La crisi della presenza in de Martino e una peculiare convergenza con l’inconscio freudiano

1. L’inconscio freudiano

Schnitzler, drammaturgo e medico austriaco, vissuto a cavallo fra ‘800 e ‘900 e conosciuto soprattutto per aver creato il monologo interiore,1 un artificio narrativo al quale fece spesso ricorso nelle sue opere per descrivere lo svolgersi dei pensieri dei suoi personaggi, afferma:

In effetti la psiche non è una realtà così semplice. E più in specifico si è scoperto che in essa, oltre al conscio, sono presenti e agiscono molte forme di inconscio. Si è scoperto che il buono non è semplicemente buono, che il cattivo non è semplicemente cattivo; che sia nelle anime virtuose i sentimenti, per così dire, più peccaminosi, sia nelle nature più corrotte la nobiltà d’animo e il bene, non sono celati, ma appaiono visibili a chi sappia osservare attentamente. Si è inoltre scoperto – e questa è stata probabilmente la scoperta più importante – una sorta di fluttuante territorio intermedio tra il conscio e l’inconscio. Tracciare i confini tra conscio, e inconscio nel modo più preciso possibile: in questo consisterà appunto l’arte del poeta.2

Le parole di Schnitzler, molto vicino alle idee di Sigmund Freud, che a sua volta lo considerava un po’ come il suo doppio,3 sono un buon punto di partenza per affrontare il tema dell’inconscio e della dimensione onirica, scegliendo fra i molti aspetti della questione di operare un confronto tra il punto di vista psicanalitico della prima ora, incarnato dall’opera di Sigmund Freud, con l’approccio prettamente filosofico proposto dall’antropologo napoletano Ernesto de Martino.

Freud ritiene che l’inconscio sia un enorme magazzino, nel quale la coscienza getta i propri “rifiuti”, che si affollano in maniera confusa e fanno continuamente pressione per tornare in superficie, il che è dovuto alla struttura che il medico di Vienna conferisce alla nostra mente, suddividendola in quelli che possiamo definire tre luoghi psichici: Io, es e super-Io. L’Io rappresenta la «coscienza mediatrice», volta a mantenere un equilibrio fra la sorgente (es) degli istinti e delle pulsioni e un sistema (super-Io) di censure e impedimenti alla soddisfazione del piacere, che possiamo considerare come la nostra coscienza morale, influenzata dall’educazione che riceviamo sin da piccoli.4

Nonostante ciò, il Super-Io è fondamentale per tenere a bada un lato malvagio, diabolico, che è innegabilmente presente in ogni singolo individuo, sia pur celato nella profondità della nostra coscienza: «Freud aveva una concezione prevalentemente pessimista e stoica del genere umano. (…) Aveva la convinzione scettica che l’umanità fosse capace di fare una serie di cose terribili».5 Non è dunque un mistero il fatto che il medico viennese fosse un grande sostenitore della famosa massima hobbesiana «Homo homini lupus»,6 in quanto spesso anche le intenzioni più buone conducono inesorabilmente verso crudeltà sociali di ogni sorta e, soprattutto, molte azioni caritatevoli hanno quasi sempre, come obiettivo, anche un tornaconto individuale. Di conseguenza, Freud fu portato a scontrarsi con i valori e le massime del cristianesimo, contestandone specialmente la validità di uno degli imperativi-pilastro, l’«Ama il prossimo tuo come te stesso», ad esempio ne Il disagio della civiltà,7 un saggio realizzato nel 1929: «Il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” è la più forte difesa contro l’aggressività umana e un esempio eccellente del modo di procedere non psicologico del Super-io civile. Il comandamento è irrealizzabile; un’inflazione così grandiosa dell’amore può solo sminuirne il valore, non cancella la difficoltà».8

