La passione della ragione in Simone Weil. Dalla ragione naturale alla ragione soprannaturale

Simone Weil è una pensatrice che non smette — e non smetterà probabilmente mai — di interrogarci, perché presenta una tale complessità da renderla potenzialmente luogo di infinita ermeneutica. Nel bene e nel male, proprio la possibilità di interpretazioni così radicalmente diverse, ha permesso di mantenere viva l’interrogazione sul pensiero della Weil, e di ereditarne il «deposito d’oro puro»1 contenuto nella sua opera.

Tralasciando le interpretazioni palesemente interessate o settarie, sicuramente più interessante è la possibilità di leggere il percorso filosofico di Weil privilegiandone, di volta in volta, un aspetto o una problematica in particolare, senza tuttavia tradirne il senso complessivo, che tende fondamentalmente ad un centro unitario, una Verità che trascendendo il mondo, lo giustifica e lo sostiene.

Uno dei possibili fili conduttori, probabilmente tra i più importanti, è sicuramente il problema della ragione, che è comprensibile in maniera più completa come una vera e propria passione della ragione.

La verità più importante:

Dei misteri della fede si può fare ed è stato fatto l’uso che della dialettica marxista ha fatto Lenin (in ambedue i casi si tratta dell’eliminazione della contraddizione come criterio logico dell’errore), asservire totalmente gli spiriti mediante un’abile manipolazione dell’anatema. Gli eletti che provano ripugnanza sia per l rivolta sia per la servilità di spirito ne fanno dei koan mediante la contemplazione. Ma il loro segreto è altrove. Il fatto è che ci sono due ragioni.

C’è una ragione soprannaturale. È la conoscenza, gnosi, γνωσις, di cui Cristo è la chiave, la conoscenza della Verità il cui soffio è inviato dal Padre.

Ciò che è contraddittorio per la ragione naturale non lo è per quella soprannaturale, ma questa dispone solo del linguaggio dell’altra.

Tuttavia la logica della ragione soprannaturale è più rigorosa di quella naturale.2

Questo brano, piuttosto tardo, dei Quaderni è solo una delle numerose prove della straordinaria continuità nell’inesausta ricerca di Weil sui possibili significati e valori della ragione.

Questa passione della ragione è il fil rouge che cercherò di seguire perché penso che sia in grado di ricucire in un unico spettacolare tappeto tutta la produzione filosofica weiliana, e forse anche la sua vicenda umana così interessante e ricca di aspetti contraddittori.

La ragione da sempre occupa un posto privilegiato nella vicenda della filosofa e la spinge ad avventurarsi, con fiducia totale, alla ricerca della percezione perfetta, ritenuta l’unica via per giungere alla verità.

Di che tipo di ragione può servirsi l’uomo? Solo della propria ragione, ed è proprio grazie a questa che egli è in grado di percepire il mondo nel quale è calato. I «maestri della percezione» di Simone Weil sono Alain,3 suo professore del liceo, e, anche se indirettamente, Jules Lagneau,4 a sua volta insegnante di Alain.

Per entrambi questi filosofi, il compito della filosofia è fondamentalmente pratico, serve ad aiutare l’uomo a comprendere il mondo, in modo che abbia strumenti sempre più adeguati per vivere meglio; la filosofia ha sostanzialmente una finalità che potremmo definire morale. La preoccupazione metafisica è ridotta al minimo — persiste comunque in Lagneau, più che in Alain — a favore di una preoccupazione più urgente, rappresentata dalla vita umana.

Ogni atto filosofico è un atto percettivo personale, di un unico essere umano che si pone di fronte al mondo e cerca di scioglierne il senso; il mezzo indispensabile di ogni contatto e comprensione è evidentemente il corpo, perché solo attraverso questo l’essere umano percepisce il mondo.5 Fondamentale per il filosofo, è allora capire cosa può fare un corpo.

Per il solo fatto che abbiamo un corpo, il mondo è ordinato per questo corpo; esso è disposto in rapporto alle reazioni del corpo.6

Quando si conosce, si astrae e si forma un concetto, lo si fa partendo dal mondo; la metafisica non può e non deve mai dimenticare questa genesi «sporca», questa origine sensibile e corporea di ogni idea. La mente, in realtà, altro non è che la forma del corpo, ma nel senso più umile cioè che non si può mai prescinderne, se non vuole cadere in vuote assurdità e ragionamenti immaginari. Alain insegna a Simone Weil che non si può mai prescindere dai fenomeni e per farlo è necessario amare il mondo.

Amare ciò che esiste. Esistono delle cose che bisogna accettare senza comprenderle; in questo senso, niente vive senza religione. L’Universo è un fatto, bisogna che la ragione si inclini a questo, bisogna rassegnarsi a dormire prima di aver contato le stelle. […]

Chi ha compreso la Necessità non chiede spiegazioni sull’Universo. Non chiede il perché di questa pioggia, di questa peste, di questa morte. Poiché sa che non c’è risposta a queste risposte.

Ecco, quello che possiamo dire è questo, e non è poco, esistere è qualcosa, e questo distrugge tutte le ragioni.

Potrei credere che il vero sentimento religioso consiste nell’amare ciò che esiste. Ma ciò che esiste, merita di essere amato? Assolutamente no. Bisogna amare il mondo senza giudicarlo, bisogna piegarsi di fronte all’esistenza. Non intendo dire che bisogna uccidere la propria ragione e quasi annegarsi come dentro un lago, altrimenti non ci sarebbe più nulla da piegare, la vita non è così semplice. […] Nessuna ragione può darci l’esistenza, nessuna esistenza può spiegarci le sue ragioni.7

Certamente ciò che la filosofia deve aiutarci a comprendere è che l’esistenza non si esaurisce con la ragione, anche se necessariamente si ha bisogno di questa per districarci all’interno dell’esperienza. La comprensione del mondo, tuttavia, non potrà mai essere totale, né tantomeno definitiva: si tratta, piuttosto, sempre di un duro lavoro di approssimazione.

Il lavoro filosofico di Weil, fin da giovanissima età, si struttura organicamente su queste premesse alainiane e, in un certo senso, come vedremo, non le abbandona mai. Sicuramente la ricerca della ragione, intesa come ricerca inesausta della giusta percezione non verrà mai meno; in maniera quasi ossessiva, Weil continua a ritornare al nodo problematico della profonda interdipendenza di mente e corpo, di carne e ragione coimplicate nell’atto percettivo, ma, da subito, con una sfumatura decisamente diversa, più radicale.8

La critica tende a sottolineare come determinante l’influenza della filosofia di Cartesio nella formazione di Weil: sicuramente questa occupa una ruolo fondamentale, ma — come ricorda anche la biografa della filosofa, Simone Petrément9 — lo è anche la riflessione su Spinoza, soprattutto la lettura che di Spinoza dava il suo maestro Alain.10

La ricerca della percezione perfetta che Weil persegue tiene molto conto della filosofia spinoziana e del parallelismo, oltre che della scala della conoscenza. Si può dire sicuramente — come affermava Alain — che anche per lei lo scopo della ricerca è sostanzialmente cartesiano, ma tuttavia la forma è assolutamente spinoziana, proprio per la sua pretesa di far pesare ugualmente sia la materia che la ragione.

