Fine, destino, contesto. L’interrogazione sul vivente e la tentazione escatologica

Il fenomeno della vita fra la termodinamica e la temporalità

Non esiste una risposta univoca e convincente alla domanda relativa alla natura della vita. Nella pratica divulgativa che molti scienziati, biologi come fisici, intraprendono nella maturità delle loro carriere e nella ricchezza dei loro studi, la nozione di vita si accompagna spesso alla parola mistero, o all’interrogazione circa la sua cosalità. La vita rimane per noi un mistero, nonostante il grande fermento scientifico contemporaneo, inaugurato dagli studi sull’evoluzione di Lamarck, Spencer, Darwin e dalle riflessioni di Schroedinger, abbia contribuito all’apparizione di teorie escatologiche su larga scala. Risulta difficile definire confini netti fra l’interrogazione scientifica relativa al vivente, che tenta di render ragione delle funzioni, delle strutture, e dello sviluppo degli organismi, e l’interrogazione filosofica, che si sforza di definire il posto del vivente nel cosmo.

Il concetto di abiogenesi descrive efficacemente la prospettiva con cui si affronta la questione della vita. Presa in prestito dal greco, la parola manifesta l’idea, generalmente accettata, per cui la materia vivente sia emersa da materia inerte. Da singoli composti organici sarebbero emerse reazioni chimiche catalitiche in grado di far emergere sistemi biologici, a tutti gli effetti «viventi» (Hordijk et al., 2019). Non v’è ancora consenso relativo allo scarto fra ciò che si può definire già vivente, e ciò che invece risulta ancora una precondizione alla vita. Nel discutere di biologia, in maniera più o meno specialistica, si è spesso tentati di porre, fra le tante domande possibili, la questione del fine o del ruolo del vivente nell’universo. Il fenomeno della vita continua ad apparirci, nella sua genesi a-biotica, origine-senza-vita, come uno strappo nel tessuto cosmico, una rottura, o anche una discontinuità; da una parte v’è la materia inerte, vittima passiva di forze, che si aggrega e si disgrega e segue determinate leggi fisiche. Dall’altra parte, opposta (?) a questa dimensione, vi è la materia vivente che guadagna a mano a mano gradi di attività e di autonomia rispetto (e assieme) all’ambiente in cui si costruisce e che costituisce. Lo stesso concetto di autonomia, dalla sua etimologia autós nómos, rappresenta la condizione di un ente che dà legge a se stesso, produce un campo normativo auto-riferito – in contrasto con il nómos generale o con l’assenza di un nómos. Se non ha una storia, la materia ha certamente un punto d’arrivo: l’equilibrio termodinamico.

Chiedersi quale sia il fine della vita, il motivo per cui essa è emersa, tradisce un’eredità concettuale votata alla ricerca della regolarità nelle cose del mondo. Tagli netti, confini e contorni precisi; la superficie regolare ospita oggetti regolari, e il pensiero accetta tutto questo con soddisfazione. Inizio e fine, e quindi una concezione lineare, compiuta, del tempo. Questo dice la fisica classica: il tempo è una linea, in cui eventi e processi sono determinati gli uni dagli altri, interconnessi, intrecciati verso un epilogo comune. L’antichità soleva guardare a quello stesso tempo come a un cerchio (Rau, 1953; Nelson, 1980; Thompson, 2007), e perciò un processo di cominciamento e di conclusione apparente, in un moto eterno. Una ruota che corre lungo una linea retta. Ci siamo disfatti della ruota. La nuova fisica dei sistemi complessi offre l’immagine di una freccia: il futuro non ha determinazioni, se non al suo termine. La punta della freccia è come un vortice, che risucchia il possibile verso l’attuale, e il futuro perciò risulta in una forma simile a quella di un occhio umano: stretto ai due lati – la punta di freccia e la morte termica – e tanto più ampio quanto si è distanti dalle due estremità.

Chiedersi del fine della vita è palesare il desiderio di disegnare il tempo come fosse una forma geometrica – non per forza euclidea. È affascinante come la vita – noi – interroghi se stessa sul suo stesso fine, sul motivo per cui date circostanze hanno fatto sì che quel che fu inerte si facesse animato. Ciò significa porre l’oggetto interrogato, la vita, in relazione alla sua condizione d’essere. La categorizzazione stessa della vita come oggetto pare un errore, poiché tale fenomeno andrebbe concepito nella sua processualità, nel fatto che la vita sia «un nome per ciò che ricade nel campo generativo» all’interno del quale le forme organiche si trovano e si mantengono (Ingold, 1990). La vita è, forse più efficacemente, il vivere. È chiaro come, per poter pensare e interrogare la vita, sia necessario esplicitare il contesto in cui essa opera, come fa ad esempio Schroedinger (1944). Il vivente opera su di un letto di reazioni chimiche, è composto di molecole organiche, e ancora di atomi, evolve – forse secondo leggi, o forse no (Kauffman, Roli, 2021); miseria del neodarwinismo –, ed è soggetto agli obblighi della termodinamica. In maniera rozza e inelegante: la vita muore. Lo fa perché la disintegrazione è l’orizzonte di tutta la materia, perché l’entropia di un sistema è destinata a incrementare, e l’universo viaggia verso il punto di massima entropia. Le singole forme di vita muoiono; disgregandosi si trasformano, e seguendo la sentenza entropica anche l’intero insieme dei viventi, inteso come fenomeno della vita, è destinato a dissolversi nel punto d’equilibrio – e, a dire il vero, ben prima.

