1. Il desiderio in sé
Alla fine dell’intensissimo ed eccezionale dialogo che si protrae per più di metà delle Braci di Sándor Márai, il vecchio generale protagonista del romanzo rivolge una lunga e terribile domanda all’ospite per lo più silenzioso, che, giunto da molto lontano per rivederlo, è ormai in procinto di congedarsi. Da questa domanda che verte sul rapporto indissolubile tra la forza del desiderio e il senso della vita, è opportuno incominciare, giacché vi si ritrova, raggomitolato e contratto, il groviglio di fili e rimandi che costituirà la trama stessa di questo breve ragionamento. Si tratta d’una domanda spietata, sapientemente costruita intorno all’ombra d’una donna, morta ormai da gran tempo, la cui figura e il cui enigma fanno da sfondo all’intero romanzo di Márai. Secondo il più classico dei copioni, fu infatti un banale triangolo amoroso a intrecciare per sempre le sorti dei due interlocutori. Ma che sua moglie lo tradisse col suo amico più intimo, con cui aveva condiviso tutto fin dall’adolescenza, il protagonista lo scoprì soltanto all’indomani d’una singolarissima partita di caccia, nel corso della quale l’amico aveva prima provato e poi rinunciato ad ucciderlo, fingendo di puntare a un cervo. Da quel momento il triangolo s’interruppe, ma non i suoi effetti perversi: il marito tradito si chiuse nella sua solitudine, l’amante si diede alla fuga, la moglie si lasciò morire.
Dopo quarantun anni i due sopravvissuti si rivedono in un castello isolato ai piedi dei Carpazi. Ecco la lunga domanda che suggella il loro incontro:
Cosa abbiamo guadagnato con il nostro orgoglio e la nostra presunzione? Il vero significato della nostra vita non è stato forse questo: l’attrazione irresistibile per una donna che è morta? È una domanda difficile, lo so. Da parte mia non so cosa rispondere. Nella mia vita ho sperimentato di tutto, ho visto di tutto, ho visto la pace e la guerra, ho visto cose miserabili e cose grandiose; ho visto un vigliacco come te e un presuntuoso come me; ho visto scatenarsi la lotta e ristabilirsi l’intesa. Ma chissà che, in fondo, il significato della nostra vita e di tutte le nostre azioni non sia stato il legame che ci univa a qualcuno — il legame o la passione, chiamali come vuoi. È questa la domanda? Sì, è questa. […] Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che un giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, fino alla morte? E non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione? E a questo punto mi chiedo: la passione è veramente così profonda, così malvagia, così grandiosa, così inumana? Non può essere che non si rivolga affatto a una persona precisa, ma soltanto al desiderio in sé?1
Come tutte le domande che costituiscono il sale della vita, e che la grande letteratura sa riformulare con sempre rinnovata freschezza, anche questa è destinata a restare senza risposta: glielo prescrive la natura stessa del desiderio, la sua intrinseca inaccessibilità immediata. O per meglio dire, la formulazione della domanda contiene già la risposta: ma si tratta, appunto, d’una risposta che non «chiude» la domanda, che non la satura, perché continua a farne vibrare la tensione destabilizzante.
