Male, religione, filosofia della religione. Riflessioni sull’opera di Jean Nabert

A quarant’anni dalla morte di Nabert, nel non ampio e certamente ancora inadeguato panorama della letteratura critica che lo concerne, due temi mi sembrano dominanti: il tema del male e il tema religioso.1 A partire da una rapida rassegna di alcuni dei contributi relativi a questi due temi pubblicati negli ultimi dieci anni (I), vorrei in questa sede perseguire un duplice obiettivo: in primo luogo, quello di riconsiderare la riflessione nabertiana sull’esperienza del male non soltanto nella prospettiva di una comprensione del suo senso e della sua possibilità, ma in quella costantemente avvertita da Nabert di una domanda, di un desiderio e di una speranza di una «ripresa radicale» sul male, al fine di valutare se proprio nell’esigenza di cercare una risposta ad essi non si debba individuare la fonte stessa di quella ricerca del divino e di Dio che definisce il contenuto intrinseco e l’ambito della religione nabertiana (II); in secondo luogo, quello di accertare se l’importanza fondamentale nell’opera nabertiana del tema del male e del tema di Dio — ma di un Dio determinato a partire dal religioso, dal divino — non concorra a dare fondatezza a quella definizione della filosofia di Nabert in termini di «filosofia della religione», che già proposi nel 19872 e che taluni recenti interpreti di Nabert hanno ulteriormente accreditato (III).

1. Male, religione e filosofia della religione in alcune recenti interpretazioni dell’opera di Jean Nabert

Comparata alla letteratura critica nabertiana che, all’indomani della pubblicazione de Le Désir de Dieu (1966) e per circa un ventennio, si è prevalentemente rivolta, e in maniera estremamente impegnata, all’approfondimento e alla definizione della problematica religiosa di Nabert, alla ricostruzione del suo sviluppo o del suo orientamento, alla determinazione dei suoi temi essenziali e del loro rapporto con le altre tematiche del pensiero nabertiano, quella successiva e più recente non può non destare la sensazione di una sorta di pausa di riflessione, volta a vagliare la pertinenza delle proposte interpretative precedenti, pur senza rinunciare, tuttavia, ad avviare e a suggerire, sia pure in forma più circoscritta e limitata, ulteriori direzioni di indagine, quali quelle di interrogarsi sui possibili destinatari dell’eredità filosofica di Nabert, di esplorare le fonti del suo pensiero, i rapporti di Nabert con filosofi coevi su temi comuni, le implicazioni della sua opera postuma per una filosofia della religione.

Da Nabert a Ricœur. In un breve saggio, L’héritage de Jean Nabert, tutto rivolto a mostrare come la «presenza tutelare» di Nabert accompagni l’intero sviluppo dell’opera di Ricœur3 e a ritrovare in quest’ultima «l’eredità di Nabert»,4 Pierre Colin, individuata la caratteristica principale dell’opera ricœuriana nel tentativo riuscito di conciliare le due esigenze di «pensare filosoficamente l’uomo peccatore e salvato»5 e di far fronte ai problemi nuovi posti dalle trasformazioni imprevedibili dell’ambiente intellettuale in cui si è sviluppata, sottolinea la funzione stimolatrice e di «guida» e il «ruolo regolatore» su di essa esercitato dagli scritti di Nabert. Se la presenza di Nabert è del tutto evidente nel primo tomo di Finitudine e colpa, L’uomo fallibile, in cui Ricœur non solo fa ricorso a «un metodo riflessivo la cui ispirazione generale è assai vicina a quella di Nabert», ma si ripromette di mostrare «la grandezza e i limiti» della «visione etica del mondo» sviluppata dalle tre grandi opere di Nabert,6 essa non manca di incoraggiare anche il progetto ricœuriano di un’ermeneutica generale che comincia a definirsi con La simbolica del male e che trova una prima realizzazione ne Il conflitto delle interpretazioni7 e di ispirare gli sviluppi più recenti dell’opera di Ricœur, la quale sembra giocare il «ruolo di rivelatore dei “possibili” non effettuati da Nabert stesso».8

Che cosa intende esattamente Ricœur allorché definisce l’opera nabertiana come «visione etica del mondo»? Egli si propone di evidenziare non solo «una specificità di quest’opera»,9 vale a dire la sua preoccupazione, ben palese in Elementi per un’etica, «di porre in luce l’originalità dell’ordine etico in rapporto ai valori intellettuali e perfino in rapporto ai valori estetici», ma soprattutto il «punto di riferimento comune» delle «tre grandi opere di Nabert: L’esperienza interiore della libertà, gli Elementi per un’etica e il Saggio sul male», vale a dire «l’immagine che la libertà si dà di se stessa quando, riferendosi a delle norme razionali, si giudica responsabile del male che commette trasgredendo queste norme, ma in modo tale che questa confessione sia il principio di una rigenerazione completa dell’io», e ciò che, tramite questo «punto di riferimento comune», esse, «secondo delle modalità proprie a ciascuna opera, manifestano», cioè «l’esigenza che conduce la riflessione a trascendere questa visione troppo ragionevole della libertà».10

La realtà del male in Simone Weil e Jean Nabert. Nel saggio, Le mal selon Simone Weil et Jean Nabert, Marie Héraud, muovendo dalla constatazione della «presenza ossessiva» nel pensiero di questi due filosofi «così diversi» «del male nel mondo», procede alla loro comparazione al fine di «porre in luce l’originalità di ciascuno di loro» e al tempo stesso di «segnalare due modi di apprensione della medesima realtà che ci invitano a una scelta personale».11

La Héraud evidenzia innanzitutto quelle che definisce le «analogie sicure» che la riflessione sul male nella sua duplice forma della sventuramalheur») e del peccato presenta in Simone Weil e Jean Nabert. Per entrambi, «i mali disumanizzano»; per entrambi, la sventura più profonda ha una dimensione sociale: Simone Weil identifica la vera sventura con la schiavitù della fabbrica, a causa della quale si è rigettati come uno scarto; Nabert ravvisa il manifestarsi del male nella secessione delle coscienze, nel rifiuto d’altri.12

Tanto la Weil quanto, in maniera più abbondante, Nabert riflettono sul peccato. Per Nabert, il peccato non è una semplice inadempienza a delle norme ma scaturisce da un male di cui siamo responsabili, benché sfugga al nostro volere, vale a dire dalla nostra capacità di trasgredire delle esigenze che dipendono dalla «forma dell’assoluto spirituale». Questa capacità non è l’effetto di un principe del male, di un Dio malvagio, ma della corruzione della libertà alla sua fonte e della quale non possiamo che constatare gli esiti.13 Per la Weil, la quale parla del peccato soltanto allusivamente, il peccato è fondamentalmente la persona, ciò che in noi dice «io». In questo senso, la persona non è sacra ma è in noi la parte dell’errore e del peccato, quella parte dalla quale con ogni sforzo i mistici cercano di liberarsi. Per essa, sventura e peccato sono legati e costituiscono il male: «il peccato fa soffrire e la sofferenza rende cattivi».14

Nabert e la Weil «convergono nettamente» anche su un altro punto, vale a dire «il legame tra l’esperienza del male e la scoperta di ciò che ci salva». Ma, se la Weil individua la sola attitudine possibile di fronte al peccato nella contemplazione dell’Essere puro, cioè nella contemplazione di quel «granello infinitesimale d’amore divino gettato nell’anima» dal quale soltanto può scaturire il pentimento, «Nabert non ci parla del granello d’amore divino, ma delle esigenze fondamentali della coscienza che ci fanno tendere verso un assoluto spirituale al di là delle norme», esigenze che cogliamo nel momento stesso in cui le trasgrediamo.15

Infine, essi concordano sulla necessità di combattere i mali, anche se riconoscono che i nostri sforzi non potranno eliminare il male dal mondo. «Simone Weil parla dell’irriducibilità del male, Jean Nabert il più delle volte di ingiustificabile». Entrambi si rifiutano di considerare il male come un castigo.16

«Inesplicati (e) inesplicabili» da una ragione che tuttavia chiede giustizia, «i mali sono intollerabili: suscitano orrore». Ora, è proprio su questo rifiuto del male che la separazione tra la Weil e Nabert «si fà assai netta». Pur riconoscendo infatti che «l’orrore del male è tanto presente in Nabert quanto in Simone Weil», la Héraud rileva non solo che mentre per la Weil «si tratta di una ripugnanza che è dell’ordine dell’istinto: indietreggiamento della carne davanti alla morte», il rifiuto del male in Nabert «supera l’ordine della sensibilità» e, pur emanando dal più intimo dell’io, è un atto «razionale», ma soprattutto che non c’è in Nabert, come nella Weil, «l’idea della possibilità di un superamento della sventura e del peccato».17 «Il rifiuto del male è in Nabert senza appello; esso è la proposizione ultima che possiamo formulare; noi non possiamo sperare una qualsiasi consolazione presente o a venire».18

Quest’opposizione tra la Weil e Nabert, che «si fonda su una differenza di orientamento filosofico irriducibile»,19 trova un’esemplare espressione nell’opposizione che, per Nabert, separa l’esperienza religiosa dall’esperienza metamorale. Mentre la prima si fissa su un Essere trascendente, oggetto di adorazione e fonte di consolazione, negando in definitiva che l’ingiustificabile sia l’ultima parola di tutto, la seconda, al contrario, ritiene che il desiderio di giustificazione sia sempre deluso e che l’ultima parola sia il rifiuto.20

E tuttavia, la Héraud ritiene che «queste divergenze tra Simone Weil e Jean Nabert lascino apparire tra le altre analogie anche questa: per l’uno come per l’altra, è nel seno del male che appaiono, per Nabert, le possibilità di avvicinarsi alla giustificazione, per Simone Weil, il granello infinitesimale dell’amore divino. Per l’uno come per l’altra, l’esperienza della sventura e del peccato ci incammina, o piuttosto ci può incamminare verso ciò che può colmare, anche se fosse per un istante, le nostre aspirazioni profonde».21

Le implicazioni della filosofia riflessiva per una filosofia della religione. Sono l’oggetto di alcuni contributi,22 ma costituiscono soprattutto uno dei temi principali di quella «iniziazione storica alla filosofia della religione»,23 in due volumi, che, dopo anni di ricerca e di studio, Jean Greisch ha cominciato ad offrire in questi giorni al pubblico francofono e non.