La vita, come l’universo, pare diretta da qualche parte. Gli studi di Ilya Prigogine sui sistemi complessi hanno offerto una nozione alternativa a quella di essere vivente, o sistema vivente, o qualsiasi altro termine che utilizzi un derivato di «vita» per descrivere la materia animata. Tale nozione è: struttura dissipativa (Prigogine, 1978). La mossa di Prigogine è fondamentale poiché cancella per un attimo la differenza ingenua fra due stati opposti della materia. Il concetto di struttura dissipativa, contestualizzando il vivente nell’orizzonte dell’universo e delle sue leggi, descrive la condizione di un sistema fisico aperto, perciò complesso, che scambia energia e materia col suo intorno. Tale particolare condizione definisce la relazione fra il sistema in questione e la termodinamica; nell’atto di scambio continuo, una struttura dissipativa raggiunge la propria specifica stabilità lontano dall’equilibrio termodinamico. Utilizzando un’inflazionatissima metafora, si può dire che la condizione della vita sia quella della lotta costante. Che ciò abbia senso o meno, a livello strutturale, non è qui di fondamentale importanza: rilevante è che una struttura dissipativa si organizzi in termini di anti-entropia (Longo, Bailly, 2009; Longo, Montévil, 2012) attraverso la stretta relazione col suo ambiente. La vita pare così un atto di resistenza, un meccanismo di rallentamento cosmico della corsa verso l’equilibrio: un fenomeno che ha la propria essenza nella persistenza. Non c’è solo, logicamente, l’emergere della materia vivente, ma anche la tensione a perdurare.

Da questo punto di vista, il fine della materia animata risulta ricadere sulla vita stessa: il suo scopo è sopravvivere. Non è molto convincente, oltre che apparire tautologico. Il contesto di interrogazione, però, è leggermente cambiato: il vivere non si contrae solamente sui contorni della materia animata, ma rientra nel percorso più ampio del cosmo stesso. Così si parla di una differenza che fa una differenza (Kauffman, 1995, 35-40), nelle parole di Bateson e MacKay. Tale citazione si riferisce al concetto di informazione, ma funziona egregiamente anche con il vivente se lo intendiamo come un ente che, emergendo da un ambiente, da esso si differenzia in quanto ente, e che sull’ambiente agisce apportando cambiamenti, accompagnando il contesto d’origine verso un’evoluzione corale. La questione del fine della vita è, quindi, la questione del suo posto nel cosmo. In sostanza, è un’interrogazione che mette in gioco l’universo come intero organico – nessuna rottura interna divide la materia.

Interpretazioni relative alla storia e all’escatologia dell’universo sono provenute, in tempi recenti, dai più disparati campi del sapere. Se da una parte vi sono gli scienziati che tentano di tirare le somme di quanto ricercato lungo la loro carriera, dall’altra vi sono i filosofi e i teologi, produttori di teoria. Tutti, comunemente, tentano di riempire gli spazi vuoti. La questione della vita ha avuto un posto centrale nella riflessione del novecento, grazie soprattutto al fatto che lo sguardo – e non solo – dell’uomo si è spinto con maggiore insistenza e tenacia al di là dell’atmosfera terrestre. Come fatto cosmico, la vita non entra più soltanto in relazione alla materia inerte come suo opposto, ma anche come sua risorsa: dalla vita – si può poi discutere se esclusivamente da quella umana, o da quella animale, o da tutta in generale – emerge la tecnica. Essa rappresenta un nuovo pezzo sullo scacchiere cosmico, soprattutto perché pone in questione la natura stessa di ciò che abbiamo denominato «vivente». Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, dei sistemi tecnologici autonomi, del machine learning, dell’informatica, ha portato filosofi come Lyotard a chiedersi se sia possibile il pensiero senza corpo (2015, 25-43). Con ciò, egli intendeva chiedersi se la vita psichica umana, in quanto manifestazione particolare della vita universale, potesse fare a meno del suo supporto organico, per poter superare la finitudine e i limiti del corpo pur mantenendo l’essenza umana in sé. La questione di Lyotard si pone come critica all’idea stessa di «umanità» e d’essenza – l’umano è già il risultato di un processo, è già il prodotto di ciò che non chiamiamo umano, ma evoca comunque l’intreccio del nostro pensiero, del nostro sentimento, del nostro corpo (Woodward, 2016). Eppure, tale questione apre anche a una riflessione oltre l’antropologismo, domandandosi il peso specifico della tecnica come fatto e proprietà del vivente, utile, forse, a prolungare la vita stessa lontano dall’equilibrio termodinamico: di particolare rilevanza è il passaggio, in Sulla possibilità di pensare senza corpo (Lyotard, 2015 [1991]):

Voi sapete che la tecnica non è un’invenzione degli uomini. Gli antropologi e i biologi ammettono che anche l’organismo vivente più semplice […] già da qualche miliardo di anni [è] un dispositivo tecnico. È tecnico qualunque sistema materiale che filtri informazioni utili alla sua sopravvivenza, le memorizzi e le tratti, e che induca, a partire dall’istanza regolatrice, delle condotte, cioè dei modi di intervenire sull’ambiente circostante, che assicurino quantomeno il suo perpetuarsi. (ivi, 29-30)

Ovvero, sotto la forma più cauta di una domanda: che la tecnica sia uno stadio evolutivo del vivente, che permette a quest’ultimo di ottimizzare le sue possibilità di perdurare nel cosmo? Allora anche il cosmo stesso perdura, ritardando il suo destino obbligato.