D’altronde, il padre, Jacob, impiegato nel commercio della lana e originario dell’Egitto, era un ebreo laico e non aveva trasmesso al figlio un’educazione di stampo religioso-tradizionalista, inoltre si aggiunga anche il fatto che Sigmund, all’età di quattro anni, si trasferì, per motivi legati al lavoro del padre, da Freiberg (nell’odierna Repubblica Ceca) a Vienna, in un contesto sociale fortemente antisemita. Quindi, nonostante Freud, incurante del disinteresse del padre per l’argomento, si appassioni e si dedichi, sin da giovane, allo studio dei testi biblici, tuttavia il contesto storico, sociale e culturale giocherà un ruolo decisivo nell’articolazione del suo pensiero. La sua personalità e la sua indole critica lo stimolavano, in qualsiasi ambito, a non fermarsi mai alle apparenze e alla superficie delle cose, quanto piuttosto a sviscerarne i contenuti più profondi, al fine di ricavarne un’opinione ampiamente ponderata. La svolta che gli permise di mostrarsi così avverso alla morale tradizionale fu proprio la scoperta dell’inconscio: infatti, se non esistesse un Super-Io in grado di reprimere gli istinti più bassi, probabilmente si rimarrebbe incastrati in quello che Hobbes definisce «stato di natura»:9

il bambino piccolo – afferma Freud – è notoriamente amorale, non possiede inibizioni interiori contro i propri impulsi che desiderano il piacere. La funzione che più tardi assume il super-io viene svolta dall’autorità dei genitori. (…) Solo in seguito si sviluppa la situazione secondaria – che noi siamo troppo facilmente disposti a ritenere quella normale – in cui l’impedimento esterno viene interiorizzato e al posto dell’istanza parentale subentra il Super-Io, il quale osserva, guida e minaccia l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino.10

Ma il Super-io, nonostante il suo ruolo decisivo nella società, che si esprime attraverso l’occultamento degli aspetti radicalmente istintivi delle persone, è anche l’emblema dell’impossibilità, per l’individuo, di trovare la vera felicità all’interno di essa, in quanto quest’ultima lo induce a sviluppare una serie infinita di nevrosi a causa della severità delle regole e dei divieti sociali, «che minacciano di distruggere quel po’ di felicità concessa all’uomo civile».11 Dunque, l’approccio del medico viennese, dal punto di vista etico e antropologico, è davvero molto vicino a quello hobbesiano, che alla fine egli sposa pienamente, appoggiando soprattutto l’idea che il patto sociale fosse obbligatorio, artificiale e non spontaneo, come sostenevano invece i filosofi Spinoza12 e Locke,13 pilastri del giusnaturalismo, fortemente convinti che l’uomo sia un animale sociale, in accordo con Aristotele.14

Ma tornando più specificamente all’inconscio, possiamo affermare che esso condiziona la nostra vita e le nostre scelte, in quanto i contenuti che lo caratterizzano sono fondamentalmente il risultato delle nostre tensioni emotive irrisolte, relative a tutto il corso della nostra storia affettiva. Inoltre, se i predecessori di Freud erano convinti che la psiche si identificasse con la coscienza, ossia con l’Io, il filosofo viennese teorizza che la mole più cospicua delle attività mentali risiede nell’inconscio, il quale «non costituisce il limite inferiore del conscio, ma la realtà abissale primaria di cui il conscio (simile alla punta di un iceberg) è solo la manifestazione visibile».15 Pertanto la potenza che risiede nel contenuto del materiale rimosso rischia di prendere il sopravvento sul soggetto, a meno che egli non sia in grado di comprenderlo, interpretarlo e metabolizzarlo, acquisendo così una maggiore consapevolezza di sé. Questa energia inespressa molto spesso viene sprigionata parzialmente, interferendo con la coscienza e producendo così quelli che il medico viennese classifica come atti mancati, ad esempio i lapsus verbali, le dimenticanze (di nomi, informazioni, oppure smarrimenti),16 i quali in parte possono essere semplicemente causati da problemi di memoria, stanchezza o distrazione, ma spesso sono dovuti indubbiamente all’intervento contemporaneo di due intenzioni contrapposte, di cui una è quella che permetterebbe la concretizzazione di tali atti, mentre l’altra la devia prima che ciò si verifichi: «Mio marito può mangiare e bere ciò che vuole. Ma, lo sapete, io non tollero che egli voglia qualcosa, quindi: può mangiare e bere ciò che VOGLIO».17 Questo è un chiaro esempio di lapsus verbale, in cui l’intenzione perturbatrice è strettamente collegata, in termini di contenuto, con l’altra, nel senso che riguardano entrambe lo stesso ambito di discussione e, di conseguenza, si scontrano inevitabilmente. A questo punto, chiarendo le gerarchie fra l’Io e la dimensione che sottende ad esso, il medico viennese afferma:

rinunciare alla sopravvalutazione della coscienza è condizione primaria e indispensabile per ogni sguardo adeguato allo svolgimento psichico. (…) L’inconscio è il cerchio più grande, che ospita al suo interno quello minore del conscio; e tutto quello che è conscio ha una parte di sé nell’inconscio, e l’inconscio può essere immobile nel suo gradino e semplicemente ambire al pieno valore di prestazione psichica. L’inconscio è letteralmente lo psichico reale, altrettanto sconosciuto nella sua natura più profonda quanto lo è la realtà del mondo esteriore, e a noi presentato dai dati della coscienza in maniera assolutamente incompleta, quanto lo è il mondo esteriore dalle segnalazioni ricevute dai nostri organi sensoriali.18

In proposito, emblematiche sono le parole dello studioso Mauro Mancia, il quale chiarisce e approfondisce ulteriormente le posizioni di Freud:

ne L’inconscio, Freud (1915b) inizia con il giustificare il concetto stesso di inconscio sottolineando che i dati della coscienza sono comunque molto lacunosi e sarebbe una pretesa insostenibile quella di ritenere che tutto ciò che accade nello psichico debba per forza essere noto alla coscienza. Pertanto lo psichico non può essere identificato tout court con il cosciente. D’altra parte, la stessa ipnosi ha dimostrato il modo di operare dell’inconscio anche prima dell’avvento della psicoanalisi. «Dobbiamo dunque essere pronti – dice Freud – ad ammettere in noi stessi non solo l’esistenza di una seconda coscienza, ma anche di una terza, di una quarta e forse di una serie interminabile di stati di coscienza, tutti sconosciuti a noi stessi e gli uni rispetto agli altri» (p. 53).19

Esiste dunque un mondo nascosto che né il medico, né il paziente conoscono e che si divide ulteriormente in due zone, quella del preconscio, nel quale abitano quei ricordi che, sia pur inconsci, possono riaffacciarsi alla coscienza del soggetto, attraverso uno sforzo mnemonico o dei collegamenti intuitivi, e quella dell’inconscio vero e proprio, che funge da censura,20 o meglio rimozione,21 nei confronti degli elementi psichici in esso contenuti, i quali possono emergere soltanto per effetto di specifiche tecniche terapeutiche.

2. L’inconscio in De Martino e la sintesi con Freud

Nella prima metà del '900, in contemporanea con gli studi promossi dalla psicanalisi, il tema dell’inconscio viene affrontato anche da un punto di vista prettamente antropologico, attraverso una rielaborazione del concetto di presenza-assenza dell'essere di Heidegger.22 Questo tentativo emerge chiaramente dalle teorie di Ernesto de Martino,23 il quale, specialmente nell’opera Il mondo magico (1948), applica le sue idee allo studio della società rurale dell’Italia meridionale, prendendo spunto anche dallo storicismo di Benedetto Croce.24 Il suo pensiero è influenzato, inoltre, dalla visione marxista e gramsciana ed è proprio la seconda a rivelarsi decisiva nello sviluppo delle sue riflessioni. Egli legge infatti con attenzione i Quaderni di Gramsci: una raccolta di appunti, testi e note, che quest’ultimo aveva iniziato a scrivere a partire dall’8 febbraio 1929, durante il periodo di prigionia nelle carceri fasciste. In essi è contenuta una dettagliata analisi socio-politica, in merito alla distinzione fra la dimensione delle classi egemoni e quella delle classi subalterne: le seconde, caratterizzate da povertà e ignoranza, formate da membri privi della consapevolezza di appartenenza alla propria classe, completamente avulsi dal contesto storico e socio-culturale in cui vivono, pertanto rappresentanti di una categoria fragile e «messi da parte» dal resto della società, sia come individui che come collettivo.25