Ora, poiché solo il primo di questi volumi è stato pubblicato, nell’impossibilità di citare le pagine più recenti dedicate all’opera postuma nabertiana, collocate nel secondo volume, mi limiterò a richiamare brevemente la presentazione di Nabert proposta da Greisch nella «prima versione (della sua recentissima opera), molto più breve»,24 pubblicata nel 1991 con il titolo di: La philosophie de la religion devant le fait chrétien, e nella quale egli, muovendo dalla constatazione della condizione problematica della «filosofia della religione» in Francia e dalla conseguente esigenza di determinare non solo quale sia l’origine del termine «filosofia della religione»25 e della disciplina che esso designa, ma soprattutto di definire che cosa sia esattamente la filosofia della religione26 distinguendola dalla «teologia filosofica»27 e dalla «filosofia religiosa»,28 presenta un «approccio tipologico» alla filosofia della religione, discernendone cinque tipi nel modo di concepirla e di attuarla e considerandone le forme espressive più significative di ciascuno di essi: il «tipo speculativo» (Schleiermacher, Hegel, Schelling, Rosenzweig, Rahner),29 il «tipo critico» (Feuerbach, Nietzsche, Bloch, Cohen, Troeltsch, Tillich, Duméry),30 il «tipo fenomenologico» (Husserl, Otto, Scheler, Eliade),31 il «tipo linguistico» (Wittgenstein, Ayer, Ramsey, Evans, Phillips),32 e il «tipo ermeneutico» (Rosenzweig, Nabert, Heidegger, Ricœur).33

Collocando in quello che egli definisce il «cantiere» «in pieno mutamento»34 del «tipo ermeneutico» della filosofia della religione il «vasto cantiere» de Le Désir de Dieu,35 Jean Greisch ravvisa la presenza nell’opera postuma nabertiana di tre temi, strettamente connessi tra loro, in grado di esplicitare «le implicazioni della filosofia riflessiva per una filosofia della religione»: «il desiderio di Dio, la criteriologia del divino e l’ermeneutica della testimonianza assoluta», anche se egli ritiene quest’ultimo tema «il più decisivo», dal momento che esso «esplicita una scommessa ("pari») ermeneutica latente negli altri due».36

Relativamente al primo tema, Greisch, procedendo dall’affermazione iniziale de Le Désir de Dieu che «il desiderio di Dio si confonde con il desiderio di una comprensione di sé», si sofferma sulle «esigenze critiche peculiari di una filosofia riflessiva» che già questa dichiarazione evidenzia: il rifiuto di una comprensione di sé tramite le categorie dell’oggetto e la determinazione della natura stessa dell’attività riflessiva come «pensiero dell’incondizionato»; l’opzione risoluta «per un metodo di immanenza» operata dall’approccio riflessivo al problema di Dio e le conseguenze che essa comporta: l’esigenza, «prima ancora di interrogarsi sull’oggetto possibile del desiderio di Dio, di porre in evidenza la sua presenza nella coscienza di sé»; la messa tra parentesi, almeno inizialmente, dei dati empirici e storici dell’esperienza religiosa e la necessità di «individuare riflessivamente le condizioni di possibilità della loro apprensione».37

Guidata da un dato fondamentale, la finitudine, l’analisi riflessiva di Nabert, sforzandosi di identificare tra i diversi significati che questa nozione può avere quello che può servire d’appoggio a un desiderio di Dio ed escludendo proprio per questo ogni riferimento della finitudine a una infinità intensiva o estensiva, «fa gravitare la finitudine intorno all’io puro, che reca in sé un “principio di sublimità” che è la vera fonte del giudizio di finitudine: l’affermazione originaria», la quale consente all’io empirico di prender coscienza sia della propria finitudine sia di un desiderio di giustificazione che racchiude un’esigenza di incondizionatezza.38

Tra le diverse figure della finitudine Nabert privilegia l’esperienza del male che egli pone in relazione con l’«esperienza di un’alienazione fondamentale più profonda della finitudine medesima». Irriducibile a una semplice privazione d’essere, il male scoperto nella predetta esperienza «è il male assoluto, l’ingiustificabile per eccellenza», nei cui confronti il desiderio di Dio si configura come «il desiderio della soppressione del male».

Greisch sottolinea con forza la duplice esigenza sia di non confondere troppo presto il desiderio di Dio con il desiderio di un’esistenza in grado di compensare il male e di renderlo trascurabile e secondario e, in questo senso, di non misconoscere il «legame molto forte tra il rischio permanente di non-senso implicato nel pieno riconoscimento del male e l’assunzione di questo rischio da parte della coscienza», sia di ravvisare «la contropartita positiva di questo rischio» nella ricerca di quelle condizioni di possibilità di «un libero riconoscimento del divino» che costituiscono al tempo stesso le condizioni dell’intelligibilità della coscienza religiosa».39

Rinunciando, infatti, a cercare le origini del sentimento religioso nelle sue manifestazioni storiche o nelle sue fonti psicologiche, Nabert prospetta nella volontà di ripresa sull’ingiustificabile e sul male e nell’approfondimento del problema della giustificazione che ci rende consapevoli dell’assoluto, la via d’approccio al sentimento religioso da lui privilegiata, senza tuttavia né difenderne l’esclusività né rinunciare a una riflessione sui suoi limiti.40

Il secondo tema, «ermeneuticamente fecondo» per una filosofia della religione di tipo riflessivo, la «criteriologia del divino», costituisce lo sviluppo di una duplice tesi nabertiana: quella che sostiene che «Dio non precede ma segue la criteriologia del divino implicata nell’io puro», e quella che afferma l’esistenza di una pluralità di esperienze dell’assoluto diverse (l’esperienza «meta-morale», l’esperienza metafisica, l’esperienza religiosa) e che, proprio per questo, postula una certa rifusione dell’idea di Dio.41

«La criteriologia del divino è l’espressione di questa rifusione». Essa ha la funzione critica sia di sbarazzarci dagli idoli concettuali che esprimono una falsa idea del divino, sia, fornendo «un criterio di valutazione che consenta di giudicare la varietà effettiva delle esperienze religiose, senza nondimeno sacrificare l’esigenza di verità, poiché al di fuori del divino e del vero, non è possibile alcun giudizio di verità sull’esperienza religiosa», «di rendere libero Dio per la vera preghiera e la redenzione dell’umanità».42

In questo senso, Greisch sottolinea non solo l’appartenenza del «cantiere aperto da Nabert» all’ambito della filosofia della religione e non a quello della teologia filosofica,43 ma soprattutto gli aspetti innovativi che la funzione critica della criteriologia del divino contempla. Infatti, «accentuando l’opposizione del Dio della teologia filosofica e di quello dell’esperienza religiosa» e, con ciò, preparando il terreno a una «teologia capace di soddisfare contemporaneamente le esigenze della filosofia e quelle dell’esperienza religiosa», la criteriologia del divino rende possibile «una determinazione interamente nuova dei rapporti tra la filosofia e la credenza», preservando sia «i diritti della coscienza filosofica» sia «la specificità della coscienza religiosa».44

E tuttavia, consapevole tanto del rischio di proporre una criteriologia del tutto negativa, in grado di porre soltanto un divino senza Dio, senza soggetto di esistenza, quanto di quello di ridurla a una semplice fenomenologia del sacro, Nabert impone alla criteriologia del divino «una duplice transizione: dal divino a Dio stesso, (e) dall’assoluto verso le sue manifestazioni», cercando di mostrare la «complementarità insuperabile» di due esigenze «egualmente indispensabili alla coscienza religiosa»: quella di un’apprensione del divino posta sotto il segno di uno spogliamento radicale e che trova nell’esperienza mistica la sua espressione adeguata e quella che assume per guida le manifestazioni storiche del divino.45

È qui che interviene «la mediazione ermeneutica della categoria della testimonianza» e, con essa, è introdotto il terzo tema, quello dell’«ermeneutica della testimonianza assoluta». Infatti, rifiutandosi di concludere la propria «ricerca dei cammini di un autentico desiderio di Dio nella coscienza umana» con l’identificazione di un soggetto di inerenza, di un Dio veramente divino, Nabert rilancia la propria indagine in un’altra direzione, quella di una «ermeneutica delle testimonianze assolute» o di una ricerca sul «divino che si incarna nel testimone della credenza».46

Greisch pone in luce sia l’«opzione metafisica fondamentale» che questa scelta impone, vale a dire la sostituzione all’antica concezione dei rapporti tra il fenomeno e l’assoluto di una concezione interamente nuova, sia la «scommessa ermeneutica» inseparabile da questa opzione metafisica, nella misura in cui «i segni sui quali il pensiero si fonda per essere sicuro di trovarsi in presenza di un’espressione assoluta dell’Assoluto, vale a dire di una delle sue “rivelazioni”, comportano un margine di interpretazione».47

Ma proprio perché questo lavoro di deciframento e di interpretazione culmina nella fede, quale atto di adesione consistente nel ratificare una simile testimonianza per farne una regola di vita, Greisch ravvisa nell’ermeneutica delle testimonianze assolute una nuova idea della fede e della credenza, la quale, lungi dal configurarsi come una decisione arbitraria e irrazionale da parte del soggetto e, per questo, come una forma degradata e inferiore del sapere, costituisce non solo «“la più alta replica concepibile” all’affermazione originaria medesima», ma «resta critica nei confronti di ciò che abbraccia».48