Escatologie divergenti e i propositi della scienza

Si possono evidenziare due “correnti” opposte relative all’interpretazione del ruolo della vita nell’universo. Da una parte, si può annoverare l’idea per cui il vivere della materia rappresenti un fenomeno anti-entropico, e perciò un processo che si contrappone al decadimento entropico, rallentandolo, e dando luogo alla complessificazione. Questa interpretazione a sua volta può essere intesa come a) l’anti-entropia è in effetti un movimento neghentropico (Cfr Brillouin, 1953; Fantappiè, 2011), e la complessificazione deve essere intesa come un cammino che va dal massimo disordine al massimo ordine finale; questa visione è perseguita da pensatori come Pierre Teilhard de Chardin. Altro modo di intendere il movimento anti-entropico è b) i sistemi biologici emergono e si mantengono lontano dall’equilibrio termodinamico, e il loro unico fine è l’auto-replicazione e la perpetuazione, sviluppata e ottimizzata per mezzo della complessificazione della propria struttura attraverso evoluzione e diversificazione. Nessun punto d’arrivo, ma soltanto la tendenza della materia sufficientemente complessa a rinnovarsi e mantenersi nella propria condizione, auto-organizzandosi. Così intendono il vivente i biologi e i fisici che studiano la teoria della complessità. Dall’altra parte, come “opposta corrente”, si può annoverare quanto trattato da Nick Land nel suo The Thirst for Annihilation (1992): la vita rappresenta un meccanismo di accelerazione universale del processo entropico – essa funziona in modo tale che il futuro giunga più in fretta.

Teilhard de Chardin rientra in un certo senso in quel filone del cosmismo mistico che pensava al progresso storico-universale come il compito – umano – di «costruire Dio» (Dimitri, 2005). Il dio di de Chardin, però, non è direttamente legato all’azione umana in quanto ente privilegiato, ma risulta invece il prodotto naturale dell’evoluzione biologica, un’evoluzione convergente di tutta la materia (Conti, 1995). La progressiva complessificazione neghentropica avrebbe portato, alla fine dei tempi, al Punto Omega, il punto di massima complessità: la manifestazione finale di Dio come unità del tutto. Ciò che fa de Chardin è cercare di ricavare leggi interne all’evoluzione naturale che possano offrire non già una chiara previsione del futuro, ma anche solo una traiettoria, un senso generale dell’avvenire. L’approccio del pensatore gesuita può essere descritto come uno dei più estremi in relazione alla ricerca di una coerenza fra la fisica dei sistemi viventi e la termodinamica. Attraverso la nozione di neghentropia, ovvero entropia negativa, la divisione che si crea fra i processi termodinamici dell’universo e i processi biologici assume la forma di una netta opposizione – come se il vivente fosse la manifestazione di una tendenza salvifica universale, di un vitalismo di matrice divina in cui Dio è l’attrattore alla fine della storia.

La biologia e la fisica dei sistemi complessi, a partire da Prigogine e in un certo senso dalle intuizioni di Schroedinger del 1944, ha offerto recenti e fondamentali contributi allo studio dei sistemi viventi e del loro sviluppo, con l’obiettivo di risolvere l’apparente discordanza fra le leggi del vivente e quelle dei processi entropici. Per Stuart Kauffman, l’emergenza della vita è totalmente in linea con le leggi della termodinamica e, anzi, in qualche modo il fenomeno appare atteso e statisticamente probabile (1995, 22-30). La materia, raggiunto un certo grado di complessità e varietà molecolare, catalizza reazioni chimiche che, grazie all’energia presente nell’ambiente circostante, può portare a una chiusura auto-catalitica, facendo sì che un insieme molecolare emerga come ente autonomo capace di mettere in atto cicli di lavoro e di riprodursi (1995, 50-64). Secondo il biologo americano, la vita emerge «completa» (1995, 31-47) e si sviluppa diversificandosi, attraverso l’aumento di complessità delle reazioni e delle interazioni chimiche fra molecole, delle strutture organiche, e delle forme di trasmissione di informazione ereditaria. La parola d’ordine è auto-organizzazione: i sistemi viventi, in quanto «agenti autonomi», operano su loro stessi al fine di perpetuarsi e adattarsi alle condizioni esterne. Gli sforzi di Kauffman, in generale, sono stati votati a concepire i processi della biosfera in termini termodinamici, e quindi coerenti con le leggi relative (Herrmann-Pillath, 2011), cercando di aprire le porte a una teoria organica e coerente che vada dalla materia inerte fino ai sistemi sociali ipercomplessi (Kauffman, 1995, §12). I modelli statistici basati sulle reti booleane e le intuizioni di Kauffman hanno poi ispirato fisici come Jeremy England. Egli intende la vita come il risultato finale dell’adattamento guidato dalla dissipazione (dissipation-driven adaptation), oltre che dell’auto-replicazione (Wolchover, 2017): “a great way of dissipating more is to make more copies of yourself” (England, 2013). Alla teoria dell’emergenza degli insiemi molecolari autocatalitici di Kauffman, pensati come prime forme di agenti autonomi e sistemi viventi, England propone l’aggiunta di un fine a tale auto-organizzazione molecolare: assorbire energia dall’ambiente e dissiparla. Da un certo punto di vista vicino alle conclusioni del primo Nick Land, la vita emergerebbe laddove vi sia energia consumabile, per consumarla, e per poi replicarsi e complessificarsi, ottimizzando le capacità di assorbimento e dissipazione.

