “Sempre nel più caldo e nel più freddo sono presenti il più e il meno […]. Dunque il ragionamento ci indica che non hanno un termine; ma, poiché sono privi di un termine, rimangono assolutamente illimitati […]. Anche il «con forza» e «con calma» hanno la stessa capacità rispetto al più e al meno: dove, infatti, essi sono presenti, non permettono che ciascuna cosa abbia una quantità […]. Infatti, se non facessero sparire la quantità, se permettessero che la quantità e la giusta misura si producessero nella sede del più e del meno, e del forte e del calmo, proprio questi scomparirebbero” (Filebo, 24 b — d). ↩︎

  17. Non si pretende qui di proporre un’interpretazione restrittiva del concetto di apeiron. È giusto però riflettere sull’importanza che può avere l’irrazionalità del limite nel ragionamento socratico. Per esempio, la successione 9/10, 99/100, 999/1000 … contiene sì infiniti termini, ma converge verso il valore limite 1 (ente del secondo genere), mentre (1+1/n)n converge al numero di Nepero che vale circa 2,71828183…, ma non è calcolabile esattamente, quindi non appartiene al secondo genere. Esempi incontrovertibili di apeiron sono le successioni divergenti (in quanto prive di un limite del secondo genere), e qui incrociamo il lavoro di Cantor: egli ci presenta come apeiron la successione dei numeri naturali, che diviene convergente grazie alla definizione di ω (v. infra). ↩︎

  18. Filebo, 25 d. ↩︎

  19. L’ineffabile √2 viene raggiunto mediante una doppia successione di numeri razionali, i cui rapporti, come quelli della successione (1), convergono verso un nulla che aspetta d’esser generato. Le due successioni sono rispettivamente la sottosuccessione pari e quella dispari della seguente: (zn) = xn/yn = (xn−1+2yn−1)/(xn−1+yn−1) (x1 = y1 = 1). A titolo d’esempio, i primi termini di z2n−1 sono: 1/1 = 1, 7/5 = 1,4, 41/29 = 1,413793103448275862068965517241, 239/169 = 1,414201183431952662721893491124. Che tale successione non ammetta limite razionale, lo si può dedurre dal fatto che (z2n−12), costruita mediante i quadrati dei rapporti, tende a 2: 12 = 1, (7/5)2 = 1,96, (41/29)2 = 1,998810939357907253269916765755… → 2. Perciò z2n−1 dovrebbe tendere al quel numero il cui quadrato è 2, numero che, come sappiamo, non esiste nel campo dei razionali. Per indicare questo nuovo numero (inventato, costruito, o scoperto? Cantor direbbe che lo possiamo pensare o produrre) il segno √2 non è che uno dei tanti possibili. Per una trattazione esaustiva dell’argomento cfr. I. Toth, Lo schiavo di Menone, Vita e Pensiero, Milano 1998. ↩︎

  20. Basti ricordare, a titolo d’esempio: Ippia maggiore, 300 a — 303 c; Menone, 82 e ss.; Politico, 266 b; Leggi, 820 c. ↩︎

  21. Filebo, 27 b. ↩︎

  22. Cantor, Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 77. Il Rigamonti traduce però Erweiterung des realen ganzen Zahlbegriffs con «ampliamento del concetto di numero intero effettivo», perché reale ganze Zahl non va inteso, ovviamente, come appartenente a ℝ (in questo senso Cantor usa reelle Zahl), bensì come numero realmente esistente. Discutendo di platonismo, preferisco mantenere «numero intero reale». ↩︎

  23. Cantor, Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 115. ↩︎

  24. Filebo, 25 d. ↩︎

  25. Ibi, 25 e. ↩︎

  26. La dimostrazione del teorema è in Über eine Eigenschaft des Inbegriffes aller reellen algebraischen Zahlen (1874, Crelles Journal f. Mathematik, 77, § 2, pp. 258-262; trad. it. in La formazione della teoria degli insiemi, cit. pp. 17 e ss.). ↩︎

  27. «È senz’altro lecito pensare questo numero ω appena creato (die neugeschaffene Zahl) come il limite al quale tendono i numeri n». ↩︎

  28. L’estensione del concetto di numero da razionale a reale si trova già in Über die Ausdhnung eines Satze aus der Theorie der trigonometrischen Reihen (1880, Math. Ann. 5, § 1, pp. 123 e ss.; trad. it. Sull’estensione di un teorema della teoria delle serie trigonometriche, in La fondazione della teoria degli insiemi, pp. 3-16). A conclusione del saggio Zermelo osserva che «possiamo riconoscere in questo concetto di «derivato superiore» d’un insieme di punti il più autentico germe della «teoria degli insiemi» cantoriana, e nella teoria delle serie trigonometriche il suo luogo di nascita» (in G. Cantor, Gesammelte Abhandlungen mathematischen und philosophischen Inhalts, Olms, Hildesheim-Berlin 1932, nota 2 p. 102; trad. it. in La fondazione della teoria degli insiemi, p. 16). Nei Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, subito prima di presentare i transfiniti, Cantor riprende e perfeziona il lavoro precedente (§ 9). Le citazioni sono tratte da questo secondo saggio. ↩︎

  29. Fundamentalreihe; noi diremmo «successione di Cauchy». ↩︎

  30. P. es.: (an) = (n−1)/(n+1) : limn→∞(n−1)/(n+1) = 1. ↩︎

  31. Cantor, Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 104. Sulla questione della non circolarità, v. infra, p. 15. ↩︎

