Cenni iniziali
L’obiettivo di questo scritto è presentare il pensiero e la figura – pensiero e vita vanno di pari passo mischiandosi, nutrendosi vicendevolmente – di Günther Anders. Come linea di partenza si propone una poesia di Bertold Brecht,Generale, il tuo carro armato è una macchina potente. Scrive Brecht:
Generale, il tuo carro armato è una macchina potente spiana un bosco e sfracella cento uomini. Ma ha un difetto: ha bisogno di un carrista. Generale, il tuo bombardiere è potente. Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante. Ma ha un difetto: ha bisogno di un meccanico. Generale, l’uomo fa di tutto. Può volare e può uccidere. Ma ha un difetto: può pensare.1
Rileggendola avendo in mente la rotta del pensiero andersiano possiamo scorgere tra le parole brechtiane un purtroppo che rende le macchine imperfette, pur nella loro strabiliante potenza: l’essere umano. Il «difetto» è che questi mezzi di distruzione hanno bisogno di esser mossi da un essere umano, necessitano del suo intervento. L’imperfezione che depotenzia le macchine è quell’essere che mira ad essere come i suoi stessi prodotti: Anders definirà questa nuova 'emozione' vergogna prometeica, di cui ci occuperemo. Prima di passare ad un inciso di carattere biografico, vorremmo spendere qualche parola sull’ultimo verso di questa poesia: il difetto dell’umano è il pensare, (denken). Quel pensare che evidenzia l’umano come possibile di re-visionare (guardare in-dietro criticamente) il proprio operato. Ci si potrebbe chiedere: per questo è libero dai suoi prodotti? Ne è indipendente? Anche nel caso in cui fosse totalmente dipendente da quelli, i quali gli 'hanno concesso' la capacità di volare e, persino, di uccidere, pensando l’umano può riscattarsi, spezzando le catene con cui si è incatenato alle sue creazioni; può ri-pensare questa sua inter-indipendenza, inaugurando una nuova rotta: ritornare sui suoi passi; pensare è ri-volgersi, voltarsi nuovamente, il che implica la possibilità di guardare il punto di partenza; l’umano può (e con coraggio deve) prendere posizione. Pensando può vedere meglio; pensare è un domandarsi-su lucido, nella luce, ciò che si è fatto; pensare è fare-i-conti con le proprie azioni, in vista di un tempo al di là. Prendersi il tempo, voltarsi per ammirare e mettersi, di conseguenza, in discussione. Pensare è, dunque, un risvegliarsi nella chiarezza, è ri-guardare il proprio operato, la propria opera, il proprio prodotto: guardare nuovamente, ora con attenzione ciò che è la propria opera; quella mia opera mi riguarda: è mia, l’ho prodotta, porta la mia firma, non posso esserne indifferente. Aprire gli occhi di-fronte-a. Pensare è, anche, possibilità di immaginare. Si tenga presente che Anders denuncia all’umano, ormai, la mancanza di questa capacità fondamentale: la capacità di immaginare quel che accadrà, di guardare al futuro nel presente, prospettarsi un’idea di quel tragico che è a-venire se si prosegue nella direzione attuale, facendo sembrare inesorabile la rettitudine verso la fine creata e prodotta da queste nostre mani. Pensare comporta l’imputarsi le atrocità: esserne responsabili, per non commetterne più. Questa è la speranza, delusa sfortunatamente dal tempo presente: quel mai-più risulta utopico; ma, il bagliore di questa speranza resta sullo sfondo, è a noi ancora visibile. Al contempo, quel pensare, però, potrebbe condurre alla produzione di nuovi mezzi per neutralizzare quel «difetto», per estirpare quell’imperfezione che minaccia quella perfezione e quella tremenda precisione. Quelle armi si potrebbero autonomizzare, perdendo il bisogno di un macchinista e di un meccanico. Brecht riempie quel «difetto» umano di sarcasmo, difetto che è un in-più indispensabile all’umano. Il poeta sembra quasi che ci stia invitando, con urgenza, a ritrovare quella nostra virtù.
Presentazione
Günther Anders (al tempo Stern) nasce a Breslavia nel 1902, muore a Vienna nel 1992. In questa sede ci limiteremo a riportare i punti critici, i punti di rottura, le cesure vissuti dal Nostro, che sono stati il terreno più che fecondo per la sua filosofia e per la sua stessa persona. Si farà ora riferimento al saggio La distruzione del futuro,2 che potrebbe essere considerato come una sorta di breve biografia dell’autore. La prima cesura avvenne nei suoi quindici anni,
ho vissuto l’orrore della prima guerra mondiale. La seconda cesura è stata la presa del potere di Hitler: sapevo già dal principio che Hitler avrebbe significato una guerra mondiale […]. La terza rottura fu la notizia dell’allestimento dei campi di concentramento […], dunque la notizia che l’uomo del tempo dell’industria di massa poteva produrre industrialmente anche milioni di cadaveri, in breve, Auschwitz [qui homo materia, aggiunta mia]. La seconda e la terza cesura hanno fatto di me uno scrittore politico. Alla quarta, Hiroshima, non reagii come scrittore se non anni dopo; dapprima rimasi muto […] poiché la mia immaginazione, il mio pensiero, la mia bocca e la mia pelle tacevano davanti alla mostruosità del fatto […]. Compresi subito, già il 7 agosto, un giorno dopo lo sgancio su Hiroshima e due prima di quello assolutamente imperdonabile a Nagasaki, che il 6 agosto rappresentava il giorno zero di un nuovo computo del tempo: il giorno a partire dal quale l’umanità era irreparabilmente in grado di autodistruggersi.3
Dal 6 agosto, perciò, Hiroshima può venire-ad-essere (trovarsi) dappertutto: ogni luogo sulla Terra può diventare vittima di un bombardamento atomico, vittima di quel «mostro apocalittico»4 che è l’atomica. Il suo fare filosofia e la sua azione politica, anche militante, risposero alle intemperie dei tempi, alle crisi che l’umano visse sulla sua pelle. Anders reagì alla crisi che l’umano stava vivendo; reagì analizzando nella sua crudezza la situazione in cui l’umanità si stava addentrando, fino ad arrivare ad un punto dove la via di fuga è stata resa troppo impervia da raggiungere o, forse, quella uscita di emergenza non fu programmata fin dal principio. «Hiroshima è dappertutto voleva dire: quel che è accaduto a Hiroshima, può accadere anche in qualsiasi altro luogo del globo».5 Quinto spartiacque – non segnalato tanto esplicitamente dal Nostro – fu il disastro di Chernobyl (1986), che lo rese un avversario del nucleare; ecco che conierà Chernobyl è dappertutto (così come fu per Hiroshima): «se in un singolo luogo come Chernobyl accadde una disgrazia, allora questa può accadere dappertutto, cioè può raggiungere tutti i punti della Terra»6 – allora – «Chernobyl può essere qui domani»,7 così come Hiroshima può essere qui domani, oggi più che mai. Inoltre, le sue scie non rimangono in un solo luogo: da qui arrivano là, da là arrivano qui e anche al di là. Ecco che dal 1986 l’umanità conobbe un’ulteriore minaccia. Una nuova risposta alla minaccia nucleare di Anders non tarda ad arrivare.8 Dopo Chernobyl fu avvertito uno «stato di necessità»:
Milioni di persone, l’intera vita sulla Terra e quindi anche la vita futura, sono minacciate di morte […] da gente che ne accetta il rischio [il rischio del nucleare, aggiunta mia], e che riesce a pensare solo in termini […] economici e affaristici.9
Su questo punto dobbiamo fermarci per approfondirlo oltre. La domanda 'ontologica' «essere o non essere?» si avverte in Anders con tutta la sua urgenza: «la questione "essere o non essere" signor Amleto, ha davvero senso solo oggi».10 Oggi: non solo lo ieri del Nostro, così come non soltanto l’oggi di noi (oggi 2022), ma anche quell’oggi del nostro e del loro, di chi ci sarà, domani. La questione ontologica è la questione morale sull’essere o il non-essere-più del mondo, e di conseguenza dell’intera biosfera; sull’essere o il non-essere-più della vita, almeno per come noi oggi l’abbiamo conosciuta. «Ciò che oggi conta è più di tutto conservare il mondo, qualunque esso sia. Solo dopo si potrà vedere se è possibile migliorarlo»11 – «oggi bisogna prima di tutto conservarlo».12 Solo se il mondo continuerà ad esistere ci si potrà occupare del suo essere, dell’Essere: «Come si può passare la propria vita ad occuparsi di ontologia, e quindi alla domanda sull’essere, se non sappiamo nemmeno se domani esisteremo o no?».13
Urge che l’umano – di oggi per un domani, per un dopo-domani, per un tempo-senza-più-noi – si (ri)scopra responsabile, che si faccia carico delle sue azioni, responsabilità in questo caso è sinonimo di imputabilità, e che guardi alle sue azioni future in maniera responsabile, affinché ci sia fin-da-adesso la possibilità di un domani e, ancora di più, di un dopo-domani. Spingiamoci per poco al di fuori per spendere qualche battuta in più sul tema. La responsabilità si orienta nel tempo: è rivolta al passato come assunzione di questo nel presente, per l’appunto l’imputabilità, cioè l’essere responsabile delle azioni compiute; l’altro aspetto è il suo rivolgersi al futuro come assunzione di questo nel tempo presente traducendosi in un in-vista-di. Si noti allora che il presente è il punto decisionale della presa di coscienza riguardo la propria responsabilità, poiché essa implica attenzione, che a sua volta è possibile soltanto nell’ora.