Dunque de Martino, nel suo libro,26 affronta il problema relativo ai membri delle classi subalterne dell’Italia meridionale, affermando che essi, proprio a causa della loro marginalità rispetto alla storia, sono alla continua ricerca di una presenza, intesa nei termini dell’esserci (Dasein)27 heideggeriano, cioè di una concreta certificazione della loro esistenza reale, che esuli dall’eventualità, teorizzata dallo stesso Heidegger, secondo cui la vita potrebbe essere soltanto un sogno. Traducendo queste riflessioni di de Martino da un punto di vista psicanalitico, possiamo dire che i membri delle classi subalterne sono sospesi fra un tentativo di affermazione del proprio Io cosciente e il rischio di sprofondare in una dimensione onirica, sostanzialmente inconscia, in quanto il soggetto perde la piena consapevolezza di sé.

Tornando alla teoria di de Martino, secondo l’antropologo campano l’unico modo per affrontare le proprie insicurezze e non scivolare nella crisi della presenza, che richiama a sua volta l’ascondimento (assenza)28 dell’essere (sein)29 heideggeriano e sulla quale mi soffermerò tra poco, è l’utilizzo della magia. In effetti, essa coincide con la capacità dell’uomo di influenzare, ma soprattutto manipolare e controllare la realtà, per mezzo di gesti, formule verbali e rituali, finalizzati a scopi buoni (magia bianca) o malvagi (magia nera).30 Fin dalle prime pagine della sua opera, de Martino cita una serie di documenti etnologici, tratti dagli scritti di antropologi e missionari ottocenteschi o di inizio novecento, i quali si erano concentrati, in particolare, sui racconti degli sciamani siberiani. Si tratta di testi che destano scalpore, poiché sovvertono il nostro metodo di conoscenza della realtà, basato su quello che egli definisce il «tribunale della ragione giudicante»:31 essi menzionano casi di telepatia, visioni e sogni premonitori o precognitivi, ma anche poteri propriamente fisici (come la capacità di camminare sul fuoco), esercitabili sulla materia, in grado di sospendere e scavalcare ogni legge scientifica. Dunque, «la prima reazione del ricercatore è di trarsi d’impaccio dichiarando che i poteri magici sono a priori impossibili, e che, se mai, è da chiedersi come sia possibile l’illusione della loro realtà sia presso i primitivi sia presso alcuni etnologi europei. Ma quale che sia la motivazione di questo a priori, il fatto è che il documento etnologico non consente la negazione del problema».32 Queste testimonianze ci inducono quindi ad abbandonare il principio, insito nella visione dell’occidente moderno, secondo cui tali esperienze apparterrebbero semplicemente a forme di pensiero pre-logico o superstizioso, e ad accettarli come “fenomeni reali”, inerenti, al contrario, a forme di pensiero simboliche. Solo così saremo in grado di superare il nostro cieco etnocentrismo.33 Ciò che interessa sottolineare, senza insistere eccessivamente sugli aspetti specifici e storici che contraddistinguono la magia, è il valore che de Martino le conferisce, presentandola ancora come una fase del pensiero, in linea con gli antropologi evoluzionisti,34 piuttosto che una sua forma di espressione, secondo la visione dell’antropologo polacco, naturalizzato britannico, Bronislav Malinowski.35 Quest’ultimo, sulla base delle proprie ricerche etnografiche, ritiene che la magia sia una sorta di tranquillante, che “seda” e rassicura l’individuo nei momenti in cui viene assalito dall’angoscia esistenziale e quindi dalle più profonde paure inconsce, dovuta a sua volta all’incapacità, da parte degli uomini, di controllare le innumerevoli variabili che costituiscono la realtà spazio-temporale in cui vivono.36 Purtroppo, l’effetto della magia è soltanto temporaneo, perché è pari a un semplice placebo. Inoltre, a differenza degli evoluzionisti e di de Martino, Malinowski è convinto del fatto che la magia non costituisca semplicemente una fase del pensiero, bensì una sua forma, infatti anche nelle società più evolute, come ci insegna lo stesso Freud, le persone sviluppano innumerevoli tipi di ritualità, basti pensare ad esempio ai tic e alle nevrosi ossessive di vario genere,37 le quali manifestano un disagio che emerge dalle profondità dell’inconscio individuale.