2. A chi «l’ultima parola?». Dal male «irrimediabile, senza giustificazione» al «trionfo» sul male?

Se è vero che «nessun filosofo ha osato come Nabert confessare l’esistenza del male»,49 di un male «originario»,50 «radicale»,51 «assoluto»,52 «invincibile»,53 «irrimediabile, senza giustificazione»,54 e, se è vero che, proprio per questo, nessuno più di lui ha denunziato il fallimento di tutti i tentativi di spiegazione del male rivolti ad attenuarne lo scandalo, non è meno vero che tutta l’opera di Nabert è attraversata da una domanda, da una «volontà»,55 da una speranza, da un desiderio di «una ripresa radicale» sul male, che, determinato infine ne Le Désir de Dieu come «desiderio di Dio», non solo si identifica con «il desiderio della soppressione del male»,56 ma coincide con il costituirsi della religione,57 sì che, in questa seconda parte della mia relazione, vorrei prospettare e verificare la possibilità di un’interpretazione, certamente ardita ma nondimeno giustificata da taluni testi di Nabert, dell’intera opera nabertiana in termini di «speranza di una sorta di usura della resistenza (del male) o di una vittoria radicale dell’uomo (su di esso) in certe esperienze»,58 e di una speranza che, prima creduta (Elementi per un’etica) e, poi, fortemente compromessa (Saggio sul male) è, forse, recuperata (Le Désir de Dieu), proprio grazie all’avvento di quell’«ordine» (del divino o del religioso) che il desiderio di Dio «costituisce».59

«Un’etica della speranza.» In Elementi per un’etica il male trova espressione non solo nelle esperienze negative della colpa, dello scacco e della solitudine che «accompagnano l’esperienza morale», «alimentano la riflessione, ne costituiscono la materia»,60 ma soprattutto in quel «non essere essenziale»,61 irriducibile,62 e in quell’«ineguaglianza di noi a noi stessi o dell’essere che diventiamo al nostro vero e proprio essere»,63 da esse rivelati, che fa della colpa, dello scacco e della solitudine tre negazioni sia di quel «desiderio d’essere»,64 «costitutivo del nostro essere»,65 di cui l’etica disegna la storia,66 sia di quell’«affermazione originaria»,67 «assoluta»68 o di quella «certezza incondizionata»,69 alla quale «l’esperienza morale tutta è ordinata»70 e che il desiderio d’essere «traduce nella coscienza reale».71

Ora, poiché Nabert individua in questa certezza il principio capace di compensare e contemporaneamente di fondare il non essere che si manifesta nelle predette esperienze e di donare all’io non solo la «speranza» di una liberazione, ma la forza di rigenerarsi e il potere di operare «una conversione verso il suo essere vero»,72 malgrado la colpa, lo scacco, la solitudine, la coscienza, convertendosi al suo principio, non solo può acquisire la certezza che nessuna esperienza, per quanto negativa essa sia, può privarla assolutamente della sua possibilità d’essere e impedirle l’affermazione di sé, ma, stimolata continuamente dal «desiderio di compensare»,73 di «ridurre»,74 di «rovesciare il segno»75 delle esperienze negative che hanno suscitato la riflessione, è chiamata ad imitare e a verificare, nell’esistenza e «su tutti i piani dell’azione, per quanto possibile, la certezza prima».76

Ordinata interamente al conseguimento della «rigenerazione», l’etica si configura così come «un’etica della speranza»,77 il cui filo conduttore è una certezza, immanente e trascendente ad un tempo, capace di donarci «la forza di un rinnovamento»78 e, con essa, di promuovere «un progresso dell’esistenza», «una ripresa radicale del nostro essere, che è rigenerazione».79

Ma come verificare questo progresso e, con esso, la realtà della rigenerazione? Se la certezza che sostiene l’io lo protegge dalla tentazione e dall’illusione di «prender sul serio l’idea che egli avrebbe effettivamente incorporato nel suo essere l’affermazione incondizionata che è all’origine del suo sforzo»,80 nulla impedisce all’io, facendo ricorso «agli esempi storici di sublimità morale», di affermare che «altre coscienze hanno raggiunto ciò che sa di non aver raggiunto» e che «hanno verificato assolutamente» la certezza prima81 e di riconoscere in esse «gli organi del principio supremo»82 e le fonti di quel sentimento di «venerazione»83 che, più di ogni altra potenza, può contribuire al progredire concreto della sua esistenza.84

Una speranza compromessa? La «speranza di una rigenerazione»85 non scompare nel Saggio sul male, ma sembra fortemente scossa, quasi compromessa, dall’apparizione dell’ingiustificabile, il quale, facendoci «misurare la profondità del male in noi e fuori di noi»,86 «ci distoglie dal credere troppo facilmente nella possibilità di una giustificazione».87

Certamente l’ingiustificabile non è ancora il male ma, come ciò che non può essere ridotto al non valido88 o a semplice non-essere,89 come «ciò che impedisce al male metafisico e a tutti i mali di essere solo privazione»,90 come «il negativo assoluto» che «permette di restituire al male tutte le sue dimensioni»,91 esso «conferisce al problema del male la sua forma più radicale e, a prima vista, più disperata»:92 «non si tratta più di conciliare o di riconciliare il male, considerato come una specie di disordine apparente o reale, con un ordine profondo che esisterebbe di diritto e di fatto, ma di determinare (tanto) le condizioni di possibilità di un’affermazione (dell’ingiustificabile e) del male (ingiustificabile)»93 quanto «le condizioni di possibilità della giustificazione».94

Ora, se l’esito della ricerca di un fondamento o di una garanzia delle «asserzioni che concernono il carattere ingiustificabile dei mali»95 è l’individuazione sicura della loro fonte in un «atto interiore» a queste stesse affermazioni, «implicante la sua stessa garanzia, e in grado di far sorgere nel medesimo tempo un’opposizione assoluta tra la spiritualità pura di cui esso testimonia e la struttura del mondo»,96 ripetutamente Nabert evidenzia l’insicurezza,97 l’incertezza e la precarietà,98 le difficoltà99 che accompagnano il problema,100 «l’esigenza»101 e «la speranza di una giustificazione di sé».102

Nei tre capitoli centrali del Saggio sul male, Nabert rivolgendo la propria attenzione al male morale, al male di cui l’uomo si riconosce autore e responsabile, ma la cui origine sfugge alle categorie della morale, ne individua la fonte in un’impurità originaria, «consustanziale alla causalità dell’io»,103 in una «causalità impura»,104 la quale, a sua volta, rinvia a un «fatto originario»,105 «il peccato»,106 che coincide con l’«atto costitutivo dell’io»107 ma, al tempo stesso, con «la negazione operata dall’io della legge spirituale che costituisce il fondamento del suo essere»,108 con il tradimento del suo essere stesso.109

Rivelandoci la presenza nell’atto costitutivo dell’io di «un amore di sé consustanziale all’io»,110 a causa del quale «l’io si sottrae a qualsiasi comunicazione con gli altri esseri (male di secessione), precludendosi (al tempo stesso) la possibilità di eguagliarsi al proprio essere»,111 il peccato ci riconduce all’idea di un «atto grazie al quale noi possiamo continuamente capovolgere a nostro vantaggio il rapporto tra l’io puro e l’io particolare»,112 «all’idea di una coscienza pura di cui noi siamo la negazione vivente»,113 in una parola, «a quell’opposizione interiore […] dell’io individuale e dell’io puro»114 o a quell’«inadeguatezza della coscienza reale di sé e della coscienza pura»,115 nella quale già le esperienze della colpa, dello scacco, della solitudine ravvisavano la fonte del male.

Ma proprio da questa inadeguatezza scaturiscono anche quel «desiderio» e quell’«inquietudine della giustificazione»,116 sui quali lungamente si interroga Nabert nell’ultimo capitolo del Saggio sul male.

Non mi è possibile soffermarmi sui molteplici significati che il termine «giustificazione» e le espressioni più volte ricordate di «desiderio», «inquietudine», «speranza di giustificazione», ecc. esprimono. Mi limiterò a sottolineare che «il desiderio di giustificazione», che deriva dal «desiderio d’essere»,117 esprime non solo il desiderio di una piena «adeguazione» dell’io alla sua verità e al suo essere,118 ma soprattutto il desiderio di «un’esistenza alleviata dal male»119 e di «un’operazione capace di annullare» il male e le sue conseguenze.120

Ma questo desiderio può trovare una piena soddisfazione? Può l’uomo eguagliarsi effettivamente alle sue possibilità e «risollevarsi dalle proprie colpe e dal male che hanno origine nei suoi atti»?121

Non mi sembra che queste domande trovino nel Saggio sul male una risposta definitiva, ma piuttosto che rendano evidente, unitamente alle altre domande cariche di speranza,122 ma di fatto inevase, che scandiscono l’approfondimento del «problema della giustificazione», tanto l’esigenza ineludibile di Nabert di conoscere «se esista l’ingiustificabile assolutamente», se esso sia «l’ultima parola» di tutto, nella convinzione che «in questo problema si raccolgono tutti gli altri e non si è detto nulla se esso resta senza risposta»,123 quanto, al tempo stesso, la sofferta consapevolezza di non potersi pronunciare definitivamente su di esso.

