La concezione ontologica della vaghezza: dark metaphysics

Introduzione

Il problema filosofico della vaghezza trae origine da un fenomeno che si accompagna ordinariamente alle nostre pratiche linguistiche. Abbiamo una buona idea di che cosa significhi dire che una persona è calva, di che cosa significhi correre e siamo normalmente in grado di identificare una montagna o un adolescente, eppure siamo impossibilitati a dare risposte precise a domande di questo tipo: qual è il numero esatto di capelli che segna il confine tra i calvi e i non-calvi? Qual è la velocità minima a cui si può correre? Quali sono i confini spaziali del Monte Rosa? Quando esattamente un essere umano inizia o smette di essere un adolescente? Nella metafora di Frege (1903: 56), concetti come questi sono privi di una «frontiera precisa». Il motivo per cui non siamo in grado di rispondere a queste domande è perché riteniamo generalmente che non ci sia un numero specifico di capelli che rende calvi né qualcosa come una velocità minima a cui si può correre o un’area perfettamente circoscritta che corrisponde a una montagna, e neppure che esista un istante preciso in cui una persona inizia ad essere un adolescente o smette di esserlo. Queste osservazioni, espressive di intuizioni profondamente radicate nel senso comune, congiuntamente ad alcuni principi fondamentali della logica classica, originano un paradosso noto come sorite, che costituisce la formulazione tecnica fondamentale che esprime in che cosa consiste il problema della vaghezza, il quale a sua volta solleva dei quesiti estremamente significativi in diversi settori della filosofia contemporanea, dalla filosofia del linguaggio1 fino all’epistemologia2 e alla metafisica3 (e in altri ambiti come la logica matematica,4 la bioetica,5 il diritto,6 la filosofia della religione7 e gli studi filosofici sull’intelligenza artificiale).8

Secondo Mark Sainsbury (1988: 1) un paradosso è «una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili, per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile». In questo senso, a partire dal Novecento (e in particolare negli ultimi 40 anni), i filosofi hanno avanzato diverse spiegazioni in merito a quale sia l’assunzione apparentemente inattaccabile da mettere in discussione, a quale sia la fonte essenziale della vaghezza e a quale sia la soluzione teorica da adottare per mettere in discussione il paradosso del sorite.

Per chiarire in cosa consiste il paradosso possiamo prendere in considerazione, a titolo esemplificativo, il predicato vago «essere mucchio». Immaginiamo di accumulare 100.001 granelli di sabbia. Si riconosce comunemente che 100.001 granelli di sabbia diano vita a un mucchio e che un singolo granello non possa fare la differenza tra ciò che è mucchio e ciò che non lo è. Infatti, è evidente che se rimuovessimo un solo granello dal mucchio, saremmo ancora in presenza di un mucchio. Supponiamo poi di proseguire a rimuovere minuziosamente un granello di sabbia alla volta dal mucchio. Sulla base delle intuizioni dei parlanti, l’argomento presenta le seguenti premesse:

[P1] 100.001 granelli di sabbia formano un mucchio

[P2.1] se 100.001 granelli di sabbia formano un mucchio, allora 100.000 granelli di sabbia formano un mucchio.

[P2.2] se 100.000 granelli di sabbia formano un mucchio, allora 99.999 granelli di sabbia formano un mucchio.

[P2.3] se 99.999 granelli di sabbia formano un mucchio, allora 99.998 granelli di sabbia formano un mucchio.

[P2.99998] se 4 granelli di sabbia formano un mucchio, allora 3 granelli di sabbia formano un mucchio.

[P2.99999] se 3 granelli di sabbia formano un mucchio, allora 2 granelli di sabbia formano un mucchio.

Attraverso 100.000 applicazioni del modus ponens (ovvero quella regola di inferenza in base a cui da un enunciato A e da un enunciato di tipo {se A allora B} segue la conclusione B) possiamo concludere che:

[C] un singolo granello di sabbia forma un mucchio.

dove [C] è evidentemente inaccettabile.

Il paradosso può essere formulato anche in modo diverso. Si possono assumere le seguenti premesse:

[A] 100.000 granelli di sabbia formano un mucchio di sabbia.

[B] per ogni numero n, se n granelli di sabbia formano un mucchio, allora n-1 granelli di sabbia formano un mucchio.

Da tali premesse deriva la conclusione:

[C] un singolo granello di sabbia forma un mucchio.

