Dialogo tra le religioni e bene universale

Introduzione

Un interrogativo guiderà le riflessioni di questo contributo: quale ruolo possono oggi avere le tradizioni religiose nella realizzazione di un mondo pacificato, giusto e fraterno? Gli scenari globali a cui assistiamo, le nuove problematiche relative all’integrazione tra le culture, l’esigenza di azioni di salvaguardia del creato e di nuovi modelli sostenibili di sviluppo, la difesa dei diritti e della dignità degli esseri umani ci portano a riflettere sul contributo che il patrimonio morale e simbolico delle religioni può offrire alla costruzione e alla realizzazione della dimensione universale del bene comune. Questo tema si intreccia, per un verso, con la problematica della secolarizzazione e, per altro verso, con l’intricato problema della laicità delle istituzioni politiche e i differenti modelli in cui essa si invera.

Inclusione e cooperazione

Il dibattito sulla laicità è tornato in voga negli ultimi anni. Lo smarrimento che l’Occidente sta vivendo a seguito dell’irrompere sulla scena mondiale di nuove forme di fondamentalismi e la ricerca di nuove garanzie stabilizzatrici sul piano identitario, motivano l’esigenza di un surplus di indagine circa le ragioni del convivere e l’ethos che dovrebbe animare lo spazio pubblico. Su questo sfondo pare urgente tornare a discutere delle legature e dei vincoli sociali, a partire dai fondamenti etici delle democrazie. Emerge con forza, dunque, non solo un’istanza volta alla ricerca di ragioni condivise sul mondo che vogliamo continuare ad abitare, ma anche una nuova interrogazione sulle emergenti questioni della convivenza plurale. Non è sufficiente affrontare le sfide cogenti di questa nostra nuova era globale in relazione al semplice micro-ambito delle scelte individuali o di gruppo, né può bastare intraprendere iniziative relative al solo meso-ambito dell’appartenenza a uno Stato, ma ci siamo resi conto che il livello fondamentale per gestire i problemi di oggi è necessariamente il macro-ambito globale offerto dalla dimensione planetaria.1 Proposte etico-politico-economiche che non si inverino secondo quest’ottica sono destinate ad essere parzialmente efficaci, proprio perché il contenuto stesso delle sfide globali è tale da dover essere colto nella sua totalità, attraverso una pluralità di azioni volte alla governance dei processi planetari.

Le questioni politiche hanno sempre risvolti, relazioni o natura globali. Il mondo attuale pare smarrirsi di fronte alle provocazioni della natura (crisi ecologica e pandemie), della tecnica (genetica e modificazioni della natura umana), dell’economia (crisi del modello capitalistico), delle culture (civiltà a confronto, guerre, diritti dell’uomo). Una nuova stabilità mondiale è lo scenario auspicabile per il futuro dell’umano. In questo quadro cosa possono fare le religioni e in particolare il cristianesimo?

Serve anzitutto, a mio parere, provare a ridefinire un modello di laicità adatto ai segni dei tempi. Se gli Stati moderni sono il risultato del faticoso percorso storico teso alla fondazione di un ordinamento politico che assicuri libertà e pace ai cittadini al di là di «confessioni, visioni del mondo, origine etnica o sociale»2, divenendo così strumenti di inclusione tra diversi e tolleranti spazi di convivenza, allo stesso tempo essi dovrebbero democraticamente lasciare esprimere le risorse etiche e di senso che le religioni hanno, evitando così un’indebita loro estromissione dal novero pubblico. Lasciare che il pensiero religioso concorra positivamente alla vita pubblica e alla realizzazione del bene comune è un atto di attenzione che le costituzioni politiche dovrebbero avere nei confronti di questa dimensione ineliminabile dell’esistenza umana. Ciò ovviamente non significa che le istituzioni nazionali o sovranazionali debbano rinunciare alla loro legittima autonomia e alla piena separazione tra diritto e religione, ma significa in ultima analisi non privarsi, sul piano della giusta convivenza, del contributo che le religioni possono offrire in ordine alla vita comune, quando esse siano disposte a rinunciare ad ogni istanza totalizzante e fondamentalistica.