Il cammino della ragione naturale parte dalla constatazione che il mondo esiste nella sua irriducibilità, nella sua necessità. Questa prima constatazione basilare ci permette di acquisire uno strumento indispensabile per distinguere la ragione dall’immaginazione, la necessità.

Ciò che nella percezione è reale e la distingue dal sogno, non sono le sensazioni, ma la necessità che vi è presente.11

L’immaginazione è il peggior errore e la tentazione più subdola per la ragione umana, poiché tende a sostituirla e vi riesce spesso in maniera così perfetta, che solo a stento la si riesce a distinguere dal reale e, quindi, a correggerla. L’immaginazione, tuttavia, non è qualcosa di raro ma è il controaltare della ragione naturale perfettamente esercitata e, per questo motivo, per giungere alla perfetta percezione si deve passare necessariamente attraverso l’eliminazione consapevole dei frutti falsi dell’immaginazione.

Già nei propos, precocissimi componimenti scolastici scritti nella classe di Alain, Weil ha già chiaramente individuato il suo interesse.

Quando vediamo il mondo, l’immagine che ne ricaviamo non riflette solo lui, ma anche noi stessi. […] Il sogno proietta davanti a noi, come una specie di realtà esteriore, ciò che c’è di più intimo, ciò che c’è di più profondo e che, quando siamo svegli, si scontra con la dura superficie delle cose: è il godimento ricercato dai fumatori di oppio. Da questo matrimonio tra il mondo e noi ha origine la percezione. Ma come? Consideriamo nuovamente l’esempio del miraggio. Abbiamo due realtà una di fronte all’altra, dal cui incontro si formerà il miraggio: da una parte il viaggiatore assetato, dall’altra, ciò che desidera, cioè l’acqua. Come tutti quelli che desiderano, il suo corpo cerca di alleviare le sue pene compiendo gli stessi movimenti che farebbe se l’oggetto del suo desiderio fosse presente; assumerà lo stesso atteggiamento che se vedesse davanti a sé una bella distesa di acqua chiara. Dopo apparirà l’immagine che pensiamo essere normalmente la causa di questo atteggiamento, ma che ne è, questa volta, l’effetto. Questo è ciò che chiamiamo immaginazione. Ma questa immaginazione senza fondamento nella realtà gira a vuoto; essa riflette il desiderio, ma lo riflette come due specchi che si rinviano l’uno l’altro la stessa immagine, questa è una consolazione vana, vuota di contenuto. […] Noi non abbiamo coscienza delle cose, ma del nostro atteggiamento di fronte ad esse. Ma l’immaginazione supplisce a ciò che è per forza insufficiente del mondo esterno, dato che è esterno, e realizza così un compromesso che chiamiamo percezione.12

Il lavoro della ragione non è solo un corpo a corpo con il mondo, ma con noi stessi in rapporto al mondo, con la nostra tendenza a lasciarci andare facilmente al gioco a vuoto dell’immaginazione. La pigrizia, la comodità, la mancanza di un costante impegno ci spingono nelle braccia del sogno consolatorio dell’immaginazione.

Questa breve analisi weiliana del 1925 — pur essendo in maniera evidente molto influenzata da Alain — focalizza alcuni elementi che saranno poi tipici anche della speculazione più matura. Prima di tutto, Weil riconduce l’errore conoscitivo alla natura umana che tende a rendere ciò che è altro quanto più possibile simile a sé; l’alterità viene rifiutata dall’immaginazione che cerca di annullarla, sovrapponendole i desideri e i bisogni del soggetto. L’immaginazione colma il vuoto dell’aspettativa umana, ne anticipa e completa il desiderio.

Proprio questa caratteristica capacità «consolatoria», in realtà, rende l’immaginazione particolarmente pericolosa e insidiosa, non solo nell’ambito della ragione naturale, ma soprattutto in quello della ragione soprannaturale.

Quando possiamo essere sicuri di conoscere realmente il mondo?

Abbiamo visto come l’unico elemento che può guidarci al contatto reale con il mondo è sempre e solo la necessità, cioè «la dura superficie delle cose». La necessità è la percezione chiara e distinta dell’alterità del mondo: «La necessità è il criterio supremo in ogni logica. Soltanto la necessità mette lo spirito a contatto con la verità».13

La conoscenza della necessità ci porta alla constatazione dell’esistenza di contraddittori assolutamente irrisolvibili. Il mondo resiste ai nostri sforzi di assimilazione, ed è proprio questa resistenza a costituire un muro assolutamente invalicabile ad ogni pretesa idealistica di riassorbimento dell’alterità. Weil riconosce come esito maturo della ricerca della ragione naturale i segni della ragione soprannaturale, e ritrova proprio nella contemplazione di questi contraddittori la verità dell’insegnamento non solo di Platone — interpretato come maestro della mistica occidentale — ma, in generale, della filosofia.14

La ragione naturale lascia, a questo punto, il posto alla ragione soprannaturale e la chiave del mondo non è più nel mondo.

Quando una contraddizione è un vicolo cieco che è assolutamente impossibile aggirare, se non con una menzogna, allora sappiamo che in realtà è una porta. Bisogna fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile. L’umiltà è la virtù più essenziale nella ricerca della verità.15

La ragione, la percezione, l’immaginazione con i suoi inganni, tutte queste sono problematiche filosofiche che rendono immediatamente evidente l’influenza di Cartesio e Spinoza nella ricerca weiliana; ma, per la filosofa, sono inscritte all’interno di una ricerca complessiva che le rende da sempre oltre il piano della semplice materialità, in una dimensione totalizzante di verità.

L’attesa (attente) umile e l’attenzione nell’esercizio della percezione sono le uniche vere armi della ragione; esse permettono di non staccarsi mai dal mondo vero e di accogliere, in una serena passività, le molteplici letture possibili della realtà. Dato poi che la verità si ritrova anche nella realtà sotto forma di simboli, per Weil, l’uomo può — anzi deve — tentare di leggere quanti più simboli gli è possibile. Solo la molteplicità potenzialmente infinita delle letture dei simboli, infatti, è in grado di farci ritrovare la strada del vero.

Il concetto di attenzione assume una funzione estremamente importante nella filosofia weiliana, che deriva in un certo senso — come il concetto di attente — dall’atteggiamento, tipicamente alainiano, di una filosofia armata di un solido razionalismo volontaristico che vede nello sforzo della volontà la massima espressione della ragione; l’effort e il pensiero sono legati, tanto che quest’ultimo è comprensibile come un lavoro, in cui le idee sono dei semplici utensili. L’attenzione ci permette di pervenire autenticamente alla lettura del reale; ma se in Alain si trattava di un lavoro della volontà per rimanere svegli e ragionare, in Simone Weil anche questa nozione viene trasformata dal passaggio al piano soprannaturale, da attenzione della ragione diviene attesa della ragione. Per Alain, quindi, questo significa pensare:

Pensare Pensare è pesare tutto ciò che arriva allo spirito, sospendere il proprio giudizio, controllarsi e non compiacersi. Pensare è passare da un’idea a tutto ciò che vi si oppone, in modo da accordare tutti i pensieri al pensiero attuale. Perciò consiste in un rifiuto del pensiero naturale e, in fondo, ad un rifiuto della natura, che in effetti non è giudice dei pensieri. Pensare, perciò, è giudicare che non tutto va bene così come ci si presenta: si tratta di un lungo lavoro e di una pace preliminare.16

Pensare è un lavoro quotidiano, che instancabilmente trapassa nella penna e si scrive. Attenzione però, ogni idea è buona e vera solo nel momento in cui la usiamo, guai a noi a trasformarla in un idolo.