La teoria di England, e in effetti la ricerca di una teoria coerente biologico-fisica, aprono a letture filosofiche come quella del citato Nick Land. Per il filosofo inglese il vivente è un dispositivo di accelerazione entropica (1992). Ispirato da Bataille e dal Todestrieb freudiano, egli assume il carattere demoniaco del vivente in quanto macchina che emerge laddove vi sia abbastanza energia in eccesso utile a essere consumata, producendo un aumento del coefficiente di disordine nell’universo. I processi anti-entropici rappresenterebbero così catalizzatori termodinamici. L’obiettivo della materia vivente è consumare energia, e il processo di sviluppo, evoluzione, e complessificazione dei sistemi biologici non rappresenta che una sofisticazione necessaria dei metodi e dei mezzi utili a tale compito: la vita perdura perché l’energia solare deve essere dissipata (Schneider; Kay, 1994). Il fine della vita, in tal senso, non risiede nella vita stessa, ma nel suo opposto: essa propaga la morte (Land, 1992) – ma non la propria, in maniera specifica, in un atto suicida: la vita è un parassita che sfinisce il suo ospite, l’universo.

Sulla natura dell’opposizione e la sua afferenza alla questione del tempo

Accennando alle teorie sopra indicate si è scelto di non badare all’ordine cronologico, quanto piuttosto di enunciarle ponendo alle estremità le due riflessioni più chiaramente opposte, lasciando apparire come i confini fra l’una e l’altra risultino tutt’altro che netti una volta che le si pone in relazione alle investigazioni scientifiche – e alle motivazioni da cui tali investigazioni muovono. Teilhard de Chardin scrive negli anni in cui si sviluppa la cibernetica di Wiener e le teorie dell’informazione di Shannon e Weaver, e assiste alla parabola dell’entusiasmo tecnologico sia in Russia, che in Europa – oltre che a due guerre mondiali. È padre gesuita di formazione scientifica (Vigorelli, 1963, 35-50), votato alla ricerca di una concordanza fra l’evoluzionismo e la teologia. Sempre di concordanza si parla quando si affronta la ricerca di Prigogine, poi di Kauffman e ancora di England, relativamente a una teoria biologico-fisica dello sviluppo del vivente sulla base della termodinamica. Nick Land stesso, all’estremo opposto del filosofo gesuita, pur partendo da alcune istanze oscure del pensiero di Bataille e di Freud utili a rileggere Kant, offre una prospettiva che riunisce la questione del vivente all’ordine cosmico, e l’evoluzione dei sistemi sociali a dinamiche biotecnologiche, per cui il generale processo evolutivo non è altro che la spinta all’ottimizzazione della produzione, spreco, e dissipazione dell’energia (Land, 1992; Guariento, 2017, 258-259).

In Reinventing the Sacred (2010), Kauffman mostra alcune delle tendenze filosofiche che hanno accompagnato la sua ricerca. Il proposito di definire una teoria dell’abiogenesi che sappia spiegare coerentemente il fenomeno della vita a partire dalle leggi della termodinamica, e quindi aggiungendo un tassello a un’agognata teoria del tutto, porta il biologo a soffermarsi sul significato della quasi-necessità dell’emergenza della vita nell’universo da lui statisticamente teorizzata (Kauffman, 1995, 40-47). I titoli dei suoi libri più divulgativi, in tal senso, evocano sempre un’aura di desiderata coerenza, e di ritrovato ordine – si può reinventare il sacro solo se ci si sente, o ci si scopre, A casa nell’universo (2001, [1995]). Le ipotesi di England, d’altro canto, pur partendo dallo stesso contesto e da premesse simili, mostrano come la questione del “senso della vita”, ovvero del posto del vivente nel cosmo, anche una volta definita l’origine – che in sé è una brutta parola – possa produrre conclusioni piuttosto dissimili.

La natura delle “opposte correnti”, il motivo di tale opposizione, allora, risiede nel giudizio di valore che si produce, e che anzi fa in un certo da premessa ai discorsi; se per de Chardin è la ricerca di Dio, per Land è l’affermazione del nichilismo. La vita propaga la vita; la vita propaga la morte. Il discorso del gesuita è certamente più votato, attraverso la sua «paleontologia dell’Avvenire» (Conti, 1995), a definire il futuro del fenomeno della vita e di tutte le sue conseguenze, investigando le leggi che stanno alla base del divenire della materia. Kauffman stesso, quando assume i panni del filosofo, svela quale speranza abbia mosso le sue ricerche. Anche lo sforzo di Land, pur concentrandosi sulla natura delle meccaniche sotterranee del vivente, la sua “anima nera” assolutamente nichilista, non può sfuggire dalla tentazione di fondare la sua costruzione su quel futuro che rappresenta l’essenza della vita: il massimo disordine compiuto.