Decisivi per l’acquisizione di questa consapevolezza sono sia la constatazione dell’impossibilità di legare la speranza di una giustificazione all’idea di «un progresso interiore», fondata su un’indebita «totalizzazione» dei nostri atti discontinui,124 sia l’impossibilità di riparare il male di cui siamo responsabili nei confronti degli altri, di «riparare ciò che è irreparabile»,125 sia, da ultimo, l’impossibilità di poter «annullare» tutte le forme sotto le quali si presenta l’ingiustificabile nel mondo e nelle quali è coinvolta in qualche modo la nostra libertà.126

E tuttavia, se Nabert riconosce che proprio perché l’io «non può né rompere la solidarietà con la quale partecipa al male che trascende il suo destino personale, né accertarsi che la sua azione sia priva di una certa compiacenza a sé, né credere che il suo pentimento equivalga ad un annullamento dei suoi debiti»,127 se proprio perché «gli manca l’intuizione di un atto o di una scelta» capace di operare «una purificazione effettiva del (suo) essere»,128 egli non consegue mai la giustificazione ma «è sempre in prossimità di essa»,129 Nabert non rinuncia ad interrogarsi sulle condizioni di possibilità di una simile purificazione «a livello umano»130 né a sostenere che «questa purificazione è possibile e che la storia ne reca delle iricusabili testimonianze».131

In questo senso, se egli sembra suggerire la possibilità che «le condizioni ultime della giustificazione» di una coscienza colpevole e infelice possono realizzarsi qualora il male irrevocabile che essa liberamente ha creato sia compensato dall’atto gratuito di un’altra coscienza che, assumendolo su di sé e riconoscendosi in quella del colpevole e dell’infelice,132 funga per quest’ultima da «coscienza assoluta»,133 assuma per essa «il ruolo di una provvidenza»134 — anche se Nabert sembra dubitare che questa funzione provvidenziale possa essere demandata alla «presenza» «precaria, intermittente o minacciata» di una coscienza particolare135 — egli non sembra esitare nel proporre alla coscienza, quale «regola» e «modello» di tutte le relazioni nelle quali è in gioco la giustificazione dell’io, un momento della storia: l’Incarnazione.136

E, tuttavia, anche quest’ultima risposta alla «domanda di giustificazione» è rimessa in discussione. Infatti, se Nabert, riferendosi all’Incarnazione, sembra consentire che nulla impedisca di pensare che «l’esperienza della salvezza» si sia realmente attuata nella storia, e che, di conseguenza, «nulla interdica l’affermazione che la svolta della storia è avvenuta» in un certo luogo, in un certo tempo, in determinate circostanze e di «investire di un carattere assoluto un momento della storia»,137 egli non può non riconoscere che la «certezza invincibile»138 della possibilità della giustificazione e della salvezza è in tale prospettiva connessa a un’«esperienza religiosa» che, benché non priva di rapporti con l’«esperienza metamorale» rivelata dall’approfondimento dell’ingiustificabile e del male, si colloca fondamentalmente al di là di essa.

Non appare casuale, perciò, che Nabert, nelle ultime pagine del Saggio sul male, si soffermi sui caratteri che accomunano e che distinguono l’esperienza metamorale dall’esperienza religiosa. Definita l’esperienza metamorale come un’esperienza «ad un tempo complementare ed antagonista» dell’esperienza morale propriamente detta, Nabert sottolinea i due aspetti che rendono l’esperienza metamorale affine all’esperienza religiosa e, in un certo senso, partecipe di essa: da una parte, il fatto di gravitare «intorno ad un desiderio di giustificazione» che Nabert riconosce non essere «fondamentalmente diverso dall’inquietudine della salvezza»; dall’altro, l’accordarsi di entrambe queste esperienze nel rifiuto di ricercare, per l’ingiustificabile, delle ragion d’essere del tipo di quelle che la metafisica è tanto abile a fornire, «allorché utilizza le categorie che le sono proprie e allorché, mediante la privazione, la finitezza, il rapporto tra le parti e il tutto, i gradi dell’essere, una sintesi dialettica o in tutti gli altri modi possibili, essa mantiene il male solo per abolirlo o per accoglierlo in un sistema di intelligibilità universale».139

Ma, a Nabert, non sfuggono parimenti gli aspetti che situano l’esperienza metamorale ben «al di qua» dell’esperienza religiosa. Mentre l’esperienza religiosa «racchiude la certezza invincibile non solo della possibilità della salvezza, ma anche del fatto che tutto l’ingiustificabile, secondo le apparenze e il giudizio umano, non è l’ultima parola dell’esistenza e, più tale esperienza è pura, più essa deriva questa certezza dalla sua stessa sostanza e dal suo atto interiore, senza garanzia speculativa»,140 l’esperienza metamorale «alimenta un desiderio di giustificazione sempre deluso, perché incessantemente si riproduce una differenza tra l’idea di un’esistenza alleviata dal male e la nostra effettiva esistenza nel mondo».141

Una speranza recuperata? È nella duplice direzione di un’indagine volta a riaffermare l’idea di «un male che non è privazione o limitazione d’essere, ma positivamente e totalmente male, e che dona così la pienezza del suo senso alla negazione come tale»,142 ma, al tempo stesso, a non rinunciare all’aspirazione «a una liberazione (dal male), a una giustificazione», e ad attingere «in quest’aspirazione la possibilità di una liberazione, la speranza di una liberazione»,143 che mi sembra si muova Nabert ne Le Désir de Dieu.

Non può essere dunque nella direzione della religione e della teologia tradizionalmente intese che Nabert cerca questa speranza di una liberazione, ma nella direzione di quella religione, fondata dal desiderio di Dio, che costituisce l’oggetto della «filosofia della religione» da lui delineata nella sua opera postuma.

Quale sia il referente polemico anche in ordine al tema del male del discorso nabertiano emerge chiaramente già nei ripetuti tentativi di Nabert di definire la propria filosofia della religione. Alle tesi della religione e della «teologia tradizionale» che non solo pretendono «di restituire un senso al mondo mediante l’affermazione di Dio creatore del mondo, di Dio nel quale si coniugano esistenza e infinità, esistenza e perfezione», ma che tendono anche «a minimizzare il male, o a ridurlo a una limitazione invincibile di tutto ciò che è creato e subordinato, a ritrovare dappertutto nel mondo le tracce di una bontà originale, dalla quale la creatura non cessa di decadere»,144 egli oppone la presentazione di una filosofia che, pur dichiarandosi «non capace di Dio, del Dio trascendente»,145 è «pienamente sufficiente a se stessa, rimane al proprio posto e al proprio livello, ammette certamente di non rispondere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze alle quali risponde la religione, una filosofia, di conseguenza, molto meno soddisfacente della religione, ma il cui merito, almeno, è quello di non recare delle risposte fallaci a dei problemi, a delle questioni, come ad esempio il problema del male, che resistono ad ogni interpretazione ottimistica del mondo».146

Fondata su due principi, l’affermazione della presenza nella coscienza di «un’idea dell’Assoluto e dell’incondizionato» e l’affermazione che «ogni espressione o verifica di quest’idea (dell’Assoluto) può essere cercata solo a livello dell’esperienza umana, nel fenomeno»,147 la filosofia della religione di Nabert si configura da subito come ricerca dell’Assoluto e dell’incondizionato, «che è nel cuore»148 di un desiderio «costitutivo della coscienza di sé»,149 «il desiderio di Dio», che «si confonde con il desiderio di una comprensione di sé»,150 ma che, al tempo stesso, «coincide con una promozione della coscienza di sé […] che corrisponde a uno sforzo verso la giustificazione, e una giustificazione universale, a una ripresa sul male».151

Iscritto nella struttura della coscienza di sé,152 il desiderio di Dio appare come uno degli elementi della struttura antinomica della coscienza di sé,153 pone in primo piano «la relazione di reciprocità»154 o «il rapporto reciproco»155 da cui è definita e costituita la coscienza di sé, la quale, da una parte, come potere di sdoppiarsi, di riprendersi, in ogni momento, su ciò che è stata e su ciò che ha fatto, si rivela come «pensiero dell’incondizionato», «interiorità pura», «coscienza pura»,156 dall’altra, si manifesta come «impossibilità di eguagliarsi a sé», di superare «una mancanza d’essere radicale»,157 «un’alienazione essenziale»,158 «che è sottintesa dall’idea dell’ingiustificabile e che aggrava il male»,159 «nella quale affonda le sue radici la finitudine».160

«Più il soggetto approfondisce le condizioni di una piena coscienza di sé e più si intensifica il desiderio di Dio: esso corrisponde all’esperienza di una mancanza, e quest’esperienza si confonde con un’indigenza fondamentale che colpisce la coscienza di sé fino a che essa non giunge a rompere le barriere in cui la racchiude il fatto dell’individualità di coscienza».161 Se, dunque, «l’acquisizione o la formazione della coscienza di sé e dell’intenzione assoluta che la coscienza di sé comporta» si confonde, per molti versi, con ciò che Nabert definisce «l’esperienza dell’assenza di Dio»,162 il desiderio di Dio si configura come «il desiderio di una presenza»163 capace di donare alla coscienza individuale la soddisfazione a cui aspira,164 sicché Nabert non esita ad affermare che «Dio è ciò che mi manca per essere me stesso o per eguagliarmi al mio essere»,165 «la X capace di sopprimere l’incompletezza (della coscienza)»166 «la condizione della pienezza della coscienza di sé, implicata nella riflessione su di sé», «la coscienza che acquistiamo dello sforzo dell’io, della tendenza che è la sostanza (“le fond”) del nostro essere, per eguagliarsi a sé, assolutamente, e la consapevolezza inoltre di non poterlo assolutamente che grazie all’aiuto di un altro da sé».167

L’identificarsi del desiderio di Dio con l’aspirazione e «l’ambizione della coscienza di eguagliarsi a se stessa»168 e di liberarsi dalla «privazione costitutiva»,169 «originaria»,170 della finitudine e dell’«alienazione, essenziale, fondamentale, propizia al male»,171 induce Nabert a considerare i diversi metodi sperimentati dalla riflessione «per giustificare il superamento» della finitudine della coscienza individuale. Esclusa ogni concezione «ontologica» della finitudine172 ed evidenziata l’inaccettabilità della «via nella quale si impegnano la maggior parte delle filosofie»173 per «delimitare», «ridurre», «annullare» la finitudine della coscienza individuale,174 Nabert, identificata la finitudine con «l’esperienza rinnovata di una differenza tra quello che noi aspiriamo ad essere o a fare e quello che noi siamo effettivamente o che facciamo»,175 rivelata dal destarsi della riflessione, individua il principio che fonda e giustifica la possibilità della riflessione e la scoperta della finitudine non già in un principio metafisico esteriore alla coscienza, bensì nell’idea di «un atto perfettamente trasparente a sé»,176 di «un atto puro»,177 «assoluto, per mezzo del quale si effettuerebbe l’eguaglianza dell’io al suo essere»,178 che è «l’io puro»,179 e non esita a riconoscere nell’affermazione di quest’eguaglianza «a livello dell’io puro» «nientemeno che l’affermazione legittima del divino».180