Riflettiamo sull’accettabilità o meno di ciascuna premessa del sorite. [A] è una premessa intuitivamente accettata da tutti i parlanti competenti. Se poi consideriamo [B], osserviamo innanzitutto che, per la regola dell’eliminazione del quantificatore universale, da qualsiasi enunciato della forma «per ogni numero n,…n…» si può correttamente inferire ciascuno degli enunciati [P2.1.], [P2.2.], [P2.3]. Quindi, per ottenere la conclusione [C] a partire da [A] e [B], occorrono applicazioni ricorsive della regola di eliminazione del quantificatore universale e della regola del modus ponens.9 Osserviamo inoltre che enunciati come [B] sono detti principi di tolleranza10 e sono anch’essi intuitivamente accettati da tutti i parlanti competenti. La conclusione [C] sembra del tutto inaccettabile (intuitivamente, un singolo granello di sabbia è un caso chiaro negativo del predicato «essere mucchio»), eppure l’argomento sembra essere corretto: le premesse sembrano essere scontate e il modus ponens è comunemente considerato una delle regole fondamentali dell’inferenza logicamente valida.

Di fronte a questo stato di aporia che riguarda costitutivamente tutti i predicati vaghi, le alternative teoriche principali sono tre. Alcuni ritengono che la vaghezza sia un fenomeno semantico: l’indeterminatezza caratteristica della vaghezza non risiede nella realtà in quanto tale, ma nella relazione tra linguaggio e realtà; di conseguenza, occorrerà riesaminare i nostri strumenti linguistici e le regole che stabiliscono il funzionamento del nostro linguaggio. Altri ritengono che la vaghezza sia un fenomeno epistemico: l’indeterminatezza caratteristica della vaghezza non dipende dalla realtà, ma dai limiti conoscitivi del soggetto umano. Altri ancora ritengono che la vaghezza sia un fenomeno ontologico: l’indeterminatezza caratteristica della vaghezza, almeno in certi casi, non dipende da limiti linguistici e conoscitivi, ma risiede nella realtà stessa; di conseguenza, occorrerà ripensare al mondo extra-linguistico ed extra-mentale e riconsiderare le modalità con cui esso si struttura dal punto di vista ontologico.

Tradizionalmente, l’idea per cui la vaghezza si configura in ultima istanza come un fenomeno ontologico o metafisico ha trovato più detrattori che sostenitori. Secondo Russell (1923: 62-63), i sostenitori dell’indeterminatezza de re cadono necessariamente nella cosiddetta fallacia del verbalismo, vale a dire quella fallacia che consiste nel confondere le proprietà delle parole con le proprietà delle cose. In realtà – spiega Russell – il mondo materiale in quanto tale è perfettamente preciso, determinato e dotato di confini netti, e la nostra esperienza del fenomeno della vaghezza dipende solo ed esclusivamente dall’imprecisione che contraddistingue le nostre facoltà rappresentazionali.

Vaghezza e precisione sono caratteristiche che possono appartenere solamente a una rappresentazione, della quale la lingua è un esempio. Esse hanno a che fare con la relazione tra una rappresentazione e ciò che è rappresentato. Al di fuori della rappresentazione […] non può esserci né vaghezza né precisione; le cose sono come sono, punto e basta. Non esiste niente che sia più o meno quello che è o che abbia a un certo grado le proprietà che ha.

In maniera forse ancor più perentoria, Dummett (1975: 314), Lewis (1986: 213), Geach (1979: 55) e molti altri filosofi di primissimo piano hanno denunciato ed enfatizzato l’indecifrabilità dell’ipotesi per cui la vaghezza non riguardi esclusivamente il linguaggio e il pensiero, ma anche la realtà del mondo.

L’argomento di Evans

A ben guardare, l’estromissione delle teorie ontiche dal dibattito tradizionale sulla vaghezza non dipende – o non dipende soltanto – da queste considerazioni di principio che si limitano a etichettare a priori la nozione di mondo ontologicamente vago come una forma di “dark metaphysics” (Copeland: 1995: 83) e che pertanto non possono certo considerarsi decisive, ma dipende – o dipende principalmente – da una serie di obiezioni di carattere metodologico e concettuale che nel corso del tempo hanno cercato di screditare le suddette teorie in forma assai più specifica e dialetticamente legittima. Tra queste obiezioni svolge un ruolo straordinariamente centrale un celebre e plurimenzionato articolo di Gareth Evans, intitolato Can There Be Vague Objects? e pubblicato nel 1978. L’articolo occupa una sola pagina, ma di fatto, costituisce il centro nevralgico dell’intero dibattito successivo sull’identità indeterminata e di buona parte del dibattito successivo sulla concezione ontologica della vaghezza. Secondo Burgess (1989: 113) Evans ha avuto il grande merito di proporre per la prima volta un’argomentazione contro la vaghezza ontologica che prescindesse da qualsiasi forma di pregiudizio metafisico:

Se precedentemente quelli che tra noi simpatizzavano per la visione per cui ci sono degli oggetti vaghi non avevano nulla con cui misurarsi, se si esclude l’irrazionale intonazione di un mantra […], Evans presentava, forse per la prima volta, quello che aveva tutto l’aspetto di un argomento cogente contro tale visione.11

In tale articolo, Evans concepisce un discusso argomento per assurdo che si propone di dimostrare che non può esservi identità indeterminata che dipenda dalle caratteristiche ontologiche degli oggetti coinvolti e che conseguentemente la nozione stessa dell’esistenza di oggetti ontologicamente vaghi è intrinsecamente incoerente e quindi insostenibile. Una ricostruzione informale della reductio ad absurdum formulata da Evans può essere data come segue. Supponiamo che sia indeterminato (né vero né falso) che a (poniamo: la nave di Teseo originaria, cioè la nave al momento della sua spedizione a Creta) sia identico a b (poniamo: la nave ottenuta dalla progressiva sostituzione di tutte le assi deteriorate) (1). Da questa assunzione si può dedurre, per astrazione, che b ha la proprietà di essere indeterminatamente identico ad a (2). D’altra parte, si assume normalmente che ogni oggetto è determinatamente identico a se stesso, quindi non è indeterminato che a sia identico ad a (3). Da questa assunzione, si deduce che a non ha la proprietà di essere indeterminatamente identico ad a (4). Quindi, a e b hanno proprietà diverse. Pertanto, per il principio della non identità dei discernibili,12 è falso e non indeterminato che a e b siano identici, contra hypothesis (5). In termini formali, l’argomento si svolge come segue:

∇(a = b)13

Dall’assunzione (1), per astrazione, si ottiene:

(2) ʎx[∇(x = a)] b14

Eppure, per via del principio dell’auto-identità:15

(3) ¬∇(a = a)

Da (3), per astrazione:

(4) ¬ʎx[∇(x = a)] a

Da (2) e (4), per il principio di non identità dei discernibili:

(5) ¬(a = b)

Formalmente, come Evans stesso nota, non si tratta di un argomento per assurdo, perché la conclusione non è la negazione formale della premessa. Per questa ragione, verso la fine della sua nota, Evans dà qualche indicazione su come ricavare dalla conclusione dell’argomento la negazione formale della premessa. Egli suggerisce di premettere a (5) l’operatore «Δ» («determinatamente»). Ora, Evans spiega che dall’assunzione «si dà il caso che qualcosa occorre», si deve dedurre «determinatamente si dà il caso che quel qualcosa occorre» e dall’assunzione «non si dà il caso che qualcos’altro occorre», si deve dedurre «determinatamente non si dà il caso che quel qualcos’altro occorre. In base a questa indicazione, si può ricavare:

(6) Δ¬ (a = b)

(6), conclude Evans, «è inequivocabilmente in contrasto con (1)».

L’argomento di Evans pone due problemi interconnessi: in prima istanza, pone un problema di interpretazione (che cosa significa l’argomento?); in seconda istanza, pone un problema di valutazione (l’argomento funziona dal punto di vista logico e dal punto di vista filosofico?).

Interpretazione dell’argomento di Evans

Proprio in virtù della breve estensione e della cripticità del suddetto articolo e soprattutto in virtù dell’ingente quantitativo di discussioni che esso ha immediatamente generato, offrire una ricostruzione interpretativa dell’argomento di Evans che sia neutrale e risolutamente non controversa è un’operazione estremamente complicata. Ciononostante, la discussione tra Thomason e Lewis sul significato filosofico del primo passaggio logico dell’argomentazione ci offre la possibilità di chiarire, sia pure in termini molto generali e in forma indiretta, la natura e l’obiettivo di fondo di questa reductio ad absurdum.

Secondo Thomason (1982), nel primo passaggio dell’argomento si anniderebbe un errore. Thomason mette in parallelo l’operatore «∇» («è indeterminato che») con l’operatore modale «◊» («è contingente che»), nonché la nozione di designatore preciso (denotante definitamente un oggetto e non altri) con la nozione modale di designatore rigido (denotante lo stesso oggetto in tutti i mondi possibili). Proprio come – egli nota – è impossibile passare da «è contingente che [a = b]» a «a ha la proprietà di essere contingentemente identico a b» a meno che «a» non sia un designatore rigido,16 così è impossibile passare da «è indeterminato che [a = b]» a «a ha la proprietà di essere indeterminatamente identico a b», a meno che «a» non sia un designatore preciso. In questo modo, il passaggio da (1) a (2) e, correlativamente, il passaggio da (3) a (4) sarebbero fallaci a meno che «a» e «b» non siano designatori precisi.