La questione del perché esista della materia che vive e sopravvive risulta infine una problematica che rimane legata filosoficamente al tempo. Conoscere l’essenza del vivente, l’origine, o qualsiasi altra determinazione fondativa che d’altra parte può essere pure la sua fine, è interessante non direttamente per tale determinazione, ma per il senso che procede da quella conoscenza. «Sapere da dove si viene per sapere dove si va», o anche viceversa; recuperare la sacralità di un ordine del mondo che è in sé già compiuto, e a noi non resta che svelarlo. Lo dimostra la ricerca di leggi da parte di de Chardin, nonché di Kauffman: le leggi permangono, e seppure spieghino il passato e illuminino il presente, esse hanno principalmente il potere di delineare il futuro. Lo si ritrova in Land, che svelando l’assoluto nichilismo macchinico dell’universo e del vivente, addomestica il futuro, manifestando questa nuova sacralità del nihil – tutt’altro che dissimile dal divino ineffabile del misticismo. Il pensiero non ha ancora fatto pace col tempo.

Tempo senza futuro

Nella sua complessa investigazione circa il processo di individuazione biologica, psichica, e collettiva umana, Simondon suggerisce come «fonte» e principio del processo di ominizzazione la «fase magica», il momento precedente ogni scissione soggetto-oggetto, che «rimanda alla relazione figura-fondo presa come realtà completa» (Simondon, 1958, 211; Bardin, 2010, 211-230). In Du mode d’existence des objets techniques, egli presenta il «superamento» della fase magica dell’uomo attraverso quelle che chiama «sfasature». Fra tecnicità e sacralità si manifesta la prima configurazione del rapporto uomo-mondo.

Da questa prima ondata di sfasature risultano da un lato le molteplici tecniche applicate a diverse figure-parti del mondo naturale (che si “oggettivano” come strumenti di azione e di conoscenza), e dall’altro la religiosità che cura la collocazione dell’individuo in uno sfondo-Tutto (che si “soggettiva” in eroi o divinità): “questa sfasatura [déphasage] della mediazione in caratteri figurali e di fondo traduce l’apparizione di una distanza tra l’uomo e il mondo” e “la mediazione stessa […] prende una certa densità; essa si oggettiva nelle tecniche e si soggettiva nella religione, facendo apparire nell’oggetto tecnico il primo oggetto e nella divinità il primo soggetto, mentre non vi era in precedenza che unità del vivente e del milieu”. (Bardin, 2015, 230)

Nonostante strutture convergenti e originate da una base comune (ivi, 238), sacralità e tecnicità si differenziano sulla base della funzione: se la sacralità è rappresentativa, la tecnicità è operatoria (Simondon, 1958). Ciò significa, in particolare, che il sacro appare come l’orizzonte di immobilizzazione e disposizione delle “forze” nel mondo, operando sullo sfondo piuttosto che sugli oggetti-figure. La sacralità è la comprensione del cosmo come compiuto nel suo apparire e nel suo manifestarsi, laddove la tecnicità affronta il mondo come un orizzonte su cui operare, da cui prelevare e definire gli oggetti, gli strumenti, e le risorse: cosmo compiuto e cosmo da compiersi. Lo stato dell’ordine cosmico così inteso traccia una geometria del tempo divergente, e suggerisce diverse modalità dell’interazione uomo-mondo. Un cosmo compiuto, in cui la soggettività ricade nel divino e nell’ineffabile, è un milieu che l’uomo abita da ospite fra gli ospiti, in cui può operare nei limiti della “realtà”. Al contrario, un mondo e un ordine da costruire attraverso l’oggettivizzazione degli enti in quanto strumenti e risorse definisce una tendenza all’addomesticazione dell’intorno, alla trasformazione dell’ambiente in bacino di risorse, e della condizione umana come in-progress. Il carattere sacro della realtà compiuta, in quanto sede primaria della soggettività, pare però un semplice stadio dell’individuazione: il momento che precede l’identificazione dell’individuo e del soggetto.

Da una parte, la sacralità si lega all’eternità del già-compiuto, adagiando la progressione del tempo su uno sfondo immutabile – l’Ananke dei Greci, o ancora l’Aksara dei Veda (Calasso, 2010; 2016): ciò da cui anche gli déi dipendono, e che lascia all’uomo uno spazio di movimento quasi inesistente. Dall’altra, la tecnicità, col suo apice nella secolarizzazione emancipatoria della modernità, cancella lo sfondo e l’eternità, lasciando un magma turbolento su cui l’umano può operare gestendo lo spazio e il tempo secondo i suoi fini. La soggettività moderna ricade pienamente nell’individuo umano, poiché è solo così che la tecnica raggiunge la sua potenzialità massima: completa operabilità, niente più è intoccabile poiché sacro. Il grande programma moderno della tecno-scienza è la conquista del futuro, l’ultimo orizzonte che ha mantenuto un’aura di intangibilità. Il pensiero occidentale novecentesco si è trovato, però, ad assistere alla disgregazione del programma di modernizzazione, almeno a livello filosofico, riconoscendo poi nell’antropocentrismo un’interpretazione sfasata della realtà, un mito – una delle Grandi Narrazioni. Come suggerisce Yuk Hui (2016), la tecnicità moderna intesa come il techno-logos di cui parla Lyotard in Logos e Techne, o la telegrafia (1991), continua a operare sulle strutture interpretative che utilizziamo per porre domande e darci risposte. Sia l’immobilismo del sacro, che nell’esempio di de Chardin appare come sacralizzazione del divenire, stasi retroattiva del tutto-già-compiuto nel futuro, sia il progresso infinito della tecnica, che in Land assume la forma di una Singolarità Tecnologica autonoma il cui unico scopo è l’ottimizzazione (Land, 2011), disegnano due geometrie originate dalla stessa spaccatura.