Alla domanda sulla natura del desiderio non c’è risposta definitiva, in quanto il desiderio stesso costituisce la prima e unica risposta, sempre però derivata e provvisoria, alla questione del senso che silenziosamente l’interpella. Senza la mobilitazione del desiderio il corso degli eventi d’una vita non avrebbe alcun orientamento. Il desiderio è dunque la fonte ultima d’ogni significato concretamente vissuto, in quanto risposta originaria alla domanda implicita che solo a posteriori può emergere dalla trama disordinata del vivere. Questa domanda si precisa come richiesta di senso. Solo il desiderio può, rispondendovi, formularla. Ma in tal modo è inevitabile che il desiderio si faccia carico d’una responsabilità estrema, sprovvista però di qualunque tipo di cauzione che dall’esterno possa convalidarla. Ciò che è in gioco nell’avventura privatissima del desiderio, ha ripercussioni molto più generali. In effetti, nel desiderio e nelle sue oscillazioni, ne va del nostro stesso destino. Ecco perché le categorie che mobilita l’analisi del desiderio hanno una portata filosofica generale. Come direbbe Manlio Sgalambro, il desiderio non è «faccenda da psicologia»: alla stregua della vecchiaia di cui tratta il suo ultimo libro, solo il desiderio è in sé.2
Infatti solo attraverso il desiderio riusciamo ad accedere all’estraneità del reale, che in se stessa resterebbe priva di senso. Sennonché riconoscere il ruolo capitale del desiderio rispetto al significato della vita non significa affatto che quest’ultima, purché animata dal desiderio, possa mai risultare automaticamente provvista d’un senso fruibile e comunicabile, d’un significato pubblico, d’un valore aggregante. La struttura del desiderio, se lasciata a se stessa, subordina al proprio eccesso l’intera esistenza individuale, imprigionandola e sacrificandola a un destino d’isolamento ed esclusione. Ecco l’esito devastante che nel romanzo di Sándor Márai viene rappresentato con grande maestria. Nel solco d’una tradizione che risale perlomeno a Sofocle e Platone, in queste pagine straordinarie il desiderio mostra ancora una volta tutta la propria forza magmatica che permea di sé il fondo della vita umana. Anomico, creativo e insieme distruttivo, devastante: l’impeto del desiderio nella sua singolarità imprevedibile risulta, in quanto tale, allergico al tessuto di valori istituiti, irriducibile all’adesione a significati comuni, refrattario a un ordine condiviso. Ma questa violenta ed eversiva ingovernabilità che sradica il desiderio da ogni vincolo, lungi dal renderlo libero e leggero, gli pesa come un fardello soffocante. Ecco perché la passione di cui parla il protagonista s’avvita su se stessa: e paralizza l’agire. La sua unica espressione è la sterilità d’una ribellione puramente autoreferenziale.
Guardiamo in fondo ai nostri cuori: che cosa vi troviamo? Una passione che il tempo ha soltanto attutito senza riuscire a estinguerne le braci (p. 148).
Si tratta d’una passione assolutamente eccentrica, il cui esito tragico inchioda i due interlocutori al carattere definitivo e senza scampo della loro sconfitta, inducendo l’uno a vivere in solitudine chiuso nel proprio risentimento, l’altro a girovagare per il mondo in perenne fuga dagli altri e da se stesso, ed entrambi a desiderare ardentemente la vendetta. Già, ma…
vendetta contro chi? Ciascuno contro l’altro, o contro la memoria di qualcuno che non esiste più. Sono passioni dissennate. Eppure animano i nostri cuori (p. 148).
Così è fatta la passione che si rivolge al «desiderio in sé»: a ciò che nessun possesso realizza, nessun godimento appaga, nessun piacere estingue. Desiderio che s’alimenta di se stesso, svincolandosi da ogni riferimento esterno. Se in un tale desiderio è racchiuso il senso della vita, allora bisogna riconoscere che questo senso è a rigore assoluto, separato dal resto, indipendente e autosufficiente. Nelle pagine avvincenti di Sándor Márai l’avvento catastrofico di questa figura suggestiva ed estrema d’un desiderio solitario e onnipotente tutto travolge nella sua orbita e tutti sottomette alla sua assolutezza. La vita, da un lato, ne riceve senso, ma d’altro lato questo stesso senso l’imprigiona e l’incatena all’irremissibile. Irriducibile al bisogno, il desiderio si rivela più crudele di qualunque bisogno, che, per quanto ingordo e tirannico, conosce l’oggetto suscettibile d’eccitarlo, ma perciò stesso capace di soddisfarlo. Il desiderio no. Infiamma l’anima, la rende inquieta e instabile, ma non le prescrive l’oggetto definito che potrebbe infallibilmente estinguerne gli ardori. E quindi resta inchiodato al tormento della sua irrealizzabilità.
Tu eri della razza di Chopin, eri cioè un essere pieno di riserbo e di orgoglio. Ma in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il desiderio di essere diverso da quello che eri. È il tormento più crudele che il destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo, da tutto ciò che siamo, è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano (p. 112).