L’umano è minacciato da se stesso, basti guardare al pericolo atomico, al pericolo nucleare, alla lista potremmo aggiungere la, ormai, crisi climatica, anche questa frutto dell’azione sconsiderata dall’umano. Anders ci mette in guardia, la sua filosofia ci porta ad aprire gli occhi, ad aprile le orecchie verso un mondo (mandato) in declino, verso l’umano in crisi, sempre più minacciato in ogni dove e in ogni quando, verso anche gli altri esseri che come noi umani coabitano la Terra. Quel dappertutto è la somma di tempo e spazio, in cui si contraggono le generazioni attuali e quelle a-venire. Urge la salvaguardia del «diritto alla sopravvivenza dell’umanità»,14 ma non solo: ci preme sostenere che questo diritto deve venir salvaguardato per l’intera biosfera, per l’intero Organismo terrestre.15
Non abbiamo nessun «luogo di ritirata»,16 ciò significa che «gli effetti delle nostre attività oggi sono immensamente grandi, essi "debordano". Non c’è più nessun "bordo" che possa "imprigionare" questi effetti all’interno della nostra barca».17 Gli effetti si espandono dappertutto, il mondo «è continuamente nostra vittima».18 In queste battute, scritte post-Chernobyl, Anders denuncia, e si batte contro, tutti quegli esperimenti nucleari che implicano dispersione di tossine, scorie disperse e rottami inquinamenti. Non ci sono più confini: qui diverrà là, là diverrà qui. Aveva già denunciato nel primo volume di L’uomo è antiquato il dramma degli esprimenti atomici e la conseguente contaminazione. Scrisse infatti: «gli esperimenti […] hanno "superato la soglia storica"»;19 la contaminazione è generale, quasi totale: debordano la loro in-situazione storica. Non esiste isolazionismo per i loro effetti, questi sono illimitati: c’è una contrazione spazio-temporale, perciò essi non hanno più limiti. La Storia ci ha mostrato i risultati di questi effetti, basti pensare alle malformazioni dei nuovi nati da coppie esposte alle tossine.
«Non c’è una "vita di riserva"»,20 il Nostro è perentorio.
Nuove metodologie per impellenti crisi
«Mi sono sempre sentito uno scrittore che lavorava anche nell’ambito della filosofia»,21 nell’ambito della filosofia morale. Ricordiamo perciò che tra i suoi lavori spiccano, non solo trattati di filosofia, – anche se tale definizione non è totalmente calzante, è un termine 'tradizionale' – ma anche opere di vari generi letterari, «della favola, dell’utopia di Swift, della poesia»,22 come lo stesso Anders riferisce. Abbiamo anche raccolte di favole,23 romanzi (come La catacomba molussica,24 nel quale è analizzata la meccanica del fascismo), alcuni scritti in prosa (vorremmo citare qui un testo, più precisamente una raccolta di scritti, a cui faremo riferimento: Brevi scritti sulla fine dell’uomo),25 poiché «mi sembrava che scrivere testi sulla morale, che solo colleghi accademici avrebbero letto e capito, fosse insensato, assurdo, se non addirittura immorale».26 Ci dirà quindi:
Il mio filosofare è stato di tipo diverso. Nei settantacinque anni della mia vita, il mondo e la posizione dell’uomo nel mondo sono cambiati così radicalmente che io sono stato costretto a partire dalla realtà stessa.27
Ecco che il Nostro definisce la propria filosofia, il proprio personale approccio alla filosofia, come «filosofia d’occasione»,28 ossia
un ibrido incrocio tra metafisica e giornalismo: cioè un filosofare che ha per oggetto la situazione odierna, squarci caratteristici del nostro mondo d’oggi: ma non solo per oggetto, poiché è proprio il carattere opaco e inquietante di questi squarci che dà l’avvio al nostro filosofeggiare. L’ibrido carattere dell’assunto dà luogo a un insolito stile espositivo.29
Stile insolito – eccezionale, d’eccezione – che si propone, e che propone a noi lettori, di sorvegliare il mondo, la realtà circondante, in cui siamo inseriti, fuori dalle aule accademiche, portando lo sguardo, e di conseguenza l’attenzione e l’interesse, al di là del libro, verso ciò che ci circonda. Scrive pertanto:
La deviazione attraverso le opinioni dei filosofi degli ultimi 2500 anni non solo sarebbe stata superflua ma anche insensata [corsivo nostro], per non dire immorale [corsivo nostro], poiché avrei perso troppo tempo prima di arrivare ad esercitare un’influenza sul mondo. Quando le testate nucleari si accumulano, non ci si può fermare ad interpretare l’Etica nicomachea.30
Questo estratto ci fa capire la sua metodologia di fare filosofia. Si tratta perciò di una filosofia pratica. Partendo dal mondo, il Nostro affronta le problematiche che il mondo vive, i drammi che l’umano vive; una filosofia che risponde alle crisi che accadono là, all’aria aperta dove si vive. Nel secondo volume di L’uomo è antiquato, Anders esprime al meglio il carattere en plein air della sua indagine filosofica.31 Fare filosofia esponendosi al mondo e alle sue crisi imporrà, come già accennato, l’utilizzo di un linguaggio comprensibile a tutti, non solo ad una cerchia ristretta chiusa in quattro mura; linguaggio che a tutti possa pertanto parlare, che tutti possano intendere, che a tutti faccia, quindi, aprire gli occhi e porsi domande su quel mondo descritto, su quello stato dell’umano messo a nudo: «Io utilizzo il mondo stesso come libro, in quanto è "scritto" in una lingua incomprensibile, e io cerco di tradurlo in un linguaggio comprensibile e forte».32 Il suo filosofare verrà da lui stesso definito, inoltre, un «fare della filosofia in termini popolari». Anche se una filosofia in tali termini non esiste, viene ora richiesto: che da tutti venga compresa:
A uno che si trova in pericolo […] bisogna rivolgergli parole che forse lo possono rendere consapevole […] ossia [si, aggiunta nostra] deve trovare un linguaggio che non venga compreso soltanto in certi edifici: nelle università.33
Ecco qui esposta l’avversità del Nostro per un tipo di filosofia che si definirebbe accademica e avviluppata su se stessa. Il compito morale è quello di arrivare a tutta la società, il compito è di risvegliare le coscienze di tutti, per questo si eviterà un linguaggio specialistico, comprensibile solo da un gruppo ristretto specializzato, e verranno usati esempi presi dalla cronaca, dalla quotidianità. Se volessimo precisare la sua filosofia morale, si tratta di una «antropologia filosofica nell’èra della tecnocrazia»,34 come lo stesso autore riferisce. La sua è un’antropologia filosofica che indaga l’umano e i suoi rapporti con la tecnica (a suo avviso la sua potrebbe anche essere una «filosofia della tecnica»35), da cui si sono mutati drasticamente tutti quegli atteggiamenti fondamentali dell’umano: il rapporto inter-umano (uomo-uomo), il rapporto che l’umano ha con se stesso, quel rapporto che l’umano ha con il mondo e quel rapporto che l’umano ha con la percezione della (propria) fine.