Il tempo della post-secolarità, per usare un’espressione di Habermas,3 ci spinge verso un nuovo orientamento sull’idea di laicità. Esclude la riproposizione di una laicità rigida che si esplicita neoilluministicamente nel non riconoscimento del valore pubblico-sociale del pensiero religioso e nell’esclusione giuridica del suo apporto alla vita dello Stato.

L’idea che i dispositivi politici (dopo Weber) siano neutrali rispetto alla dimensione valoriale e che nello spazio pubblico possano solo essere affrontate questioni di giustizia (allontanando ogni riferimento a idee di vita buona) sembra risultare debole e fuorviante. In fondo l’idea di laicità coltivata dal Moderno, esplicitatasi sostanzialmente come gestione negoziale di interessi individuali o corporativi, è in crisi. A fronte di ciò proceduralità e sostanzialità, finitezza e universalità, giustizia e bene, etica e politica dovrebbero tornare a coniugarsi in modo sinergico. Le società post-secolari non sono più in grado di "sopportare" la rigidità del modello liberale della separazione tra sfera religiosa/morale (ambito privato) e sfera giuridica (ambito pubblico). Tale paradigma di laicità poteva attuarsi in passato perché una comune cornice valoriale e la koinè culturale funzionavano da matrici unificanti. L’erosione di queste basi pre-politiche espone lo Stato laico all’indifferenza rispetto alle preferenze dei singoli, con la conseguenza che il diritto si limiti a normare le esigenze emergenti, manifestando un sostanziale silenzio sull’idea complessiva di uomo e sul futuro destino dell’umanità. Con il rischio surrettizio che tale riduzione dell’agire politico a mera questione negoziale possa far implodere la struttura stessa delle democrazie e il fragile equilibrio tra le differenze su cui si articola.

Il mondo e l’Occidente in particolare sono chiamati all’esercizio di una nuova responsabilità nella gestione della conflittualità tra diversi. Si tratta di ripensare prima su scala nazionale e poi transnazionale la natura stessa dello spazio sociale, valorizzandone i tratti inclusivi e cercando, allo stesso tempo, di limitare le spinte identitarie e le chiusure sistemiche. In tale direzione bisogna che si giunga ad una vera collaborazione tra credenti e non credenti, alla ricerca del bene concretamente e storicamente possibile.4

Ogni pretesa vincolante del linguaggio religioso è divenuta illegittima per la coscienza comune. Ma sarebbe ugualmente illegittimo non riconoscere una certa paradossalità che abita le società laicizzate: «il movimento di emancipazione dall’universo religioso – scrive Danièle Hervieu-Léger – che le fonda come società "secolari" ha la sua origine – solo in parte ma per una parte importante – nel loro retroterra religioso ebraico e cristiano», non solo, «il modo in cui la modernità ha pensato la storia è rimasto all’interno della visione religiosa alla quale si è sottratta per conquistare la sua autonomia»5. Il rinnovato espandersi del linguaggio religioso, che le società attuali in vario modo sperimentano, è il segno di questa ambiguità della secolarizzazione, mai avvenuta secondo il pronostico illuministico.6 In questo senso, ritengo giustificata la tesi che la secolarizzazione non sia la fine della religione, piuttosto un insieme di processi volti alla riorganizzazione delle credenze nella sfera pubblica.7 La fase di riadattamento post-secolare che l’Occidente sta provando a gestire pare evolvere verso un passaggio fondamentale: dalla neutralità escludente della ragione laica a «una cooperazione ragionata in materia di produzione di riferimenti etici, di conservazione della memoria e di costruzione del legame sociale»8. Non si tratta di una fusione perfetta ma, nella logica della ragione pubblica, si tratta di raccogliere in una sorta di unità dinamica e progressiva i punti di vista, facendo del dissenso il cuore della prova validante. Alla ragion pratica spetta la fatica mai compiuta di sciogliere i nodi, riannodando legami che contribuiscono al bene comune.