Alla radice d’un simile desiderio — implacabile perché indistruttibile — bisogna riconoscere un indomabile odio di sé: l’odio inconscio per l’individuo concreto che ciascuno di fatto è, per quell’individuo in atto che inevitabilmente esclude le infinite potenzialità che in astratto avrebbe potuto realizzare, e la cui ricchezza e il cui fascino sembrano riservati esclusivamente agli altri, che ne diventano gli usurpatori e gli oppressori. Il desiderio impossibile di essere diversi da quel che si è, e che culmina nell’odio aggressivo per i propri simili, si radica dunque nell’odio rivolto al proprio io. Innanzitutto in questo senso, come dice il poeta, «Je est un autre». L’io, infatti, «è uno dei primi stranieri che si presentano alla psiche»,3 e che ne limitano il desiderio solitario, informe e onnipotente. Una tale limitazione è tanto più fortemente avversata quanto più oscuramente il desiderio stesso ne avverte la necessità. Infatti, un desiderio allo stato puro, nella sua informe illimitatezza, non potrebbe neanche esprimersi. La maschera dell’io gli è, al tempo stesso, indispensabile e intollerabile.
In balìa di se stessa, la passione per il desiderio in sé, passione assoluta e senza speranza, conferisce alla vita un senso esclusivamente introverso e autoreferenziale: il che l’imprigiona nell’isolamento e ne provoca la caduta nell’insignificanza. In effetti, la forza primigenia del desiderio è, per così dire, radicalmente centripeta: l’alterità da desiderare, l’oggetto verso cui tendere ardentemente, il desiderio non è assolutamente in grado di darselo da solo. Perciò non può sopravvivere senza una deviazione che l’orienti necessariamente all’esterno. E tuttavia la passione per il desiderio in sé persiste nell’inseguire l’appagamento immediato delle sue pretese narcisistiche, e perciò resta in bilico sull’abisso, sfiorando il rischio dell’autodistruzione. Tutto l’impianto del superbo romanzo di Márai dà evidenza plastica alla struttura inevitabilmente indiretta del desiderio umano, la quale però si rivela insufficiente a evitargli una bruciante sconfitta. Quest’ultima si rivela insuperabile se la mediazione dell’altro si limita a fornire un oggetto esterno senza però trasformare l’intento profondo del desiderio che continua a perseguire l’appagamento immediato delle sue pretese solitarie d’onnipotenza. La deviazione attraverso l’esterno resa necessaria dal carattere indiretto del desiderio rende ancor più rovinoso l’effetto distruttivo dell’autocompiacimento narcisistico.
Analizzandone la natura relazionale in situazioni analoghe a quella narrata da Márai, René Girard ha teorizzato la struttura mimetica del desiderio. Quest’ultimo, ricalcato su un desiderio-modello, ne presceglie il medesimo oggetto: ma ciò ostacola entrambi e produce tra i due desideri un rapporto di rivalità, che in ultima analisi si rivelerà senza scampo. Il fatto stesso che solo un modello esterno riesca a fornirgli il suo oggetto, è rivelativo della struttura profonda del desiderio, della sua indeterminatezza, della sua necessaria e inevitabile socializzazione.
Mostrandoci nell’uomo un essere che sa perfettamente ciò che desidera, o che, se sembra che non lo sappia, ha sempre un ‘inconscio’ che lo sa per lui, i teorici moderni forse non hanno centrato il campo in cui l’incertezza umana è più flagrante. Una volta soddisfatti i suoi bisogni primordiali, e talvolta anche prima, l’uomo desidera intensamente, ma non sa esattamente che cosa, poiché è l’essere che egli desidera, un essere di cui si sente privo e di cui qualcun altro gli sembra fornito. Il soggetto attende dall’altro che gli dica ciò che si deve desiderare per acquistare tale essere.4
A fornirgli l’oggetto da desiderare è, dunque, esclusivamente la mediazione socio-culturale attraverso cui ciascun soggetto, grazie all’imitazione, prende a modello il desiderio altrui. La natura mimetica del desiderio ha come immediata conseguenza la nascita della rivalità: l’altro da modello si trasforma in rivale. Infatti
la rivalità non è frutto di una convergenza accidentale dei due desideri sullo stesso oggetto. Il soggetto desidera l’oggetto perché lo desidera il rivale stesso.5
Ma al di sotto della rivalità conflittuale che costituisce la trama disconosciuta della stessa amicizia, Girard individua la morte della differenza e il prevalere di un’omologazione che assimila e appiattisce gl’individui. Attraverso la generalizzazione della mimesi, alla fin fine trionfano l’identità, la ripetizione reciproca e il conformismo. Allo stesso esito giunge l’intreccio di amicizia, rivalità e risentimento magistralmente dipanato da Márai:
E a volte mi sono chiesto se l’amicizia non costituisca un legame simile a quello fatale che unisce i gemelli. Una singolare identità di inclinazioni, simpatie, gusti, cultura e passioni accomuna due uomini, vincolandoli — anche se uno di loro tenta di opporsi all’altro — a un medesimo destino (p. 98).