Scrive Alain:

Un’idea non può servire due volte. Per quanto sia brillante, bisogna poi applicarla, cioè deformarla, cambiarla, avvicinarla e conformarla ad una cosa nuova. […] Dato che l’oggetto ci presenta sempre qualcosa di nuovo da capire che supera la nostra previsione, si capisce che il più sapiente così come il meno sapiente sono obbligati a pensare seriamente in ogni occasione e a conficcare l’idea come un utensile per investigare. Applicare è inventare e l’idea non è vera che in un singolo contesto, al di fuori è falsa.17

Per quanto Alain sottolinei questa impossibilità di pervenire ad una concezione metafisica stabile, così la Weil, pur assumendo su di sé questa impossibilità, ne sposta totalmente la motivazione. La centralità che l’esercizio dell’attenzione assume nel pensiero weiliano rende evidente il carattere eminentemente pratico del lavoro filosofico, che si può intendere come pratica di vita filosofica. L’umiltà personale che l’esercizio del pensiero sempre richiede per evitare di far diventare le idee degli idoli vuoti e falsi, diventa il compito di tutta l’esistenza della filosofa, Questo insegnamento alainiano, teso alla sperimentazione della fatica del pensare, Simone Weil non lo dimenticherà mai, anche se da subito la ricerca si indirizza decisamente in direzione diversa, alla ricerca di una spiegazione metafisica altra dalla ragione umana.

Per Weil, il lavoro della ragione è solo preliminare, in un certo senso, ad un completamento mistico: quando la ragione penetra con attenzione la realtà impara a leggerla, e perciò non solo la interpreta in modo unitario, ma riesce con la sua azione ad essere così perfetta da giungere alla non-lettura, una lettura del mondo priva di violenza, una acquisizione della verità priva di intenzionalità, che lascia essere le cose nella loro verità. La non-lettura è il risultato dell’attente.

L’uso (metodico o no) di diverse forme di follia nell’ascesi mentale e nella mistica corrisponde all’uso purificatore dello scetticismo (idealismo assoluto, solipsismo) sul piano filosofico.

Si tratta di sradicare le letture, di cambiarle, per giungere alla non-lettura.

Riconoscere, provare, sperimentare il ruolo, il potere, la parte dell’immaginazione nella percezione.

È la stessa cosa (ma a un grado molto più spinto) che la meditazione sulle illusioni dei sensi preconizzata da Chartier e Lagneau.18

La non-lettura è qualcosa di molto simile alla conoscenza di terzo tipo spinoziana: l’esercizio è sempre lo stesso e conduce all’unione di ragione naturale e soprannaturale. Nella pratica costante della ricerca ardente e appassionata della ragione, si nasconde la strada per la verità; su questa strada si incontrano con uguale efficacia, le meditazioni percettive di Lagneau e Alain, così come le filosofie del mondo orientale e la ricerca dello scienziato.

Solo attraverso l’attesa dell’attenzione, nella lettura che diviene non-lettura, la ragione può spingersi oltre se stessa.

Lettura. Non ci sono date (in un certo senso) che sensazioni, e qualsiasi cosa facciamo non possiamo mai, mai pensare (in un certo senso) altro che sensazioni. Ma non possiamo mai pensare le sensazioni; noi leggiamo attraverso esse. Che cosa leggiamo? Non una cosa qualsiasi, a nostro piacimento. Ma neppure qualcosa che non dipende in alcun modo da noi.

Il mondo è un testo a più significati, e si passa da un significato a un altro mediante un lavoro. Un lavoro a cui il corpo prende sempre parte, come quando si impara l’alfabeto di una lingua straniera, tale alfabeto deve penetrare nella mano a forza di tracciare le lettere.

Al di fuori di questo, ogni mutamento nel modo di pensare è illusorio.19

L’attenzione diventa preghiera, attesa che cambia totalmente la qualità di tutto, anche l’immaginazione, a questo punto, infatti, le immagini che siamo in grado di cogliere non sono più false ma sono tracce di verità.20 Le immagini che persistono sono vere proprio perché assolutamente contraddittorie; la contraddittorietà esclude la possibilità che siano frutto dell’imagination combleuse.

È necessario far uso della sofferenza in quanto contraddizione provata. Quest’uso la rende mediatrice, e quindi redentrice. È necessario usarne in quanto smembramento. Il bello è l’apparenza manifesta del reale. Il reale è essenzialmente contraddizione. Perché il reale è l’ostacolo, e l’ostacolo di un essere pensante è la contraddizione. In matematica il bello risiede nella contraddizione. L’incommensurabilità, , è stata il primo risplendere del bello in matematica.

Il reale nella percezione non è lo sforzo (Maine de Biran) ma la contraddizione provata mediante il lavoro.

La contraddizione è la chiave della verità, o almeno, ne è la porta. Tra le molte contraddizioni sperimentabili, sicuramente il malheur e la bellezza21 sono gli esempi più chiari della lacerazione che provocano all’essere umano; effettivamente, queste due importanti cifre simboliche dell’amore di Dio, funzionano immediatamente sull’uomo proprio perché ne arrestano l’azione e lo costringono a riconoscere la realtà e, in un certo senso, a farla essere così come è. Sicuramente agiscono in modo diverso, la bellezza tramite l’attrazione

Il bello è un’attrazione carnale che tiene a distanza e implica una rinuncia. Compresa la rinuncia più intima, quella all’immaginazione. Si vuol mangiare tutti gli altri oggetti di desiderio. Il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Desideriamo che esso sia.22

Il malheur è invece una sofferenza estrema e reale che non si può annullare neppure con una comprensione adeguata ma che, anzi, aumenta tanto più la sveliamo dall’immaginazione della souffrance. Il malheur rappresenta la sventura ontologica dell’essere umano, dell’esistente che in quanto creatura è separato da Dio in maniera irrimediabile. Il malheur è segno divino perché esprime tutto il paradosso dell’esistenza umana; Dio crea il mondo per amore ma, per farlo, deve ritirarsi in se stesso generando una distanza infinita e incolmabile tra sé e il creato: Dio si condanna perciò al silenzio e condanna il mondo al malheur.

Solo così Weil riesce a giustificare la presenza del male in questo mondo che, tuttavia, è bello «come il dono di un innamorato».