Religioni e bene comune

In una visione ampia della laicità – come spazio inclusivo e di cooperazione per la ricerca del bene comune – anche le religioni monoteistiche, per il loro carattere tendenzialmente universale, possono contribuire a forme di convivenza pacifica e solidale. Certamente rimane da risolvere il nodo cruciale dei fondamentalismi, in particolare quelli di matrice islamica, che crescono in contesti in cui un mix esplosivo di povertà, scarsità di strumenti culturali, irrisolte questioni identitarie e commistioni mortali tra istituzioni e credo religioso contribuiscono a rendere fuori dalla storia l’integralismo della loro visione del mondo. Se stiamo invece al ruolo specifico che il cristianesimo può interpretare nel nuovo contesto planetario, scorgiamo certamente vasti spazi per concorrere alla promozione della dignità della persona e alla salvaguardia del creato. In ottica cristiana la promozione del virtuoso intreccio di attenzione alla vita, creazione di legami e senso comunitario dell’ulteriorità può tradursi nell’attiva promozione di forme di convivenza giusta, che hanno come base irrinunciabile il riconoscimento dei diritti umani fondamentali.

Serve però interrogarsi su quale status o quale autocomprensione richiede che le religioni abbiano affinché possa essere riconosciuta la funzione pubblica del linguaggio religioso. Possono essere utili per tale sentiero problematico le considerazioni di due pensatori contemporanei, che in anni recenti con rigore hanno contribuito ad alimentare il dibattito etico-politico su questi temi. Ci riferiamo ai già citati Habermas e Böckenförde. Nelle riflessioni dei due autori compaiono utili e convergenti indicazioni sia sul ruolo pubblico delle religioni (e del connesso principio di laicità), sia sulle modalità di gestione del rapporto tra credenti e non credenti. Sulla legittimità di una presenza pubblica delle religioni secondo Böckenförde, in un quadro liberal-democratico, il processo che conduce alla formazione della volontà politica (per via diretta o tramite rappresentanza) è «in linea di principio un processo aperto». Esso è accessibile a chiunque (singoli o gruppi); l’apertura riguarda non solo le dinamiche di espressione dell’opinione, ma anche questioni sostanziali: «sul contenuto non esistono pretese anticipate». Per questo, in linea di principio, al linguaggio religioso deve esser concesso di intervenire purché avanzi le proprie pretese e il proprio contributo in modo tale da essere «integrabili e comunicabili nel contesto di un ordinamento secolare mondano»9. Nelle democrazie, secondo l’autore tedesco, rispetto alla religione

lo Stato si mantiene neutrale, e quindi aperto. […] In ciò esso si distingue dallo Stato laicista, che mira ad allontanare la religione dalla vita pubblica. […] Lo Stato secolare, per contro, assicura alla religione (nelle forme definite dalle costituzioni) la libertà di sviluppo sia nello spazio privato sia in quello pubblico, senza tuttavia identificarsi con essa e senza farsi mettere al servizio di scopi religiosi.10

Le religioni hanno facoltà di partecipare alla vita pubblica tramite i propri aderenti nelle forme e nei modi consentiti dalle leggi vigenti. E con riferimento al cristianesimo anche le Chiese possono avere ampi margini per contribuire all’interesse generale, purché non valichino il principio della non ingerenza con la vita delle istituzioni, e diffondano le proprie opinioni sul piano del discorso pubblico aperto alla critica e al principio dell’argomento migliore. Sia il credente Böckenförde che il laico Habermas guardano al pensiero religioso apprezzandone il valore cognitivo, vedendo nelle religioni degli importanti serbatoi di senso e risorse per la via comunitaria: esse, inserite nella dimensione democratica, possono contribuire in modo decisivo alla realizzazione di un’etica pubblica condivisa e alla formazione di legami solidali tra cittadini.

Una comunità – scrive Böckenförde – che sia approdata alla pluralità e all’apertura, in effetti, per poter vivere come tale ha bisogno di un consenso di fondo con funzione integrativa, che contrasti gli interessi e le tendenze centrifughi prodotti dal pluralismo etico-spirituale e delle visioni del mondo. La religione è quindi una di quelle istanze che trasmettono e mantengono vive concezioni e atteggiamenti di fondo di tipo etico-morale, anche se essa non detiene nessun monopolio in questo campo.11

Allo stesso modo per Habermas,

la ricerca di ragioni miranti ad un piano generale di plausibilità potrà dunque evitare di condurre ad una esclusione scorretta della religione dalla sfera pubblica – esito che priverebbe la società secolare di risorse importanti per la fondazione del senso – solo se anche la componente secolare riuscirà a conservare una sensibilità per la forza di articolazione dei linguaggi religiosi. […] ciascuna delle parti sia pronta ad accogliere anche la prospettiva dell’altra.12