Non mi soffermerò in questa sede sulle direzioni d’indagine che, a partire dall’idea del divino, si aprono alla riflessione nabertiana, vale a dire la possibilità di «costituire»181 una «criteriologia del divino […] in vista di una trascendenza e di un’immanenza costituite a partire da questa criteriologia e successive ad essa»182 e la possibilità di procedere «dalla criteriologia del divino implicata nell’io puro» a Dio, vale a dire alla determinazione nella storia e tramite un atto di fede di quel «soggetto» o «rivelatore» del divino,183 capace non solo di suscitare «la speranza di una vittoria assoluta sulla natura (e sul male)»184 ma di attestarne, «in una maniera singolare», l’effettiva possibilità,185 ma mi limiterò ad evidenziare come l’individuazione del «fondamento comune della finitudine e della riflessione»186 nell’idea dell’io puro e in quella ad esso correlativa del divino consenta a Nabert di mantenere viva, e irrisolta, la tensione tra l’idea di un male «originario»,187 «radicale»,188 «assoluto»,189 «invincibile»,190 «irrimediabile, senza giustificazione»,191 e la possibilità di far «coincidere lo sforzo verso la giustificazione con una promozione della coscienza che si eleva, in definitiva al riconoscimento del divino […], per misurare, ma anche per determinare la distanza tra le forme compiute e precarie della giustificazione e il momento in cui il problema della giustificazione non si porrebbe più»;192 la tensione tra la desolante constatazione che «la fonte del male non si inaridisce mai»193 e la speranza, forse, «la garanzia che la morte, così come il male e l’ingiustificabile, non hanno necessariamente l’ultima parola».194

Se, infatti, proprio a partire dalla finitudine e dall’idea dell’io puro, Nabert può concepire l’idea del «male radicale», «assoluto», come l’idea di «un atto che è negazione dell’idea dell’io puro, accettazione dell’io nella sua tendenza naturale all’espansione degli istinti»195 o, ancora, come il «rifiuto della riflessione, (il) rifiuto assoluto di prendere coscienza della differenza tra io e io, indifferenza a questa differenza e, assolutamente parlando, nel mondo, impossibilità radicale della nascita della riflessione medesima»,196 egli può altresì individuare nell’interiorizzazione e nella presa di coscienza del male non solo le condizioni di una presa di coscienza di sé, ma anche «un inizio di giustificazione» che coincide con la promozione di sé e dalla quale è possibile inferire riflessivamente l’affermazione che crea la coscienza «(e che è quella di un male soppresso)».197

Per questo, Nabert può affermare che il desiderio di Dio, «che coincide con una promozione della coscienza di sé»,198 «è il desiderio della soppressione del male»;199 per questo, ancora, nella convinzione che il problema del male permanga in tutte le sue tragiche dimensioni e in ciò che ha di irriducibile anche di fronte all’affermazione dell’esistenza del perfetto, Nabert esclude immediatamente che il desiderio di Dio possa essere inteso come il desiderio di un’esistenza perfetta, infinita, assoluta, e «in rapporto alla quale il male possa apparire come trascurabile o secondario, perché esso è immediatamente compensato»: «il desiderio di Dio non è il desiderio di una causa assoluta, né quello di un’esistenza necessaria o infinita, né di una provvidenza, né addirittura della garanzia di un senso assoluto conferito all’esistenza e che escluda per questa ragione il male radicale della volontà e l’ingiustificabile. Astrattamente, il desiderio di Dio è il desiderio di un ordine perfettamente libero dalle leggi della natura; concretamente, è quello di atti e anche di esseri nei quali possiamo affermare che questa liberazione si è effettivamente realizzata».200

Se, dunque, Nabert, contrapponendosi alle «tesi tradizionali» che misconoscono il male e che sopprimono o negano il rischio della possibilità del non-senso relativamente all’esistenza e al mondo, propugna una filosofia nella quale «l’accettazione di questo rischio è legata al pieno riconoscimento del male»,201 egli sottolinea anche che l’accettazione di questo rischio, lungi dal sopprimere o dal condannare il desiderio di Dio, lo intensifica;202 «segna l’inizio di uno sforzo verso la giustificazione che fa tutt’uno con una promozione della coscienza di sé e, tramite suo, con un’implicazione dell’incondizionato e del desiderio di Dio».203

Ora, è proprio a partire dall’esigenza, dall’intenzione di non «spiegare», «legittimare», «ridurre» il male, ma, al contrario, di mantenerne tutte le dimensioni e gli aspetti e, con essi, al tempo stesso, lo slancio verso Dio e il sentimento religioso,204 che Nabert introduce il problema religioso, vale a dire il problema della determinazione delle condizioni di possibilità dell’esperienza religiosa, della religione, a partire dall’analisi delle strutture della coscienza di sé, dell’individuazione delle origini del sentimento religioso, dei criteri del religioso, dei rapporti tra affermazione religiosa, coscienza religiosa, e affermazione filosofica.205

Ma come «porre il problema religioso nella relazione più stretta con la questione del male (e con l’etica in generale, nel suo principio dell’affermazione originaria), senza rinunciare a nulla della scoperta dell’ingiustificabile e senza far assegnamento su un principio esplicativo dell’universo e del male»?206 Senza escludere l’esistenza di altre possibilità di analisi e di altre radici del sentimento religioso,207 Nabert indica «una fonte dell’affermazione religiosa» nell’esperienza che duplica l’esperienza del male o la prolunga, e che non rappresenta nient’altro che un tentativo per affermare «un contrappeso» all’esperienza del male stesso.208 In verità, per Nabert, si tratta di qualcosa di più di un tentativo. Infatti, nel movimento radicale di ripresa implicito nell’affermazione stessa dell’ingiustificabile e del male e nella loro esperienza, la riflessione coglie «la presenza di una libertà o piuttosto la possibilità di una libertà capace, grazie al suo sviluppo completo, di compensare assolutamente, con il suo trionfo, non solo il male stesso, ma la limitazione collegata ai diversi ordini». In questo senso, «chi spinge al suo termine la giustificazione scopre alla radice di questo movimento un’affermazione assoluta che fa da contrappeso a tutte le forme del male».209

E tuttavia, per quale ragione Nabert sostiene che quest’affermazione assoluta «è un’affermazione religiosa»? perché introduce l’idea di religione? quali elementi, quale criterio giustificano il riconoscimento in essa di un’affermazione religiosa?

Negata ogni possibile connessione tra la propria concezione dell’«ordine religioso» e il riconoscimento dell’esistenza di un Essere o di un Assoluto trascendente210 e ricondotto il religioso all’autenticità degli atti che superano l’ordine del mondo (l’ingiustificabile) e l’ordine delle relazioni specificamente morali, Nabert individua «il criterio di ciò che è religioso», qualora ci si sforzi di definirne il concetto senza ricorrere né alle religioni positive né alla teologia, nel divino. «Sono religiosi ogni considerazione, ogni pensiero, ogni sentimento, ogni azione che si fondano sull’idea del divino».211

Se, dunque, in quanto fondata sul divino,212 l’affermazione assoluta che è all’origine del movimento di giustificazione,213 «merita intrinsecamente di essere chiamata religiosa»,214 essa lo merita ancora di più in quanto, orientata verso il divino quale «compimento della giustificazione»,215 essa «comporta (non solo) una sfida gettata al mondo, così come lo mette a nudo l’attenzione al male», ma, «più che una sfida: la certezza che una ripresa sul mondo, nel mondo, è possibile; più che possibile, dovuta, e che essa è implicata nel riconoscimento del divino».216

La sfida può dunque essere vinta? Sarebbe imprudente rispondere di sì, se è vero che, come ci ricorda Nabert, «la fonte del male non si inaridisce mai».217 E, tuttavia, con Nabert, è lecito almeno porsi una domanda: «Perché il desiderio di Dio comporta una sfida alla morte? e, grazie a una manifestazione eclatante del divino, la garanzia che la morte, così come il male e l’ingiustificabile, non hanno necessariamente l’ultima parola?».218

3. Valutazioni conclusive: «filosofia religiosa» o «filosofia della religione»?

All’indomani della pubblicazione postuma de Le Désir de Dieu e, con essa, del pieno rivelarsi dell’intenzione fondamentale che sostiene tutta l’opera nabertiana e che le conferisce la sua unità nell’intenzione di cercare di Dio,219 la critica, una volta riconosciuta come parte integrante — e decisiva — del pensiero nabertiano anche quest’opera postuma e gli inediti pubblicati successivamente ad essa, si è più volte interrogata sul significato e sulla designazione più pertinente da attribuire a questa «ricerca di Dio», dando luogo alla sua definizione ora in termini di «filosofia religiosa», ora in termini di «filosofia della religione».

Alla tesi condivisa da due dei maggiori interpreti di Nabert, Jacques Baufay e Paul Naulin, che fosse possibile qualificare la filosofia nabertiana come «filosofia religiosa»,220 nella mia monografia, Jean Nabert filosofo della religione (1987), opponevo la tesi che «l’intenzione fondamentale della ricerca di Nabert (potesse) trovare una sua più corretta designazione nell’espressione “filosofia della religione”»,221 sostenendo non solo che, allorché Nabert, ne Le Désir de Dieu, formula i due principi fondamentali della sua concezione parla esplicitamente di «filosofia della religione»,222 ma soprattutto mostrando la possibilità di pervenire positivamente, tramite un’attenta considerazione dello sviluppo dell’opera di Nabert e in particolare proprio dei frammenti de Le Désir de Dieu, a una definizione non solo negativa, ma positiva, della filosofia della religione nabertiana e alla determinazione del suo metodo e dei suoi contenuti essenziali.