Nonostante le divergenze con la teoria di Malinowski, i rituali magici, anche per de Martino, servono dunque a sopperire a un’improvvisa perdita di punti di riferimento, che conduce l’individuo a sperimentare il terrore di sprofondare nella mancanza di sé,38 nell’assenza del proprio esserci storico, e la conseguenza di tale sentimento coincide con una vera e propria crisi della presenza. Essa si verifica in situazioni-limite, che il soggetto non riesce a comprendere e ad accettare, quali la morte, la malattia, i conflitti morali, la migrazione dalla terra natale e, ultimo ma non ultimo, il sogno. In queste circostanze, l’individuo si lascia sopraffare dal negativo, cioè dalla possibilità del non esserci, scoprendosi incapace di agire e di determinare la propria azione nello spazio-tempo. Concretamente la soluzione risiede, pertanto, in una destorificazione del negativo, finalizzata all’universalizzazione della propria condizione umana in una dimensione mitico-simbolica, esaltata dalla religione ed evidente, appunto, nei riti magici. È pienamente convinta di ciò anche Amalia Signorelli,39 antropologa e allieva di de Martino, la quale afferma che «Il dato esistenziale che ha scatenato la crisi (morte, malattia, paura e altro ancora) viene mentalmente astratto dal contesto storico per entro il quale è stato esperito e viene ricondotto a un tempo e a una vicenda mitici».40 La dimensione mitica è narrativa, mentre il rito, come abbiamo visto, è un comportamento orientato ad uno scopo e veicolato da parole e gesti dotati di un significato simbolico. Dunque mito, rito e simbolo diventano i tre poli di un circuito volto alla soluzione della crisi.

Quando invece prevale il negativo, accade che il processo di astrazione e trascendimento, insito nel concetto di destorificazione, non riesce più ad allontanare il turbamento dall’animo dell’individuo attraverso la creazione di uno specifico sistema di valori. Conseguentemente, l’uomo che cade vittima di questa mancata valorizzazione del reale, perde anche la possibilità di agire consapevolmente su di esso, fino a sgretolarsi in una repentina destrutturazione dell’esserci: quest’ultimo vede il suo spazio, contraddistinto dall’intersoggettività e dal rapporto con il mondo, interamente invaso. È proprio allora che «la presenza abdica senza compenso».41

In seguito alla pubblicazione de Il mondo magico, de Martino cerca di approfondire la tematica attraverso la raccolta di materiale etnografico raccolto direttamente sul campo, pertanto compie una serie di spedizioni nell’Italia meridionale. Grazie a queste ricerche si rende conto del fatto che la crisi della presenza non è un rischio connesso soltanto al mondo magico, alle società primitive, bensì è comune a tutti gli uomini, indipendentemente dalla cultura e dall’epoca di appartenenza. Così il sentimento di angoscia, che in Essere e Tempo di Heidegger generava uno spaesamento (Unheimlichkeit)42 dell’esserci, rispetto all’autenticità dell’essere, e un’incapacità di accettare il proprio essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode),43 elemento necessario per realizzarsi nella propria autenticità, nei pensieri di de Martino significa ben altro:

L’angoscia segnala l’attentato alle radici stesse della presenza, denunzia l’alienazione di sé a sé, il precipitare della vita culturale nella vitalità senza orizzonte formale. L’angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero ed azione, tra forma e materia: e poiché nella sua crisi radicale la presenza non riesce più a farsi presente nel divenire storico, e sta perdendo la potestà di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia di non poter esserci in una storia umana. Pertanto quando si afferma che l’angoscia non è mai di qualche cosa, ma di nulla, la proposizione è accettabile, ma soltanto nel senso che qui non è in gioco la perdita di questo e di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo e di ogni quello: e tale perdita non è il non-essere, ma il non-esserci, l’annientarsi della presenza, la catastrofe della vita culturale e della storia umana. E infine: l’angoscia è esperienza della colpa, perché la caduta dell’energia di oggettivazione è, come si è detto, la colpa per eccellenza.44

