«Un’infinita quantità di speranza». Benjamin e Kafka

1. La soglia dell’immanenza

L’opera di Kafka […] è stata sottoposta al sistematico stupro di almeno tre eserciti di interpreti. Coloro che leggono Kafka come un’allegoria sociale vi vedono delle cartelle cliniche sulle frustrazioni e sull’assurdità della burocrazia moderna e sul suo inevitabile sfociare nel totalitarismo. Coloro che lo leggono come un’allegoria psicanalitica vi trovano rivelazioni disperate della paura di Kafka di fronte al padre, del suo complesso di castrazione, del suo senso d’impotenza e della sua soggezione ai sogni. Coloro che lo leggono come un’allegoria religiosa spiegano che in Das Schloss K. cerca di guadagnarsi l’ammissione al paradiso, mentre il Joseph K. del Processo è giudicato dalla misteriosa e inesorabile giustizia di Dio…1

Le parole di Susan Sontag potrebbero costituire se non una sorta di viatico quanto meno un monito da tenere sempre presente, anche quando il lettore dell’opera è Walter Benjamin, uno che per costume si chiama fuori dalla cosiddetta «interpretazione autentica», uno che conosce bene i rischi oggettivi e soggettivi dell’interpretare, che non vuole contribuire a rendere più spessa l’incrostazione interpretativa. Benjamin è consapevole che appropriarsi soggettivamente di un testo, cercare di rivivere la situazione psicologica del suo autore non solo non è più sufficiente ma può risultare foriero di mitopoiesi, di equivoci che trascendono lo spazio letterario e giungono a permeare, al di là della cultura di massa, la stessa quotidianità. Da questo punto di vista, quello di Kafka rappresenta il caso emblematico per eccellenza: la nascita più o meno immediata dell’aggettivo «kafkiano» e, ancora di più, l’uso che se n’è fatto, non hanno certo giovato né alla comprensione degli scritti né a quella dell’autore, a fronte di un’opera quasi del tutto pubblicata postuma. Interpretare significa tener conto della complementarietà dello

Spiegare, che avviene attraverso metodi oggettivi, e del comprendere, che tiene conto della necessità che un testo sia letto a partire da un certo contesto di lettura, in qualche misura sempre diverso da quello della scrittura.2

Il testo diventa quindi autonomo, la «distanziazione» ricœuriana, l’opera aperta di Umberto Eco; tuttavia, man mano ch’esso si allontana dall’autore si avvicina sempre più verso il lettore, trasformandolo, seppure nella diversità del suo contesto storico e culturale. Interpretare il testo significa essere consapevoli del circolo o dell’arco ermeneutico: «spiegare di più per comprendere meglio»,3 quanto più il testo diviene significante, tanto più ci aiuta a comprendere la situazione che stiamo vivendo.

Nelle pagine che seguono, si è cercato di ricostruire la dialettica del rapporto Benjamin — Kafka a partire dalla diversità dei ruoli nella/e polarità di un destino comune segnato dalla temporalità storica e dall’eternità religiosa, in ogni caso, dal procedere in avanti verso l’ignoto della grande speranza con lo sguardo all’indietro verso le rovine della storia. Inizialmente, si è tentato di focalizzare la prospettiva teorica di Benjamin, cercando un non facile orientamento nel ginepraio della bibliografia italiana.4 Semplificando schematicamente, si potrebbe dire che Benjamin, pur muovendosi tra marxismo e teologia,5 non solo abbia rifiutato interpretazioni generiche di tipo sociologico o psicoanalitico ma che in realtà egli non abbia prodotto alcuna interpretazione dell’opera kafkiana. Anzi, se la leggenda russa che pone come presupposto teorico della sua lettura è «come una staffetta che precorre di due secoli l’opera di Kafka»,6 si potrebbe dire, a sua volta, che anche l’opera di Kafka è una staffetta che precorre quella di Benjamin. Del resto, il discorso della Sontag potrebbe valere per lo stesso Benjamin: entrambi gli autori sono da sempre sottoposti a molteplici letture, privilegiando ad esempio il filtro del marxismo, della psicanalisi oppure attraverso la mistica, come ha fatto Gershom Scholem; in realtà, ad un’analisi più approfondita, essi sfuggono ad ogni interpretazione, sono irregolari e quindi irriducibili a qualunque categorizzazione. Accade infatti che molti di coloro che come noi vogliono rapportarsi a Benjamin,

Assumendo la sua opera una volta di più come oggetto di un attraversamento interpretativo, avvertano spesso la necessità di riaprire in essa la dimensione arrischiata di un presente non già pregiudicato dall’omologazione all’inesorabilità della tendenza.7

Successivamente, le domande ruotano intorno alla possibilità di comprendere come Kafka possa essere visto nelle vesti di «profeta» del marxismo (sicuramente quello «critico» che dal Lukacs di Storia e coscienza di classe giunge, attraverso lo stesso Benjamin e la Scuola di Francoforte, fino al Principio-Speranza di Ernst Bloch) seppure attraverso il linguaggio della grazia divina. A tal proposito, la psicoanalisi, cacciata dalla porta tenderebbe a rientrare dalla finestra, presagendo l’inconscio, all’insegna del lacaniano ritorno a Freud, strutturato come un linguaggio, per rilevare che Kafka è solo uno dei tanti Edipo nella letteratura oppure — e questa è la via che preferiremmo seguire — possiamo leggere Kafka pensando che egli parlasse di se stesso e della sua epoca, per quanto possa essere allettante immaginare che in lui vi fosse quella luce che illumina il futuro o che fosse umanamente tormentato dalla ricerca del paradiso. Non a caso, la riflessione che avvicina Benjamin a Kafka parte proprio dal problema della trasmissibilità della Tradizione, che sopravvive solo come commento, da cosa significhi essere ebrei di lingua tedesca, gli ebrei non ebrei, ma nemmeno tanto tedeschi, considerato il forte senso di estraneità sia rispetto alla contingenza storica dell’uno e dell’altro, che rispetto alla stessa religione ebraica. Benjamin, dunque, parlando di Kafka parla in realtà di se stesso. In tal senso si affida alla speranza e alla possibilità di redenzione che necessariamente porta al messianismo. Tale impostazione è oggetto dell’ultima parte, in cui si è provato a chiarire come le due riflessioni, sull’ebraismo e sulla speranza, non possano appunto essere indipendenti l’una dall’altra, in quanto ogni pensatore dell’ebraismo o vicino ad esso avverte il bisogno di un percorso di rammemorazione. Per tale ragione riteniamo che non sia casuale l’interazione, ancora una staffetta, tra Benjamin e il pensatore che più di ogni altro è riuscito ad associare il suo nome alla speranza facendone un Prinzip teoretico e politico ovvero Ernst Bloch. Se Benjamin ripensa al saggio del ’34 in base al fatto che non si può non considerare il fallimento di Kafka, Bloch indaga il principio-speranza in relazione alla totalità della sfera umana poiché gli uomini sono ad un tempo soggetto e oggetto dell’utopia concreta.