L’antropologia andersiana per arrivare al proprio scopo, ossia mettere in guardia l’umano sul suo operato, mostrando quel che sta accadendo sotto gli occhi di quello stesso umano, risvegliando perciò la cosiddetta fantasia morale, ricorrerà all’espediente dell’esagerazione: esagerare così da mostrare-al-meglio, così da evidenziare, la gravità delle crisi, oltrepassando l’incuria. Ingrandire per far percepire la stessa crisi ad un umano ormai in ritardo rispetto a tutto il suo operato: ingrandendo si mostrerà fin nei dettagli la sua opera; si manifesterà ora, non domani, ma ora, oggi, anche se già tardi. In Anders si avverte l’urgenza. Questo suo modus operandi lo accompagnerà in tutta la sua produzione, tanto quella post-Hiroshima, quanto quella post-Chernobyl. Perché proprio l’esagerazione? Il Nostro risponderà:
Esistono dei fenomeni che non si possono trattare senza accentuarli e ingrandirli; e ciò perché senza tale deformazione non si potrebbero identificare né scorgere, e dato che si sottraggono all’osservazione a occhio nudo, essi ci pongono davanti all’alternativa: «esagerarli o rinunciare a conoscerli».36
Le cose stesse determinano il metodo, lo reclamano. Esagerare per alimentare, prima fra tutte, la paura, che risveglierà le coscienze sopite, queste che sono state abbagliate dalla tecnocrazia, così da riportare "in vita" quella capacità immaginativa che sappia prevedere le conseguenze delle opere che oggi accadono, e che ieri sono accadute. Il futuro è già nell’oggi. Per questo il lettore nella lettura del Nostro – come egli stesso avverte – si ri-troverà, ritroverà se stesso descritto e si troverà nuovamente rinnovato, risvegliato, invaso dai problemi filosofici fondamentali, proprio dall’attualità dei fenomeni. La deformazione, quindi, è necessaria per la comprensione; è necessaria per far si che quel linguaggio sia comprensibile e forte. Deformare farà apparire sia più da vicino ciò che è distante (per luogo e tempo, in quanto l’orlo tra il qui e il là e tra lo ieri, l’oggi e il domani è troppo leggero per contenere i fenomeni stessi e le loro onde di propagazione), sia più distante ciò che è vicino, così da riuscire a metterlo a fuoco, vederlo nella complessità del presente. Deformare significa rendere più chiaro, illuminare. L’esagerazione porta a due tappe indispensabili e contemporanee: l’impaurire e l’immaginare. Su queste due ci soffermeremo in seguito, focalizzandole. Ricapitolando: il fine ultimo di questa filosofia en plein air è quello di mettere in luce (rendere evidenti) le crisi che minacciano l’umano, e non solo; far, perciò, aprire gli occhi, come più volte ricordato, rendendo vigili e facendo leva sulle emozioni forti, come appunto la paura, per mostrarci la nostra vulnerabilità. Proprio per questa sua novità di metodo e di fare filosofia Anders fu criticato:
Le critiche che mi sono state rivolte perché ho filosofato troppo «direttamente», come se i diecimila libri dei miei avi non ci fossero, e perché non ho sfruttato quei tesori, mi toccano poco.37
Tra la stesura del primo volume di L’uomo è antiquato (1956) e il secondo (1980), è bene ricordare in questo momento biografico, passano ben ventiquattro anni di «silenzio filosofico»,38 il perché sarà lo stesso autore a renderlo noto:
Io sentivo assai più ineludibile il partecipare effettivamente, per quanto potevo, alla battaglia combattuta da migliaia di persone contro una simile minaccia [dell’annientamento della vita, dell’autodistruzione dell’umanità, aggiunta nostra]; e dunque, se ho piantato in asso il mio primo volume, è stato perché non volevo piantare in asso la cosa che in esso avevo rappresentata.39
Tornerà alla 'teoresi', che resterà denuncia, poiché «per la prassi, sono ormai troppo vecchio».40 Nella prassi verrà anche accusato di essere un agitatore. Con Anders si mette in chiaro che la filosofia non deve essere esclusivamente esegesi dei testi, come non deve svolgersi esclusivamente nelle aule, deve anche – e soprattutto – farsi nel mondo, facendo sì che quei testi siano i punti cardinali, le bussole, per potersi orientare tra le crisi del mondo, interrogandoli per poter trovare possibili risposte e nuove domande: accogliendo, tra le loro righe, un germe e in autonomia o in comunità pensarci su, interrogandosi ed interrogando.
Esempio del metodo
Ora, per poter comprendere nel migliore dei modi la metodologia (diversa) e questo suo farsi "profeta" della crisi, vorremmo sovrapporre il Nostro con un personaggio di una delle sue storie brevi: Noè, protagonista di Die beweinte Zukunft (Il futuro rimpianto),41 come suggerito dal titolo di questo nostro saggio. Anders è il suo Noè. Anders è il nostro Noè. Vestono entrambi i panni dell’altro, sono la stessa persona: per il lettore il Nostro è quel Noè per le vie della comunità; col suo messaggio, definito da molti come catastrofista e pessimista, sarebbe preferibile definirlo realista, il che non è affatto un difetto di inclinazione caratteriale, ma una dote, ci ha impauriti mostrandoci il reale; portando alla nostra attenzione l’imminente fine di quel che è stato, che è e che sarà (stato).