Dunque, dal punto di vista di de Martino, l’idea dell’angoscia rimane la stessa presente ne Il mondo magico, ovvero esprime la volontà individuale di esserci: essa non è intesa come essere-per-la-morte, ma come un volerci essere per la vita. Pertanto, mentre Heidegger sosteneva che il soggetto, come presenza, è gettato45 nel mondo e nella propria esistenza in quanto esserci, l’antropologo italiano afferma invece che egli deve lottare per raggiungere un’autentica coscienza di sé. Il concetto dello spaesamento viene analizzato concretamente anche sulla base di un’esperienza diretta, di cui de Martino era stato testimone, durante una spedizione etnologica in Calabria:

Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, e poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che chiare gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse una insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta, secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una “patria perduta”.46

Da questo breve estratto emerge che il confine tracciato dal campanile di Marcellinara non è soltanto un punto di riferimento geografico, ma segna anche la linea di demarcazione oltre la quale la presenza entra in crisi. Analizzando nuovamente la questione da un punto di vista psicanalitico, ritengo interessante evidenziare la stretta relazione presente tra il concetto di presenza e quello di coscienza, continuamente minato dalla presenza incombente dell’inconscio, il luogo, come si è detto, di un innumerevole quantitativo di contenuti rimossi . Questi ultimi, che a volte tentano di riaffiorare alla coscienza, vi riescono più facilmente nei sogni, in quanto mentre dormiamo essa abbassa le proprie difese, allentando il meccanismo di censura, che durante la veglia mantiene invece nettamente separati i/le due mondi/dimensioni. Dunque, se i contenuti inconsci non vengono interpretati, l’individuo-paziente rimane, appunto, spaesato e senza punti di riferimento, perché non riesce a coglierne i significati autentici, i quali restano latenti e continuano a nascondersi, deformandosi e condensandosi in un significante arbitrario, un contenuto manifesto che è solo apparenza ed è la mera immagine onirica. Perciò la coscienza entra in crisi e tale processo finisce per alimentare le nevrosi del soggetto senza un limite. In fin dei conti, il campanile di Marcellinara che si allontana e sparisce all’orizzonte, non è altro che il contenuto manifesto di un brutto sogno, che va soltanto ben decifrato.


  1. «Quando si parla di flusso di coscienza sorge sempre un’associazione spontanea tra l’Ulisse di James Joyce e La Signora Dalloway di Virginia Woolf. Considerati i capolavori del genere, questi romanzi non sono che la punta dell’iceberg di una vasta e ricca produzione letteraria sviluppatasi nell’Europa del XX secolo. Romanziere e scrittore poliedrico, Arthur Schnitzler porta in Austria questo genere innovativo grazie alla sua novella La signorina Else, dove flusso di coscienza e monologo interiore si mescolano alle note di Robert Schumann e ai paesaggi pittoreschi della montagna Trentina». Anna Maria Giano, «La signorina Else: Arthur Schnitzler e il flusso di coscienza», in Frammenti rivista. Il mondo con gli occhi della cultura, 15 gennaio 2018, https://www.frammentirivista.it/la-signorina-else-schnitzler-e-il-flusso-di-coscienza/↩︎

  2. Arthur Schnitzler, Sulla psicoanalisi, Edizioni SE, Milano, 2001, pag. 23. ↩︎

  3. Cfr. Arthur Schnitzler, Sulla psicoanalisi, Edizioni SE, Milano, 2001. ↩︎

  4. Cfr. Sigmund Freud, L’Io e l’Es, in Biblioteca Bollati Boringhieri, Bollati Boringhieri, Torino, 1985. ↩︎

  5. Wolfgang Mertens, «L’interpretazione dei sogni, cent’anni dopo», in Psicoterapia e scienze umane, 2000, XXXIV, 3: 5-26, https://www.francoangeli.it/riviste/SchedaRivista.aspx?IDArticolo=13818&Tipo=Articolo%20PDF↩︎