Quest’amicizia è stata ed è ancora la loro condanna. «Ancora oggi, e nonostante tutto, noi due siamo amici» (p. 116).
Stando così le cose, non stupisce costatare che neanche alla fine l’ingiunzione contraddittoria del double bind mimetico6 riuscirà a liberare i soggetti dall’ansia d’un appagamento immediato. Non c’è catarsi possibile nella tragedia della passione per il desiderio in sé. In virtù della crisi della mediazione simbolica, che provoca l’appiattimento delle differenze, diventa irrealizzabile un autentico rapporto all’alterità. Quest’ultima viene bensì mitizzata, ma disconosciuta nella sua concretezza. In realtà il desiderio mimetico risulta in qualche modo paralizzato da un anelito nostalgico alla ripetizione di sé. Inseguendo il modello rappresentato dall’altro, la mimesi piuttosto che «ripetere» l’alterità dell’altro, finisce con l’annientarla. Dietro il fascino dell’alterità, la struttura mimetica del desiderio ne avverte la minaccia, e perciò s’adopera a scongiurarla attraverso l’esclusione dell’altro. In effetti, l’intento dell’imitazione è proprio l’abolizione dell’alterità. Un’imitazione ben riuscita è irriconoscibile come imitazione. Con la scomparsa dell’alterità, trionfa la ripetizione del medesimo. Allorché il desiderio mimetico mira a possedere l’oggetto indicatogli dal modello-rivale, l’ansia di possesso che lo consuma è il modo più efficace per affermare la propria identità a scapito dell’alterità dell’altro.
La faccenda, tuttavia, è ancora più complicata. Non si tratta infatti di affermare semplicemente la propria identità data, ma di inseguire una propria identità possibile, attraverso cui appagare il desiderio profondo e indistruttibile di essere diversi da ciò che si è. Nel romanzo di Márai, proprio questa dimensione nefasta del desiderio si lasciava riconoscere al fondo dell’odio per il modello-rivale. Dobbiamo arguirne che l’intento ultimo dell’imitazione è l’appagamento di questo desiderio assoluto di diversità. Il modello affascina e mobilita il desiderio non per ciò che esso in atto realizza, ma per quel che in esso viene evocato come potenza e possibilità d’essere. Nella potenzialità rappresentata dall’essere altrui ciascuno s’immagina il carattere indefinito di ciò che egli stesso sarebbe potuto essere e non fu.
In tal modo, come s’è già visto, nell’odio aggressivo per il rivale si riversa trasfigurato l’odio di sé. La rivalità sembra appagare il desiderio inconscio che narcisisticamente vuol compiacersi di sé, non però della concreta attualità che ciascuno realizza come individuo sociale, ma della propria potenzialità vaga, informe e indeterminata, della sua onnipotenza immaginaria che ne costituisce la base psichica. Attraverso l’oggetto di cui l’altro gli fornisce il sapere, è sempre il desiderio solitario e onnipotente che presume di realizzare in modo immediato e diretto il proprio appagamento adeguato e definitivo. La deviazione attraverso l’estraneo imposta al desiderio mimetico dal proprio carattere indiretto si rivela qui un semplice pretesto. L’obiettivo della mimesi resta il medesimo della psiche singola. L’inclusione o l’assimilazione dell’oggetto amato dal rivale, significa l’integrazione o incorporazione dell’alterità dello stesso rivale. La mimesi non si rapporta davvero all’altro ma celebra il trionfo del sé. Per affermarsi, deve attraversare il territorio della conflittualità che si rivela minato e senza scampo. Attraverso rivalità, aggressione e conflitto, l’imitazione culmina nell’esclusione dell’altro, ma questo ha come conseguenza la cessazione dello stesso desiderio. Riflettendo sull’esito devastante e autodistruttivo della rivalità mimetica, René Girard giunge a una conclusione perfettamente adeguata al romanzo di Márai:
L’unico modo di sfuggire al duplice legame mimetico, l’unica soluzione radicale, sarebbe che entrambi gli amici rinunciassero una volta per tutte a qualsiasi desiderio di possesso. La vera scelta è tra conflitto tragico e rinuncia totale.7
Alternativa determinante, sulle cui implicazioni radicali non s’è riflettuto abbastanza. Essa impone di ridefinire la posta in gioco del desiderio, a patto, beninteso, di distinguerlo dall’ansia di possesso e di completezza alla quale si riduce la spinta impetuosa del bisogno. Oltre l’autodissoluzione dello spazio pubblico in cui culmina il trionfo del desiderio in sé, si delinea la necessità d’una vera e propria metamorfosi del desiderio di cui la rivalità mimetica s’è rivelata incapace.