Noè avvertiva, già da «ieri, l’altro ieri e il giorno prima ancora»,42 i suoi concittadini dell’imminente diluvio (metafora dell’Apocalisse, pure della crisi dell’umano annunciata), non credevano alle sue parole: quel diluvio fu da questi appellato come il «suo diluvio»,43 per l’appunto soltanto di Noè. Nessuno era disposto ad aiutarlo nell’impresa della costruzione dell’arca per la salvezza di tutti. I concittadini pensavano che se la fine fosse dovuta accadere domani, sarebbe accaduta domani, non oggi: quel che riguarda il domani, o per giunta, il dopo-domani non riguarda l’ora. L’oggi fa più pressione, forse anche il giorno-dopo preme, ma un domani non precisato non si fa temere. Quel domani era un futuro, seppur prossimo, percepito lontano, perciò quasi fantasioso. La fine non era ritenuta possibile. Egli ha da sempre insistito, poiché
Non sono mai riuscito a rassegnarmi ai morti di domani e sono andato ogni giorno a caccia dei cechi per aprire loro gli occhi e a caccia dei sordi per urlare nelle loro orecchie tappate, al fine di convincerli.44
Noè è Anders, con tutta la sua attività filosofica e militante; Anders è Noè con tutta la sua caparbietà. «Adesso siamo giunti alla vigilia della catastrofe»,45 e loro sono ancora ciechi e sordi davanti alla più-che-prossima rovina, non si ha più tempo. Egli si sente scoraggiato e abbandonato da Dio: invoca l’Altissimo per un aiuto, per capire come potersi far comprendere da tutti e come poter risvegliare le loro coscienze. Arriva persino a chiedere a Dio di prolungare la scadenza, avendo il tal modo più tempo a disposizione per tentare ancora. A questo punto c’è una svolta che è doveroso presentare: «Conosco le loro debolezze» – εὕρηκα:
Userò […] le loro debolezze così come Tu le hai create e farò di loro la mia forza […]. Li spaventerò con giochi di illusionismo, li porterò a conoscere mediante la paura e mediante la paura li costringerò all’azione – per il loro bene.46
Ecco delineato in poche battute, limpidamente, il metodo andersiano: usare le emozioni forti (parte integrante dell’umano) per convertire l’umano stesso alla (pre)visione di quel che sta accadendo e di ciò che accadrà. Noè urlerà la verità, la realtà: il Nostro urla la verità sullo stato del mondo, sulla situazione dell’umano in questo mondo, in questa epoca. Allora «immerso nel lutto più profondo, travestito col costume della verità, inscenando un dolore che nei fatti era il suo vero dolore, addolorato per la morte di domani dei suoi prossimi»,47 fece comparsa tra loro, sfruttando «saggiamente»48 le loro debolezze. Alla domanda se gli fosse morto qualcuno egli rispose di sì: «molti mi sono morti»;49 i concittadini non intendevano chi fossero questi molti, egli specificò: «noi tutti siamo questi molti».50 Chiesero quando accadde questa loro morte, rispose: «domani è accaduta».51 Cominciarono a deriderlo, sbeffeggiandolo dicendo che, se la catastrofe accade domani, va bene, l’oggi è salvo, se accadrà dopo-domani, andrà più che bene, a quel punto Noè esagerò: «dopodomani sarà ciò che è stato».52 Continuavano a non capire, lui spiegò la loro situazione: «se dopodomani il diluvio sarà ciò che è stato, allora tutto questo, ovvero tutto quel che c’era prima del diluvio, sarà ciò che non è mai stato».53 Noè esagerò sempre più, cominciò ad intonare il Kaddish (il canto funebre per tutti noi: loro e Noè): la vita ora «non era più».54 I concittadini si pietrificarono, totalmente impauriti, avevano perso l’orientamento; Noè ha raggiunto il suo scopo, li ha impauriti tutti, portando in scena lo strabiliante lutto, il funerale per i morti di domani.55 Il Kaddish intonato oggi perché domani non ci sarà nessuno ad intonarlo, questo li impaurì più di tutto; così facendo ha risvegliato tutti loro dormienti: ora sanno del diluvio; è il diluvio di tutti. Sulle colline arrivò la pioggia, l’arca fu costruita con l’aiuto della comunità riunita. Questa rivisitazione della storia biblica fatta da Anders è la via più diretta per capire la sua filosofia; il suo metodo è qui messo in pratica. Quei suoi concittadini sono l’umano contemporaneo cieco tanto davanti la prossima Apocalisse, quanto il suo essere nel mondo.
Mutazioni
I presupposti che si devono tener presenti sono i seguenti: «la tecnica è oggi il nostro fato»,56 più precisamente «la tecnica è ormai diventata il soggetto della storia»,57 «dal suo corso e dal suo impiego dipende l’essere o il non-essere dell’umanità».58 Ciò che unisce Washington a Mosca, in piena Guerra Fredda, nonostante le loro differenze, è che entrambe sono sotto il dettato della tecnica, ci dice Anders, con la differenza del richiamo delle sirene, questa espressione sarà chiarita tra poco. Da soggetto la tecnica si presenta come finalità della storia: si progredisce per assunzioni tecniche. Oggi viviamo in un mondo tecnico, dove la macchina – prima manifestazione della tecnica – ci sta di-fronte, davanti alla quale ci sentiamo inferiori; l’altra sua manifestazione sono i mezzi di comunicazione, i mass media, rispetto ai quali siamo seduti di-fronte: questi ci foraggiano, ci forgiano, noi ci stiamo. La tecnica ci è sfuggita di mano, dalla presa, poiché ormai troppo grande – è stata resa così grande; rispetto ai lei siamo, drammaticamente, in ritardo: tra l’umano, la tecnica e le sue manifestazioni vi è un dislivello, così come tra l’umano e i suoi prodotti tecnici. Il nostro essere in ritardo significa che ormai i nostri prodotti hanno un tempo proprio, all’umano è richiesto di adattarsi, di sincronizzarsi.59 Il Nostro introduce, perciò, la nozione di «dislivello prometeico», definendolo come «l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che ogni giorno si fa più grande».60 Il dislivello risulta essere una condizione di vita, pertanto esso genera una sorta di stato "patologico", che consiste nell’incapacità umana di (pre)vedere. Manca, quindi, la sincronizzazione, ciò significa che «non siamo capaci di mantenerci al passo»,61 abbiamo reso i nostri prodotti troppo veloci. A loro siamo subalterni. Il Nostro, in conclusione, è portato a definire l’umano come antiquato; è accaduto per quella discrepanza tra le nostre facoltà; è proprio per questa asincronizzazione62 tra le nostre facoltà che siamo in ritardo; difformità che ci priva anche dell’immaginazione della fine/del fine; siamo diventati ciechi davanti a quel che sarà per mano dei nostri prodotti tecnici "scatenati" – «non siamo in grado di raffigurarci le conseguenze di quel che noi stessi abbiamo fatto».63 Ci siamo resi mancanti della previsione del peggio: il progresso, col suo falso mito e le sue false promesse di miglioramento, ci ha resi ciechi – ci siamo resi ciechi e sordi.
Il Nostro proporrà una lettura ulteriore del dislivello: esso «consiste […] tra il massimo di ciò che possiamo produrre e il massimo (vergognosamente piccolo) di ciò di cui possiamo aver bisogno»; inoltre «che possiamo usare»,64 siamo nell’èra del surplus, della produzione feroce, della richiesta feroce – sfruttando l’uomo del desiderio, azzardiamo ricorrendo a questa espressione non andersiana, ma che risulta descrivere pienamente la condizione dell’umano moderno – e del consumo feroce. Lo abbiamo richiesto. Abbiamo incatenato il desiderio ai mezzi di comunicazione, questi creano/producono desiderio e consumo, proprio perché il consumatore richiede sempre di più, abituato dalla stessa industria del consumo – è una circolarità, un serpente che si morde la coda; la tecnica trova una perfetta affinità con l’economia e con il profitto, e questi con il desiderio. In questo gioco la pubblicità, che fornisce la moda, in una circolarità tramite rinvii, è una sirena che illude, che ci seduce, essa corteggia; la moda è la seduzione e l’accettazione delle lusinghe ricevute. L’eremita (esso verrà presentato a breve) viene sedotto e cede al canto: esso consuma ed è consumato. Questo mondo sirenico è l’espressione del mondo capitalistico, la sua incredibile rappresentazione, afferma il Nostro:65 le merci vengono messe in mostra; le merci pretendono i clienti. L’Est non è sirenico. La produzione di massa non riguarda soltanto i blue jeans, anche le armi, e tutti quei mezzi di distruzione di massa, resi proprio come un paio di jeans: di fatto le guerre si mettono in scena per annientare vecchi modelli di armi, per consumarle nell’uso, così da fare spazio a sempre nuovi e migliori. Abbiamo così un progresso nell’annientamento, anche questo migliorato, reso autonomo. Così facendo l’uomo se ne lava la mani, è necessario solamente premere un pulsante da una distanza di sicurezza. Così facendo l’umano non ne è responsabile? Rilanciamo al lettore l’interrogativo. La mortalità di queste armi – anche se i loro resti saranno nel tempo anche dopo il consumo; le loro carcasse saranno sempre attuali a causa della loro forza inquinante, così come le loro scie tossiche – viene superata dall’immortalità dei blueprints, dei modelli: per Anders le nuove idee platoniche.66 I mezzi di annientamento, come i prodotti del consumo, si possono riprodurre.