  6. Cfr. Thomas Hobbes, De cive, a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma, 2014. ↩︎

  7. Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. ↩︎

  8. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, pag. 278. ↩︎

  9. Cfr. Thomas Hobbes, De cive, a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma, 2014. Lo «stato di natura», secondo Hobbes, è uno stato di guerra, in quanto tutti gli uomini sono liberi e svincolati da qualsiasi tipo di regola, perciò l’unica legge in vigore è quella del più forte. ↩︎

  10. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, https://www.archetipi.org/it/psicologia/es-io-e-superio↩︎

  11. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi, pag. 223, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2014. «Lo studio e la terapia delle nevrosi c’inducono a muovere due rimproveri al Super-io individuale: esso si occupa troppo poco, nella severità dei suoi imperativi e divieti, della felicità dell’Io, poiché non tiene abbastanza conto delle resistenze contro l’ubbidienza: [in primo luogo] della forza pulsionale dell’Es e [in secondo luogo] delle difficoltà del mondo circostante reale. Quindi siamo molto spesso obbligati, in vista della terapia, a combattere il Super-io, e ci sforziamo di abbassare le sue pretese». Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, pagg. 277-278. ↩︎

  12. Cfr. Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino, 2007. ↩︎

  13. Cfr. John Locke, Due trattati sul governo, a cura di Luigi Pareyson, UTET, 2010. ↩︎

  14. Cfr. Aristotele, Politica, a cura di Federico Ferri, Bompiani, Roma, 2016. ↩︎

  15. Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, La filosofia da Schopenauer a Freud, vol. 3A, Paravia, 2009. ↩︎

  16. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, vol. 1, pag. 25, in I grandi pensatori, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. ↩︎

  17. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, vol. 1, pag. 25, in I grandi pensatori, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. ↩︎

  18. Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, cap. 7, Rusconi libri, Ariccia (Rm), 2016, pagg. 524-525. ↩︎

  19. Mauro Mancia, «L’inconscio e la sua storia», in Tertulia psicoanalitica, 2013, pag. 6, https://tertuliapsicoanalitica.files.wordpress.com/2013/06/linconscio-psiche.pdf↩︎

  20. Cfr. Mauro Mancia, «L’inconscio e la sua storia», in Tertulia psicoanalitica, 2013, https://tertuliapsicoanalitica.files.wordpress.com/2013/06/linconscio-psiche.pdf↩︎

  21. Cfr. Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, cap. 7, Rusconi libri, Ariccia (Rm), 2016. ↩︎

  22. Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, in I Meridiani, a cura di Alfredo Marini, Mondadori, Roma, 2006. ↩︎

  23. Antropologo, storico delle religioni e filosofo italiano (1908-1965). ↩︎

  24. Cfr. Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxista, a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi, P.Craveri, Bibliopolis, Napoli, 2001. ↩︎

  25. Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di L. La Porta, G. Prestipino, Carocci, Roma, 2014. ↩︎

  26. Cfr. Ernesto de Martino, Il mondo magico, 1973a edizioni, Torino, 1974. ↩︎

  27. Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005. Il termine Dasein è anche tradotto proprio come presenza, con l’implicazione di carattere spazio-temporale del termine. ↩︎