2. Il saggio del ’34

È opportuno partire proprio dal tema della speranza in quanto questo è uno dei possibili fili conduttori per leggere il rapporto tra Benjamin e Kafka. Nel saggio Franz Kafka. Per il decennale della morte, Benjamin esordisce raccontando sinteticamente la trama di una leggenda della Russia imperiale del tardo Settecento, ripresa probabilmente da Puskin,8 che ha come protagonisti il cancelliere di corte Potemkin, afflitto da crisi depressive e il suo «insignificante» scrivano Šuvalkin. Le ricorrenti crisi del cancelliere paralizzano continuamente le attività amministrative dell’intera corte e i consiglieri non sanno come fare, anche perché l’imperatrice Caterina non vuole che se ne parli mai. Durante l’ennesima crisi e la solita disperazione dei consiglieri per la necessità di avere la firma del cancelliere in calce a una serie di documenti, lo scrivano pensa di poter risolvere tutto e, entrato nelle stanze di Potemkin, gli porge i documenti che vengono firmati senza alcuna esitazione: in men che non si dica, tutto sembra risolto ma, appena i consiglieri posano lo sguardo sui fogli, vedono su tutti l’insignificante firma dell’insignificante Šuvalkin. «Šuvalkin […] è il K. di Kafka», Benjamin non ha dubbi: la parabola «è come una staffetta che precorre di due secoli l’opera di Kafka, l’enigma che vi si addensa è quello stesso di Kafka»,9 la sentenza sembra anticipare uno dei cardini teoretici delle postume Tesi di filosofia della storia ossia il doppio legame tra tempo e storia, attimo ed eternità, la condizione di ogni singolo uomo nella circolarità del tempo eterno. Forse, vale la pena di chiedersi, come ha recentemente fatto Valentina Maurella, «se la sua portata simbolica, all’interno dell’interpretazione benjaminiana, vada oltre l’essere semplice mezzo attraverso il quale immergersi, fin da subito, nel mondo di Kafka».10 La leggenda russa potrebbe essere stata concepita da Kafka e appartiene al suo universo letterario.

L’angoscia che si incarna nel senso di dovere, l’ansia e il peso della colpa dovuti alla paralisi che interrompe la regolarità del lavoro, i funzionari che recitano meccanicamente la loro parte, come nel teatro naturale e, infine, il gesto che si impone sulla risoluzione: la gloria dell’inconscio che si abbatte sull’astuzia della ragione, l’intelletto del burocrate che dissipa, ancora una volta, la vita.11

Da Kierkegaard a Heidegger, è il destino del singolo, la sua solitudine e, in questo caso, Dio, l’assoluto, la Legge rientrano simbolicamente nell’orizzonte pre-borghese del Castello. Gli interrogativi di Benjamin riguardano in primo luogo il rapporto con la Tradizione, infatti è proprio la riflessione sul modo di intendere l’appartenenza alla religione ebraica che lo porta ad avvicinarsi inizialmente a Kafka e a rileggere la sua opera, come testimonia una lettera del 1934 a Werner Kraft:

Questo studio mi ha condotto a un crocevia delle mie idee e delle mie riflessioni… Proprio le ulteriori considerazioni a esso dedicate promettono di aver per me il valore che ha la consultazione di una bussola in un territorio senza strade.12

Secondo Giulio Schiavoni, questa confessione all’amico Kraft di trovarsi «in un territorio senza strade» non va considerata come una resa al nichilismo ma piuttosto come un modo di perlustrare il deserto, che, non a caso, rappresenta un elemento essenziale della storia degli ebrei di ogni epoca ma, si potrebbe dire, col «non ebreo» Jung è l’archetipo che, prima o poi, muove tutti i dannati della terra, popolo o classe, come vorrebbe Benjamin, ma anche l’altro ebreo e marxista Ernst Bloch.

Richiamando la leggenda di Potemkin, Benjamin vuole affrontare un problema presente non solo in Kafka ma anche nella sua stessa opera e che riguarda la comunicabilità della Tradizione, ammesso che ciò sia ancora possibile. Kafka e Benjamin, come ribadisce Valentina Maurella,13 si misurano con forze preistoriche che in realtà sono anche le potenze storiche della loro epoca che imprigionano giudici, funzionari e padri ovvero gli abietti con cui K. si scontra. Infatti non possiamo dimenticare che Benjamin, in una lettera a Scholem del 1934, sostiene che in Kafka vi sia un forte senso di vergogna per la decadenza del presente e della Tradizione: «La Torah, come fondamento della tradizione ebraica, sembra ridotta a mera impalcatura».14 Ma la categoria forse ancora più importante, sebbene non facile da definire, è quella kierkegaardiana e blochiana corrispondente alla Moeglichkeit, la «possibilità», poiché la genialità dello scrittore praghese sta, secondo Benjamin, nell’aver risparmiato della Tradizione l’aspetto della sua trasmissibilità: la Tradizione potrà esistere ancora solamente nella veste del commento ma, oltre a questo, non è più possibile parlare di speranza. Rispetto a tale visione del futuro della Tradizione, Benjamin si scontrerà con Brecht negli anni Trenta in Danimarca, infatti Brecht vedeva in Kafka una sorta di profeta del marxismo o, più in generale, la figura del giusto che porta con sé ancora la speranza, mentre per Benjamin, Kafka non si sottrae al proprio destino, come farà di lì a poco lui stesso per sfuggire ai nazisti. Il male è parte integrante — ineliminabile — del reale ed ecco perché, a differenza di Brecht, Benjamin non crede fino in fondo che la rivoluzione possa avere un effetto salvifico per gli uomini.

3. Sotto il segno della speranza

Alla luce del racconto di una conversazione tra Brod e Kafka, in cui quest’ultimo afferma che «esiste un’infinita quantità di speranza, ma non per noi»15 poiché noi non siamo altro che «un cattivo umore di Dio»,16 Benjamin si rende conto che Kafka ha posto a sfondo della sua opera, tra le molteplici tematiche, in primo luogo il fallimento dell’uomo moderno, e che non vi sia speranza per l’umanità attuale di redimersi da tale fallimento. Il compito dell’ebraismo, a questo punto, rispetto alla modernità sta in ciò che Benjamin affida all’avvento del Messia, facendo attenzione alla rappresentazione della temporalità da parte di entrambi gli autori: ciò significa analizzare il rapporto tra l’oblio di Kafka e il ricordo in Benjamin, importante non solo in quanto anticipa il futuro, ma soprattutto perché, come abbiamo anticipato, molti autori ebrei o che si sono avvicinati all’ebraismo per svariati motivi hanno sempre ritenuto necessario sottolineare l’importanza di una «rammemorazione».