Il filosofo francofortese auspica dunque uno spazio sociale inclusivo, polifonico e dialogico. Un dibattito pubblico che, lasciandosi alle spalle ogni tentazione laicista, si apra alla cooperazione e alla traduzione reciproca tra i diversi orizzonti valoriali. In un mondo sempre più legato da trame globali, e spesso lacerato dai conflitti culturali, l’incontro tra fedi e culture può avvenire solo nella modalità dell’ascolto e del mutuo riconoscimento. Appellarsi all’uso pubblico della ragione è, da un lato, un modo per lasciare che le religioni portino il loro contributo sostanziale alla vita del mondo e, dall’altro, per chiedere alle confessioni di abbandonare (nel foro pubblico) le loro pretese onnicomprensive, accettando la condizione del pluralismo politico. Del resto la sfera pubblica democratica, per un verso, non sopporta spazi di «extraterritorialità discorsiva»13 e, per altro verso, vive di una solidarietà pre-politica (o pre-istituzionale) che affonda le radici nei valori di un ethos comune. In tal senso svincolarsi da una cultura del conflitto comprenderà la fatica della ricerca di soluzioni appropriate all’ecologia umana, oltre ogni logica escludente.

La dimensione etico-politica per sua natura incrocia valori e problemi storici, progetti e bisogni. Tra queste intersezioni, lo spirito democratico è, nello stesso tempo, antidogmatico e antiscettico: si muove contro la violenza dell’imposizione, ma non può percepirsi come nichilistico e relativistico. Penso, dunque, che un ragionare pubblico volto non solo a soluzioni operative, ma ai grandi temi che interpellano la vita e il senso profondo del vivere comune è quanto le società post-secolari oggi necessitino. Per garantire, seppur nella fallibilità di ogni risultato, e nella rivedibilità di ogni statuizione storica, il più ampio consenso sui valori e le ragioni che presiedono alla produzione normativa. La laicità così diviene processo aperto e luogo delle buone ragioni.

La democrazia, del resto, è quella forma eminente di convivenza che pone al centro della sua stessa ragion d’essere le libertà e i diritti delle persone. L’apporto delle religioni può esser proprio quello di contribuire alla realizzazione di condizioni sociali e culturali tali che garantiscano la dignità delle persone e la loro unicità insostituibile. Su questa realtà antropologica può poi saldamente fondarsi un’idea alta dell’interesse generale e la stessa dimensione di universalità del bene comune. La destinazione unica dei beni umani, centrata sull’uguaglianza di natura di tutti gli uomini, chiama le religioni a rendersi disponibili per la realizzazione di un mondo meno "squilibrato" ed in cui la distribuzione delle ricchezze non crei asimmetrie e disuguaglianze insostenibili.14 Il messaggio delle religioni dovrebbe, dunque, sostenere il cammino dell’umanità verso orizzonti di fraternità e di coesistenza pacifica.15 Ogni utilizzo integralmente forzoso del linguaggio religioso per fomentare conflittualità, separazione, guerre è una modalità eticamente condannabile.

La religione cristiana ha avanzato negli ultimi secoli significativi passi di liberazione rispetto ad ogni istanza temporalistica. Essa, purificata anche dall’accoglienza dei principi e dall’ethos plurale della democrazia, è da tempo in grado di operare affinché i destini planetari dell’umanità si svolgano all’insegna della ricerca del bene condiviso e della promozione della dignità umana.16 In particolare, credo che al cristianesimo spetti un doppio compito: a) lavorare per un ecumenismo reale, operando per un riconoscimento dialogico tra le confessioni religiose. Un riconoscimento che accompagni il cammino dell’umanità verso orizzonti davvero inclusivi e giusti; b) tenere desta l’attenzione verso la cifra di mistero che la vita di ogni persona rappresenta, e a tutte quelle situazioni in cui una visione debole della dignità della persona non produce accoglienza, rispetto reciproco ma, invece, scandalosi livelli di povertà materiale e morale. La riserva escatologica, nucleo autentico e fondante del pensiero religioso, non sia fonte di conflitti e di un esercizio dell’autorità poco rispettoso delle libertà, ma diventi fonte di apertura al mistero simbolico che è l’umano.