Secondo Lewis (1988), Thomason avrebbe frainteso Evans: Evans non avrebbe inteso negare il fatto ovvio che si diano enunciati di identità vaghi ma solo mostrare che non si danno enunciati di identità vaghi i cui termini siano designatori precisi. Nella ricostruzione di Lewis, ciò che Evans si propone di mostrare è proprio che, se certe asserzioni di identità sono vaghe, ciò deve dipendere dal fatto che i termini che figurano in quelle asserzioni non denotano nulla di preciso, e non dal fatto che denotino precisamente qualcosa di vago. In altri termini, la vaghezza espressa dall’operatore «∇» non va intesa come indeterminatezza de dicto ma come indeterminatezza de re: l’argomento non intende dimostrare l’impossibilità di enunciati di identità vaghi, ma intende dimostrare l’impossibilità dell’esistenza di oggetti vaghi.

Concepito nei termini della ricostruzione di Lewis, l’argomento di Evans si compone di due asserzioni fondamentali:

Evans parte dal presupposto che l’identità ontologicamente indeterminata sia una condizione necessaria per l’esistenza di oggetti ontologicamente vaghi. Evans si propone di dimostrare che tale condizione necessaria conduce inevitabilmente a una contraddizione logica.

Valutazione dell’argomento di Evans

La strategia argomentativa (b): l’argomento di Evans non è valido

La maggior parte dei sostenitori della vaghezza ontologica che si sono occupati dell’argomento di Evans si sono proposti di mostrare la plausibilità e la coerenza dell’identità ontologicamente indeterminata e quindi di mettere in discussione la correttezza formale della dimostrazione operata da Evans: dal momento che almeno uno dei passaggi argomentativi della dimostrazione non è valido sul piano logico, l’identità ontologicamente indeterminata non conduce a una contraddizione logica, e quindi occorre respingere l’asserzione (b). Poiché si tratta di argomentazioni estremamente elaborate dal punto di vista tecnico, ci limiteremo a introdurre solo alcune di queste obiezioni e a presentarle in forma sintetica e non formale.

Parsons e Woodruff (1995) mettono in discussione l’applicabilità della Legge di Leibniz nell’argomento di Evans. L’assunto di base dei due autori è che (5) non segue da (2) e (4). Infatti, la regola di inferenza di cui si serve Evans non è il Principio dell’indiscernibilità degli identici, ma la sua contrapposta, ovvero il Principio della non identità dei discernibili. In questo senso, Parsons e Woodruff mettono in evidenza che, mentre nella logica classica un principio e la sua contrapposta sono necessariamente equivalenti, questo non può avvenire in un quadro, come quello descritto da (1), in cui sussiste la possibilità di lacune veritative: in questi casi, il Principio dell’indiscernibilità degli identici è valido ma il Principio della non identità dei discernibili non è valido. Poiché la contrapposta della Legge di Leibniz è invalida in assenza della bivalenza, e poiché è di questo principio che dobbiamo servirci per passare da (2) a (4) a (5), l’argomento di Evans non è valido. Sempre Parsons (2000) si focalizza sulle transizioni da (1) a (2) e da (3) a (4). Evans giustifica il passaggio da (1) a (2) in questi termini:

(1) riferisce un fatto relativo a b che possiamo esprimere assegnando a b la proprietà ʎx[∇(x = a)].

Tuttavia – nota Parsons – l’inferenza da (1) a (2) è fallace, perché non vi è ragione per ritenere che l’enunciato (1) possa essere riformulato in termini di attribuzione di proprietà. In questo senso, spiega Parsons, vi sono due diverse modalità di criticare la prova, a seconda dell’interpretazione dell’astrazione di proprietà che si sceglie di intraprendere. In base alla prima interpretazione dell’astrazione (i), si suppone che l’uso dell’astrazione di proprietà sia legittimato se, e solo se, l’astratto «ʎx[…]» denota realmente una proprietà posseduta da un oggetto e se questa proprietà soddisfa la formula all’interno dell’astratto «ʎx[…]». Ora, in questo senso, il fatto che il passaggio (1) sia vero non implica automaticamente che ci sia una proprietà reale che rifletta il comportamento semantico della formula all’interno dell’astratto. Ergo, in base a questa interpretazione, l’inferenza da (1) a (2) è fallace.17 In base alla seconda interpretazione (ii), non si assume che un astratto debba necessariamente denotare una proprietà: gli astratti sono soltanto riformulazioni notazionali degli enunciati. Se gli astratti della prova di Evans vengono interpretati in questo modo, allora l’inferenza da (1) a (2) è assolutamente irreprensibile (così come l’inferenza da (3) a (4)). Tuttavia, la contrapposta della Legge di Leibniz non si applica a delle formule («proprietà concettuali»), ma solo ed esclusivamente a delle proprietà («proprietà del mondo»). Ergo, in base a questa seconda interpretazione, l’inferenza da (4) a (5) diviene fallace.