La contraddizione è il nostro cammino verso Dio perché noi siamo creature e la creazione stessa è contraddizione. É contraddittorio che Dio, che è infinito, che è tutto, a cui non manca nulla, faccia qualcosa che è fuori di lui, che non è lui, pur procedendo da lui. […]

La contraddizione suprema è la contraddizione creatore-creatura, e il Cristo è l’unione di questi contraddittori. Essa giunge al suo punto estremo quando la creatura è ridotta alla quantità stessa di materia che la costituisce, quando è privata delle risorse esterne e dell’energia supplementare, poi anche dell’energia vegetativa, nella pienezza dell’abbandono a cui segue la morte lenta.

[…]

Nel Cristo, oltre questa contraddizione, vi è la più grande contraddizione possibile sul piano della creatura, quella cioè tra la pienezza della virtù e l’apparenza dell’ultimo dei criminali.

Nelle fiabe, i principi sotto l’apparenza di schiavi.23

Le filosofie orientali e le fiabe di ogni provenienza possono insegnare molto sulle modalità di conservare la contraddizione estrema.

L’intelligenza discorsiva si distrugge mediante la contemplazione delle contraddizioni chiare e inevitabili. Koan. Misteri. La volontà si distrugge mediante l’adempimento di compiti impossibili. Prove sovrumane delle fiabe.

[…]

Si può lasciare atrofizzare la volontà e l’intelligenza discorsiva per mancanza di esercizio. Si è allora al di qua. Tamas. Oppure le si può esercitare in modo da svilupparle. Orgoglio. Rajas. Oppure le si può esercitare in modo da usurarle. Sattva. Quando esse sono completamente annientate, si è al di là dei guna.24

L’interesse di Simone Weil per le filosofie orientali25 nasce proprio da una ricerca di vie «alternative» alla ragione concettuale e discorsiva tipica della tradizione occidentale, che non la soddisfa e che si rivela totalmente insufficiente a spiegare ciò che sistematicamente supera la cornice. Il concetto fallisce nel suo tentativo di spiegare «la cosa in sè», eterna presenza assente dal mondo.

L’utilizzo delle filosofie orientali da parte di Weil è speculare a quello delle fiabe: la filosofa le utilizza per attingervi un linguaggio ricco di immagini che prescindono dalla pura logica razionale, che è di per sè basata sulla frattura insanabile tra i sensi e la ragione. Questo nuovo linguaggio rende capace un discorso che si pone su un diverso livello di comprensione, quello della continuità. La ripresa dei koan attesta chiaramente la ricerca di un nuovo strumento speculativo che sia in grado di conservare i contraddittori e di scardinare realmente la ragione mantenendola aperta ai molteplici piani del reale.

La mia «meditazione ultra-spinoziana» negli anni di cagne; fissare intensamente un oggetto con il pensiero: che cos’è? senza tener conto di alcun altro oggetto, senza rapporto con niente altro, per ore. Era un koan.26

Come si capisce da questo appunto — come da molti altri — per Simone Weil, si passa senza soluzione di continuità dalla percezione del cubo — tipico esercizio di Alain e Lagneau — alla percezione del trascendente, in un processo di inveramento della prospettiva spinoziana che molto rivela dell’influenza determinante del grande filosofo dell’Etica sulla formazione weiliana.

L’assunzione di termini orientali nasce dal bisogno di trovare parole che sappiano esprimere ciò che non solo è indicibile nella tradizione occidentale, ma è assolutamente impensabile, perché contrario al principio di non contraddizione.

Weil crea così anche un nuovo linguaggio per la sua ricerca e in questo consiste il suo misticismo. Quello che voglio dire è che, anche senza richiamarsi l’episodio mistico27 che ha cambiato l’esistenza di Simone Weil, siamo autorizzati a parlare di misticismo weiliano proprio per questa sua esigenza di creare un nuovo linguaggio.28

L’essenziale non è perciò un corpo di dottrine, (esso sarà l’effetto di queste pratiche e soprattutto il prodotto delle interpretazioni a posteriori), ma la fondazione di un campo in cui si possano dispiegare specifiche procedure: uno spazio e dei dispositivi. […] La reinterpretazione della tradizione ha come caratteristica un insieme di processi che permettono di trattare il linguaggio in modo diverso. Tutto il linguaggio contemporaneo, non solo la parte di esso delimitata da un sapere teologico o da un corpus patristico o dalle Scritture. Sono delle pratiche a costituire la base dell’invenzione di un corpus di scritture mistiche.29

Questo linguaggio è nuovo e vecchio nella sua pretesa di unità: «La mistica è l’Anti-Babele, ricerca di un parlare comune dopo quella frattura, invenzione di una ‘lingua degli angeli’perché quella degli uomini si dissemina.» (de Certeau, p. 68).

Per queste due caratteristiche, tale lingua è un vero e proprio atto di traduzione:

Il parlare mistico è fondamentalmente «traduttore»: un tramite. Compone un tutto operando incessantemente su parole straniere. Da un materiale variegato, organizza una suite orchestrale di discordanze, e ache di travestimenti e citazioni lessicali. Questo stile di scrittura è un esercizio permanente di traslazione, quindi preferisce i modi d’impiego alle definizioni acquisite. […] Gli oscuri eroi del linguaggio mistico sono anzitutto quelli che, geniali […] o meno, perseguono unicamente il compito di intendere e far intendere parlate diverse. Sono traduttori che «perdono la parola all’estero». Hanno solo quella dell’altro.30

La lingua mistica è continua traduzione di molti linguaggi in quello unico della «stanza nuziale»,31 a cui spesso accenna Weil, la lingua cioè del silenzio, pieno di senso dell’Assente dal mondo.

In questa ricerca mistica che implica un rinnovamento linguistico, è chiaro quanto sia profondo il coinvolgimento del corpo:

Il copista muta il suo corpo in parola dell’altro, imita e incarna il testo in una liturgia della riproduzione; simultaneamente egli dà corpo al verbo («verbum caro factum est») e fa del verbo il proprio corpo («hoc est corpus meum»), in un processo di assimilazione che cancella le differenze per dar luogo al sacramento della copia. Il traduttore […] è operatore di differenziazioni. Come l’etnologo, mette in scena una regione straniera, anche se lo fa per renderla appropriata, lasciando che turbi il suo linguaggio. Fabbrica dell’altro, ma in un campo che non è prevalentemente il suo e dove non ha alcun diritto d’autore. Produce senza luogo che gli appartenga, nello spazio intermedio, lungo la linea dove, incontrandosi, più lingue si arrotolano su se stesse.32

L’esperienza mistica, infatti, ha spesso l’andatura di un poema che si «sente», nel quale si entra come in una danza; il corpo è «informato» (riceve la forma) di quanto gli succede, molto prima che l’intelligenza ne abbia conoscenza.33 L’esperienza mistica è una riorganizzazione del sapere complessivo che tende, a partire da luoghi inaccessibili, verso spazi inesplorati. Se il Verbo si è fatto carne questo significa che, nonostante tutto Dio, ha lasciato traccia di sé (come Cenerentola), altrimenti la ragione umana sarebbe inutile e tutto il nostro doloroso dressage sarebbe una totale perdita di tempo.

Come è possibile raccontare queste tracce? solo grazie ad una nuova lingua, nella quale il Verbo possa ancora tornare a farsi carne e restituire vita alle immagini.