Le religioni facendosi compagne delle fatiche dell’uomo e delle sofferenze dei popoli (in un mondo destinato all’incontro e all’unità), possono davvero divenire realtà capaci di contribuire alla realizzazione dell’autentico bene umano. Dovremmo auspicare che sempre più si realizzino luoghi di interrelazione e di ascolto tra le culture; luoghi in cui progettare la pace e sperare per un mondo vivibile. Ogni passo verso l’unità del genere umano risponde, a mio parere, alla vocazione autentica di ogni fede e all’istanza antropologica più profonda dell’esistere.

Il concetto stesso di bene comune, nella sua valenza etico-politica, non può rimanere confinato al solo ambito statale, esso va sperimentato in tutte le sue potenzialità e profondità. La riflessione sul bene condiviso intreccia così, per un verso, la questione antropologica e, per altro verso, la dimensione globale degli strumenti di governance planetaria, con un’attenzione diacronica al futuro dell’uomo e alla vita delle nuove generazioni. In tal senso un triplice allargamento (spaziale, temporale, concettuale) pare interessare la dottrina del bene comune, nonostante la crisi che sperimenta non solo a livello pratico, ma anche e soprattutto sul piano teorico. Nessuna delle teorie politiche maggiormente affermate utilizza questa categoria in modo fondativo, si preferisce far riferimento al concetto di giustizia (per le minori implicazioni sul piano dei valori). Invece è quanto mai opportuno tornare a riflettere sul tema del bene universale dell’uomo e sulla destinazione universale dei beni.

In effetti il bene comune (inteso come sommo bene politico che permette a tutti, in quanto corpo sociale, e a ciascuno, in quanto individui strutturalmente in relazione con altri, di perseguire la propria autodeterminazione esistenziale nel contesto generale della communitas) non è staccato dalla temporalità. È ovvio infatti che la realizzabilità del bene comune umano è sempre legata a condizioni storiche, a contesti particolari e moventi personali. Ma questi ultimi non sono, come crede gran parte della riflessione filosofica attuale, vincoli che inchiodano al fallimento la logica del bene condiviso. È ovvio che esiste una percezione condizionata dalla prospettiva storica, dal contesto culturale e sociale di ciò che è un bene per me e che può essere un bene di tutti e per tutti, ma questo, è utile ribadirlo, non significa essere vittime dell’indifferenza rispetto alle visioni di società che uno Stato accoglie e alle connesse visioni di uomo che esse concorrono ad avanzare. La contemporaneità ha pluralizzato l’idea di valore, posto sotto scacco l’idea di verità, decostruito l’idea che vi sia una ragione che accomuni tutti gli uomini e che abiliti a ricercare e scoprire la verità sul piano pratico. La crisi della ragione, la fine delle società secolari, l’avvento del postmoderno e la liquidità della globalizzazione hanno creato una costellazione multiforme sul piano delle visioni della natura umana e dei fini che essa persegue. L’orizzonte a cui spinge la grammatica etica del bene comune è costituito invece da alcuni pilastri essenziali: 1) il fine della società non è un bene individuale, né la somma di questi; 2) il bene comune è un fine e non solo un mezzo per la felicità dei singoli; 3) solo il bene comune può essere fondamento dell’autorità e dei pubblici poteri; 4) esso si riferisce alla totalità della società, non solo alla Stato; 5) il contenuto del bene comune non è definibile teoricamente, ma va determinato storicamente in relazione al massimo bene umano perseguibile in condizioni date; 6) esso accompagna l’evoluzione complessiva della vita sociale e la propria qualità umanizzante.17