Secondo Lowe (2011), la reductio ad absurdum formulata da Evans non presenta un passaggio invalido in senso stretto, ma cela una petitio principii. L’argomento tenta di stabilire, attraverso un’applicazione della Legge di Leibniz, la non-identità di a e b, mostrando che b possiede una proprietà che a non possiede (id est, ʎx[∇(x = a)]). Si noti però che, se da (1) segue (2), allora, per parità di ragionamento, è perfettamente valido asserire che da (1) deriva

(2*) ʎx[∇(x = b)] a

(2*) asserisce che a possiede la proprietà di essere indeterminatamente identico a b. Ma a questo punto possiamo porre la seguente questione: questa proprietà – ʎx[∇(x = b)] – che è stata appena attribuita ad a, è la stessa proprietà che è stata precedentemente attribuita a b – ʎx[∇(x = a)] – o si tratta di una proprietà differente? Queste «due» proprietà, spiega Lowe, «differiscono» soltanto per via della permutazione di a e b. Sembrerebbe dunque che, se è indeterminato se a sia identico a b, è analogamente indeterminato se queste stesse proprietà siano identiche, ed è dunque equivalentemente indeterminato se esse siano differenti. Dato che l’identità e la diversità di queste proprietà simmetriche sono indeterminate, la Legge di Leibniz è totalmente impossibilitata a distinguere gli oggetti per mezzo di tali proprietà. Quindi, l’argomento di Evans presuppone in partenza ciò che intende dimostrare, ossia la diversità definita di a e b.

La strategia argomentativa (a): l’argomento di Evans non è conclusivo

Benché la maggior parte dei sostenitori della vaghezza ontologica si siano incamminati lungo la strada della dimostrazione della (presunta) incoerenza formale dell’argomento di Evans o, più in generale, dell’insostenibilità dell’asserzione (b), tale strada sembra una via difficilmente percorribile se non addirittura un vicolo cieco. Praticamente tutte le obiezioni che i vari Parsons, Lowe, Van Inwagen, Woodruff, Edgington e tanti altri ancora hanno mosso nei confronti dei passaggi argomentativi dell’argomento di Evans comportano conseguenze intuitivamente inaccettabili oppure si espongono a contro-obiezioni assolutamente legittime. Ad esempio, se riformuliamo in senso nominalistico la Legge di Leibniz – un oggetto x e un oggetto y sono identici se e solo se entrambi soddisfano gli stessi predicati – tutte le obiezioni assimilabili a quella di Parsons (vale a dire: tutte le obiezioni basate sull’astrazione di proprietà) non possono considerarsi determinanti. Allo stesso modo, se riformuliamo l’argomento di Evans interpretandolo in termini di proprietà che non implicano identità, la (presunta) circolarità denunciata da Lowe viene meno e l’argomento continua a funzionare.

Sulla base di queste considerazioni, la mia impressione è che finché i sostenitori della vaghezza ontologica continueranno ad auto-ingabbiarsi all’interno di intricatissimi recinti fatti di sottigliezze tecniche su passaggi logici riusciranno solo difficilmente (o più probabilmente: non riusciranno affatto) a districare la fitta coltre di “oscurità” che da sempre sembra avvolgere l’ipotesi per cui la fonte essenziale della vaghezza risiede nelle cose stesse. Presumibilmente, dunque, la strada più promettente è quella che colpisce non l’asserzione (b) ma l’asserzione (a): anziché cercare di mettere in luce l’inconsistenza della concatenazione argomentativa inanellata da Evans possiamo accettare la validità della sua reductio ad absurdum contestando però la legittimità del presupposto fondamentale su cui tale reductio viene a innestarsi. In altri termini, possiamo richiamarci a un vecchio principio della sillogistica aristotelica e considerare l’argomento di Evans come formalmente valido ma fattualmente scorretto. Evidentemente, validità logica e verità di un’argomentazione non corrispondono: un argomento è valido se e solo se la sua conclusione è effettivamente una conseguenza logica delle sue premesse, ovvero se e solo se non si può dare il caso che le premesse siano vere e la conclusione falsa; un argomento è corretto se e solo se è valido e tutte le sue premesse sono vere. Ad esempio

(P1) Socrate è un cervo

(P2) I cervi sono quadrupedi

(C) Socrate è un quadrupede

è evidentemente un caso di sillogismo valido ma scorretto.