Un testo che anticipa il saggio del 1934 Franz Kafka è Durante la costruzione della muraglia cinese, scritto nel 1931 per una conversazione radiofonica. Benjamin, riportando la leggenda cinese raccontata da Kafka, sostiene che, se vogliamo leggere Kafka, dobbiamo rinunciare a tentare di spiegare la sua opera infatti:

L’opera di Kafka è profetica. Tutte le stranezze di cui è piena la vita con cui essa ha a che fare, il lettore le deve interpretare come piccoli indizi, sintomi di slittamenti che lo scrittore percepisce in tutti i rapporti, senza riuscire ad adeguarsi ai nuovi ordini» e ancora: «come le parti della Aggadah nel Talmud, così anche questi libri sono dei racconti, una Aggadah che si arresta continuamente, nella speranza e nel timore ad un tempo di imbattersi per strada nella norma e nella formula della Halakhah, la dottrina.17

Quindi l’approccio a Kafka non rispecchia solamente l’influenza che il marxismo ha avuto su Benjamin ma anche il complesso rapporto con la teologia, che però, come ribadisce Benjamin in questa conversazione, non può più essere quella lineare di Max Brod. A proposito di queste due polarità, il primo testo in cui è evidente il legame tra materialismo storico e visione mistico-teologica è Einbahnstrasse, dedicato all’amica «rivoluzionaria» Asja Lacis, e in particolare i riferimenti sono più frequenti nella raccolta di aforismi intitolata Denkbilder. Questo testo sembra riprodurre la svolta in direzione del marxismo e infatti l’incontro con la Lacis fu uno dei fattori determinanti assieme, ad esempio, alla lettura della recensione di Ernst Bloch a Geschichte und Klassenbewusstsein di Lukàcs. Ampliando il discorso anche al di là dell’intreccio tra materialismo storico e teologia, la raccolta delle Denkbilder, all’interno della produzione di Benjamin, crea «non solo l’immagine del laboratorio benjaminano» ma rievoca anche

Una pratica che è quella che in quei testi continua a prodursi in una relazione con un tempo che non si lascia esorcizzare storicisticamente perché si estende, anzi si radica nel presente in cui, in una nuova configurazione del gioco delle forze, la sua proposta cerca, forse con successo, di stare in diretto rapporto con le materie del contendere proprie dell’oggi e con quei rischi e quelle illuminazioni di sempre, solo che in questo azzardo si sottraggono alla loro caricatura estetizzante o all’arruolamento nelle file di una filosofia buona per tutte le stagioni.18

Un altro testo fondamentale per capire l’intreccio tra teologia e marxismo è costituito dalle Tesi,19 in cui troviamo una critica alla fiducia nel pregresso, per affermare invece come l’umanità si riconosca solamente in una dimensione mortifera. Rispetto a tutto ciò l’angelo è impotente perché, sebbene riesca a scorgere ciò che si trova oltre il processo, non riesce ad impedire che le rovine della storia crescano ai suoi piedi poiché la tempesta del progresso lo trascina nel futuro. Qui l’elemento teologico sta, secondo Scholem, nei concetti di «barocco della storia» come inarrestabile decadimento e nella nozione della Cabala di Tikkun rivista ora come redenzione messianica delle cose nella loro originaria integrità.20 Tuttavia secondo Scholem, il Tikkun, l’idea di una ricomposizione dei vasi di luce sefirotica, non può essere realizzato da nessun angelo ma soltanto dal Messia in persona, mentre, tornando a Benjamin, chi ritiene che il procedere della storia possa condurre solo al miglioramento non riesce a vedere la catastrofe sotto i suoi occhi; qui entrerebbe in gioco il materialismo storico (simboleggiato dall’angelo) che per porre rimedio alla catastrofe dovrebbe farsi forza della sua riflessione teorica ma soprattutto dell’azione politica della classe oppressa, tuttavia questi due momenti sono all’interno di un rapporto di forte tensione.

Venendo dunque al saggio del ’34, grazie a Felix Weltsch, redattore della Judische Rundschau, per Benjamin è possibile concretizzare le ricerche su Kafka, in occasione del decennale della morte, le quali comprendono un grande lavoro di lettura dell’opera e dei commenti all’opera dello scrittore praghese, anche se Benjamin, successivamente, avrà dei ripensamenti rispetto a quanto aveva scritto proprio in questo saggio, che noi ora leggiamo in Angelus Novus. Nella lettera di risposta che egli scrive a Weltsch per ringraziarlo dell’invito a parlare di Kafka, Benjamin ribadisce che, sebbene avesse difeso Max Brod da Ehm Welk quando Brod aveva deciso di pubblicare i testi di Kafka nonostante il testamento di quest’ultimo, non apprezzava il modo in cui Brod si era appropriato, modificandolo, dell’apparato concettuale kafkiano e avvisa l’editore che, pur non volendo causare polemiche, non poteva seguire l’impostazione basata sulla teologia lineare.21 Ciò è del tutto coerente con quanto scrive nella recensione alla biografia di Kafka realizzata da Max Brod, infatti è tipico della visione pietista di Brod leggere Kafka partendo dal presupposto che egli tentasse di avvicinarsi quanto più possibile al sacro, ma proprio tale arbitrario presupposto viene indicato da Benjamin come un «atteggiamento di ostentata intimità; in altri termini, l’atteggiamento più privo di pietà che si possa pensare».22

4. La revisione incompiuta

Rivolgendosi a Scholem nel 1934 Benjamin afferma che vi sono delle questioni lasciate in sospeso nel saggio dedicato a Kafka, in particolare se l’amico Scholem nelle sue analisi sull’opera inizia dalla storia sacra, egli vuole partire invece dalla speranza e dalle creature a cui si riferisce tale speranza. Contemporaneamente all’idea di un nuovo progetto Benjamin inserisce una significativa riflessione sulla scrittura: «la scrittura senza la sua chiave non è scrittura, è vita. Vita quale viene condotta nel villaggio ai piedi del monte dove sorge il castello»23 che è appunto Das Schloss. Il particolare approccio che Kafka ha nei confronti della categoria dell’allegoria sta ad indicare dunque «il tentativo di trasformare la vita in scrittura» e a tal proposito Benjamin menziona anche Sancho Panza, la cui esistenza viene definita «esemplare poiché consiste, in verità, nella rilettura della propria esistenza».24 Non è un caso infatti che nella conclusione di una lettera del 1938 a Scholem, Benjamin, avendo di mira la revisione del saggio del ’34, intrecci ora follia e speranza sostenendo che:

Kafka aveva certamente alcune convinzioni fermissime: in primo luogo, uno, per aiutare, deve essere un folle; in secondo luogo, solo l’aiuto di un folle è veramente tale. Incerto è solo un punto: giova ancora all’uomo? Forse giova piuttosto agli angeli, per i quali potrebbe anche andare altrimenti. Come dice Kafka, è data una quantità infinita di speranza, solo non per noi. Questa frase racchiude veramente la speranza di Kafka: è la fonte della sua radiosa serenità.25

5. Un’esistenza iperbolica

Nella vita di Kafka, un incontro decisivo avviene nel 1910, quando egli viveva momenti di difficoltà, e tale incontro è proprio con l’ebraismo infatti quell’anno arrivò a Praga un gruppo di attori guidati dall’ebreo Löwy che mettevano in scena il teatro yiddish. In origine lo yiddish era un adattamento del tedesco parlato dagli ebrei stabilitisi in Germania dopo la colonizzazione da parte di Roma mentre dalla modernità in poi indicherà la lingua parlata dagli ebrei orientali e, prima che l’ebraico venisse ripreso in Palestina, era l’unica lingua ebraica di portata internazionale.26 Il contatto con la produzione letteraria e teatrale yiddish costituì per Kafka l’occasione per avvicinarsi all’ebraismo in alternativa al sionismo di Theodor Herzl che, nonostante l’accezione esclusivamente culturale data dallo stimato Martin Buber, non convinceva Kafka che nutriva molte perplessità nell’esplicito carattere nazionalistico del movimento. L’ebreo della westjüdische Zeit che porta il mondo sulle proprie spalle era più affine allo spirito kafkiano della missione del Kulturzionismus. Il pericolo è trattare l’ebraismo in una visione astorica, tipica dello scrittore che lo traspone nella vita letteraria ma questo, come sostiene Benjamin, non è il caso di Kafka, in cui il contrasto tra vita e letteratura da un lato e il tema dell’ebraismo dall’altro sono così legati che l’ebraismo non viene mai esplicitamente analizzato. Una delle prime occasioni in cui lo scrittore manifesta interesse per la questione ebraica è data dalla pubblicazione di Le ebree di Max Brod e in particolare dalla critica di Leo Herrmann a Brod che avrebbe trattato l’assimilazione solo dal punto di vista ebraico, tralasciando la prospettiva cristiana. Secondo Kafka invece uno dei «difetti» del romanzo di Brod è la mancanza dell’antagonista e lo dice non per criticare Brod ma, come ricorda Baioni, per

Prevenire l’obiezione di una convenzione narrativa secondo la quale il lettore era ritenuto capace di riconoscere il mondo ebraico solo in opposizione a quello cristiano. Con ciò Kafka anticipa una prospettiva alla quale rimarrà fedele in tutta la sua opera. I sionisti sono interessati per ovvie ragioni a mettere in evidenza in contrasto tra ebrei e cristiani. Kafka rappresenta l’ebraismo sempre dall’interno e lo vive come un mondo del tutto autonomo.27

Il teatro yiddish risulta importante non solo per il ruolo della lingua e per comprendere il sentimento di una comunità di fronte alla crisi dell’identità giudaica, ma anche per l’immersione nell’ebraismo grazie all’amicizia con Löwy. Egli non idealizza mai il teatro yiddish ma si interessa sempre delle forme di vita semplici, la vita quotidiana dell’ebreo anche negli aspetti meno edificanti. Contemporaneamente allo studio del Talmud e alla lettura della Histoire de la littérature judéo-allemande di Pines, nel 1911 Kafka scrive lo Schema per caratterizzare piccole letterature28, in cui mette in relazione le letterature minori e le rapporta alla scrittura «minore». Per letteratura minore si intende, seguendo l’ipotesi di Deleuze e Guattari, la letteratura degli ebrei a Praga ovvero la letteratura prodotta dalla minoranza nella lingua della maggioranza per cui la lingua viene deterritorializzata ed è questo il motivo per cui Kafka parla della letteratura degli ebrei praghesi come «qualcosa di impossibile; impossibilità di non scrivere, impossibilità di scrivere in tedesco, impossibilità di scrivere in un’altra lingua».29 Per gli ebrei di Praga è impossibile non scrivere in quanto la «coscienza nazionale, incerta o oppressa, passa necessariamente attraverso la letteratura — la battaglia letteraria acquista una giustificazione reale sulla massima scala possibile»;30 è impossibile scrivere in tedesco in quanto gli ebrei, che appartengono alla minoranza della popolazione che parla tedesco ma ne sono anche esclusi, utilizzano un tedesco che è applicabile solo ad usi minori e infine impossibilità di scrivere in una lingua diversa dal tedesco significa che gli ebrei praghesi vivono una condizione di distacco rispetto alla loro territorialità praghese. Tra questi spazi s’innesta la lettura benjaminiana di Kafka in cui la speranza rappresenta ad un tempo il testimone della staffetta e il suo fine. Rispetto a quella «grande», la letteratura minore si fa politica, senza togliere nulla all’esperienza letteraria e non è casuale che Kafka indichi come scopo della letteratura minore «l’epurazione del conflitto che oppone padri e figli e la possibilità di discuterne».31 Ciò significa che la letteratura minore viene a costituire un programma politico in cui la descrizione di un fatto individuale richiama immediatamente la dimensione comunitaria infatti il terzo dei tre caratteri della letteratura minore individuati da Deleuze e Guattari32 è il valore collettivo che la letteratura minore assume per scrittori e lettori: ciò che viene scritto, istituisce un legame di natura politica con chiunque lo legga, lo si condivide di fatto anche quando non si ha la stessa opinione. Lo scrittore, pur vivendo al di fuori della comunità, possiede e riproduce attraverso la sua opera quegli strumenti che servono ad animare la coscienza collettiva. L’opera letteraria fa sì che la dimensione della politica invada il campo degli enunciati e che si crei un legame sociale e solidale, ovvero «la letteratura non riguarda tanto la storia letteraria quanto il popolo».33 In base a questi tre caratteri, le potenzialità della letteratura minore all’interno di una grande letteratura fanno sì che la letteratura diventi quella «macchina collettiva d’espressione»34 che ha con la lingua un rapporto di deterritorializzazione. Quest’ultima viene perseguita da Kafka non arricchendo la lingua di simboli ma mantenendo la sobrietà del tedesco parlato a Praga. Il tedesco di Praga, mescolato al ceco o allo yiddish, fa sì che nella scrittura kafkiana il significato sembri perdere progressivamente intensità per lasciare solo una minima traccia di sé; il senso viene, per dirla con Benjamin, neutralizzato dal linguaggio, per cui si passa dalla parola all’immagine senza la mediazione di metafore che per Kafka sono una vera fonte di disperazione.35 Infine possiamo dire che Kafka sostiene un uso minore anche della lingua in cui distinti centri del potere permettono che alcune cose vengano dette e altre no ed ecco che «di grande, di rivoluzionario non c’è che il minore. Odiare ogni letteratura di padroni».36