Appunti conclusivi

Il destino dell’uomo pare non poter prescindere da un atteggiamento cooperativo tra i popoli e le culture. Ed in tal senso dovremmo auspicare che le grandi religioni si impegnino sempre più nella promozione di forme di vita giusta a partire dalla traduzione sul piano antropologico e etico-politico delle proprie visioni generali della realtà, attraverso un impegno permanente per la mediazione culturale tra fede, vita e storia. Ciò richiede un’apertura epistemologica rilevante: l’esercizio pubblico e direi laico del logos. Le religioni nello spazio sociale dovrebbero evitare di muoversi alla stregua di gruppi d’interesse in competizione con altri, ma riconoscendo la propria natura spirituale dovrebbero non perdere la loro posizione di partner incommensurabili18 con il livello plurale della politica. Ciò concretamente comporta il tenersi fuori dall’agone politico, da un lato, svincolandosi da improprie alleanze (alla lunga mortali) con specifiche culture, parti o maggioranze politiche e, dall’altro, svolgere fino in fondo il proprio ufficio di esortazione e vigilanza sulla dignità umana (coniugando principi sull’uomo e condizioni storiche di realizzabilità del bene comune), accogliendo così l’ethos dialogico della democrazia.

Ciò che aiuterà nel riconoscimento della legittimità pubblica del pensiero religioso per la promozione dell’interesse generale, sarà di fatto la sua capacità di evitare integralismi o pericolosi cortocircuiti identitari, attraverso l’esercizio sapiente della prassi dialogica. Affidarsi alla fatica dell’argomentare pubblico è, per un verso, un modo eminente per inserirsi nel circolo virtuoso del riconoscimento, e segnala, per altro verso, il desiderio di evitare atteggiamenti conflittuali e distruttivi insiti in alcune versioni onnicomprensive del religioso.

La fine delle grandi narrazioni coincide nel nostro continente con il tempo dell’esposizione all’altro. Tale stato di cose può, a mio avviso, diventare favorevole per nuove interrogazioni sul destino dell’umano e sul bene autentico della persona. Questa chance si presenta come una sorta di positiva provocazione per le religioni ed in particolare per il cristianesimo: il bene dell’uomo e la sua redenzione è il centro del linguaggio religioso, e ciò risuona come un invito ad adoperarsi per la ricerca di vie praticabili di convivenza e per la costruzione di un mondo che tende all’unità della famiglia umana.

Protezione e promozione della dignità umana dovrebbero essere i principi centrali di un ordine politico planetario nuovo. Ma tali auspici sembrano lontani dal realizzarsi: «finché gli Stati non limiteranno drasticamente la loro sovranità, finché non si riuscirà a creare un’autorità sovraordinata e centralizzata (ma operante secondo regole democratiche), non si potrà essere certi di assicurare un minimo di rispetto universale per la dignità umana»19.


  1. Cfr. K.O. Apel, Comunità e comunicazione, tr. it. di G. Carchia, Rosenberg & Sellier, Torino 1977, cap. I; H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, tr. it. P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990. ↩︎

  2. E.W. Böckenförde, Quel senso pre-giuridico di «comunanza», tr. it. di M. Carpitella, in «Reset», 104/2007, p. 16. ↩︎

  3. Cf. J. Habermas, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in J. Habermas-J. Ratzinger, Etica, religione e Stato liberale, cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2005. Habermas riprende tale concetto dalla riflessione del sociologo tedesco K. Eder, utilizzandolo per chiarire lo sfondo su cui si gioca oggi il rapporto tra sfera pubblica e religione, in un contesto che ha superato il tema weberiano della secolarizzazione e del disincanto. L’autore prende atto, in presenza di nuove urgenze etico-politiche, che le religioni si ripropongono quali soggetti attivi all’interno del discorso pubblico. In diversi studi questo fenomeno viene indicato come de-privatizzazione della religione e de-secolarizzazione della società. Segnalo qui alcuni tra i più noti e originali: J. Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, tr. it. di M. Pisati, Il Mulino, Bologna 2000; A.B. Seligman, La scommessa della modernità. L’autorità, il sé e la trascendenza, tr. it. di M. Bortolini - M. Rosati, Meltemi, Roma 2002; K. Eder, La religione liberata, tr. it. di D. Castellani, in «Reset», 95/2006; G.E. Rusconi, Lo Stato secolarizzato nell’età postsecolare, il Mulino, Bologna 2008. ↩︎