È dunque il caso di domandarsi se il tanto agognato nodo fallace dell’argomento di Evans non sia tanto un passaggio specifico quanto una premessa spontanea e ingiustificata che si annida indebitamente nelle pieghe del ragionamento di Evans per poi trasmettersi come un virus in tutti gli step della sequenza argomentativa. A ben guardare, in effetti, l’argomento di Evans esclude sì che certi oggetti possano essere vaghi nel senso di non essere né determinatamente identici né determinatamente distinti, ma in linea di principio (senza l’aggiunta di argomenti ulteriori) non esclude che un oggetto possa presentare dei confini ontologicamente sfumati. Di per sé, non ci sono buone ragioni per ritenere che dal momento che le identità sono definite, allora il mondo deve necessariamente essere preciso. Russell potrebbe avere ragione: le cose sono ciò che sono, nel senso che sono identiche a se stesse e sono diverse dalle altre cose. Ma questo non significa che l’inventario ontologico del mondo – per dirla alla Varzi – non possa includere oggetti che presentano confini vaghi: le cose possono benissimo avere identità definite ma presentare un’estensione ontologicamente indeterminata dal punto di vista spaziale, mereologico-composizionale, temporale e modale. Torniamo alla nave di Teseo. È indeterminato che b abbia navigato fino a Creta, ma non è indeterminato che a abbia navigato fino a Creta. Quindi b ha una proprietà (la proprietà di aver indeterminatamente navigato fino a Creta) che a non possiede. Per il principio della non identità dei discernibili, occorre concludere che è falso, e non (ontologicamente) indeterminato che le due navi siano identiche. Tuttavia, a differenza di quanto rileva Evans, questa confutazione dell’identità ontologicamente indeterminata tra la nave chiamata a e la nave chiamata b si limita a mostrare che l’identità è una relazione ontologica assoluta e che in quanto tale non si presta a indeterminatezza, ma non ci costringe ad escludere che la nave a e la nave b possano avere (ad esempio) dei confini temporali sfumati. In quest’ottica, con buona pace di Evans, la concezione ontologica della vaghezza torna ad acquistare rilevanza filosofica e conseguentemente tornano ad acquistare rilevanza filosofica i suoi sviluppi teorici più classici (ad esempio: il realismo fuzzy di Tye) e finanche i suoi sviluppi più controversi (ad esempio: la nozione di indeterminatezza ontologica dell’esistenza chiamata in causa da Van Inwagen).

Una volta dimostrata l’infondatezza dell’argomento di Evans – non tanto perché ci sono gli strumenti per poterlo confutare quanto perché la conclusione a cui perviene non smentisce di per sé una lettura in chiave ontologica della vaghezza – agli avversari delle teorie ontiche non rimane che appellarsi alla presunta iper-complessità dimostrativa di tali teorie. In particolare – si dice – la revisione logica che tali teorie costringono a mettere in atto per pervenire ad una soluzione soddisfacente del sorite e della vaghezza di ordine superiore (si pensi, in primo luogo, alle semantiche trivalenti e alle semantiche a infiniti valori di verità) violerebbero sistematicamente il principio di semplicità e le nostre intuizioni pre-teoretiche e dunque sarebbero metodologicamente inconcepibili. Ma neanche questa obiezione – che assomiglia in modo piuttosto lampante alle accuse di principio mosse da Russell, Dummett, Lewis e Geach nel corso del Novecento – può considerarsi conclusiva. Ciò emerge chiaramente se prendiamo in considerazione il caso dell’elaborazione dei primi modelli di geometria non euclidea negli ultimi decenni dell’Ottocento. I postulati e gli assiomi della geometria iperbolica e della geometria ellittica chiamavano in causa un modello geometrico enormemente più complesso rispetto a quello formulato da Euclide, ma questo eccesso di complessità è stato ampiamente controbilanciato dalla facilità con cui le geometrie non euclidee hanno consentito di sopprimere una serie di anomalie che compromettevano dal principio la possibilità di fornire alcune descrizioni matematiche dello spazio fisico. Allo stesso modo, l’approccio ontico, nonostante le complicazioni teoriche a cui (forse) inevitabilmente si espone, sembra aprire nuove prospettive al dibattito perché sembra offrire la possibilità di effettuare, almeno in alcuni casi, un’analisi più semplice e fondata dei casi borderline rispetto a un approccio di stampo rappresentazionale e soprattutto perché sembra attagliarsi con sorprendente rispondenza agli sviluppi recenti della fisica delle particelle atomiche. Non può essere certo catalogato ad elemento di secondo piano il fatto che Heisenberg e Schrödinger, due tra i principali artefici della rivoluzione della meccanica quantistica, pur partendo da letture profondamente diverse della teoria dei quanti (indeterminista quella del primo e determinista quella del secondo), finiscono per fornire una diagnosi pressoché equivalente del problema del linguaggio della fisica classica: non è il linguaggio della fisica classica che è troppo vago per catturare la realtà; è la realtà che è (apparentemente) troppo vaga per poter essere espressa nei termini inevitabilmente deterministi della fisica classica (gli unici termini in cui un esperimento fisico possa essere descritto). In particolare, nello scritto Fisica e filosofia (1958: 211-216), Heisenberg sostiene che la teoria dei quanta sembra imporre una sostanziale estensione dei principi basilari della logica classica.