All’interno di questo contesto, è necessario ricordare che proprio la distorsione del significato che i termini orientali subiscono all’interno della speculazione weiliana è indice della loro importanza. Simone Weil non si rapporta mai ai testi come una filologa, ma tende piuttosto ad assimilarli, a «digerirli»; per questo motivo, tanto più un termine è «distorto», tanto più è importante per la filosofa.34

Simone Weil non ha svolto uno studio didattico e sistematico del pensiero indiano; lei ha trovato, soprattutto nelle Upanisad vediche e nella Bhagavad Gita, una risposta straordinaria alle sue preoccupazioni personali più profonde.35

Come i koan, così le fiabe sono mezzi estremamente efficaci per svuotare l’io dall’assurda pretesa definitoria del sapere, del com-prendere tutto; le fiabe, secondo Weil, presentano immagini ed esempi di esperienze di incontro e di ricerca di Dio, raccontano come creare vuoto là dove c’era il soggetto, come lasciar essere le cose ed esaurirne il senso.

Le contraddizioni che permettono di giungere alla ragione soprannaturale sono le «prove sovrumane delle fiabe». Le favole, infatti, per Weil ci fanno vedere non solo come è possibile l’impossibile, ma focalizzano l nostra attenzione sui segni che Dio ha lasciato nel mondo.

È il del Simposio, la scarpetta di vaio di Cenerentola, l’anello della principessa nella fiaba del calzolaio. Dio, quando è venuto a trovarci ed è sparito, ci ha lasciato qualcosa di se stesso. Altrimenti la ricerca sarebbe vana.36

Le immagini agiscono perciò come dei ponti, dei metaxù, verso la verità proprio perché riescono a far vedere, a far percepire attraverso la contraddittorietà che le caratterizza il fondo non concettualizzabile della realtà. Ogni tentativo di comprensione o interpretazione intellettuale delle immagini è improprio, perché se si vuole conservarne la verità, è impossibile esaurire il significato di quel contenuto che non spiega nulla di sé ma contiene in sé qualcosa di immateriale e trascendente.

La verità non si trova nelle ristrettezze del concetto, ma nella moltiplicazione ridondante della possibilità dell’immagine: così le immagini delle fiabe aiutano Simone Weil a purificare la sua attenzione. Le immagini mantengono in sé uno «spessore» che conserva e ripropone tutte le varie letture, le diverse sfumature interpretative; l’immagine è multiforme e multisenso e non esiste, in realtà, una strada univoca per interpretarla. Perciò, l’immagine è spiegabile solo attraverso un’altra immagine, e così all’infinito, in una catena che scardina il senso e lo amplifica all’universo.37

Nonostante il fatto che la concezione weiliana di Dio non implichi una presenza reale nel creato, proprio grazie al riconoscimento delle vere immagini — dei simboli — Weil non rinuncia ad una fiducia «cartesiana» nella razionalità del comportamento divino: nessuna richiesta, se disinteressata e costante, può rimanere inascoltata.

L’importante è che se si persevera senza orgoglio e malgrado le cadute, la volontà a poco a poco si usura e finisce con lo sparire. Quando è sparita, si è al di là dell volontà, nell’obbedienza.

Si può lasciare atrofizzare la volontà e l’intelligenza discorsiva per mancanza di esercizio. Si è allora al di qua. Tamas. Oppure la si può esercitare in modo da svilupparle. Orgoglio. Rajas. Oppure le si può esercitare in modo da usurarle. Sattva. Quando esse sono completamente annientate, si è al di là dei guna.38

La ragione umana non passa mai in secondo piano, non si tratta mai di semplice attesa, ma Weil è convinta di una sostanziale coincidenza tra la ricerca della ragione e l’avvicinamento alla verità. Non si può giungere alla verità se non attraverso la ragione, cioè grazie alla sua completa sparizione attraverso l’uso. Ogni scorciatoia, ogni rinuncia crea falsità.

Non è possibile trovare vie alternative, perché ogni tentativo di dimenticare la ragione non la esaurirebbe realmente, non sarebbe un vero tentativo di mantenere l’insolubilità dei contraddittori, ma si risolverebbe in una falsa sintesi.

Quando la ragione diviene soprannaturale, anche il linguaggio subisce però una trasformazione radicale: diviene silenzio. La vera lingua di Dio è il silenzio, come ci è testimoniato da mille fiabe e racconti.

Il silenzio su cui insiste Weil è il solo linguaggio divino accessibile all’uomo, la lingua segreta che solo i mistici conoscono e che riduce ogni discorso di quaggiù a puro rumore. Il silenzio è ciò che accomuna tutte le esperienze realmente mistiche, anche se viene poi riempito con parole, sempre e comunque insufficienti.

[…] Una sorta di convenzione divina, un patto di Dio con se stesso, condanna quaggiù la verità al silenzio.

Il silenzio del Cristo colpito e schernito è il duplice silenzio quaggiù della verità e della sventura.39

Quando si tratta di parlare di Dio, anche la parola più alta non è che menzogna ed errore. L’unico modo per rendere le parole un veicolo di verità

Quando si parla del potere delle parole si tratta sempre di un potere d’illusione e di errore. Ma sotto l’effetto di una disposizione provvidenziale, esistono certe parole che, se ne viene fatto un buon uso, hanno in se stesse la virtù di illuminare e di innalzare verso il bene. Sono le parole a cui corrisponde una perfezione assoluta e per noi inafferrabile. La virtù d’illuminazione e di trasmissione verso l’alto risiede in queste stesse parole, in queste parole come tali, non in qualche concetto. Perchè farne un buon uso significa prima di tutto non far loro corrispondere alcun concetto. Ciò che esprimono è inconcepibile.

Dio e verità sono tra queste parole. Pure giustizia, amore, bene.

Tali parole sono pericolose da usare. Il loro uso è un’ordalia. Perchè ne venga fatto un uso legittimo, occorre da un lato non rinchiuderle in alcuna concezione umana, e dall’altro collegarle a concetti e azioni direttamente ed esclusivamente ispirati dalla loro luce. Se no, sono riconosciute subito come menzogne…40

Ciò che Weil scrive nel saggio La personne et le sacrée uno degli ultimi, conferma tutti i ragionamenti che percorrono il suo pensiero, come testimoniato dai Quaderni: il silenzio del giusto, quello di Prometeo o della sorella dei cigni nella fiaba dei Grimm, di tutte le immagini del Cristo che affollano la scrittura weiliana, realizzano immediatamente la dimensione dell’eternità nell’istante, tolgono ogni pretesa di verità ai goffi tentativi dell’uomo di far valere la potenza invece dell’amore.