2. Il mito del desiderio
Il desiderio dell’altro, che Levinas pensa nella sua differenza radicale rispetto alla tendenza, al bisogno e al sapere,8 implica allora una trasformazione profonda del desiderio inconscio. Se infatti quest’ultimo è caratterizzato dal godimento immediato del suo oggetto, e quindi dalla totale assenza dello scarto temporale tra il desiderio e il suo soddisfacimento, il desiderio dell’altro ha una struttura inevitabilmente trasversale, indiretta od obliqua. Il punto decisivo è che il desiderio inconscio non ha autentica alterità, confinato com’è all’interno della vita psichica originaria. Una volta ammessa l’istituzione indispensabile di quella che Freud chiama «prova di realtà», tutta la complessa attività soggettiva messa in moto dal desiderio in vista del raggiungimento d’un che di esterno alla psiche, «non rappresenta», dice ancora, assai efficacemente, Freud, «che una via indiretta, resa necessaria dall’esperienza, per giungere all’appagamento di desiderio».9
Al contrario, la pretesa originaria del desiderio inconscio, che rifugge dalla prova di realtà, implica l’accessibilità immediata del proprio oggetto, attraverso cui la psiche si compiace e s’illude di riattingere un soddisfacimento immediato di sé e del proprio desiderio, che peraltro presume d’esser stato il soddisfacimento originale, l’unico pienamente adeguato. Il desiderio inconscio — e con esso la hybris ontologico-metafisica della filosofia speculativa che ne trae alimento — presuppone che prima dell’istituzione d’una prova di realtà resa necessaria dall’esperienza, prima dunque dell’insorgenza della «via indiretta» dell’appagamento di desiderio e della complessità inevitabile della struttura di rimando che gli è connessa, abbia avuto luogo, nella forma d’una realizzazione compiuta originaria e preliminare, quel che invece di fatto costituisce soltanto — e non può che limitarsi a costituire — la meta dell’itinerario del desiderio. Del quale perciò può ben dirsi che mira a ritornare all’Itaca da cui presume illusoriamente d’esser partito.
Ecco il mito del desiderio inconscio, che si ripercuote e s’amplifica nell’eros speculativo della filosofia. Ma — come ci ricorda Levinas — il desiderio autentico non aspira al ritorno proprio perché, lungi dal tendere a ciò da cui procede, s’orienta verso l’estraneità dell’altro — vale a dire verso quanto eccede la sua origine all’interno stesso del soggetto. Ne consegue che l’origine donde il desiderio proviene non dev’esser pensata come una pienezza o una presenza perdute ma pur sempre promesse alla ricerca, sì invece come un’assenza o una «pura mancanza», in cui, paradossalmente «la perdita precede quanto è perduto. Questo significa che, se vi è desiderio […], ciò non deriva della perdita d’una qualche origine, ma proprio dal fatto che la perdita è essa stessa l’origine».10 All’origine non v’è dunque la pienezza d’un possesso o d’una proprietà costitutivi del proprio, la cui degradazione o il cui impoverimento susciterebbe il desiderio regressivo — il bisogno — d’un recupero o d’un ripristino. L’originario si configura perciò come radicale non immediatezza, cioè come esplosione verso un’alterità estranea al proprio, ma fin dall’inizio, in virtù della sua stessa assenza, implicata nel proprio.
Proprio in virtù del carattere mitico dell’onnipotenza narcisistica originaria, evocata da Freud come «l’antica fase dell’appagamento allucinatorio del desiderio»,11 il desiderio umano accede alla via indiretta della mediazione simbolica. Ed è esattamente questo carattere derivato e istituito del desiderio, che lo apre all’avventura — incerta, precaria e fragile — della sua possibile realizzazione. Quest’ultima non sarà mai l’appagamento pieno e immediato di cui il desiderio inconscio sogna, ed è per questo motivo che la psiche ha tendenza a disconoscere il carattere aleatorio e non garantito delle vicissitudini d’un desiderio la cui strada non è mai diretta ma sempre tortuosa e impervia. Questo disconoscimento, questo diniego sono il rifiuto inconscio dell’ambiguità del desiderio, dell’impossibilità della sua trasparenza e linearità.