Se, in termini negativi mi sembrava che dai frammenti dell’opera postuma nabertiana potesse chiaramente emergere l’impossibilità di concepire la filosofia della religione di Nabert come un «un sostituto della religione» o «un equivalente della religione o un passaggio facile alla stessa», nonché la sua irriducibilità tanto alla teologia e alla teologia filosofica quanto a una descrizione puramente psicologica o a un’analisi storica dell’esperienza religiosa,223 in positivo ne evidenziavo la presentazione da parte di Nabert nei termini di «una teologia capace di soddisfare contemporaneamente le esigenze della filosofia e quelle dell’esperienza religiosa» o, ancor più «esattamente», di «una preparazione a una teologia religiosa propriamente detta» e, in questo senso, di «una filosofia prima vertente sulle relazioni tra il fenomeno e l’Assoluto».224

E, poiché l’Assoluto di cui parla la filosofia della religione nabertiana non è in alcun modo un Assoluto concepito realisticamente o dogmaticamente, un Assoluto ultrafenomenico o sovrafenomenico, né l’Assoluto-Dio oggetto della religione e del cristianesimo, bensì un «Assoluto interiore e ideale» alla cui idea la riflessione può pervenire tramite la scoperta nella coscienza della presenza insopprimibile di un’aspirazione all’incondizionato, di una tendenza assoluta all’Assoluto costitutiva della coscienza stessa, nonché tramite le esperienze umane fondate su questa tendenza, individuavo «l’oggetto della filosofia della religione nabertiana» non già nella «religione come dimostrazione dell’esistenza del Dio trascendente (e come) determinazione della sua natura (e) dei suoi attributi», bensì nella religione o nell’esperienza religiosa «di cui l’analisi riflessiva delle strutture della coscienza di sé determina le condizioni di possibilità o le operazioni costitutive», e, coerentemente con quest’affermazione, ravvisavo «il contenuto intrinseco della religione o dell’esperienza religiosa tematizzata dalla filosofia della religione nabertiana, l’ambito da essa esplorato», non più nel Dio trascendente, nella sua natura, nei suoi attributi, ma nel «divino al quale l’analisi delle strutture della coscienza di sé conduce»225

Ora, in queste valutazioni conclusive, vorrei sinteticamente proporre a sostegno della tesi poc’anzi ricordata alcune ulteriori considerazioni. In primo luogo, la constatazione che la designazione della filosofia di Nabert come una «filosofia della religione» è oggi non solo condivisa, ma, come rivelano, ad esempio, gli scritti di Jean Greisch e di Rolf Kühn, riproposta con argomentazioni assai prossime alle mie;226 in secondo luogo, l’evidenziazione della presenza nella filosofia di Nabert di almeno due aspetti fondamentali, l’importanza del tema del male e del tema di Dio e la priorità del religioso su Dio, che mi sembrano ineludibili per la definizione stessa dello statuto, dell’ambito e dell’oggetto della filosofia della religione.

Se, relativamente all’importanza del tema del male e del tema di Dio per la determinazione stessa della filosofia della religione, mi limiterò a ricordare le recenti affermazioni di Miklos Vetô che «Dio e il male (sono) nozioni chiave della filosofia della religione»227 e che la loro «reinclusione»228 nell’ambito della filosofia della religione «potrebbe permettere alla filosofia della religione di determinare meglio il suo ambito»,229 per quanto concerne la priorità che la filosofia della religione accorda al religioso, alla religione, prima ancora che a Dio, quale oggetto specifico della propria indagine, vorrei riaffermare non solo che, come già in precedenza segnalato,230 questa priorità consente di «tracciare una frontiera netta» tra «filosofia della religione» e «teologia filosofica», configurando la prima come «un’interrogazione filosofica che, anziché focalizzarsi direttamente sull’idea di Dio (come fa la teologia filosofica), si sforza di “pensare la religione” in tutta la sua complessità»,231 ma altresì richiamare sinteticamente l’esemplare espressione che questa distinzione mi sembra trovare nella concezione della filosofia della religione proposta da Bernhard Welte, non senza sottolineare la presenza anche in essa, benché con non eguale rilevanza e con una concezione del tutto diversa, del tema del male e del tema di Dio.

Muovendo dalla definizione della filosofia della religione come «il pensiero filosofico che assume come oggetto la religione, e che dunque si sforza di chiarire riflessivamente l’essenza e le modalità della religione»,232 e dalla successiva determinazione della religione come «la relazione dell’uomo con Dio o anche con la sfera del divino»,233 Welte fissa da subito quali siano gli oggetti fondamentali della filosofia della religione: innanzitutto o immediatamente, la religione,234 quindi, mediatamente, Dio, come «principio della religione»,235 come «la realtà a partire dalla quale la religione propriamente si costituisce»236 e l’uomo, in quanto «soggetto della religione»,237 «in quanto è il soggetto che si può rapportare a Dio»,238 e il comportamento religioso dell’uomo, perché «soltanto là dove Dio diventa il fattore che determina nella sua essenza il comportamento dell’uomo possiamo parlare di religione in senso pieno».239

Non è certo mia intenzione ignorare o sottovalutare la distanza che separa la concezione della filosofia della religione, del male, di Dio, di Nabert da quella di Vetö e di Welte, ma più semplicemente quella di riaffermare che, se, come ha rilevato Mario Micheletti, «in ogni caso, la filosofia della religione deve essere definita dai problemi, non dalle soluzioni»,240 è legittimo definire la filosofia di Nabert come «filosofia della religione».

Relazione svolta nel corso del Seminario, Jean Nabert: male ingiustificabile e metafisica della testimonianza, promosso dal Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane dell’Università degli Studi di Macerata (6 marzo 2002). Ringraziamo il prof. Giovanni Ferretti, Direttore del Dipartimento, per l’autorizzazione ad anticipare in questa sede il testo, che verrà pubblicato anche negli Atti. (E.B.)


  1. Per quanto concerne le bibliografie nabertiane più recenti, ma non prive di talune lacune, cfr. Bibliographie de Jean Nabert, in J. Nabert, L’expérience intérieure de la liberté et autres essais de philosophie morale, PUF, Paris 1994, pp. 431-442; Nota bibliografica, in J. Nabert, Saggio sul male, a cura di C. Canullo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, pp. XXXV-XLV. Per quanto concerne gli ultimi contributi relativi ai temi del male, della religione e della filosofia della religione nell’opera nabertiana, cfr. P. Colin, L’héritage de Jean Nabert, in «Esprit», XLIII (1988), pp. 119-128; M. Héraud, Le mal selon Simone Weil et Jean Nabert, in «Cahiers Simone Weil», X (1987), pp. 308-319; J. Greisch, La philosophie de la religion devant le fait chrétien, in AA. VV., Introduction à l’étude de la théologie, sous la direction de J. Doré, Desclée, Paris 1991, pp. 243-514 (in particolare, relativamente a Nabert, pp. 475-484; L. Tengelyi, Der allgemeine Begriff des Bösen bei Jean Nabert, in «Theologie und Philosophie», LXX (1995), pp. 259-267; R. Kühn, Reflexionsphilosophie als Religionsphilosophie bei Jean Nabert, in «Kant-Studien», LXXXIX (1998), pp. 68-79. ↩︎

  2. Cfr. F. Rossi, Jean Nabert filosofo della religione, Editrice Benucci, Perugia 1987, pp. 17-28. ↩︎

  3. Cfr. P. Colin, art. cit., p. 119, 121. ↩︎

  4. Ibid., p. 127. ↩︎

  5. Ibid., p. 119. ↩︎

  6. Ibid., p. 122. Sullo stretto legame tra l’“ethische Weltanschauung” nabertiana e l’opera di Ricœur, cfr. anche L. Tengelyi, art. cit., pp. 259, 263-264. ↩︎

  7. P. Colin, art. cit., p. 126. ↩︎

  8. Ibid., p. 128. Colin fa riferimento ai tre volumi di Tempo e racconto sottolineando la «correspondance» tra le «aspirations profondes» di quest’opera e «une inquiétude sous-jacente à la recherche de Nabert», inquietudine che egli sintetizza nella triplice affermazione che «se reconnaître dans sa propre histoire, en faire une histoire sensée, c’est, pour le sujet, quelque chose de vital, voire de proprement “salutaire”»; che «l’effort pour se reconnaître dans son histoire tend, à la limite, vers l’adéquation de soi à soi», sicché «le désir d’être (retrouve), dans cette histoire, son expression et, toujours, à la limite, son accomplissement»; e, infine, che «ce vœu d’adéquation de soi à soi reste un vœu, qui oriente notre effort, mais qui ne pourrait être comblé sans que disparaisse ce qui fait justement de nous un sujet historique, à savoir l’inadéquation de nous-mêmes à nous-mêmes» (ibidem). La parentesi è mia. ↩︎

  9. Ibid., p. 122. ↩︎

  10. Ibid., p. 123. ↩︎

  11. M. Héraud, art. cit., p. 310. ↩︎

  12. Ibidem. ↩︎

  13. Ibid., p. 311. ↩︎

  14. Ibid., pp. 311-312. ↩︎

  15. Ibid., p. 312. ↩︎

  16. Ibid., p. 313. ↩︎

  17. Ibid., p. 314. ↩︎

  18. Ibid., p. 315. ↩︎

  19. Ibid.: «Simone Weil reste fidèle à un stoïcisme imprégné de christianisme […] Nabert relève de l’inspiration kantienne» (pp. 316-317); «Simone Weil est tout entière tournée vers une réalité transmondaine, vers un Dieu créateur, dont Nabert repousse l’idée» (p. 318). ↩︎

  20. Ibid., pp. 318-319, 315. ↩︎

  21. Ibid., p. 319. ↩︎

  22. Cfr. supra la nota 1. ↩︎

  23. J. Greisch, Le buisson ardent et les Lumières de la raison. L’invention de la philosophie de la religion, Tome I. Héritages et héritiers du XIX siècle, Les Éditions du Cerf, Paris 2002, p. 7. ↩︎

  24. Ibidem. E, tuttavia, per quanto concerne in generale la concezione greischiana della «filosofia della religione» e della sua storia, mi riferitò sia all’articolo del 1991 sia al suo recentissimo volume, segnalando tra parentesi quadra la pagina o e pagine di quest’ultimo corrispondenti a quelle delle affermazioni e delle citazioni tratte dall’articolo precedente e dei tipi in esso analizzati. ↩︎

  25. Greisch è un convinto assertore dell’origine moderna della filosofia della religione (J. Greisch, art. cit., p. 247 [8, 11, 31]), la quale è certamente «une discipline beaucoup plus récente [della «teologia filosofica»], résultant des différentes projets (avortés) de constituer une théologie naturelle ayant pour centre de gravité le concept ambigu de “religion naturelle”» (ibid. p. 247 [31]). Greisch attribuisce l’invenzione del termine «filosofia della religione» al gesuita carinziano Sigismund von Storchenau (1731-1789), filosofo wolffiano, avversario accanito del deismo e autore dal 1773 al 1781 di una Philosophie der Religion in sette volumi, ulteriormente completata da un’opera intitolata, Seltenere Urkunden aus dem inneren Archive der Religionsphilosophie (1791) (ibidem). ↩︎