  28. Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005. ↩︎

  29. Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005. ↩︎

  30. Cfr. Ernesto de Martino, Il mondo magico, 1973a edizioni, Torino, 1974. ↩︎

  31. Cfr. Ernesto de Martino, Il mondo magico, 1973a edizioni, Torino, 1974. ↩︎

  32. Ernesto de Martino, Il mondo magico, 1973a edizioni, Torino, 1974, pag. 22. ↩︎

  33. Cfr. Ernesto de Martino, Il mondo magico, 1973a edizioni, Torino, 1973. ↩︎

  34. L’antropologo evoluzionista scozzese James Frazer, nella sua opera Il ramo d’oro analizza tre fasi distinte di costruzione sociale della verità nella storia umana, tre vere e proprie fasi del pensiero, ponendole in successione cronologica. La prima è costituita dall’uso della magia, che l’uomo utilizza nel tentativo di manipolare e controllare la realtà; in seguito, quando egli si rende conto di non potercela fare da solo, si affida a un’alterità, che coincide con la divinità; infine, una volta compreso che gli eventi sono legati da precisi rapporti di causa-effetto, nasce la terza fase, identificabile con la scienza. [Cfr. James G. Frazer, Il ramo d’oro, trad. it. Lauro De Bosis, Bollati Boringhieri, Torino, 2014]. Inoltre, «Frazer identifica precisi meccanismi di causa-effetto nella pratica magica, sottolineando le similitudini di quest’ultima con quella scientifica: l’essere umano interagisce con i fenomeni naturali e con la realtà circostante manipolando e controllando la natura attraverso l’applicazione di leggi. Ciò che differenzia la scienza dalla magia è che quest’ultima, sebbene sia in possesso di una forte logica interna che riconosce similitudini, vicinanze e connessioni, agisce su una falsa concezione di regolarità dei processi di causa-effetto. Tali concezioni risultano deboli in quanto le leggi costruite sui fenomeni nascono da associazioni di idee pregresse, per somiglianza ed imitazione degli effetti di un fenomeno, per contiguità tra azione verso un oggetto e effetto dell’oggetto “modificato” su chi viene in contatto con esso» . [Renè Verneau, «Magia, religione e scienza: James Frazer e il suo ramo d’oro», in Sociologicamente, 6 aprile 2017, https://sociologicamente.it/magia-religione-scienza/.] ↩︎

  35. Antropologo sociale polacco naturalizzato brtitannico (Cracovia 1884-New Haven, Connecticut, 1942). La sua ricerca nelle Isole Trobriand (Argonauti del pacifico occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 2011) ebbe un’importanza determinante per l’antropologia, in quanto fondò i metodi della moderna ricerca etnografica sul campo, in particolare quello dell’osservazione partecipante. Tra i maggiori esponenti del funzionalismo britannico, Malinowski interpretò la cultura e le istituzioni sociali come strumenti atti a soddisfare i bisogni, che distinse in primari o fondamentali e secondari o derivati. Cfr. Malinowski, Bronisław nell’Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/bronislaw-malinowski/↩︎

  36. Cfr. Bronislav Malinowski, Argonauti del pacifico occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 2011. ↩︎

  37. Cfr. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, vol.1, in I grandi pensatori, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. ↩︎

  38. Cfr. Ernesto de Martino, Il mondo magico, 1973a edizioni, Torino, 1973. ↩︎

  39. Antropologa italiana (1934-2017) e allieva di Ernesto de Martino, la quale prese parte alla spedizione in Salento del 1959, per una ricerca etnografica sul tarantismo pugliese. ↩︎

  40. Amalia Signorelli, Ernesto de Martino, Teoria antropologica e metodologica della ricerca, L’asino doro edizioni, 2015, pag. 89. ↩︎

  41. Ernesto de Martino, Il mondo magico, 1973a edizioni, Torino, pag. 93. ↩︎

  42. Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005. ↩︎

  43. Nella dottrina heideggeriana, l’essere-per-la-morte coincide con l’esistenza autentica, in quanto «decisione anticipatrice della morte: l’anticipazione svela all’Esserci la disperazione nel Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo al prendente cura aver cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena d’angoscia: la libertà per la morte». Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005, § 53. In altre parole l’individuo, accettando la morte, affronta la vita con autenticità, consapevole del fatto che non esiste una vita eterna e accettando la condizione della propria finitezza. In tal modo non vive nell’illusione del sogno. Infatti, lo stesso Heidegger scrive: «La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Così […] si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile». Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005, § 50. ↩︎

  44. Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 1975, pag. 31. ↩︎

  45. Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005. L’essere-gettato (Geworfenheit) è, per Heidegger, il carattere per cui l’esistenza umana risulta gettata nel mondo, come un «progetto gettato: questo carattere dell’essere dell’Esserci, di esser nascosto nel suo donde e nel suo dove […] questo “che c’è” noi lo chiamiamo l’esser gettato di questo ente nel suo Ci […]. L’espressione esser-gettato sta a significare l’effettività dell’essere consegnato». Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005, par. 29. ↩︎

  46. Ernesto de Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano, 2002, pagg. 480-481. ↩︎