Yuk Hui, profondo conoscitore di Simondon e di Lyotard, afferma nel suo Cosmotechnics (2016) la necessità di ricongiungere sfondo e figura. Tale ricongiunzione non deve essere però operata sulla base della premessa arcaica di uno sfondo come Essere immutabile, necessità, e figure definite a partire da tale necessità. L’obiettivo di Yuk Hui è mostrare come la tecnologia occidentale sia una sorta di fatto culturale, una forma assunta dalla tecnica, a fianco di molte altre forme apparse nella storia – egli fa l’esempio della concezione cinese della tecnica (2016, 46-78). È il pluralismo ontologico il risultato sperato, l’orizzonte affermato. Yuk Hui indica la strada attraverso l’idea di cosmotecnica, unità mediante la tecnica dell’ordine cosmico e dell’ordine morale, mancando però di approfondire, oltre Simondon e oltre l’occidentalismo, il legame fra sacralità e tecnicità. Sebbene egli comprenda efficacemente il pericolo dell’anti-tecnologismo, che definisce come il desiderio del «ritorno a casa» (Cfr. anche Lyotard, 1991, 239-253) proprio del fascismo metafisico come ritorno all’immobilità sacra, non risulta chiara la forma della nuova configurazione. Come pensare adeguatamente uno sfondo che non vincola le figure? Come rappresentarsi una relazione funzionale fra il divenire tecnico e la stasi sacra? Come, cioè, definire l’ordine cosmico, al contempo come un ordine compiuto e da compiersi, ammettendo così la moralità come dimensione di continua elaborazione, di continua ricerca? Un ordine morale fisso ritornerebbe semplicemente a essere un oggetto intangibile, ineffabile, e mai interrogabile.

Fra le pagine più filosofiche dei testi di Stuart Kauffman viene ripreso più volte il concetto di «cosmo in creazione costante». L’essere a casa nell’universo significa per il biologo un sentimento di connessione con un tutto che non si manifesta come una compiutezza da svelare, ma come un’evoluzione generale che procede dinamicamente. La ricerca di «leggi dell’auto-organizzazione e della complessità» definita alla fine degli anni ’90, lascia infatti il posto a una concezione per cui «L’evoluzione biologica è un complesso intreccio di stabilità strutturale in continuo cambiamento, variabilità ed emergenza di nuovi fenotipi, nicchie, ecosistemi. […] [L]’evoluzione della vita segna la fine di una visione del mondo fisico delle dinamiche legate a leggi» (Longo, Montévil, Kauffman, 2012, trad. mia). Il protagonista diventa il contesto, e quindi l’interazione fra organismi e ambiente. Il cambio di paradigma di Kauffman si basa anch’esso, come le considerazioni di Yuk Hui – riprese dagli studi di Philippe Descola (2005) –, sulla valorizzazione del pluralismo inteso come riconoscimento della variabilità delle dinamiche al variare del contesto.

La propagazione e i molti mondi

Nel 1989, Tim Ingold tiene una Curl Lecture al Royal Anthropological Institute di Londra intitolata An Anthropologist Looks at Biology – pubblicata sulla rivista Man nello stesso anno (#25, 208-229). Il contenuto della conferenza è una critica al neodarwinismo e alla sociobiologia sulla base dell’assunto per cui l’antropologia dovrebbe rientrare nell’ambito della biologia, poiché per comprendere la complessità umana è necessario pensare l’umano stesso come un organismo, ovvero un processo di vita in continua evoluzione su più livelli interagenti fra loro. Al centro della critica vi è la spinta ad abbandonare il pensiero per eventi del neodarwinismo, che assembla singoli fatti per spiegare l’intero dinamico che è la vita – spiegare l’organismo a partire dai geni –, a favore di un pensiero per relazioni capace di mostrare l’irriducibile coessenzialità dei processi biologici, psichici, sociali, culturali. L’intuizione più interessante di Ingold, che egli fa risalire al giovane John Dewey di My Pedagogic Creed, è quella di concepire il processo di sviluppo dell’organismo come anche il processo di sviluppo, parallelo e contemporaneo, del suo ambiente (1989, 218-220). L’uno e l’altro emergono e “crescono” legati indissolubilmente: «la loro interfaccia non è un contatto estrinseco tra domini separati e mutuamente esclusivi, poiché implicata nell’organismo stesso è l’intera storia delle sue relazioni ambientali» (Ingold, 1989, in Grasseni, Ronzon, 2016, 92). In altre parole ciò significa che nell’emergenza di un sistema vivente, l’ambiente non deve essere pensato come semplice sfondo sui cui avvengono operazioni a partire dall’agentività dell’organismo, bensì come lo spazio in cui, all’emergere del sistema, quest’ultimo assieme al suo intorno mette in atto un processo di sviluppo e crescita totalmente intrecciato e indissolubile. Così, per Ingold, tutti i livelli dei processi di sviluppo – biologico, psichico, sociale – nell’uomo sono in stretta relazione gli uni con gli altri, e integrali al divenire-organismo dell’organismo e al divenir-ambiente dell’ambiente: tutto ciò, nell’intreccio, manifesta il contesto. Particolarmente evocativa è l’etimologia della parola: dal latino contexĕre, cum-texere, connettere assieme. Il contesto è la dimensione che emerge dall’interconnessione, ed è l’interconnessione, degli elementi facenti parte di uno spazio comune.