  26. Greisch definisce più volte la filosofia della religione. In questa sede, mi limiterò a citare la sua definizione più ampia come «l’effort philosophique consistant à prendre acte de l’effectivité des religions positives et de l’ensemble de leurs manifestations, rites, croyances, attitudes spirituelles, mais aussi catégories mentales et discursives, afin de dégager leur intelligibilité propre, en les replaçant dans la perspective plus globale d’une réflexion sur l’évolution religieuse de l’humanité» (ibid., p. 248 [33, dove tuttavia questa definizione è riproposta sotto forma di enunciazione dei compiti spettanti alla filosofia della religione: «Telle que nous l’entendons ici, la philosophie de la religion a pour tâche de penser la religion dans la totalité de ses manifestations, ce qui l’oblige 1, à élucider le sens des religions positives, au lieu de construire de toutes pièces un concept philosophique de religion; 2, à en analyser l’ensemble des expressions individuelles et collectives, rites, croyances, attitudes spirituelles, mais aussi catégories mentales et discursives qu’elle produit; 3, en tenant compte des données de l’histoire des religions qu’il s’agit d’intégrer dans une réflexion plus générale sur le sens de l’histoire universelle»]). ↩︎

  27. Ibid., pp. 245-248 [9, 26-31]. ↩︎

  28. Ibid., pp. 248-251 [9, 34-36]. Per quanto concerne la distinzione della «filosofia della religione» dalla «teologia filosofica» e dalla «filosofia religiosa», mi limiterò alla seguente citazione: «comme discipline philosophique sui generis [la filosofia della religione] suppose la découverte d’un champ d’investigation spécifique, distinct aussi bien de la théologie philosophique, qui se demande comment «le dieu», ou Dieu, vient dans la philosophie, que de la «philosophie religieuse», qui déploie les implications philosphiques d’une vision religieuse particulière du monde» (J. Greisch, op. cit., p. 9). La parentesi quadra e i corsivi sono miei. ↩︎

  29. J. Greisch, art. cit., pp. 260-328 [61-63, 73-301]. ↩︎

  30. Ibid., pp. 328-392 [64-65, 307-614]. ↩︎

  31. Ibid., pp. 393-417 [65-67]. ↩︎

  32. Ibid., pp. 417-467 [67-68]. ↩︎

  33. Ibid., pp. 467-501 [68-69]. ↩︎

  34. Ibid., p. 467. ↩︎

  35. Ibid., p. 475. ↩︎

  36. Ibid., pp. 475-476. ↩︎

  37. Ibid., pp. 476-477. ↩︎

  38. Ibid., p. 476. ↩︎

  39. Ibid., pp. 477-478. ↩︎

  40. Ibid., pp. 478-479. ↩︎

  41. Ibid., pp. 479-480. ↩︎

  42. Ibid., pp. 480-481. ↩︎

  43. Ibid., p. 480. ↩︎

  44. Ibid., p. 481. ↩︎

  45. Ibid., pp. 481-482. ↩︎

  46. Ibid., p. 482. ↩︎

  47. Ibid., pp. 482-483. ↩︎

  48. Ibid., p. 483. ↩︎

  49. P. Levert, De la confession des pechés ou la dénonciation du Pharisien selon Jean Nabert, in «Revue des Sciences religieuses», XXXXI (1970), p. 289. ↩︎

  50. J. Nabert, Le Désir de Dieu, cit., p. 36, 146. ↩︎

  51. Ibid., pp. 26-27, 54, 56, 58. ↩︎

  52. Ibid., p. 55. ↩︎

  53. Ibid., p. 61. ↩︎

  54. Ibid., p. 59. ↩︎

  55. Ibid., p. 62. ↩︎

  56. Ibid., p. 55. ↩︎

  57. Ibid., p. 57, 59. Su questo punto, cfr. P. Levert, La pensée existentielle de Jean Nabert, in «Les Études Philosophiques», XVII (1962), p. 368. ↩︎

  58. J. Nabert, Le Désir de Dieu, cit., p. 156 (il corsivo e le parentesi sono mie). ↩︎

  59. Ibid., p. 57. ↩︎

  60. J. Nabert, Éléments pour une éthique, Paris 1943, pp. 3-4 (tr. it. di F. Rossi, Padova 1975, pp. 7-9). ↩︎

  61. Ibid., p. 16 (21). ↩︎

  62. Ibid., pp. 56-57 (63), e che, proprio per questo, «si sottrae all’analisi e costituisce la prova di quanto è presente nell’io che sfugge al suo potere» (p. 29 [36]). ↩︎

  63. Ibid., p. 51 (57). ↩︎

  64. Ibid., pp. 28 (34), 57 (63), 105 (113), 128 (138), 130 (140), 132-134 (142-145), ecc. ↩︎

  65. Ibid., pp. 4 (8), 11 (16). ↩︎

  66. Ibid., pp. 141-142 (152). ↩︎

  67. Ibid., pp. 48-116 (55-108). ↩︎

  68. Ibid., pp. 58-63 (65-69). ↩︎

  69. Ibid., p. 18 (24). ↩︎

  70. Ibid., p. 4 (8). ↩︎

  71. Ibid., p. 127 (137). ↩︎

  72. Ibid., p. 16 (21). ↩︎

  73. Ibid., p. 12 (16). ↩︎

  74. Ibid., p. 228 (242). ↩︎

  75. Ibid., p. 17 (22). ↩︎

  76. Ibid., p. 70 (77), 26 (33). ↩︎

  77. P. Colin, art. cit.: «Allant vers la métaphysique au travers de l’éthique, cet ouvrage (Éléments pour une éthique) était un livre d’esperance» (p. 124). La parentesi e il corsivo sono miei. ↩︎

  78. J. Nabert, Éléments pour une éthique, cit., p. 65 (72). ↩︎

  79. Ibid., p. 65 (74). ↩︎

  80. Ibid., pp. 221 (235), 219 (233). ↩︎

  81. Ibid., p. 225 (239). ↩︎

  82. Ibid., p. 228 (243). ↩︎

  83. Ibid., p. 226 ss. (240 ss.). ↩︎

  84. Ibid., p. 236 (250). ↩︎

  85. J. Nabert, Essai sur le mal, Paris 1955, pp. 49, 74, 113, 120, 143, 146 (tr. it. di F. Rossi, Padova 1974, pp. 59, 86, 132, 139, 164, 167). ↩︎

  86. Ibid., p. 136 (156). ↩︎

  87. Ibidem. ↩︎

  88. Ibid., p. 3 (9). ↩︎

  89. Ibid., p. 5 ss. (11 ss.). ↩︎

  90. Ibid., p. 35 (44). ↩︎

  91. Ibid., p. 40 (49). ↩︎

  92. P. NAULIN, Le problème de Dieu dans la philosophie de Jean Nabert (1881-1960), A.P. F.L. C., Clermont-Ferrand 1980, pp. 61-62. ↩︎

  93. J. Nabert, Essai sur le mal, cit., p. 136 (156). Le parentesi sono mie. ↩︎

  94. Ibid., p. 147 (168). ↩︎

  95. Ibid., p. 31 (39). ↩︎

  96. Ibidem. ↩︎

  97. Ibid., pp. 44 (54), 53 (64). ↩︎

  98. Ibid., p. 123 (142). ↩︎

  99. Ibid., pp. 127-128 (147). ↩︎

  100. Ibid., p. 44 (54). ↩︎

  101. Ibid., p. 44 (55). ↩︎

  102. Ibid., p. 49 (59). ↩︎

  103. Ibid., p. 45 (56). ↩︎

  104. Ibid., pp. 41-66, 87, 102 (51-78, 101, 118). ↩︎

  105. Ibid., pp. 59-60 (71), 74 (87). ↩︎

  106. Ibid., pp. 67-89, 90, 97, ecc. (79-103, 105, 113, ecc.). ↩︎

  107. Ibid., p. 76 (89). ↩︎

  108. Ibid., p. 68 (81). ↩︎

  109. Ibid., p. 80 (93). ↩︎

  110. Ibid., p. 83 (96). ↩︎

  111. Ibid., pp. 86-87 (100). Le parentesi sono mie. ↩︎

  112. Ibid., p. 87 (101). ↩︎

  113. Ibid., p. 82 (96). ↩︎

  114. Ibid., p. 141 (161). ↩︎

  115. Ibid., p. 148 (169). ↩︎

  116. Ibid., pp. 116 (134), 148 (169).,. ↩︎

  117. Ibid., pp. 116 (134). ↩︎

  118. Ibid., pp. 114 (132), 150 (172), 160 (180). ↩︎

  119. Ibid., p. 159 (179). ↩︎

  120. Ibid., p. 127 (147). ↩︎

  121. Ibid., p. 113 (131). ↩︎

  122. Ibid., pp. 116, 121, 132, 142 (134-135, 139-140, 152, 163). ↩︎

  123. Ibid., p. 142 (163). ↩︎

  124. Ibid., pp. 121-123 (140-142). Su questo punto, cfr. anche J. Nabert, Le Désir de Dieu, cit., p. 50. ↩︎

  125. J. Nabert, Essai sur le mal, cit., pp. 124-127 (143-146). ↩︎

  126. Ibid., pp. 127-128 (146-147). ↩︎

  127. Ibid., p. 139 (159). ↩︎

  128. Ibidem. ↩︎

  129. Ibidem. ↩︎

  130. Ibid., p. 141 (161). ↩︎

  131. Ibidem. ↩︎

  132. Ibid., p. 145 (166). ↩︎

  133. Ibid., p. 143 (164). ↩︎

  134. Ibid., p. 145 (166). ↩︎

  135. Ibid., p. 146 (167). ↩︎

  136. Ibid., p. 148 (169). ↩︎

  137. Ibidem. ↩︎

  138. Ibid., p. 156 (178). ↩︎

  139. Ibidem. ↩︎

  140. Ibid., p. 156 (178-179). ↩︎

  141. Ibid., p. 157 (179). ↩︎

  142. J. Nabert, Le Désir de Dieu, cit., p. 49. Relativamente al male, cfr. pp. 26-27, 36, 44, 49-72, 96-97, 134, 145-146, 154, 174, 198, 202-203, 215, 313-314, 349, 357, 359-360, 364-365, 375. ↩︎