  32. Ibi, p. 103. V. E. Heine, Die Elemente der Funktionenlehre (1872), in “Journal für reine und angewandte Mathematik”, 74, pp. 172-188. ↩︎

  33. Cantor, Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 101. ↩︎

  34. Zweite Erzeugungsprinzip; occorre poi un principio di restrizione (Hemmungs- oppure Beschränkungsprinzip) allo scopo di evitare una sorta d’anarchia nei livelli dell’infinito (Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 114 e ss.). ↩︎

  35. Cantor, Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 115. ↩︎

  36. Neugeschaffene Zahl. Facciamo nostra anche l’insistenza di Cantor sull’atto creativo. ↩︎

  37. Cantor, Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 115 ↩︎

  38. G. Cantor, Mitteilungen zur Lehre vom Trasfiniten, 1887; in Gesammelte Abhandlungen, cit., p. 395. ↩︎

  39. Filebo, 27 d. ↩︎

  40. Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 97. ↩︎

  41. Ibi, p. 98. ↩︎

  42. Ogni introduzione di «nuovi numeri» dev’essere accompagnata da «definizioni che assicurino loro una determinatezza […] tali che sua possibile, caso per caso, distinguerli l’uno dall’altro» (ibidem). ↩︎

  43. Ibi, p. 99. ↩︎

  44. Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 94. ↩︎

  45. Ibi, p. 99: «Das Wesen der Mathematik liegt gerade in ihrer Freiheit» I corsivi sono dell’autore, e altamente significativi: essenza-matematica-libertà. ↩︎

  46. Com’è noto, è possibile dimostrare (per assurdo) che non esiste una frazione a/b tale che (a/b)2 = 2. Perciò √2 non esiste. Sull’atto di negazione come fonte di una nuova ontologia, cfr. I. Toth, No! Libertà e verità, creazione e negazione, Rusconi, Milano 1998. ↩︎

  47. R. Dedekind, Steitigkeit und Irrationale Zahlen, Braunschweig 1872, § 1 e 3; trad. it. Continuità e numeri irrazionali, in Scritti sui fondamenti della matematica, a cura di F. Gana, Bibliopolis, Napoli 1982. ↩︎

  48. Si innalzi una perpendicolare alla retta r nell’origine O; con centro O si descriva un arco di raggio 1, che interseca in A la bisettrice dell’angolo retto appena costruito. Su codesta bisettrice s’innalzi una perpendicolare a partire da A che interseca in P la retta r. Il segmento OP è la diagonale di un quadrato di lato 1 e perciò ha misura irrazionale. ↩︎

  49. Menone 83e — 84a. Per la precisione lo schiavo cerca √8 = 2√2. ↩︎

  50. Dedekind, Continuità e numeri irrazionali, § 4 (Gana però traduce hervorgebracht e hervorbringt con «deteminata» e «determina»). Il verbo hervorbringen sta alla sezione di Dedekind, «generata» dal nuovo numero irrazionale, come erzeugen (produrre, generare, procreare) sta ai numeri-limite di Cantor (cioè b e ω). Il contesto è il medesimo, ossia la creazione di nuovi numeri: eine neue Zahl geschaffen wird (Cantor), erschaffen wir eine neue Zahl (Dedekind). ↩︎

  51. V. supra, p. 3. ↩︎

  52. «Che esista un infinito in sé, separato dalle cose sensibili, è impossibile». Metafisica, XI, 10, trad. di G. Reale. ↩︎

  53. Egli dichiara di seguire in ciò le istruzioni di Spinoza: omnia seu finita seu infinita sunt et excepto Deo ab intellectu determinari possunt↩︎

  54. Il ragionamento del quale tentiamo una sintesi si trova sparpagliato nei Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, § 1, 4, 5. ↩︎

  55. Così il Rigamonti nel saggio introduttivo all’edizione italiana dei Grundlagen (La formazione della teoria degli insiemi, cit., p. XXXVI). ↩︎

  56. Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 91. ↩︎

  57. Filebo, 16 d. ↩︎

  58. Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 130. ↩︎

  59. Menone 85 c — 86 b. ↩︎

  60. Fedone 73 b. ↩︎

  61. Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 130-131. ↩︎

  62. Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, p. 104-105. ↩︎

  63. Teeteto, 147 d — 148 b. V. Euclide, Elementi, X, 9, con commento in nota di A. Frajese, UTET, Torino 1970, pp. 612-615. ↩︎

  64. «Che cosa invece sia un uomo e che cosa spetti a tale natura fare o subire di differente dalle altre nature, egli lo ricerca e affronta ogni difficoltà per investigarlo». Teeteto, 174 b. ↩︎

  65. V. supra, p. 14. I miti speculari dell’iperuranio e della reminiscenza (tenuti insieme da un altro mito, quello della metemspicosi) stringono la doppia natura della matematica, sospesa tra scoperta e invenzione, in una sintesi difficilmente uguagliabile: «L’uomo, infatti, deve comprendere ciò che è chiamato idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni a un’unità afferrata nel suo insieme con un ragionamento. E questo non è altro che reminiscenza di quegli oggetti che un tempo la nostra anima ha visto, quando, viaggiando in compagnia di un dio, guardò dall’alto quelle cose che noi diciamo che sono, e sollevò il capo verso quello che è il vero essere» Fedro, 249 c. ↩︎

  66. V. supra, p. 2, nota 4. ↩︎

  67. Teeteto, 148 b. ↩︎