  4. Come ha sostenuto J. Maritain: «il fine della società è il bene della comunità, il bene del corpo sociale. Ma se non si capisce che questo bene del corpo sociale è un bene comune di persone umane, come il corpo sociale stesso è un tutto di persone umane, questa formula, a sua volta, condurrebbe ad altri errori, di tipo totalitario. Il bene comune della città non è la semplice collezione dei beni privati, […]. È la buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone; è la loro comunione nel vivere bene», La persona e il bene comune, tr. it. di M. Mazzolani, Morcelliana, Brescia 1995, p. 31. ↩︎

  5. D. Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito: la religione in movimento, tr. it. di M. Offi, Il Mulino, Bologna 2003, p. 29. ↩︎

  6. Si vedano le interessanti considerazioni esposte da P. Berger, I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo, EMI, 2017 e da R. Celada Ballanti, Filosofia del dialogo interreligioso, Morcelliana, Brescia 2020. ↩︎

  7. Cf. D. Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito: la religione in movimento, op. cit., p. 33. ↩︎

  8. Ivi, p. 203. ↩︎

  9. E.W. Böckenförde, Quel senso pre-giuridico di comunanza, op. cit., pp. 16-17. ↩︎

  10. E.W. Böckenförde, La religione nello Stato secolare, in Cristianesimo, libertà, democrazia, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2007, p. 168. Note sono altresì le tesi sulla nascita dello Stato come affrancamento da ogni forma di garanzia-fondazione religiosa, espresse dall’autore, tra l’altro, nel saggio La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana 2006. ↩︎

  11. E.W. Böckenförde, La religione nello Stato secolare, op. cit., p. 178. ↩︎

  12. J. Habermas, Fede e sapere, tr. it. di L. Ceppa, in «MicroMega», 5/2001, p. 13. Condivido le affermazioni della Galeotti, secondo la quale «i tratti di un secolarismo credibile e praticabile […] dovrebbero essere i seguenti: a) legittimità di tutti gli attori […] a partecipare e contribuire alla discussione pubblica con i propri convincimenti religiosi o meno; b) la forma pubblica delle ragioni avanzate è una caratteristica ineliminabile; c) il reciproco riconoscimento delle parti come aventi uguale dignità epistemologica; d) la neutralità posta a garanzia di equidistanza tra le parti». Cf. A.E. Galeotti, Ma c’è laicità e laicità, in «Reset», 104/2007, p. 24. ↩︎

  13. J. Habermas, Tra scienza e fede, tr. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2007 p. 33. ↩︎

  14. Cfr. Paolo VI, Populorum progressio. In particolare al n. 76, sostenendo che lo sviluppo è il nuovo nome della pace, si legge: «Combattere la miseria e lottare contro l’ingiustizia, è promuovere, assieme al miglioramento delle condizioni di vita, il progresso umano e spirituale di tutti, e dunque il bene comune dell’umanità». ↩︎

  15. Molto interessanti le considerazioni di Morin espresse nel breve saggio La fraternita, perché? Resistere alla crudeltà del mondo, tr. it. di N. Manghi, Editrice Ave, Roma 2019. L’autore francese ci presenta lo schizzo di un umanesimo centrato sulla fragile potenza della fraternità. L’idea di solidale comunanza di Morin ha molti punti di contatto con la recentissima Fratelli tutti, enciclica di Papa Bergoglio dedicata proprio alla fraternità e all’amicizia sociale. In particolare le due prospettive hanno una comune posizione antindividualistica ed esprimono disagio rispetto all’assurdo sistema di sviluppo planetario, che si configura sempre più come la scena di un grande progetto egoistico. ↩︎

  16. Giovanni XXIII nella Pacem in terris (n. 73) affermava che «come il bene comune delle singole comunità politiche, così il bene comune universale non può essere determinato che avendo riguardo alla persona umana. Per cui anche i poteri pubblici della comunità mondiale devono proporsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona […]» (miei i corsivi). ↩︎

  17. Cfr. V. Possenti, La questione del bene comune, in Id., Le società liberali al bivio, Marietti, Genova 1991. ↩︎

  18. Cf. Böckenförde, L’ethos della democrazia moderna e la chiesa, in Cristianesimo, libertà, democrazia, op. cit., pp. 200-201. Sul tema della impoliticità della Chiesa si veda anche, nello stesso volume, il saggio Mandato politico della Chiesa? ↩︎

  19. A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 233-234. ↩︎