Il desiderio umano è ambiguo, proprio perché è al tempo stesso pulsionale e indiretto, cioè culturalmente codificato. In tal modo l’ambiguità del desiderio congiunge natura e cultura, giacché per suo tramite la natura orienta l’essere umano al mondo comune e alla vita sociale.
Le necessità naturali dell’uomo come specie biologica sono tali che non possono venir soddisfatte se non come necessità culturali dell’uomo in quanto essere storico. Alla determinazione di questo secondo tipo di necessità, concorre l’ambito proprio del desiderio irriducibile alla fisiologia del bisogno e tuttavia radicato nella natura biologica e psichica dell’essere umano, originato dai suoi impulsi e dalle sue pulsioni. Il movimento del desiderare è perciò, in quanto tale, in eccesso rispetto all’automatismo rigidamente funzionale della natura animale, proprio perché risulta inevitabilmente caratterizzato da un’originaria complicazione simbolica. Ma quest’ultima deriva dalla natura stessa del desiderio, il quale manca d’un oggetto costante e universale, d’un oggetto che gli sia per dir così connaturato, d’un unico e predeterminato oggetto suo proprio. Questa mancanza originaria d’un oggetto automaticamente adeguato al desiderare, e perciò capace d’appagare compiutamente e universalmente la più profonda aspirazione dell’essere umano, fa corpo col legame indissolubile di desiderio e immaginazione. E tuttavia l’assenza d’un complemento naturale e originario del desiderio è proprio ciò che — secondo un innegabile e indistruttibile auspicio del desiderio stesso — la psiche da un lato e la speculazione filosofica dall’altro s’adoperano ostinatamente a negare.
Radicale è la differenza tra l’immediatezza e l’istantaneità dell’afferramento diretto d’un oggetto che funga da naturale complemento d’un bisogno, e le inevitabili mediazioni temporali che strutturano in maniera di volta in volta diversa — ma sempre aleatoria — l’avvicinamento, l’appostamento e l’inseguimento di ciò che si costituisce come oggetto vagheggiato, atteso e poi magari sfuggente o perduto del desiderio umano. È l’insostenibile inaffidabilità e indeterminabilità d’un tale oggetto, è la sua intrinseca «caducità» — nel senso freudiano della Vergänglichkeit12 — che rende il movimento del desiderio sospetto e infido agli occhi dei filosofi, sempre poco propensi ad affidarsi a ciò che non dà garanzie di univocità, assolutezza e perennità.
Merleau-Ponty, introducendo la parte delle sue lezioni del 1959 dedicate alla psicoanalisi, distingue due possibili modi di considerare la psicoanalisi (da parte del filosofo, si potrebbe aggiungere). Il primo consiste nel denunciarvi la distruzione della verità attraverso la sua disintegrazione, compiuta da una spiegazione positivistica dell’umano centrata sul privilegio della sessualità; l’altro consiste invece nel celebrarvi una più profonda reintegrazione, a patto però di comprendere che il sessuale su cui tutto s’appoggia non è il genitale — che tutto s’appoggia o si basa sul sessuale poiché il desiderio umano è qualcosa d’irriducibile a una qualunque funzione automatica, ma invece s’autonomizza solo nei casi patologici.13
C’è quindi un vero e proprio svincolarsi del desiderio dall’ordine funzionale del bisogno: e in questo laborioso e complesso svincolarsi s’insinua l’oscuro lavorio dell’immaginazione psichica. La possibilità d’un appagamento non illusorio del desiderio, la sua stessa realizzabilità diurna o vigile — il passaggio dall’immediatezza d’un mitico stadio allucinatorio all’ordine della mediazione simbolica — scaturisce da qui. La sessualità umana non sarebbe quella che è se non si differenziasse dalla sua funzione biologica, pur restando ovviamente modellata su di essa.14 In questa luce, la «via indiretta» intrapresa dal desiderio — quella che si potrebbe chiamare la sua originaria deriva simbolica, cioè la sua necessità d’una codificazione istituita — non è che il suo destino naturale, una sorta di supplemento originario di ciò che solo retrospettivamente si configura come l’auspicio più profondo — ma irrealizzabile e mortifero — del desiderio stesso: il proprio appagamento immediato in un’immaginaria pienezza originaria, nella quale a dire il vero il desiderio sarebbe stato superfluo perché impossibile e inutile, in quanto sempre già pienamente realizzato, cioè sostituito dal presunto godimento d’uno stadio di beata quiete, preliminare all’insorgenza d’ogni possibile desiderio.