Il linguaggio che sembra essere il nostro grande alleato, si rivela in realtà la più angusta prigione, se si limita alla pretesa concettuale:

Il linguaggio enuncia delle relazioni. Ma ne enuncia poche, perchè si svolge nel tempo. […]

Anche considerando le cose nel modo migliore, una mente racchiusa nel linguaggio è in prigione. Il suo limite è la quantità di relazioni che le parole possono rendere presenti contemporaneamente alla sua mente. Resta ignorante dei pensieri che implicano la combinazione di un maggior numero di relazioni; questi pensieri sono fuori del linguaggio, non formulabili, benchè siano perfettamente rigorosi e chiari e benchè ciascuna delle relazioni che li compone sia esprimibile con parole perfettamente precise. Così la mente si muove in uno spazio chiuso di verità parziale, che del resto può essere più o meno grande, senza poter mai gettare uno sguardo su ciò che è fuori.41

Chi è fiero della propria capacità di conoscere è come un detenuto fiero della propria cella spaziosa, la ragione naturale, l’unico strumento dell’uomo per avvicinarsi alla verità è ciò che, in realtà, deve essere abbandonato nel momento in cui si deve entrare nella dimensione soprannaturale. Solo una condizione di totale ed estrema umiliazione, di annientamento della pretesa esaustività della mente discorsiva, è la condizione indispensabile per entrare nella Verità. In questo stato, ogni differenza di intelligenza o status si annulla, ciò che conta è solo la capacità di guardare in faccia il malheur senza coprirsi gli occhi con la propria carne.42

La verità che Simone Weil non è mai definibile con parole umane, neppure quando si tratta di riconoscerne le tracce nel mondo,43 è tuttavia avvicinabile attraverso le images du Christ, che per la filosofa costituiscono la verità nascosta del mito, delle tragedie e del folklore di ogni tempo e che sono immagini di verità solo perché frammenti assolutamente parziali. Sono i frammenti della lingua di Babele.

L’immagine, a questo punto ha preso il posto del dire concettuale; è solo l’immagine che ci permette di raccontare la fabula mystica. La raccolta di simboli come tracce di Dio coincide per la filosofa con l’ascolto del silenzio di Dio, con la lettura dei suoi segni.

In perfetta continuità con una concezione del divino come assente,44 come necessariamente escluso dall’esistenza, Weil propone come cammino per guadagnare la Verità, la decreazione. Tutto questo è conseguenza «logica» del fatto che la ragione conduce alla percezione perfetta dell’impossibilità dei contraddittori, alla visione dell’irrisolvibilità dei compiti.

Il metodo proprio della filosofia consiste nel concepire in modo chiaro i problemi insolubili nella loro insolubilità, quindi nel contemplarli senz’altro, fissamente, instancabilmente, per anni, senza nessuna speranza, nell’attesa.

Se ci atteniamo a questo criterio, ci sono pochi filosofi. Pochi è dire già tanto.

Il passaggio al trascendente avviene quando le facoltà umane — intelligenza, volontà, amore umano — cozzano contro un limite, e l’essere umano resta sulla soglia, al di là della quale non può fare un passo, e questo senza lasciarsene distogliere, senza sapere ciò che desidera e teso nell’attesa.45

Per Weil, Dio si ritira in sé per far essere il mondo, ma, in altro senso, Egli si lacera nel farci esistere: questa contraddittoria definizione probabilmente ha, anch’essa, la funzione di mantenere sempre «sveglia» la ragione nella sua ricerca, per riaffermare ancora una volta l’incommensurabilità di divino e umano.

L’unica soluzione per l’uomo che vuole giungere alla verità, rimane la decreazione, ossia una sorta di imitazione al contrario dell’azione fondativa di Dio, che conduce l’uomo a consumare la propria singolarità senza violenza o tristezza.

In fin dei conti, Cristo, Giobbe, Prometeo, sono anche simboli di questa verità, cioè della necessità di una decreazione attraverso il malheur, senza parole, senza possibilità di spiegare, perché la lingua è un’altra, è già quella di Dio.

Colui che parla il linguaggio di Dio, cioè il silenzio, e ragiona secondo l’ordine soprannaturale, conosce già il proprio ruolo e lo accetta, ma agli occhi del mondo è un folle. «È al di là di ciò che gli uomini chiamano intelligenza, dove comincia la saggezza».46

La follia d’amore, che ritroviamo in molte delle figure di riferimento della scrittura weiliana — Prometeo, Cristo, Antigone -, è quella che anima i veri mistici, ed è la stessa follia con cui Weil ha voluto descriversi nell’ultima lettera ai genitori prima della morte. Ricordando i folli delle tragedie di Shakespeare scrive:

i folli sono i soli personaggi che dicono la verità. […]

In questo mondo, solo degli esseri caduti all’ultimo livello dell’umiliazione, ben al di sotto della mendacità, non solo senza alcuna considerazione sociale ma guardati da tutti come se fossero sprovvisti del primo elemento di dignità umana, la ragione; solo questi esseri, in effetti, hanno la possibilità di dire la verità. Tutti gli altri mentono.

[…]

Cara Mamma, capisci l’affinità, l’analogia essenziale tra questi folli e me — nonostante l’Ecole, l’agrégation e gli elogi per la mia «intelligenza»?

[…]

I complimenti sulla mia intelligenza avevano lo scopo di evitare la domanda: «Dice il vero o no?» La mia reputazione da «intelligente» è l’equivalente pratico dell’etichetta di folli di questi folli. Quanto preferirei la loro etichetta.47

La ragione naturale ha ormai aperto le porte alla ragione soprannaturale.


  1. Lettera ai genitori del 18 luglio 1943 in S. Weil, Écrits de Londres et dernières lettres (EL), Gallimard, Paris 1980, pp. 249-251. I riferimenti bio-bibliografici sono ridotti al minimo, sarebbe d’altra parte impossibile dar conto dell’enorme produzione critica, italiana ed estera, su questa autrice. Mi limito a segnalare la rivista dell’Association Simone Weil, i «Cahiers Simone Weil», che sicuramente è il punto di vista più completo dal punto di vista dell’interrogazione critica sulla pensatrice francese. ↩︎

  2. S. Weil, Quaderni, IV, tr. e cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 134. D’ora in poi, Q, seguito dal numero del volume (da I a IV). ↩︎

  3. Émile Auguste Chartier detto Alain, (Mortagne-au-Perche, Orne 1868 - Le Vésinet, Parigi 1951). I suoi scritti principali sono raccolti in: Propos (1906 - 1936), Pléiade Gallimard, Paris 1956, 1973, 2 voll.; Les Arts et les Dieux, Pléiade Gallimard, Paris 1958; Les Passions et la Sagesse, Pléiade Gallimard, Paris 1960. Su Alain si possono utilmente consultare: G. Bénézé, Généreux Alain, PUF, Paris 1962; P. Georges, L’idée de philosophie chez Alain, Bordas, Paris 1970; O. Reboul, L’homme et ses passions d’après Alain, PUF, Paris 1968, 2 voll. ↩︎

  4. Jules Lagneau (1851-1894) filosofo spiritualista ed idealista, professore di filosofia nei licei di Sens, Saint Quentin, Nancy e Vanves. La sola opera edita durante la sua vita è Simples notes, s.e., Paris 1893, postumi: De l’existence de Dieu, Alcan, Paris 1925; Célèbres leçons et fragments, PUF, 2º edizione, Paris 1964. Di lui si hanno notizie attraverso i ritratti dedicatigli dai suoi allievi: tra questi, Alain, Souvenirs concernant Jules Lagneau in id., Les passions et la sagesse, Bibliothèque de la Pléiade- Gallimard, Paris 1986. ↩︎