Consideriamo un atomo che si muova in una scatola chiusa divisa da una parete in due parti uguali. La parete è fornita di un buco piccolissimo attraverso cui l’atomo può passare. L’atomo può trovarsi allora, secondo la logica classica, o nella metà sinistra della scatola o nella destra. Non c’è una terza possibilità: tertium non datur. Nella teoria dei quanta tuttavia noi dobbiamo ammettere – ammesso che ci si serva dei termini “atomo” e “scatola” che ci sono altre possibilità che sono stranamente mescolanze delle due prime possibilità. Ciò è necessario, per spiegare i risultati dei nostri esperimenti. Potremmo, ad esempio, osservare la luce che è stata diffusa dall’atomo. Potremmo compiere tre esperimenti. Primo, l’atomo è confinato (chiudendo ad esempio il buco nella parete) nella metà sinistra della scatola, e viene misurata la distribuzione dell’intensità della luce diffusa; poi esso vien confinato nella metà destra e di nuovo la luce diffusa vien misurata; e finalmente l’atomo può muoversi liberamente per tutta la scatola e una volta ancora è misurata la distribuzione dell’intensità della luce diffusa. Se l’atomo fosse sempre o nella metà sinistra o nella metà destra della scatola, la distribuzione dell’intensità finale dovrebbe essere una mescolanza (a seconda delle frazioni di tempo passato dall’atomo in ciascuna delle due parti) delle due prime distribuzioni dell’intensità. Ma questo non è generalmente vero sperimentalmente. La distribuzione reale dell’intensità è modificata dalla «interferenza delle probabilità».

Sulla base dell’osservazione sperimentale – prosegue Heisenberg – risulta evidente che se desideriamo parlare delle particelle atomiche dobbiamo combinare lo schema matematico della teoria dei quanta con un linguaggio che faccia uso di una logica “quantica” che contenga al suo interno la logica classica come suo caso limite. In quest’ottica, Heisenberg propone di introdurre (sulla scorta del modello di von Weizsäcker) il concetto di grado di verità. Per ogni semplice affermazione come «l’atomo è nella metà sinistra (o destra) della scatola» si pone un numero complesso come misura del suo grado di verità. Se il numero è 1 ciò significa che l’affermazione è vera; se è 0 significa che è falsa. Ma sono possibili altri valori intermedi (ad esempio: 0.7876). Il valore assoluto del numero complesso dà la probabilità della verità dell’affermazione; la somma delle due probabilità riferentesi alle due alternative (sinistra o destra, nel caso esaminato) deve essere l’unità. Ma ciascun paio di numeri complessi riferentisi alle due parti dell’alternativa rappresenta un’affermazione che è certamente vera se i numeri hanno proprio quei valori (i due numeri, ad esempio, sono sufficienti per determinare la distribuzione dell’intensità della luce diffusa nell’esperimento di cui sopra). Ogni affermazione che non è identica all’una o all’altra delle due affermazioni alternative – nel nostro caso all’affermazione «l’atomo è nella metà sinistra della scatola» o «l’atomo è nella metà destra della scatola» è detta complementare a queste affermazioni. Ma l’indeterminatezza legata alle affermazioni complementari – è questo il nodo decisivo – non dipende dalle nostre rappresentazioni ma dalla natura stessa delle particelle e delle orbite elettroniche:

Per ogni affermazione complementare la questione se l’atomo è a sinistra o a destra non viene decisa. Ma il termine «non decisa» non equivale in alcun modo al termine «non conosciuta». «Non conosciuta» significherebbe che l’atomo è «realmente» a destra o a sinistra, solo che noi non sappiamo dove è. Ma «non decisa» indica una situazione differente, esprimibile soltanto con una affermazione complementare.