La struttura di mondo che viene a prodursi da una tale visione coincide in alcuni aspetti con le idee dell’universo in continua auto-produzione di Kauffman. Il punto chiave di queste interpretazioni è, di nuovo, la geometria che viene a costituirsi. La performatività retroattiva del futuro, in quanto dimensione temporale che mantiene una propria sostanzialità e che, in quanto sede dei fini e delle traiettorie, si dissolve come in effetti descrivono Prigogine e Stengers in La fin des certitudes (1996). Ma la questione non è soltanto di natura fisica; il pensiero per relazioni di Ingold, che ha molto ha che fare con la nozione di adiacenti possibili di Kauffman (Cfr. Di Bernardo, 2021), e la rilevanza della nozione di contesto nella definizione dello sviluppo dei sistemi viventi, cancella ogni pretesa filosofica di escatologismi. Ricollegandosi alla divisione sacralità/tecnicità, fra ordine statico e divenir-ordinato, pensare alla questione della vita come, indissolubilmente, questione delle interazioni, reazioni, ed evoluzioni fra organismi, e fra questi e l’ambiente inteso come un campo in trasformazione attiva, porta a ricostruire la domanda sul fine del vivente. Ogni fine immerso in un contesto, infatti, assume una dinamicità profonda, una metastabilità che si basa sull’idea di intreccio creativo. In questo intreccio, in cui il vivente agisce sull’ambiente e l’ambiente agisce sul vivente in un processo di continua influenza reciproca, gli orizzonti di sacralità e tecnicità si fondono assieme: l’ordine del mondo è un ordine metamorfico, che siede al confine fra stabilità e caos, in cui il sacro è tecnico, e il tecnico è sacro. La divinità è mutante e mutatrice.

La visione filosofico-religiosa che Kauffman sviluppa, a partire dai risultati dei suoi studi, in Reinventing the Sacred è però ancora figlia di un naturalismo ingenuo – “You can say that God is nature” (2010, 179). Il dio di Kauffman risulta in questa nozione di «natura» come una forza radicalmente immanente, che accoglie in sé il cosmo intero come orizzonte di autoproduzione, e la cui sacralità risiede nel suo essere-ciò-che-è – trovando una sostanziale contiguità con il Daoismo cinese. Ciò che è interessante, però, è che in effetti a partire da nozioni come quella di adiacente possibile – l’idea per cui lo stato presente di un sistema si apre a un numero di evoluzioni e trasformazioni future possibili, in crescita esponenziale rispetto a quante trasformazioni sono già avvenute – e di contesto, così come elaborato da Ingold, si rivelano utili a pensare la temporalità sulla base dell’indeterminatezza e imprevedibilità che la contraddistinguono. Ogni trasformazione, ogni istante, apre a un futuro indeterminato poiché composto da molti e diversi possibili che emergono dalle specifiche interazioni che compongono un contesto, che perciò non sono universalizzabili.

La variabilità delle dinamiche al variare del contesto trova frugifera contiguità con l’evoluzione creatrice di Bergson. Ogni organismo, che in sé è manifestazione della vita, deve essere compreso e investigato nel suo proprio contesto d’origine, come ogni tecnica, per Yuk Hui, deve essere compresa come relativa al proprio milieu storico, culturale, e ambientale. La punta della freccia del tempo, intesa come luogo del presente e dell’attuale in cui innumerevoli intrecci relazionali hanno luogo in un gran numero di contesti differenti, somiglierebbe più al momento di deflagrazione di una granata, e in cui le schegge si diramano verso imprevedibili direzioni. Ma la stessa asta della freccia ha senso solo se la si intende come un contenitore, il contenitore degli eventi accaduti e attuali, sebbene risulti una forma di addomesticazione concettuale, smussatura dell’irregolarità dei processi di sviluppo delle relazioni. Ciò che è contenuto all’interno dell’asta di tale freccia è un’esplosione continua, che dà vita a onde d’urto e innesca ulteriori fuochi.

L’universo appare così non come un processo in corso d’opera, ma il campo in cui molte storie si strutturano, si compiono, si frammentano, delineando un grande palco di teatro su cui ogni attore agisce in maniera libera secondo l’improvvisazione in relazione al contesto e alle situazioni. L’interazione continua e reciprocamente creativa fra un organismo e il suo ambiente cancella ogni necessità di ricorrere a qualsivoglia spiegazione vitalistica di cui, ad esempio, Bergson è stato accusato. La continua produzione di stimoli, di risposte, di legami capaci di produrre reazioni da cui procedono ulteriori singolarità, delinea una processualità di forze che risiedono nella relazione, piuttosto che trovare la propria origine nell’interiorità degli enti.