L’umano è mutato in questa èra della tecnica. Vediamo qui i punti più salienti di tale metamorfosi secondo quattro direzioni, le quali si rimandano, sono in un circolo e avvengono all’unisono: il rapporto che l’umano ha con se stesso; quello che ha con il mondo; quello con gli altri esseri umani; infine il rapporto che intrattiene con la (sua) fine. Partiamo dal primo, a pioggia si troveranno gli altri.
Chi ha letto almeno una volta Anders ricorderà che il Nostro parla del rapporto mutato che abbiamo con noi stessi in termini di «vergogna prometeica», cioè quella «che si prova di fronte all’ "umiliante" altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi».67 Rispetto ai nostri prodotti ci sentiamo inferiori: loro sono efficienti, precisi e completi, per avvalorare la propria tesi il Nostro analizza il caso McArthur: «si trasmise la responsabilità decisiva a un Electric brain»,68 la responsabilità fu sottratta a McArthur. L’umano si sente obsoleto. In un primo momento era invaso da un certo orgoglio prometeico, che emergeva soprattutto nella dimensione produttiva prima dell’homo faber e successivamente dell’homo creator, l’umano si era innalzato.69 L’homo creator, con l’avvento di Auschwitz, si ribalta fino a mutare in homo materia. Se nel momento di orgoglio egli contempla la magnificenza dei suoi prodotti, ne è felice, se ne compiace, non appena si sente in ritardo rispetto alle sue creazioni si percepisce arretrato, superato: dall’orgoglio si passa all’«autodegradazione».70 Cerca, allora, in tutti i modi di migliorarsi, adeguandosi alla macchina («adeguamento all’andatura della macchina»71), essa diventa il soggetto della domanda: esige. L’umano rinuncia a se stesso: deve produrre alla stessa velocità delle macchine. Si vergogna poiché avverte come sua "dote" la propria «arretratezza».72 Il processo di adeguamento è «autoumiliazione»: «ci autotrasformiamo per amore delle nostre macchine […]; rinunciamo quindi ad assumerci noi stessi come unità di misura».73 L’umano si fa come la macchina, addirittura come l’arma: proprio per questo è potuto accadere, secondo Anders, l’epocale massacro di My Lai il 16 marzo del 1968, quando i soldati della Compagnia C, del 1º Battaglione, 20º Reggimento, 11ª Brigata della 23ª Divisione di Fanteria dell’esercito statunitense, agli ordini del sottotenente Calley, massacrarono 504 civili, inermi e disarmati, principalmente tutti anziani, donne, bambini e neonati. Quei soldati miravano «a diventare "sicut machinae"; aspiravano a poter fare ciò che queste facevano»,74 le hanno emulate, imitate alla perfezione – imitatio instrumentorum – come ad espiare il peccato dell’inferiorità; Calley per Anders rappresenterà il rapporto tutto nuovo tra tecnica e morale: egli è il nuovo Eichmann.75 Dopo il massacro pranzarono in mezzo ai corpi. La vergogna mostra con sé un altro suo aspetto, il «malaise dell’unicità»:76 l’umano è singolo, ogni singolo è unico, ogni unico è mortale. L’umano resta escluso dalla sostituibilità e dall’esistenza in serie; i prodotti con la loro sostituibilità e riproducibilità si sottraggono in un certo qual modo alla morte, l’umano non può. Nel mondo della tecnica, però, in cui domina la riproduzione di immagini, l’umano vive di duplicati di sé. I mass media producono modelli, soggetto dell’invidia e del desiderio. L’unicità viene avvertita, proprio a causa dei modelli, come insopportabile: la diversità deve tramutarsi in identità, qui è possibile l’esempio di V.; l’umano verrà prodotto in serie attraverso schemi fissi, i quali sono «forme a priori determinanti»,77 essi sono «fabbricati e impressi nell’uomo», fabbricati dall’uomo, sono come «stampi di fusione, ossia come condizioni»: essi «condizionano», determinano, «chi ne è plasmato non è preparato più per niente altro che non sia ciò per cui lo hanno preparato le trasmissioni a domicilio».78 Anders propone, dai suoi diari americani, come dimostrazione «la metamorfosi dell’attrice V.»,79 lei è costretta ad adeguarsi agli schemi fissi, agli stereotipi, assorbiti dai media, e su questi si rimodella, ciò le viene chiesto se vuole essere attrice. Per essere ingaggiata deve essere come «tutte le altre».80 La moda pretende. Il "peccato" sta nell’unicità, nella non-adeguazione al modello. V. «si è elevata al rango di essere matrice di matrici»:81 essa stessa sarà il modello che modellerà altri che diverranno a loro volta altri modelli. Siamo inondati, sovraccaricati, da fantasmi che lavorano come matrici: ci foraggiano/forgiano. A V. fu richiesto di essere più fotogenica, come le altre:
Con ciò intendeva dire: prima che tu non abbia utilizzato con migliore successo i nostri fantasmi come matrici, prima che tu non ti sia rimodellata sulla loro falsariga, non ti si può prendere in considerazione come fantasma contemplabile.82
Varrà il "mai più unici". Anche V. fu vittima delle sirene.
Ora addentriamoci nel rapporto mutato uomo-mondo. «Il mondo [ci] viene "fornito"»,83 ci viene portato a casa dai mezzi di comunicazione: «radio e televisione stesse sono realtà; realtà che ci plasmano».84 Del mondo consumiamo perciò un’immagine precostruita, di essa veniamo imboccati, ecco la produzione dell’uomo di massa, quello che il Nostro definirà l’«eremita di massa»85 . Vediamo qui ripresentarsi la direttrice uomo-uomo. Egli, chiuso in casa, è ovunque, è con tutti gli altri pur rimanendo isolato: come tutti gli altri è ovunque, come tutti gli altri consuma bocconi di mondo trasformato e predigerito, pronto all’uso. Viene meno la socialità: se l’altro si incontra nel mondo, una volta che questo è qui senza che si esca di casa, l’incontro verrà meno, sarà superfluo. Egli dispone del mondo, «senza muoversi di casa, sprofondato nella sua poltrona, regola di lì il mondo in effige: lo accende, se lo fa balzare davanti e lo spenge di nuovo»86 – il mondo intrattiene. Tutto il mondo (anche la più distante sua porzione) è familiare – «familiarizzazione del mondo».87 Tutto è più vicino, il che non significa la sua presenza, anzi esso ci viene nascosto: viene mostrato un suo fantasma. Diviene una merce da consumare, adeguata, «tagliata sulla nostra misura»;88 il mondo familiarizzato
È un prodotto che, avendo carattere di merce, si offre acconciato su misura del compratore [l’eremita, aggiunta nostra] e adattato a un agevole impiego, al fine di essere venduto […] presenta falsamente delle qualità […] che il mondo decisamente non possiede.89
Il mondo viene alienato, è alieno. Esso è lì in immagine (con tutta l’estetizzazione del caso), è fantasma: è assente e presente allo stesso tempo, reale, apparente e pre-costruito. Noi in potenza siamo nel mondo in ogni suo punto, senza fare un passo oltre, così anche in auto con la radio accesa, mentre oggi basta soltanto una connessione ad internet e il mondo è a noi onnipresente, pur restando apparenza. Il processo di familiarizzazione consiste anche nell’"addolcire" quel che si mostra, gli avvenimenti del mondo vengono mostrati tramutati in un «non-serio»;90 la tragedia viene resa innocua. Questo ci ha reso dormienti; non-seria è anche la mutazione della distanza.