6. Assalto al limite

Kafka ordinò alla nuova fidanzata Dora, che incarnava il «giovanotto ebreo orientale che egli avrebbe voluto essere», di distruggere i manoscritti ispirati dagli spettri dal demonio per aspettare una letteratura che fosse libertà: cominciava a emergere l’indissolubile aporia tra esistenza e letteratura. Nelle notti di insonnia, si rendeva conto che l’eccessiva introspezione lo allontanava dall’umanità ma, paradossalmente, solo attraverso questo dolore si apre la possibilità di un nuovo ebraismo e di una nuova letteratura. Prendendo le distanze da Brod e Weltsch la cui letteratura si muove sempre più verso il sionismo, Kafka attende una nuova Cabala, la salvezza della storia pur rimanendo al di fori di una collocazione di tipo confessionale:

Tutta questa letteratura è assalto al limite e, se non fosse intervenuto il sionismo, avrebbe potuto evolversi facilmente e diventare una nuova dottrina esoterica, una Cabala. Ne esistono gli spunti. Certo qui si richiede un genio incomprensibile che affondi nuovamente le radici nei secoli antichi o li ricrei e con tutto ciò che non si doni, ma soltanto ora incominci a donarsi.37

In seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, Kafka, sebbene si auguri la vittoria di Austria e Germania, guarda con angoscia ai tragici fatti e alla «necessità» di presentarsi volontario e medita sulla morte e il suicidio. La «guerra parallela» di Kafka si svolge letterariamente attraverso uno dei pochi racconti editi in vita, Nella colonia penale, pubblicato nel 1914. Non solo la guerra, ma anche l’arrivo dei profughi orientali di Galizia e l’amicizia con Grete Bloch sono gli avvenimenti che fanno da sfondo oltre a Nella colonia penale anche al Processo, due dei testi in cui l’autore tenta quasi di dar ragione della propria condizione di scrittore in rapporto ai grandi temi della vita e della morte. La letteratura è la colpa inespressa del protagonista del Processo, essa è la «macchina celibe»38 del testo Nella colonia penale. In quest’ultimo testo Kafka si interroga sul significato autentico di una vita di scrittura vissuta però come colpa e pena, in quanto la macchina celibe è «una macchina per scrivere e una macchina che uccide per mezzo della scrittura».39 Invece in Davanti alla legge egli aveva utilizzato il genere della Aggadah ovvero la poesia, la letteratura per creare una similitudine nella vicenda del Processo: Joseph, ascoltando la parabola da parte dell’autorità e interpretandola, arriva alla propria sentenza di morte. Egli è l’ebreo che non può entrare nella Legge e la parabola, ricevuta nella cattedrale cristiana, con il suo messaggio non può mai essere similitudine della verità, ma solo similitudine di se stessa, pura letteratura e forma in grado di trarre in inganno l’imputato.

Dal punto di vista di osservazione dell’uomo della parabola lo spazio prospettico della Legge, disegnato dalla progressione del potere e dai guardiani, non è veramente una via, è una prospettiva rappresentata, una bella forma bidimensionale che, come accade con la figura del guardiano oggetto dell’attenzione del campagnolo, può essere solo analizzata e contemplata, ma in nessun caso può rappresentare un punto di transito in direzione della verità.40

Ricollegando la funzione di tale parabola, che spiega come l’uomo si inganni guardando la Legge dall’esterno, all’intento di Kafka che scrive il Processo per capire cosa significhi nella sua epoca far letteratura, possiamo ritenere che la parabola crei una similitudine anche con l’esistenza dello scrittore che vuole rimanere fuori dalla vita, in solitudine o in libertà, per cui egli della vita ha solo un’immagine prospettica, così come il campagnolo aveva di fronte a sé solo l’immagine della via verso la verità e Joseph K. solo l’immagine della via in direzione della Legge.

7. «La macchina celibe»

Anche se Kafka credeva nell’esistenza della verità, non ritiene tuttavia che la letteratura possa condurre ad essa in quanto la letteratura è l’espressione di un’attività in solitudine che non comporta l’acquisizione di certezze. Ecco dunque la colpa che Kafka rimprovera probabilmente a se stesso: egli, pur credendo nella verità, ha trasformato quest’ultima in un dipinto così gradevole e soddisfacente, anche solo nel suo essere contemplato a distanza, da giustificare la rinuncia a vivere nella Legge. Parafrasando Blanchot,41 la letteratura è veramente tale solamente quando diventa interrogazione su se stessa, ovvero quando il suo scopo è parlare per non dire nulla dato che la parola ci restituisce «l’essere privo di essere»,42 anche se lo scrittore, inizialmente servo, libera se stesso e tutti i lettori quando ha la libertà di scrivere. Kafka, lo scrittore, esiste solo per mezzo e grazie alla propria opera e, parlando del proprio presente, egli ci fa capire che vi sono due condizioni rintracciabili nella letteratura: quella di chi, avendo dimenticato la propria morte, crede di essere ancora vivo e cerca aiuto, come K. nel Castello, oppure la condizione di chi, credendosi morto, lotta per morire veramente.43 Nel racconto Il cacciatore Gracco44 il vero dramma è l’impossibilità di morire, infatti o il morto tenta di portare a compimento la propria morte invano, oppure il vivo è costretto a lottare con dei nemici che sono in realtà morti. Questa impossibilità di morire sarebbe, secondo Blanchot,45 all’origine della follia dei testi di Kafka, in cui non si è mai veramente né salvi né senza speranza perché se nel Cacciatore Gracco la salvezza è morire, l’unica speranza è continuare a vivere. Esiste sempre, nei racconti come nei romanzi, un malinteso circa la speranza, per cui non si può sapere se essa sia presente o se, invece, scomparsa definitivamente. L’ambiguità dei testi di Kafka, in cui non possiamo sapere se vi sia o meno speranza, non è accidentale ma deriva da una visione, a cui egli probabilmente si ispirò, rintracciabile nella Cabala secondo cui esiste una necessaria coincidenza fra dannazione e salvezza. In questa relazione si inseriscono l’arte e la letteratura che consentono di arrivare dove non arrivano conoscenza e razionalità, rapportato alla vita e all’opera di Kafka significa che «tanto più si allontana da se stesso e tanto più diviene presente»46 a se stesso. Egli sa che la vita comporta l’adesione alla Legge ma decide di rifugiarsi nella scrittura e nella letteratura; sa che, in quanto ebreo, il suo compito sarebbe cercare Dio nella comunità e invece prega attraverso la scrittura e attraverso le proprie opere. «Kafka — infatti — è sionista antisionista»47 poiché con la sua opera non mira a raggiungere la sfera della religiosità, ma essa è più conforme alla riflessione e alla preghiera, ecco perché ritiene che il suo modo di scrivere inauguri un nuovo modo di far letteratura che, contemporaneamente, è anche una nuova dottrina e perfino una nuova Cabala.