Fra il costruttivismo macchinico della tecnica e il rappresentativismo contemplativo della sacralità, perciò, si istanzia la forma della caosmosi – concetto elaborato da Félix Guattari, ma qui applicato al di fuori del discorso relativo alla produzione di soggettività (Guattari, 1992). Non kósmos, l’ordine compiuto, ma neanche cháos, turbolenza indefinita. Caosmosi, ordine in continua tensione, ordine nella tensione, eterno ritorno allo stato nascente: «Caosmosi ci conduce al punto di contatto fra l’infinita apertura di possibilità – mentali, psichiche, estetiche, sociali – e la chiusura completa, totalitaria, cioè la prospettiva in cui i percorsi dell’esperienza sono in qualche modo preformati dai soggetti comunicativi del potere» (Guareschi; Berardi, in Guattari, 1996). Nella geometria temporale di Ingold e Kauffman, concretizzazione di alcuni aspetti delle visioni di Guattari, appare così il continuo e inarrestabile emergere di ordini e concetti dal disordine, e il disciogliersi nuovamente dei primi nel caos. Esattamente come avviene per i sistemi complessi. Alla diatriba: la vita propaga la vita/la vita propaga la morte, sostituire lo sfondo. La propagazione è la tecnica ed è la sacralità – è lo sfasamento continuo, il magico simondoniano che si rinnova e persiste.

Riferimenti

  • Bardin A., Epistemologia e politica in Gilbert Simondon. Individuazione, tecnica e sistemi sociali, FuoriRegistro, 2010.
  • Brillouin L., “The Negentropy Principle of Information”, Journal of Applied Physics, 1152(24), 1953.
  • Calasso R., L’ardore, Adelphi, Milano 2010.
  • Calasso R., Il Cacciatore Celeste, Adelphi, Milano 2016.
  • Conti L., “Teilhard de Chardin e la prevedibilità del fenomeno evolutivo”, Studi Filosofici vol XXXII (nuova serie XVIII), 1995, 343-402.
  • Di Bernardo M., Che cos’è la vita? Indagini epistemologiche e implicazioni etiche, Gemma Edizioni, Roma 2021.
  • Dimitri F., Comunismo Magico: leggende, miti e visioni ultraterrene del socialismo reale, Castelvecchi, Roma 2004.
  • England J., “Statistical Physics of Self-replication”, The journal of Chemical Physics, 139(12), 2013.
  • England J., “Dissipative Adaptation in Driven Self-assembly”, Nature Nanotechnology, 10(11), 919-923, 2015.
  • Fantappiè L., Che cos’è la sintropia, Di Renzo Editore, Roma 2011.
  • Fëdorov N. F., What was man created for? The philosophy of the common task. Selected works, trad. E. Koutaissof; M. Minto, Honeyglen 1990.
  • Guariento T., «Introduzione al pensiero di Nick Land», Lo Sguardo, 24(II), 2017.
  • Herrmann-Pillath, Salthe, “Triadic Conceptual Structure of the Maximum Entropy Approach to Evolution”, Biosystems, 103(3), 315-330, 2011.
  • Herrmann-Pillath C., “Revisiting the Gaia Hypothesis: Maximum Entropy, Kauffman’s 'Forth Law' and Physiosemeiosis”, Adaptation and Self-Organizing Systems, 2011.
  • Hordijk, Steel, Kauffman, “Molecular Diversity Required for the Formation of Autocatalytic Sets”, Life, 9(1), 23, 2019.
  • Ingold T., “An Anthropologist looks at Biology”, Man, 25(2), 208-229, 1990.
  • Ingold T., Ecologia della Cultura, C. Grasseni, F. Ronzon (a cura di), Meltemi, Milano 2016.
  • Kauffman S., At Home in the Universe: The Search for Laws of Self-organization and Complexity, Oxford University Press, London 1995.
  • Kauffman S., Reinventing the Sacred. A New View of Science, Reason, and Religion: Finding God in Complexity, Basic Books, 2010.
  • Kauffman, Roli, “The World is not a Theorem”, Entropy, 23(11):1467, 2021.
  • Land N., The Thirst for Annihilation: Georges Bataille and Virulent Nihilism, Routledge, London 1992.
  • Longo, Bailly, “Biological Organisation and Anti-Entropy”, Journal of Biological Systems, 17(1), 2009.
  • Longo, Montévil, “The inert vs. the living state of matter: extended criticality, time geometry, anti-entropy – an overview”, Frontiers in Phisiology, 39(3), 2012.
  • Lyotard J., L’inumano. Divagazioni sul tempo, Lanfranchi, Milano 2015.
  • Nelson H. W, Kykloi: cyclic Theories in Ancient Greece, Portland State University, 1980.
  • Prigogine I, “Time, Structure, and Fluctuations”, Science, 201(4358), 1978.
  • Prigogine I., Dall’essere al divenire. Tempo e complessità delle scienze fisiche [1978], Einaudi, Torino 1986.
  • Prigogine, Stengers, La fine delle certezze [1996], Bollati Boringhieri, Torino 1997.
  • Rau C., “Theories of Time in Ancient Philosophy”, The Philosophical Review, Duke University Press, 62(4), 514-525, 1953.
  • Simondon G., Du mode d’existence des objets techniques, Editions Aubier, Paris 2012.
  • Schroedinger E., Che cos’è la vita? [1944], Adelphi, Milano 1995.
  • Thompson R. L., The Cosmology of the Bhagavata Purana: Mysteries of the Sacred Universe, Motilal Banarsidass, 2007.
  • Wolchover N., “First Support to a Physics Theory of Life”, Quanta Magazine, 2017.
  • Wolf, Katsnelson, Koonin, “Physical foundations of biological complexity”, Proceedings of the National Academy of Sciences, 115(37), 2018.
  • Woodward A., Lyotard and the Inhuman Condition, Edinburgh University Press, Edinburgh 2016.
  • Yuk Hui, The Question Concerning Technology in China: An Essay on Cosmotechnics, Urbanomic, London 2016.