  5. André Maurois scrive a proposito della modalità tipica del fare filosofia di Alain: «Appoggiandosi sempre al mondo reale. Un uccello, un albero, un uomo al lavoro, il sole più grande all’orizzonte, un curioso mostro incontrato a Retz o Saint-Simone, ecco i punti di partenza del suo pensiero.L’universo delle cose non può esistere senza lo spirito; ma d’altra parte, il mondo reale è il solo metro regolatore dei nostri pensieri. […] Alain ama spiegare pensieri attraverso il corpo, poichè sa che spesso l’impazienza dell’uomo deriva dal fatto di essere rimasti troppo a lungo in piedi.» (A. Maurois, Préface, in Alain, Propos, tome I, Gallimard, Paris 1956, p. IX). ↩︎

  6. S. Weil, Lezioni di filosofia, Adelphi, Milano 1999, p. 19. ↩︎

  7. Alain, Propos, cit., pp. 32-33. ↩︎

  8. L’importanza del contributo di Alain nella formazione di Simone Weil è sottolineata da tutti i maggiori studiosi della filosofa. Florence de Lussy, curatrice del Fondo Weil alla Biblioteca Nazionale Francese oltre che responsabile dell’edizione critica dei suoi scritti, sottolinea l’apporto alainiano nella formazione giovanile di Weil, sottolineandone l’influsso durevole. «Simone Weil deve ad Alain l’impronta essenziale del suo pensiero. […] La nozione di percezione e il problema dell’immaginazione nella percezione erano i temi più importanti dell’insegnamento di Alain, erede in questo di Lagneau. Questa ricerca delle condizioni reali dell’esercizio dell’intelletto rivelava in lui un desiderio di risalire alla sorgente stessa della conoscenza. Solidamente ancorata al mondo così come si presenta ai dati immediati dei sensi, la filosofia di Alain si radica nella percezione. L’esercizio reale del pensiero coniuga due sforzi e due lavori: un esercizio del puro intelletto - quello della geometria, fondamento della matematica -, e l’esercizio del pensiero nel suo confronto con la natura nuda; questo doppio sforzo prende il nome di lavoro. Il reale si raggiunge, in effetti, solo nella congiunzione di concepito e provato. D’altra parte, la nostra natura umana - composta di anima e corpo - rende il lavoro la legge della nostra condizione sottomessa allo spazio e al tempo. Confrontandoci con il mondo, urtiamo ad una legge direttamente sperimentata. La nozione di ostacolo che si supera attraverso u’azione indiretta è la chiave della nozione di lavoro e, così, dell’azione metodica che permette all’uomo di rendersi «padrone assoluto della natura», secondo l’adagio cartesiano.» (F. de Lussy, La marque d’Alain, in S. Weil, Œuvres, coll. Quarto, Gallimard, Paris 1999, pp. 97-98. Sul rapporto tra Alain e Weil: G. Kahn, Simone Weil et Alain, in «Cahiers Simone Weil», tome XIX, pp. 206-212); A. Comte-Sponville, Dieu et l’idole (Alain et Simone Weil), ivi, pp. 213-233; S. Petrement, Sur la religion d’Alain (avec quelques remarques concernant celle de Simone Weil), in «Revue de Métaphysique et de Morale», LX (1955), nº 3, pp. 306-330; Id., La vie de Simone Weil, Fayard, Paris 1973(tr. it. di M. C. Sala, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994), in particolare «L’incontro con Alain», pp. 34-61; G. Kahn (a cura di), Alain philosophe de la culture et théoricien de la démocratie, Extraits des Actes du Colloque «Vigueur d’Alain, rigueur de Simone Weil», Association Les amis d’Alain, Paris 1976; R. Nevin, Il «maitre», in Id., Ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 57-75. ↩︎

  9. «Fra tutti i grandi filosofi, era certamente Descartes quello che Simone allora preferiva e continuerà a preferire per molto tempo. […] Tuttavia si vede che ha meditato su Spinoza e non lo condanna mai come ha condannato Aristotele. Ammirava in lui l’uomo coraggioso, puro e fiero, la povertà, l’indipendenza, inoltre la serenità di uno che dice: «Riguardo agli affetti umani, non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire» […] Infine doveva indiscutibilmente qualcosa a Spinoza: il designare «conoscenza del terzo genere» la conoscenza intuitiva e insieme razionale, che era, ai suoi occhi, la conoscenza perfetta; l’aveva colpita ciò che Spinoza afferma al riguardo. Senza credere che d una essenza si possa dedurre tutta la geometria, si esercitava a percepire ogni cosa cercando di cogliere, per quel che le era possibile, con un solo sguardo della mente tutti i rapporti razionali che costituiscono tale conoscenza e che possono essere chiamati l’essenza. Parlerà, più tardi nei suoi Cahiers, di questa «meditazione ultraspinoziana» cui i esercitava durate la cagne:«fissare intensamente un oggetto con il pensiero: che cos’è? Senza tener conto di alcun altro oggetto, senza rapporto con niente altro».» S. Pétrement, La vita di Simone Weil, cit., pp. 56-57. ↩︎

  10. Alain, Spinoza, ed. revue et augmentée, Gallimard, Paris 1986. ↩︎

  11. Q, III, p. 80. ↩︎

  12. Imagination et perception, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1988, vol. I, p. 298[tr. mia]. ↩︎

  13. Q, IV, p. 156. ↩︎

  14. L’influenza di Platone è assolutamente fondamentale per la comprensione della filosofia weiliana, ma bisogna sempre tener presente che si tratta di un Platone compreso a partire da un’esigenza particolare, dalla «svolta mistica», inteso cioè come primo mistico d’Occidente. Cfr. S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it. C. Campo - M. Pieracci Harwell, Borla, Roma 1999; .in particolare, il capitolo Dio in Platone, p. 35 e sgg. Cfr. anche M. Narcy, Simone Weil. Malheur et beauté du monde, Ed. du Centurion, Paris 1967; Id., Le domain grec, avant-propos I, in S.Weil, Œuvres complètes, a cura di A. Devaux e F. de Lussy, Gallimard, Paris 1988 (d’ora in poi, Œ C, seguito dal numero romano indicante il volume. Il volume VI dai tomi 1 a 4, comprende i Cahiers). ↩︎

  15. Q, IV, pp. 316-317. ↩︎

  16. Alain, Les arts et les dieux, cit., p. 1078. ↩︎

  17. Alain, Propos, I, cit., pp. 507-508. ↩︎

  18. Q., II, p. 267. ↩︎

  19. Q, I, pp. 230-231; cfr. anche«Lecture», Œ C, VI, 1, p. 411. ↩︎

  20. Q, III, p. 43. ↩︎

  21. Tra i molti testi dedicati a questo tema: D. Canciani, Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa e esperienza mistica in Simone Weil, EL, Roma 1998. ↩︎