8. Tempo storico e idea di redenzione

Scholem intendeva ricollegare l’opera kafkiana alla gnosi per verificare se essa poteva avere dei punti di contatto con la sua visione mistica: l’uomo, nel mondo, può conoscere solamente l’assenza di Dio senza possibilità di redenzione. La posizione dello scrittore, come il Messia, è quella di isolamento, egli non appartiene alla comunità, tuttavia è l’unico che può pretendere di salvare l’umanità della westjüdische Zeit e «così ci resta soltanto la produttività di chi sta per soccombere».48 Per utilizzare la parole di Marina Cavarocchi, l’analisi scholemiana del Processo di Kafka rivela quanto sia controverso e problematico il concetto di Legge: nel mondo di Joseph K. troviamo la descrizione di

Giudici che non giudicano, di avvocati che non credono in alcuna legge, di tribunali che tengono le loro sedute nelle soffitte, di quelli che all’apparenza sembrano dei codici, mentre, in realtà, si rivelano essere pubblicazioni pornografiche, di poliziotti e carnefici dall’aspetto di guitti. […] L’essenza della Legge corrisponde, per Scholem, a un mondo in cui Dio si è irrimediabilmente ritirato.49

Rispetto a tale visione, Benjamin fa appello al materialismo storico, il cui compito è riparare un passato di cui però non restano che frammenti liberati dalla forza distruttiva del pensiero, il quale, a sua volta, viene vivificato dall’esperienza del ricordo «involontario». Nelle Tesi50, il momento della redenzione è incarnato dalla figura del cronista, secondo cui tutto ciò che appartiene al passato non viene disperso nel processo storico ma sopravvive come oggetto di un racconto, e così, anche per l’umanità dopo la redenzione, il passato può essere reso attuale in modo tale che diventi accessibile. L’angelo di Benjamin, investito da questa forza distruttiva del pensiero, non è in grado di ricomporre le macerie ai suoi piedi, non vi è capacità di salvare l’umanità da parte del materialismo storico, infatti l’angelo rimane con la bocca spalancata senza proferire parola mentre «l’immagine resta, non è trasformata nella scrittura della storia, né l’esperienza è tolta nel concetto».51

Nel saggio Le affinità elettive, dedicato all’omonimo romanzo di Goethe, Benjamin sembra essere giunto alla conclusione che vi sia un’effimera speranza: essa «è la speranza nella redenzione, che nutriamo per tutti i morti […]. Solo per chi non ha più speranza, ci è data la speranza».52 Come per Kafka, è lo stesso tentativo «di trovare a tastoni la redenzione nel rovescio, (direi quasi) nella fodera»53 del

Nulla in cui Dio si è ritratto. Oblio che minaccia gli eventi e Nulla che determina l’Esserci dell’Eterno non sono evidentemente la stessa cosa. Solo un pensiero che abbia fatto esperienza da un lato dell’irrappresentabilità del Simbolo […] e del vuoto dall’altro […], solo un tale pensiero può giungere alla soglia dove l’Oblio degli eventi e il Nulla dell’Eterno si toccano.54

9. Il tempo della memoria

Benjamin si prefigge di rappresentare il tempo storico, percepito come ricordo analizzando però la possibilità di redenzione. Infatti pensando a quando Kafka dice che «veramente si dà redenzione, ma non per noi», si potrebbe dire che quel «noi» secondo Benjamin stia ad indicare quella posizione per cui da un lato siamo toccati dal passato che involontariamente riaffiora grazie al ricordo e in parte siamo invitati «a non chiudere la piccola porta dell’attimo da cui può entrare il Messia».55 Il richiamo al riaffiorare del passato è di ascendenza proustiana e tra Benjamin e Proust c’è un forte legame a partire dall’Infanzia berlinese. Anche per Proust vale lo stesso atteggiamento della «staffetta kafkiana», Benjamin si impone infatti «di non voler leggere di Proust una sola parola in più oltre a quelle che doveva tradurre, perché altrimenti sarebbe caduto vittima di una morbosa dipendenza che gli sarebbe stata di impedimento nella sua produzione propria».56 Venendo subito alla questione principale di questo rapporto, Proust indaga il tempo come passato poiché ciò che provoca in lui sgomento e terrore è quel momento di coincidenza tra passato e presente e che, di conseguenza, lo porta a fuggire il tempo in quanto tale. Benjamin, invece, nel descrivere il giardino zoologico, riconosce nei ricordi del passato degli elementi che anticipano il futuro e in particolare lo schema fondamentale della società che egli avrebbe criticato in seguito. Proust sembra quasi spaventato di fronte al futuro, mentre in Benjamin passato e futuro si rincorrono affannosamente, e nel passato è possibile riconoscere «i tratti di ciò che sarebbe venuto».57 Benjamin non ha bisogno di allontanare il tempo perché ciò a cui egli mira è comprendere storicamente il reale, tuttavia questa spinta verso il futuro in realtà lo riporta indietro verso un passato che forse ha ancora qualcosa da dire. Come è noto, l’opera di Proust racconta tutta la vita per cogliere quei momenti dell’infanzia che devono riemergere, mentre le descrizioni benjaminiane consistono solamente di piccoli frammenti dell’infanzia in cui si vuole cogliere un segnale che rimandi al futuro, «ma il problema non è solo quello del rapporto tra l’intenzione di Proust e quella di Benjamin, ma anche quello del senso della ricerca benjaminiana del tempo perduto, che è una ricerca del futuro perduto».58

Nonostante il lavoro benjaminiano porti una folta schiera di intellettuali tedeschi a identificarsi nel segno di Franz Kafka, poiché in lui «ognuno di loro cerca e ritrova se stesso»,59 Benjamin afferma, ripensando al saggio del ’34, che «ciò che in esso oggi mi infastidisce maggiormente è il tratto apologetico di fondo che lo contrassegna».60 Egli era probabilmente consapevole, anche grazie agli appunti di Brecht e Kraft, che ciò che mancava era una collocazione storica dell’opera di Kafka, progetto che, tuttavia, egli desiderava portare a termine. Scholem, ad esempio, non gradiva il saggio di Benjamin poiché la Legge veniva vista come apparente nell’interpretazione dell’opera di Kafka, mentre Brecht, ora in polemica con l’amico, ritiene che l’autore praghese vada rischiarato, anziché aumentare l’oscurità ma soprattutto non accetta la categoria del fallimento e nemmeno l’identificazione autobiografica tra Benjamin e Kafka. Subito dopo la pubblicazione del saggio prese forma in Benjamin l’idea di completare questa lettura di Kafka, che finì però per assumere sempre più le caratteristiche di una «revisione negativa».