L’uomo «è quel che ingerisce»: si producono infatti uomini di massa facendo loro consumare merce di massa; cosa che significa al tempo stesso che il consumatore della merce di massa coopera, mediante il suo consumo, alla produzione dell’uomo di massa (e coopera quindi alla trasformazione di se stesso in un uomo di massa) […] consumo e produzione coincidono.91
Siamo in-formati; quel mondo sirenico ci corteggia, siamo portati ad accettarlo; «ci inganna».92 Veniamo foraggiati/forgiati: siamo privati «della capacità di pensare al fatto reale»,93 veniamo isolati dalla realtà. Il mondo ci viene consegnato a domicilio bell’e pronto, premasticato, predigerito, reso più semplice possibile – è subdolo – resta solo che deglutirlo. Questo è un «addestramento che mira a formare il nostro modo di agire e di subire» – tramite questo «modello induttore»94 l’autotrasformazione di V. è stata resa possibile. Da ciò l’estrema conseguenza: «l’uomo non è più un essere responsabile»95 – come già visto nel caso McArthur, la libertà della scelta è rimandata ad una macchina calcolatrice – poiché non è più libero, della libertà è stato defraudato. La non libertà è stata prodotta, sostiene Anders, dall’uomo attraverso la sua tecnica, di tutto quanto ne è diventato vittima. La responsabilità implica e richiede attività, l’umano (si) è reso passivo, è divenuto oggetto da riempire; è sub-iectum: è soggetto-a: è assoggettato. Non avverte che consuma illusioni, e quel che consuma solipsisticamente è «il pasto comune di milioni di persone»;96 «ci trasformiamo in esseri che tutto inghiottono e tutto digeriscono».97 Ecco l’omologazione, il conformismo – l’eremita è il conformista. Il processo è di «de-individualizzazione e massificazione»:98 nella massa si perde la propria individualità ed unicità. Si rimane dei solisti: nel produrre la massa si manifesta, al contempo, l’atomizzazione del singolo, il risultato è appunto l’eremita; esso esiste in copie identiche ma isolate. La massa di eremiti è privata della libertà. La realtà, ricordiamolo, ci è data come suo surrogato, ci è data dalle sue riproduzioni. Il Nostro parla a questo punto di sensazionalismo della realtà: questa nel modo in cui ci viene fatta assorbire ci ha resi insensibili, cioè, non si prova nulla, un’altra conseguenza della familiarizzazione. Il mondo là fuori, dopotutto, continua ad esserci 'in carne e ossa': «"mondo" è dunque il nome di un potenziale territorio di occupazione; energie, cose, uomini sono soltanto possibili materiali di requisizione»;99 il mondo reale è soltanto una «miniera da sfruttare»:100 tutto il mondo è sfruttabile, e deve essere sfruttato fino alla consumazione totale.101 Il mondo è colonizzabile: colonia da prosciugare.
Noi, uomini d’oggi, siamo i primi uomini a dominare l’Apocalisse, perciò siamo anche i primi a subire senza posa la sua minaccia […], noi esseri a cui è posta una scadenza collettiva […]; e la cui esistenza è sottoposta a revoca.102
La tecnica scatenata, ormai fuori dal nostro potere – siamo stati fin troppo onnipotenti – ci minaccia. Se l’uomo è mortale, è anche eliminabile; ne segue che tutti gli uomini sono eliminabili, l’esperienza di Auschwitz lo dimostra; ora si è giunti all’assunto che «l’umanità intera è eliminabile».103 La domanda centrale più che mai è la seguente: «se l’umanità continuerà a esistere o meno»;104 quando Anders parla dell’uomo e della sua fine, quel «sua» significa che è sua poiché l’ha portata ad esser possibile ora: la fine è a portata di mano, «siamo i signori dell’Apocalisse».105 Rispetto alle vecchie ère, a partire dalle conquiste della modernità e del XX secolo, siamo in grado di portare ad essere ora la fine della Storia; ma davanti a questa fine siamo ciechi. Le cause della cecità per Anders sono fondamentalmente due, innanzitutto, il dislivello prometeico: non siamo all’altezza del Prometeo che siamo (stati),
oggigiorno possiamo senz’altro progettare la distruzione di una grande città ed effettuarla con i nostri mezzi di distruzione. Ma immaginare questo effetto, afferrarlo, lo possiamo soltanto in modo del tutto inadeguato. E tuttavia quel poco che siamo in grado di immaginare: il quadro confuso di fumo, sangue e rovine è ancor sempre molto se lo confrontiamo con la minima quantità di ciò che siamo capaci di sentire o di cui siamo capaci di sentirci responsabili al pensiero della città distrutta.106
Ciò ci riporta alla discrepanza delle nostre facoltà: anche se queste non possono concentrarsi e sovrapporsi, perché ognuna ha il suo ambito, oggi, invece, nell’èra della tecnica e della condizione umana del dislivello, tra le nostre facoltà manca "comunicazione". Tra tutte l’angoscia/la paura è in ritardo rispetto le altre. Perciò il Nostro scrive che «nel sentire, siamo inferiori a noi stessi».107 L’altra causa della cecità è la fede assoluta nel «progresso automatico della storia»,108 che vede l’eternità come continuo miglioramento del mondo; questa fede ha schermato la possibilità di pensare la fine della Storia, «ci ha tolto la capacità di prendere in considerazione una "fine"»;109 si crede che ci sia un perpetuo miglioramento del mondo, questa fede ha dato origine alla nostra totale «incapacità di concepire una fine»:110 questa è come se fosse stata resa impensabile o, quanto meno, impossibile da pensare che possa accadere in un tempo breve, questo è il nostro difetto. Il perfezionamento di quel che sarà ha portato a considerare, e a vivere di conseguenza, che il domani sarà di per sé meglio dell’oggi, così come l’oggi è stato meglio dello ieri, specialmente in questo tempo della tecnica; tutto questo si è tradotto nell’illusione che una fine, se sarà, avverrà tra tempi umanamente pensabili ma inesperibili. Ecco che essa è stata totalmente allontanata, per questo siamo incapaci di poterla appena scorgere nell’oggi, o in una sua prossimità. La fede ha abbagliato l’umanità e ha oscurato la direzione in cui si sta dirigendo: siamo ciechi verso la meta. La cecità è frutto di quello stato "patologico" che è il dislivello, e di questa fede sconsiderata. Anders si chiede a questo punto se sia possibile un cambio di rotta. Ecco che offre una via di fuga: «il compito morale determinante del giorno d’oggi consiste nello sviluppo della fantasia morale»,111 in modo tale da poter superare quel dislivello sviluppando un’elasticità d’immaginazione tale da schiarire la via; per sviluppare questa fantasia morale si dovrà migliorare la flessibilità, allenandola. Saranno indispensabili quelli che il Nostro chiamerà «esercizi di estensione morale».112 Questi avranno come scopo quello di risvegliare le nostre facoltà, la nostra sensibilità, consisteranno quindi in un’«autodilatazione»,113 così da favorire la «comprensione di oggetti di cui disponiamo; anzi di oggetti che, come la bomba, abbiamo fabbricato noi stessi».114 Le facoltà ridestate – prima fra tutte l’immaginazione – faranno rientrare il concetto di 'presente' in un orizzonte di tempo più ampio: il futuro deve esserci presente. Il futuro lo facciamo oggi, è già nell’oggi. «Il nostro potere si estende su uno spazio di tempo che, in genere, non prendiamo in considerazione».115 La facoltà dell’immaginazione, in comunicazione con altre, renderà possibile il pensare oggi quel che potrebbe accadere: gli avvenimenti futuri «succedono ora», cioè «dipendono dal momento presente», per questo «ci riguardano», perché «diamo loro inizio già ora con ciò che facciamo ora»;116 al fine di essere resi di nuovo responsabili.