Naturalmente, con ciò non si intende affermare che esistono delle ragioni decisive a favore delle teorie ontiche: il tipo di revisione che sarebbe opportuno operare per rendere conto dei casi di vaghezza ontologica rimane ancora oggi in gran parte inesplorato; gli esperimenti futuri sugli eventi atomici potrebbero prospettarci una direzione completamente diversa da quella intrapresa da Heisenberg. È tuttavia evidente che il dibattito su queste tematiche evidenzia complessità e diversificazioni talmente ampie che è assolutamente controproducente continuare a escludere a priori (o a partire da argomenti tutto sommato infondati) un’opzione teorica filosoficamente legittima, ed è altrettanto evidente che una soluzione soddisfacente a un problema di così vasta portata presuppone necessariamente una opportuna integrazione di proposte divergenti, che non si lasci condizionare da alcun pregiudizio metafisico o concettuale. L’intento di formulare un’ontologia alternativa a quella del senso comune non è certamente il motivo per cui i filosofi contemporanei hanno incominciato ad affacciarsi al problema della vaghezza eppure, forse, è solo dando vita a un’ontologia alternativa e integrandola con approcci di ordine semantico e/o epistemico che possiamo sperare di gettar luce su un problema teorico così complesso e apparentemente insormontabile.

Bibliografia

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  1. Cfr. Smith (2008). ↩︎

  2. Cfr. Williamson (1994). ↩︎

  3. Cfr. Rolf (1980), Burgess (1990), Tye (1990) van Inwagen (1990), Zemach (1991), Parsons (2000). ↩︎

  4. Cfr. Zadeh (1965), Rolf (1981). ↩︎

  5. Cfr. Walton (1992). ↩︎

  6. Cfr. Endicott (2000). ↩︎

  7. Cfr. Bertini (2020). ↩︎

  8. Cfr. Kruse, Schwecke & Heinsohn (1991) ↩︎

  9. Applicando la regola di eliminazione del quantificatore universale a [B] si ottiene [P2.1]. E da [A] e [P2.1], per modus ponens si ottiene [P2.2]. E così via. ↩︎

  10. Il termine «tollerante» è stato introdotto nel dibattito da Wright (1975). Predicati come «essere mucchio» tollerano cambiamenti minimi in aspetti rilevanti: la differenza di un singolo granello di sabbia non sembra giustificare una diversa attribuzione della proprietà di essere mucchio. ↩︎

  11. Trad. mia. ↩︎

  12. L’argomento si serve del Principio di indiscernibilità degli identici, che va distinto dal Principio di identità degli indiscernibili. In base al Principio di identità degli indiscernibili, se due oggetti hanno le stesse proprietà allora sono identici. In base invece al Principio di indiscernibilità degli identici, se due oggetti sono identici, allora hanno le stesse proprietà. Tanto il Principio di indiscernibilità degli identici quanto il Principio di identità degli indiscernibili vengono spesso chiamati Legge di Leibniz perché Leibniz li ha sostenuti entrambi. In base alla contrapposta del Principio dell’indiscernibilità degli identici, che viene chiamata Principio della non identità dei discernibili, se un oggetto ha una qualunque proprietà P che un altro non ha, allora i due oggetti non sono identici. In termini formali, il principio della non identità dei discernibili può essere espresso nel modo seguente: (DD) (∀x) (∀y) (∀P) [(Px∧¬Py) → ¬ (x=y)]. ↩︎

  13. L’operatore “∇” esprime la nozione dell’indeterminatezza. Ad esempio, “∇A” andrà inteso in questo modo: è vago o indeterminato se A, nel senso che il valore di verità di A è indeterminato. ↩︎

  14. “ʎx […]” è la notazione comunemente impiegata per l’astrazione delle proprietà. ↩︎

  15. Qualsiasi oggetto è determinatamente identico a se stesso. ↩︎

  16. Come ha mostrato Quine (1953), l’equivalenza modale tra «è contingente che il numero di pianeti sia nove» e «il numero di pianeti è tale che è contingente che sia nove» è fallace. ↩︎

  17. Lowe (2011) afferma che se l’astrazione di proprietà implica la denotazione di una proprietà, allora l’inferenza da (1) a (2) non può essere più interpretata come un passaggio logico perfettamente innocente sul piano metafisico. Il problema dell’argomento di Evans sarebbe dunque che esso «tenta di estrarre un 'coniglio' metafisico da un 'cappello' puramente logico» (2011: 29). ↩︎