  22. Q. II, p. 294. ↩︎

  23. Q, III, p. 42. ↩︎

  24. Q., IV, p. 227. ↩︎

  25. Molti sono gli autori che hanno sottolineato l’evidente debito di Simone Weil nei confronti delle filosofie orientali, indicherò velocemente solo alcuni riferimenti, rimandando per un approfondimento più completo alla rivista dell’Association Simone Weil, che costituisce la fonte più autorevole in materia weiliana. P. J. Little, Simone Weil: du vide-privation au vide-plénitude, in «Cahiers Simone Weil», tome X (1987), nº 2, pp. 181-199; D. Raper, Hindouisme et bouddisme, in G. Kahn, Simone Weil. Philosophe, historienne et mistique, Editions Aubier Montaigne, Paris 1978, pp. 93-103; A. Degraces-Fahd, La langue des Upanisad chez Simone Weil. Une hermeneutique retrouvée selon l’expérience intérieure, in M. Broc-Lapeyre, Simone Weil et les langues, in «Recherches sur la Philosophie et le Langage», n.13 (1991), pp. 89-117 (trad. it. La lingua delle Upanisad in Simone Weil. Un’ermeneutica ritrovata secondo l’esperienza interiore, in «Simplegadi. Rivista di filosofia interculturale», a. 8, 20, febbraio 2003, pp. 39-70); id., Du vide d’acte à l’acte vide. Une lecture du tao et de la Gita, in S. Weil, Œuvres complètes, VI, II, Gallimard, Paris 1997, pp. 33-34; id., L’Inde ou le passage obligé, in S. Weil, Œuvres complètes, VI, I, Gallimard, Paris 1994, pp. 35-52; S. Marchignoli, Simone Weil a colloquio con i testi indù: il desiderio, l’atman e il dharma, in A. Marchetti, Politeia e sapienza. In questione con Simone Weil, Pátron, Bologna 1993, pp. 67-95; C. Zamboni, Sull’azione non-agente: Simone Weil lettrice della «Bhagavad Gita», in AA.VV., Azione e contemplazione, IPL, Milano 1992, pp. 131-146. ↩︎

  26. Q, III, p. 129. ↩︎

  27. Cfr. Pétrement, cit. pp. 406 - 459. ↩︎

  28. Mi permetto di rimandare a F. Negri, La passione della purezza. Simone Weil e Cristina Campo, Il Poligrafo, Padova 2005. ↩︎

  29. M. de Certeau, Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua (Secoli XVI e XVII), Leo Olschki Editore, Firenze 1989, p. 53. ↩︎

  30. Id., La fable mystique. XVIe - XVIIe siècle, Gallimard, Paris 1982, pp. 163-164 (tr. it. Fabula mistica. La spiritulità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Il Mulino, Bologna 1987, p. 176). ↩︎

  31. Interessante il confronto con Blanchot: «Quando traduco, non mi accontento di sostituire un mondo con un altro, una via con un’altra via, ma alludo a un linguaggio superiore che costituirebbe l’armonia o l’unità complementare di tutti quei diversi modi di riferimento e che parlerebbe idealmente nel punto di congiungimento del mistero riconciliato di tutte le lingue parlate da tutte le opere.» M. Blanchot, Sulla traduzione, in «aut aut», 189-190, 1982, pp. 98-101. ↩︎

  32. M. de Certeau, La fable mystique, cit., p. 164 (tr. it. cit., p. 177). ↩︎

  33. Ivi, p. 402. ↩︎

  34. «La doppia lettura del Tao e della Gita offe una risposta non uniforme di cui Simone Weil si serve, non per opporre una lettura all’altra, ma giocando le nozioni su piani differenti, spostandole. Il Tao e la Gita pongono l’accento sulla presenza dei contrari di cui bisogna prendere coscienza e liberarsi. Il Tao come ‘via’ rappresenta un mezzo di equilibrio tra questi estremi perchè non riconosce maggior valore a uno piuttosto che all’altro. La Gita tenta di superare questi contrari alla ricerca di un’unità che li riunisca, unità che essi indicano perché non lo sono. L’atto costituisce allora il fulcro grazie al quale l’uomo può sfuggire all’influenza della condizione duale.» (Dêgraces, Du vide d’acte…, cit., p. 33). ↩︎

  35. L. Kapani, Simone Weil, lectrice des Upanisad védiques et de la Bhagavad-Gita et le désir sans objet, in «Cahiers Simone Weil», tome V, n. 2, juin 1982, p. 95. ↩︎

  36. Q, IV, p. 318. ↩︎

  37. Mi sembra molto utile ciò che scrive Mircea Eliade a proposito delle immagini: «[…] Le Immagini sono per la loro stessa struttura polivalenti. Se lo Spirito utilizza le Immagini per cogliere la realtà ultima delle cose è proprio perché questa realtà ultima si manifesta in modo contraddittorio ed è quindi impossibile esprimerla tramite concetti. (Ben si conoscono gli sforzi disperati delle diverse teologie e metafisiche, sia orientali che occidentali, volti ad esprimere concettualmente la coincidentia oppositorum, modalità dell’essere facilmente, e per altro abbondantemente, espressa attraverso Immagini e simboli). È quindi vera l’Immagine in quanto tale, in quanto fascio di significati, mentre non lo è uno solo dei suoi significati oppure uno solo dei suoi numerosi piani di riferimento. Tradurre l’Immagine in un terminologia concreta, riducendola ad uno soltanto dei suoi piani di riferimento, è peggio che mutilarla, significa annientarla, annullarla in quanto strumento di conoscenza.» M. Eliade, Images et symboles, Gallimard, Paris 1999, pp. 17-18 (tr. It. Immagini e simboli, Tea, Milano 1993, pp. 18-19). ↩︎

  38. Q, IV, p. 227. ↩︎

  39. Q, IV, p. 372. ↩︎

  40. S. Weil, La personne et le sacrée, in Id., Ecrits de Londres, Gallimard, Paris 1957, pp. 11-44 (tr. it. in R. Esposito (a cura di), Oltre la politica. Antologia del pensiero «impolitico», Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 63-92). ↩︎

  41. Ivi, p. 83. ↩︎

  42. «Dio, la mia anima vuole la carne che la nasconda,/ la carne che mangia e dorme, senza avvenire o passato.» S. Weil, Venezia salva, Adelphi, Milano 1987, 94. ↩︎

  43. «Paradossalmente, l’irrapresentabilità della trascendenza è salvaguardata proprio dal fatto di affollare di simboli del sacro, di provenienza eterogenea, il campo che si offre alla visione: infatti la possibilità di passare attraverso rivelazioni diverse impedisce di considerare la propria - la porta stretta - come una rivelazione che positivamente dica e consegni solo alla parola gli attributi della divinità, rischiando così di oggettivarla e ridurla a idolo». (W. Tommasi, L’immagine prigioniera, cit., 221). ↩︎

  44. Non posso approfondire in questa sede questa problematica fondamentale della metafisica religiosa weiliana, rimando tra tutti a: M. Vetö, La métaphisique religieuse de Simone Weil, Vrin, Paris 1971 (La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna editrice, Roma 2001). ↩︎

  45. Q., IV, p. 363. ↩︎

  46. S. Weil, La persona…, cit., p. 84. ↩︎

  47. EL, 256, lettera del 4 agosto 1943 [tr. mia]. ↩︎