Ora vorremmo porre attenzione sull’analisi che Anders propone a proposito della questione inerente alla bomba atomica. La questione non si è mai assopita. In questo momento storico ritorna prepotentemente. Riteniamo pertanto che il discorso del Nostro sia più che attuale, ed estendibile verso nuovi tipi di bombe e armi. Ci dice, infatti, che noi, umanità d’oggi (dal 1945), viviamo «sotto il segno della bomba»:117 la sua esistenza minaccia la nostra esistenza e l’esistenza stessa dell’umanità in generale. La prima cosa che afferma il Nostro è che «la bomba non è un "mezzo"», perché
nel concetto di "mezzo" è insito che esso mezzo, "mediando" il suo scopo, si esaurisca con questo; che sbocchi in questo […], che sparisca […] quando lo scopo è raggiunto.118
La bomba non scompare, essa è «troppo grande in assoluto»:119 il suo minimo impiego avrà degli effetti enormi, il suo effetto sarà più grande di qualsiasi scopo, «metterebbe [persino, aggiunta nostra] in forse qualsiasi ulteriore possibilità di proporsi degli scopi».120 La bomba è il nichilista per eccellenza.121 L’effetto è l’annientamento. «Non si può classificare la bomba», secondo Anders, essa è l’unicum; è un mostro: «si chiamavano "mostruosi" gli esseri che non si potevano definire».122 Dal suo uso ad Hiroshima, la bomba è stata usata come pressione, come minaccia – adesso la minaccia dell’uso di armi nucleari è divenuto un deterrente, un gioco tra potenze; chi ne ha più è il più "forte" «la sua mera esistenza, il mero possesso, la mera possibilità di impiegarla, conferiva automaticamente alla bomba il carattere di ultimatum».123 Fino a diventare, come il resto delle armi, un prodotto di consumo.
Euristica della paura in Anders
A questo punto vorremo spendere dello spazio per tratteggiare la correlazione tra paura e immaginazione, a cui abbiamo più volte accennato. Se si parla di euristica della paura il primo pensatore che viene in mente è Hans Jonas; possiamo ritrovare anche in Anders la presenza di un’euristica di questo tipo. Se per Jonas la paura costituisce uno strumento necessario e funzionale al principio-responsabilità, questa stessa considerazione è ravvisabile nel Nostro, anche se non userà il termine 'euristica'. È necessario, dunque, «imparare ad avere paura», cioè imparare ad essere liberi di avere paura, di provare la paura, ed esprimerla; avere la totale legittimità della propria paura-di. Bisogna che sia riacquisita «la capacità di sentire l’angoscia adeguata»; questo è il contributo fondamentale per liberarci dalla situazione attuale in cui versa l’umanità: «to fear in order to be free; di aver paura per essere liberi», liberarci dal pericolo che ci minaccia; per superare quell’«indolenza con cui andiamo alla deriva verso l’autoannientamento».124 In un’altra opera il Nostro parlerà di «salutare paura»,125 la quale porta ad un riesame delle proprie azioni e ad una rinnovata responsabilità. Il compito più alto in questa epoca sarà quella di impaurire il tuo prossimo come te stesso, così da «rendere chiaro alla gente che deve spaventarsi e che deve proclamare apertamente la sua legittima paura».126 Contributo comunitario nell’èra atomica verso la sopravvivenza, contributo al diritto alla sopravvivenza. Esemplificativo, ancora una volta, è il personaggio di Noè e il suo peso comunitario. La paura provata ed "esibita" sarà lo shock indispensabile per dare l’avvio al risveglio della nostra immaginazione, della fantasia morale. La fede cieca ha reso l’umanità analfabeta per quanto riguarda la paura, questa si è tradotta in una nostra incapacità nel provare angoscia/paura. Impauriamo(ci) per potere essere in grado di risvegliare il nostro sentire e la nostra possibilità di immaginare il futuro già oggi: la nostra sensibilità. La paura, inoltre, è il segno della presa in considerazione della nostra vulnerabilità. Ecco la centralità della paura, che in pochissime battute si è cercato di mettere in luce.
La resistenza
Perché la bomba non è sospesa soltanto sopra di noi […] uomini di oggi. La minaccia non cessa mai. È sempre soltanto rimandata. Ciò che forse sarà evitato oggi potrà succedere domani. Domani sarà sospesa sui nostri figli e dopodomani […] sui figli dei nostri figli. Nessuno se ne libera più […]. E anche se l’evento estremo non si dovesse mai compiere, anche se dovesse continuare a restare sospesa su di noi, senza mai scaricarsi, d’ora in poi siamo esseri condannati a vivere all’ombra di questa ineluttabile accompagnatrice: dunque senza speranza; dunque senza progetti; dunque in un modo che non dipende più da noi.127
È necessario «prendere una decisione»,128 di qui l’impegno pubblico, la non più collaborazione passiva che è nel tacere difronte la minaccia, distaccandosi da quel conformistico collaborare con chi fabbrica morte, con chi se ne cura ad averla sempre accanto a sé. In questo si è colpevoli: colpevoli di indifferenza; il Nostro dirà infatti che «la colpa non sta nel passato, ma nel presente e nel futuro», aggiungendo che «non soltanto gli eventuali assassini sono colpevoli, ma anche noi, gli eventuali morituri».129 Siamo colpevoli poiché lasciamo-fare. È tempo di dare la colpa agli autori della bomba. Sarà necessario allontanarsi «da coloro che prendono la bomba sotto la loro protezione».130 Anders conduce verso quella prospettiva di resistenza dell’umanità che sarà, soprattutto, «lotta dell’umanità per la continuazione della sua esistenza»: dell’umanità intera – «un’unica umanità»,131 ecco un rinnovarsi del rapporto interumano e solidale – in una coalizione. L’esistenza della bomba riguarda tutti, anche se essa viene solo indicata come minaccia, anche soltanto per il fatto di possederla. Si è, perciò, tutti immersi in uno stato di necessità che richiede attività e, allo stesso tempo, la responsabilità che l’uomo della tecnica ha smarrito. La resistenza comporta, talvolta, l’accusa di essere additati come agitatori e rivoluzionari, o addirittura si viene fatti apparire come anarchici e traditori,132 come accadde al Nostro. Nonostante ciò, in questa epoca di asservimento alla tecnica, viene richiesto all’umano di ritrovarsi e agitare le acque fin troppo tranquille, che nascondono temibili pericoli. La resistenza è militante e comunitaria: lo stesso Anders racconta di aver militato nel periodo di mezzo tra il primo e il secondo volume di L’uomo è antiquato, come già riportato nella parte introduttiva. Dopo Chernobyl la resistenza del Nostro si volge anche verso la minaccia del nucleare, contro la sua temibile ombra. La lotta per la resistenza si traduce in legittima autodifesa, in quello stato in cui «violenza legittima violenza».133 Infatti, scriverà:
noi pacifisti, nell’interesse della pace futura e della continuazione della vita del genere umano, dichiariamo di essere costretti, a causa della loro [i minacciatori di morte, i detentori della forza] mancanza di scrupoli, a considerare il passaggio dalla protesta alla difesa, dalla difesa al contrattacco, e di combattere veramente, al pari di loro, contro altri uomini.134
Al fine di intimidire «quei nostri contemporanei che effettivamente ci minacciano»,135 per assicurare la nostra sopravvivenza e dei posteri che rischiano di non-essere-stati. Ciò significa che coloro che ora non hanno voce per difendersi, vanno oggi difesi. Ecco il ricorso alla contro-violenza, questa sarà un mezzo, una fase di passaggio per aspirare ad una situazione di «non-violenza»:136 «l’utilizzo della contro-violenza a cui siamo costretti è legittimo, poiché esso mira alla non-violenza, e dunque alla difesa della pace che è messa (non da noi) in pericolo».137
Si è costretti a «salvare l’umanità con atti di violenza».138 Ciò deve essere fatto oggi per un domani, per un dopodomani, di pace. La pace sarà il fine da raggiungere, lo scopo da perseguire. Soltanto così si potrà instaurare una vera "pace perpetua". «È nostro compito prestare aiuto come salvatori, dobbiamo annullare il pericolo mettendo in pericolo gli annientatori».139 Il fine sarà quello di richiamare l’intera umanità all’attenzione, mostrando la nudità della situazione. È urgente l’azione di impaurire il prossimo, che abbiamo delineato nel precedente paragrafo. Essa è fondamentale in quanto azione morale. Vogliamo concludere con la seguente citazione: «nei cimiteri in cui riposeremo nessuno verrà a piangerci. I morti non possono piangere altri morti».140
Ricordiamo che non c’è affatto una vita di riserva, monito che deve farsi strada nelle coscienze, affinché ci sia una pronta presa di posizione. Serve richiamare il lettore all’attuale crisi climatica, ambientale, la crisi di una guerra che minaccia un conflitto nucleare. Anders è sempre attuale.