  143. Ibid., p. 21. ↩︎

  144. Ibid., p. 349. ↩︎

  145. Ibid., p. 324. ↩︎

  146. Ibid., p. 300. ↩︎

  147. Ibid., p. 327. ↩︎

  148. Ibid., p. 326. ↩︎

  149. Ibid., p. 60, 108, 110. ↩︎

  150. Ibid., p. 21. ↩︎

  151. Ibid., p. 56. ↩︎

  152. Ibid., p. 27. ↩︎

  153. Ibid., p. 21. ↩︎

  154. Ibid., p. 22. ↩︎

  155. Ibid., p. 72. ↩︎

  156. Ibid., p. 22. ↩︎

  157. Ibid., p. 52. ↩︎

  158. Ibid., p. 32. ↩︎

  159. Ibid., p. 54. ↩︎

  160. Ibid., p. 52. ↩︎

  161. Ibid., p. 59. ↩︎

  162. Ibid., p. 115. ↩︎

  163. Ibid., p. 117. ↩︎

  164. Ibid., pp. 114-115. ↩︎

  165. Ibid., p. 59. ↩︎

  166. Ibid., p. 109. ↩︎

  167. Ibid., p. 109. ↩︎

  168. Ibid., p. 170. ↩︎

  169. Ibid., p. 52. ↩︎

  170. Ibid., p. 36. ↩︎

  171. Ibid., p. 51. ↩︎

  172. Ibid., pp. 28-32. ↩︎

  173. Ibid., p. 26. ↩︎

  174. Ibid., pp. 25-27. ↩︎

  175. Ibid., p. 176. ↩︎

  176. Ibid., p. 35. ↩︎

  177. Ibid., p. 45, 42. ↩︎

  178. Ibid., p. 35. ↩︎

  179. Ibid., pp. 31-32, 42, 44-46, 49-50, 52-54, 62, 71, 75-83, 88-89, 93, 95-96, 98-100, 102-103, 105, 116, 135, 189-191, 198, 203, 205, 213-214, 216-217, 219-220, 222-223, 234-235, 242, 248, 250, 254, 257, 269, 272, 355-356, 358-363, 367-368, 370-380. ↩︎

  180. Ibid., p. 32. ↩︎

  181. Ibid., p. 34. ↩︎

  182. Ibid., p. 32. ↩︎

  183. Ibid., p. 32, 339-340, 360. ↩︎

  184. Ibid., p. 375. La parentesi è mia. ↩︎

  185. Ibid.: «Rien n’nterdirait, dès lors, de penser que le divin peut prendre corps dans l’histoire, attester, d’une manière singulière, la victoire de la surnature» (p. 45). I corsivi sono miei. Di «victoire», «assurance d’une victoire» sulla natura e sul male, Nabert parla anche a p. 340, 360, 375. Particolarmente significativa appare inoltre, in questo senso, la critica nabertiana nei confronti di quel «razionalismo dell’interiorità», che, incapace di soddisfare l’aspirazione dell’io a una giustificazione che coincida con «la possibilitè d’une libération effective à l’égard de ce qui le retient dans les liens de la nature et du mal», «demeure […] indifférent aux désirs profonds du moi et à sa vérité» (ibid., pp. 360-361). Su queste direzioni, cfr. il mio Jean Nabert filosofo della religione, cit., pp. 513-650. ↩︎

  186. J. Nabert, Le Désir de Dieu, cit., p. 49. ↩︎

  187. Ibid., p. 36, 146. ↩︎

  188. Ibid., pp. 26-27, 54. ↩︎

  189. Ibid., p. 55. ↩︎

  190. Ibid., p. 61. ↩︎

  191. Ibid., p. 59. ↩︎

  192. Ibid., p. 64. Il corsivo è mio. ↩︎

  193. Ibid., p. 134. ↩︎

  194. Ibid., p. 375. I corsivi sono miei. ↩︎

  195. Ibid., p. 50. ↩︎

  196. Ibid., p. 55. ↩︎

  197. Ibid., p. 55, 59. ↩︎

  198. Ibid., p. 56. ↩︎

  199. Ibid., p. 55. E ancora: «Le désir de Dieu c’est le mal surmonté. Il démeure désir, sans que le désir puisse se transformer en une certitude du mal supprimé = Dieu» (ibid., p. 56). ↩︎

  200. Ibid., p. 58. ↩︎

  201. Ibidem. ↩︎

  202. Ibid., p. 56. ↩︎

  203. Ibid., p. 58. ↩︎

  204. Ibid., p. 61. ↩︎

  205. Ibid., pp. 61-72. ↩︎

  206. Ibid., p. 61. ↩︎

  207. Ibid., pp. 63-64. ↩︎

  208. Ibid., p. 64. ↩︎

  209. Ibid., pp. 64-65. ↩︎

  210. Ibid., p. 62. ↩︎

  211. Ibid., pp. 65-66. ↩︎

  212. Ibid., p. 64. ↩︎

  213. Ibidem. ↩︎

  214. Ibid., p. 69. ↩︎

  215. Ibid., p. 64. ↩︎

  216. Ibid., p. 68. ↩︎

  217. Ibid., p. 134. ↩︎

  218. Ibid., p. 375. ↩︎

  219. Cfr. P. Levert, In memoriam Jean Nabert, in «Les Études Philosophiques», XV (1960), pp. 521-523; L. Robberechts, Essai sur la philosophie réflexive, vol. I: De Biran à Brunschvicg, Duculot, Namur-Gembloux 1971: «C’est le Dieu le plus problèmatique qui a le plus de chances d’être le vrai Dieu. Nabert passa de nombreuses années à chercher ce Dieu-là, ainsi qu’en témoignent les centaines de pages de notes qu’il laissa sur ce sujet au moment de sa mort. Et si l’on veut bien admettre que c’est une recherche analogue qui anime les authentiques croyants, ceux pour qui la foi n’est pas un point final mais le commencement de l’interrogation, on comprendra que la toute dernière phrase que nous ait communiqué sur le problème religieux le grand athée que fut Nabert, soit cet aveu que, finalement, il se sentait plus éloigné des incroyants que des croyants» (p. 375). ↩︎

  220. Cfr. J. Baufay, La philosophie religieuse de Jean Nabert, Presses Universitaires de Namur, Namur 1974: «Qualifier de religieuse la philosophie de Nabert n’équivaut pas à la disqualifier comme philosophie. Ni à la reduire au statut d’une “philosophie de la religion” juxtaposée, dans l’œuvre du philosophe, à une doctrine de la connaissance, une morale et une théorie de l’art. Mais la désignation de “religieuse” ne conviendrait-elle à une philosophie qui s’accmplit dans la position du problème religieux? Non seulement parce que celui-ci concernerait une région de l’existence “supérieure” aux autres, mais avant tout parce qu’i animerait les questions sous-jacentes aux autres dimensions de l’expérience humaine et. pour tout dire, les fonderait» (p. 11); P. Naulin, Le problème de Dieu dans la philosophie de Jean Nabert (1881-1960), cit.: «Il est certain que la philosophie de Nabert est, en toute rigueur, une philosophie religieuse: elle ne se contnte pas, en effet, de faire place à la religion parmi les “fonctions de la conscience”, elle est religieuse en ce que l’affirmation sur laquelle elle se fonde se révèle comme une affirmation religieuse. Nabert le dit nettement: “l’affirmation religieuse coïncide avec l’affirmation philosophique saisie à sa source”. C’est pourquoi le progrès de la recherche philosophique se traduit par l’émergence du probleme de Dieu» (pp. 132-133). ↩︎

  221. F. Rossi, op. cit., p. 18. ↩︎

  222. Ibid., pp. 17-18, 167-168. ↩︎

  223. Ibid., p. 22. ↩︎

  224. Ibid., pp. 22-23. ↩︎

  225. Ibid., pp. 25-27. ↩︎

  226. Si veda, per esempio, l’importanza che Rolf Kühn attribuisce agli studi critici dedicati da Nabert a Brunschvicg e a Bergson (R. Kühn, art. cit., pp. 68, 74-77) e il rilievo ad essi assegnato nel mio Jean Nabert filosofo della religione, cit., cap. IV: Nabert interprete della filosofia della religione di Brunschvicg e di Bergson, pp. 237-332. Di un modello di «teologia fondamentale» presente in Nabert e Ricœur parla invece Stefan Orth in Das verwundete Cogito und die Offenbarung. Von Paul Ricœur und Jean Nabert zu einem Modell fundamentaler Theologie, Herder, Freiburg i. Br.-Basel-Wien 1999. ↩︎

  227. M. Vetö, Dieu et le mal, notions clef de la philosophie de la religion, in AA. VV., Filosofia della religione tra etica e ontologia, in «Archivio di Filosofia», LXIV (1996), n. 1-3, pp. 341-353. ↩︎

  228. Ibid., p. 347. ↩︎

  229. Ibid., p. 341. ↩︎

  230. Cfr. supra note 25-28. ↩︎

  231. J. Greisch, op. cit., pp. 31-32. La parentesi è mia. ↩︎

  232. B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto. Trattato di filosofia della religione, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 14. ↩︎

  233. Ibid., p. 21. ↩︎

  234. Ibidem. ↩︎

  235. Ibid., p. 36 ss. ↩︎

  236. Ibid., p. 39. ↩︎

  237. Ibid., p. 149 ss. ↩︎

  238. Ibid., p. 151. ↩︎

  239. Ibidem. Sulla filosofia della religione di Welte, cfr. il mio Bernhard Welte filosofo della religione, Editrice Benucci, Perugia 1997. ↩︎

  240. Cfr. AA. VV., Il metodo della filosofia della religione, a cura di A. Babolin, vol. I, Editrice «La Garangola», Padova 1975, p. 279. ↩︎