10. Metamorfosi della speranza

La profezia di Kafka — una profezia senza speranza — consiste nel fatto che gli uomini, a grandi masse, avrebbero condiviso ciò che lui ha vissuto come privato cittadino in occasione di una loro eliminazione. Kafka è dunque il vero Angelus Novus, egli guarda dietro di sé rivolgendosi alla Tradizione ma non può vedere nulla. Se, come dice Kafka, non esiste speranza per noi, allora Benjamin aveva ragione a criticare il suo stesso saggio del ’34 poiché esso non tiene conto del fallimento di Kafka, anzi, il primo saggio andava proprio in direzione della speranza «per noi». Del resto in un aforisma del ’17 Kafka aveva scritto che «il Messia arriverà solo quando non sarà più necessario».61

Ci si chiede sempre, parlando di speranza, se si possa costituire una filosofia o piuttosto una teologia della speranza,62 che, se considerata nell’ambito che potremmo definire genericamente «politico» caratterizza l’azione dell’uomo, ma quando consideriamo la speranza per la sua funzione salvifica il principio sembra essere quello di un’azione divina. In realtà, proprio Bloch si presenta come scopritore del principio speranza congiuntamente alla sfera umana, poiché la speranza umana è per lui «una terra completamente inesplorata».63 Gli uomini sperano in una vita «perfetta»,64 nel «mondo senza delusione»65 e ciò perché avvertono un senso di incompiutezza ma, contemporaneamente, l’uomo ha anche la capacità di porsi di fronte al limite di un’esperienza per superarlo e approdare al non-limitato, tant’è che

Il principio speranza sembra attingere le profondità metafisiche e riecheggiare la speculazione platonica sull’eros, implicante la dialettica ascensionale che, essendo inappagata e andando al di là di ogni finito, conduce l’uomo a raggiungere l’infinito.66

Ciò in cui gli uomini sperano non è frutto di un’illusione poiché la speranza potrà essere realizzata attraverso la «trasformazione socialistica del mondo»67 poiché «solo il marxismo può rivelare… il modo di diventare felici».68 Un punto di tangenza che potrebbe legare Bloch a Benjamin e che riguarda, almeno come sfondo e seppur con esiti diversi, anche Kafka è il fatto che la speranza non coincide con il desiderio di raggiungere una certa condizione bensì essa è attesa impaziente dotata di fondamento; infatti, poiché l’uomo, nella sua libertà, può compiere il male morale

La speranza può essere autentica se l’uomo ha fiducia in Qualcuno, che, al riparo già da sempre dalla miseria e dalla colpa, lo aiuti a farsi un cuore nuovo, a liberarsi cioè dal proprio meschino egoismo, dalla debolezza e dall’incoerenza.69

La storia non può mostrare se la nostra speranza sia effettivamente realizzabile; tuttavia sta all’uomola possibilità di trasformare il rapporto tra memoria e speranza, del resto l’essere presente coincide, sempre e comunque, con l’inizio del tempo. «Che accade quando giunge il Messia?».70 A Kafka e Benjamin fa eco Blumenberg che ribadisce l’alternativa tra creazione e redenzione e individua nel nulla la risposta. Non accade nulla: quando il Messia arriva non c’è più nulla da fare. Siamo immersi nel presente. Nella diciassettesima delle Tesi di filosofia della storia troviamo «l’arresto messianico dell’accadere».71 Per dirla prosaicamente, la frantumazione di ogni storicismo. Una sorta di collaborazione tra teologia e marxismo contro l’oppressione del continuum, contro la storia degli oppressori. Kafka, ribadisce Benjamin, scrive dal punto di vista dei vinti, consapevole che della concezione originaria resta solo una rovina.


  1. S. Sontag, Contro L’interpretazione, Mondadori, Milano, 1998, p. 18. ↩︎

  2. P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano, 1982, pp. 67-68. ↩︎

  3. Ibidem. ↩︎

  4. Tra le tematiche relegate all’orizzonte, quelle che riguardano l’organizzazione e la traduzione dei testi che non hanno avuto soltanto un peso filologico ma hanno condizionato anche la fruizione e l’uso teoretico dell’opera e del pensiero di Benjamin: su questo punto sarebbe stato interessante ricostruire la vicenda culturale e politica della traduzione delle Opere complete promossa dall’editore Einaudi e affidate alla cura di Giorgio Agamben. ↩︎

  5. Forse sarebbe più corretto parlare di religione, nel senso di re-ligio, legame all’indietro. ↩︎

  6. W. Benjamin, Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino, 2006, p.262. ↩︎

  7. A. Brandalise, Prefazione a F. Scrignoli, La vita oltre l’opera. I concetti della Kunstkritik di Walter Benjamin (1919-1925), Artemide, Roma, 2014, p.7. ↩︎

  8. L’aneddoto è presente anche in E. Bloch, Tracce, a cura di L. Boella, Garzanti, Milano, 1994, pp.120-122. Probabilmente sia Benjamin che Bloch si rifanno a A. Puschkin, Anekdoten und Tischgesprache, Allgemeine V., München, 1924, p.42. ↩︎

  9. W. Benjamin, Angelus Novus, cit. alla nota 6, p.262. ↩︎

  10. V. Maurella, «Immagini di pensiero/ Walter Benjamin. Suvalkin di Kafka», Doppiozero, Web, 23/08/16. ↩︎

  11. Ibidem. ↩︎

  12. W. Benjamin, Lettere (1913-1940), a cura di G. Scholem e T. W. Adorno, Einaudi, Torino, 1978, lettera del 12/11/34 p. 265. ↩︎