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B. Brecht, Opere, tr. it. R. Fertonani, Mondadori, Milano 1970. Corsivi miei. ↩︎
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G. Anders, Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, a cura di L. Pizzighella, Mimesis Edizioni, Milano 2008, pp. 51-94. Ad esso rimandiamo per ulteriori informazioni che qui verranno inevitabilmente tralasciate. ↩︎
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Ivi, p. 73. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 86. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 90, corsivo mio. ↩︎
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G. Anders, Gewalt. Ja oder nein. Eine notwendige Diskussion, in Id., Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nota 2. ↩︎
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Ivi, p. 87. ↩︎
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Ivi, p. 78. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem, corsivo mio. ↩︎
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Ivi, pp. 77-78. ↩︎
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Ivi, p. 39. ↩︎
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Noi (esseri umani) siamo nel tessuto di questo Organismo, siamo (soltanto) insieme agli altri esseri. Ci sia concesso qui di aggiungere che bisogna (il prima possibile) scoprire una visione ecocentrica, non soffermandoci esclusivamente sulla nostra specie: la nostra minaccia è diretta a noi e a quei loro che consideriamo da-noi sperati, che sono le altre forme di vita; forme di vita che hanno il nostro identico diritto alla sopravvivenza. ↩︎
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G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt. 2, p. 20. ↩︎
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Ivi, pp. 20-21. ↩︎
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Ivi, p. 21. ↩︎
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G. Anders, L’uomo è antiquato, I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it L. Dallapiccola, Bollati Borringhieri, Torino 2007, p. 245. ↩︎
-
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt. 2, p. 30. ↩︎
-
Ivi, p. 70. ↩︎
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Ivi, p. 61. ↩︎
-
G. Anders, Lo sguardo dalla torre. Favole con le illustrazioni di A. Paul Weber, Mimesis, Milano 2012. ↩︎
-
G. Anders, La catacomba molussica, Lupetti, collana "I rimossi", Milano 2008. ↩︎
-
G. Anders, Brevi scritti sulla fine dell’uomo, con testo originale a fianco, a cura di Devis Colombo, Asterios, Trieste 2016. ↩︎
-
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt. 2, p. 70. ↩︎
-
Ivi, p. 77, corsivi miei. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 17. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt. 2, p. 77. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 4. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato I, cit. alla nt. 19, p. 17. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit. alla nt. 19, p. 223. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, II, cit. alla nt. 31, p. 3. ↩︎
-
Ibidem ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 23. ↩︎
-
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt. 2, p. 77. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, II, cit. alla nt. 31, p. 5 ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 7. ↩︎
-
G. Anders, Brevi scritti sulla fine dell’uomo, cit. alla nt. 25, pp. 22-55. Questo testo è del 1962, collocabile perciò post-Hiroshima e pre-Chernobyl, anche se a quest’ultimo si adatta perfettamente. ↩︎
-
Ivi, p. 23. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 25. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, pp. 29-31. ↩︎
-
Ivi, p. 35. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 41. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 43. ↩︎
-
Ivi, p. 45. ↩︎
-
Ivi, p. 51. ↩︎
-
«Le generazioni future assieme ai posteri». Ivi, p. 47. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 17. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, II, cit. alla nt. 31, p. 3. ↩︎
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Ivi, p. 258. ↩︎
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Queste considerazioni vengono direttamente dal periodo in cui Anders lavora in una fabbrica. Si veda La distruzione del futuro, G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19. ↩︎
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G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 24. Corsivi dell’autore. ↩︎
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Ivi, p. 25. ↩︎
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L’asincronizzazione vissuta dall’umano è perciò doppia: quella tra l’umano stesso e i proprio prodotti tecnici e quella che è interna all’umano tra le sue facoltà. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, II, cit. alla nt. 31, p. 12. ↩︎
-
Ivi, pp. 286-292. ↩︎
-
Rimandiamo a Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt 2, pp. 22-23; e a L’uomo è antiquato, II, cit. alla nt. 31, p. 30. Platonismo industriale. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 31. ↩︎
-
Ivi, p. 63. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, II, cit. alla nt. 31, p. 15. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 33. ↩︎
-
Ivi, p. 89. ↩︎
-
Ivi, p. 93. ↩︎
-
Ivi, p. 52. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, II, cit. alla nt. 31, p. 270. ↩︎
-
Ivi, p. 271. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 60. ↩︎
-
Ivi, p. 160. ↩︎
-
Ivi, p. 161. ↩︎
-
Ivi, p. 192. ↩︎
-
Ivi, p. 194. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 193, corsivo mio. ↩︎
-
Ivi, p. 107. ↩︎
-
Ivi, p. 97. ↩︎
-
Ivi, p. 100. ↩︎
-
Ivi, p. 111. ↩︎
-
Ivi, p. 113. ↩︎
-
Ivi, p. 117. ↩︎
-
Ivi, p. 118. ↩︎
-
Ivi, p. 144. ↩︎
-
Ivi, p. 100. ↩︎
-
Ivi, p. 146. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 157. ↩︎
-
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt. 2, p. 92. ↩︎
-
Ivi, p. 93 ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, II, cit. alla nt. 31, p. 125. ↩︎
-
Ivi, p. 73. ↩︎
-
Ivi, p. 101. ↩︎
-
Ivi, p. 25. ↩︎
-
Rimandiamo all’ontologia economica delineata da Anders nel primo volume di L’uomo è antiquato, cit. alla nt. 19, pp. 169-178 ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 227. ↩︎
-
Ivi, p. 229. ↩︎
-
Ivi, p. 224. ↩︎
-
Ivi, p. 225. ↩︎
-
Ivi, p. 251. ↩︎
-
Ivi, p. 253. ↩︎
-
Ivi, p. 261. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 263. ↩︎
-
Ivi, p. 256. ↩︎
-
Ivi, p. 257. ↩︎
-
Ivi, p. 258. ↩︎
-
Ivi, p. 259. ↩︎
-
Ivi, p. 265. ↩︎
-
Ivi, p. 266. ↩︎
-
Ivi, p. 221. ↩︎
-
Ivi, p. 234. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 235. ↩︎
-
Ivi, pp. 276-286. ↩︎
-
Ivi, p. 239. ↩︎
-
Ivi, p. 241 ↩︎
-
Ivi, p. 250. ↩︎
-
G. Anders, Noi figli di Eichmann. Lettera aperta a Klaus Eichmann, tr. it. A. G. Saluzzi, Giuntina, Firenze 2007, p. 40. ↩︎
-
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt. 2, p. 84. ↩︎
-
G. Anders, L’uomo è antiquato, I, cit. alla nt. 19, p. 287. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 240. ↩︎
-
Ivi, p. 288. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 238 ↩︎
-
G. Anders, Il mondo dopo l’uomo, cit. alla nt. 2, p. 25. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 29. ↩︎
-
Ivi, p. 45. ↩︎
-
Ivi, p. 46. ↩︎
-
Ivi, p. 49. ↩︎
-
Ivi, p. 50. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