  13. V. Maurella, «Immagini di pensiero/ Walter Benjamin. Suvalkin di Kafka», cit. alla nota 10. ↩︎

  14. G. Schiavoni, W. Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino, 2001, p. 258. ↩︎

  15. M. Brod, Der Dichter Franz Kafka, in Die neue Rundschau 32, 1921, p. 1213. ↩︎

  16. Ibidem. ↩︎

  17. Conversazione radiofonica del 1931, cfr. W. Benjamin, Burattini, streghe e briganti. Racconti radiofonici (1929-1932), a cura di Giulio Schiavoni, Bur Rizzoli Editore, Milano, 2014, p. 24. ↩︎

  18. A. Brandalise, Prefazione a F. Scrignoli, La vita oltre l’opera, cit. alla nota 7, p. 8. ↩︎

  19. W. Benjamin, Angelus Novus, cit. alla nota 6, pp. 72-83. ↩︎

  20. G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano, 1978, pp. 132-133. ↩︎

  21. W. Benjamin, Lettere (1913-1940), cit. alla nota 12, lettera del 9/5/34, p. 251. ↩︎

  22. Recensione della biografia realizzata da Brod su Kafka. Cfr. M. Brod, Franz Kafka. Eine Biographie, S. Fisher, Berlino, 1954 e W. Benjamin Lettere (1913-1940), cit. alla nota 12, lettera del 12/06/38, p. 344. ↩︎

  23. Ivi. Lettera del 11/8/34, pp. 257-258. ↩︎

  24. Ibidem. ↩︎

  25. Ivi. Lettera del 12/6/38, p.348. ↩︎

  26. M. Freschi, Introduzione a Kafka, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 29-31. ↩︎

  27. G. Baioni, Kafka. Letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino, 1984, pp. 44-45. ↩︎

  28. Cfr. F. Kafka, Confessioni e Diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano, 2013, pp. 327-328. ↩︎

  29. Cfr. lettera a Brod del 1921 in F. Kafka, Lettere, a cura di F. Masini, Mondadori, Milano, 1988, lettera del giugno 1921, p. 400. ↩︎

  30. G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata, 2010, p. 29. ↩︎

  31. F. Kafka, Confessioni e Diari, cit. alla nota 28, pp. 327-328. ↩︎

  32. G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit. alla nota 30, pp. 27-36. ↩︎

  33. F. Kafka, Confessioni e diari, cit. alla nota 28, 25/12/11, p. 298. ↩︎

  34. G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit. alla nota 30, pp. 27-29. ↩︎

  35. F. Kafka, Confessioni e diari, cit. alla nota 28, 6/12/1921, pp. 603-604. ↩︎

  36. G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit. alla nota 30, p. 43. ↩︎

  37. F. Kafka, Confessioni e Diari, cit. alla nota 28, 16/01/22, p. 606. ↩︎

  38. F. Kafka, Lettere a Felice (1912-1917), a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano, 1982, pp. 452-454. ↩︎

  39. G. Baioni, Kafka. Letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino, 1984, p.86. ↩︎

  40. Ivi, p. 99. ↩︎

  41. M. Blanchot, Da Kafka a Kafka, Feltrinelli, Milano, 1983, pp. 21 s. ↩︎

  42. Ibidem. ↩︎

  43. Ibidem. ↩︎

  44. F. Kafka, Il cacciatore Gracco, in Tutti i racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano, 1998, p. 430 s. ↩︎

  45. M. Blanchot, Da Kafka a Kafka, cit. alla nota 41, pp. 33 s. ↩︎

  46. Ivi, pp. 50 s. ↩︎

  47. Ivi, pp. 80 s. ↩︎

  48. G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit. alla nota 20, p.217. ↩︎

  49. M. Cavarocchi, La certezza che toglie la speranza, La Giuntina, Firenze, 1988, p. 167. ↩︎

  50. W. Benjamin, Angelus Novus, cit. alla nota 6, p. 73. ↩︎

  51. F. Desideri, Del teologico nelle “Tesi”, in Caleidoscopio benjaminiano, a cura di E. Rutigliano e G. Schiavoni, Ist. Italiano di studi germanici, Roma, 1987, p. 302. ↩︎

  52. Citazione di J.W. Goehte, Le affinità elettive, Einaudi, Torino, 2007, riportata in W. Benjamin, Angelus Novus, cit. alla nota 6, p. 232. ↩︎

  53. W. Benjamin, Lettere (1913-1940), cit. alla nota 12, lettera del 20/07/34, p.256. ↩︎

  54. F. Desideri, Catastrofe e redenzione. Benjamin tra Heidegger e Rosenzweig, in Walter Benjamin. Tempo storia e linguaggio, a cura di G. Agamben, Editori Riuniti, Roma, 1983, p.195. ↩︎

  55. Ivi, p.206. ↩︎

  56. T. W. Adorno, Im Schatten junger Mädchenblüte, in «Dichten und Trachten. Jahresschau des SuhrkampVerlages», IV, Francoforte, 1954, p.74. ↩︎

  57. W. Benjamin, Infanzia berlinese, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino, 2007, p.47. ↩︎

  58. Peter Szondi, «Speranza nel passato», Aut Aut, Web, n. 189-190, maggio - agosto 1982, p.10. ↩︎

  59. H. Mayer, Benjamin e Kafka. Storia di una costellazione, in Caleidoscopio Benjaminiano, a cura di E. Rutigliano e G. Schiavoni, Ist. Italiano di studi germanici, Roma, 1987, pp. 258-259. ↩︎

  60. Lettera a Scholem del 1938 riportata anche in G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano, 1978. Cfr. sempre W. Benjamin, Angelus Novus, cit. alla nota 6, p. 287. ↩︎

  61. F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, Mondadori, Milano, 1988, p. 86. ↩︎

  62. B. Bianco, Filosofia o teologia della speranza? In Filosofia e teologia della speranza. Atti del XVII convegno di assistenti universitari di filosofia, Gregoriana, Padova, 1973, pp. 35-41. ↩︎

  63. U. Galeazzi, La filosofia della speranza o della disperazione? In Filosofia e teologia della speranza. Atti del XVII convegno di assistenti universitari di filosofia, Gregoriana, Padova, 1973, p.43. ↩︎

  64. E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano, 2005, p.1616. ↩︎

  65. Ivi. p.1162. ↩︎

  66. U. Galeazzi, La filosofia della speranza o della disperazione? cit. alla nota 63, p.45. ↩︎

  67. E. Bloch, Il principio speranza, cit. alla nota 64, p.16. ↩︎

  68. Ibidem. ↩︎

  69. U. Galeazzi, La filosofia della speranza o della disperazione? cit. alla nota 63, pp. 51-52. ↩︎

  70. H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 24. ↩︎

  71. W. Benjamin, Angelus Novus, cit. alla nota 6, p. 82. ↩︎