L’ideale d’un simile appagamento totale non è altro che il fantasma dell’origine, la fantasia d’una coincidenza assoluta — e intemporale — tra il desiderio e la sua realizzazione, dove il desiderio, negato nel godimento diretto del suo presunto oggetto originario, s’appagherebbe in maniera compiuta e istantanea, fornendo il modello implicito dell’appagamento immediato del sapere nell’intuizione intellettuale.
L’intima pretesa del desiderio consiste precisamente nel presentare o nello spacciare questa fantasia differita come ricordo d’un presunto vissuto originario dell’origine, la cui presenza piena, immediatamente goduta e posseduta, sarebbe poi venuta a mancare, pur restando promessa al recupero nostalgico del desiderio, tanto da costituirne l’unico ambìto traguardo finale.
In tal modo, il mito del desiderio permea di sé la strategia speculativa del discorso filosofico. Il sapere puro dell’immediatezza dell’origine, di quell’origine la cui mancanza è vissuta come un’espropriazione provvisoria, premessa e pegno del suo recupero finale, «in sostanza è la ripresentazione del mito infantile e primitivo dell’onnipotenza del pensiero».15 Ma in realtà, solo a partire dall’elaborazione retrospettiva del suo significato, il passato senza tempo dell’origine — passato originale, che non fu mai presente,16 e che dunque non fu mai il vissuto d’alcuna coscienza attuale — può assurgere a luogo mitico dell’appagamento immediato del desiderio. Ma al carattere compensatorio di questa fantasia di un’originaria pienezza naturale — che purtuttavia sempre inconsciamente l’accompagnerà — deve sottrarsi il desiderio divenuto socialmente realizzabile, che troverà nella impervie e aleatorie mediazioni simboliche del tempo culturale l’unica via del suo possibile ma parziale e in ogni caso provvisorio soddisfacimento reale.
L’ambiguità del desiderio costituisce in tal modo il punto mobile di congiunzione e passaggio da natura a cultura. Il desiderio può svolgere questo ruolo in virtù del suo carattere assolutamente privato e «sempre mio»: ossia proprio in virtù di quel suo carattere insuperabilmente singolo e, per dir così, singolarizzante, che impedisce una qualunque lettura riduttiva del suo radicamento naturale. Le componenti psichiche e somatiche del desiderio pulsionale ne costituiscono dunque l’autentica singolarità: e quest’ultima, nella sua resistenza alla totalizzazione, è assolutamente irriducibile a scoria residuale d’un processo che diventerebbe intelligibile solo nella sua generalità.
Mentre l’ambito naturale dell’affettività e delle pulsioni viene rivalutato e riabilitato rispetto all’universalità logica o storica della ragione, al tempo stesso balza agli occhi fin dall’inizio il carattere necessariamente indiretto e l’inevitabile complicazione simbolica, ossia culturalmente codificata e istituita, d’un simile principium individuationis svolto dalla naturalità del desiderio. Giacché poi quest’ultimo, come tonalità fondamentale del sentimento, costituisce l’intenzionalità dell’affettivo,17 ciò che qui viene in luce è l’insuperabile radicamento dell’ordine universale della codificazione simbolica proprio della cultura in un’istanza di singolarità irriducibile. Ma lungi dall’essere hegelianamente — secondo la classica traduzione del Croce — «ciò che v’ha di più insignificante e di men vero»,18 questa impetuosa naturalità del desiderio, questa sua radicale singolarità, è la sorgente stessa del senso. Il rimando del senso, il suo carattere inevitabilmente derivato e indiretto, scaturisce dunque dall’instabilità del desiderio, dal suo ambiguo oscillare tra natura a cultura.
A questo livello, come scriveva Merleau-Ponty, «la distinzione dei due piani (naturale e culturale) è […] astratta: tutto è culturale in noi (la Lebenswelt è “soggettiva”) (la nostra percezione è culturale-storica) e tutto è naturale in noi (anche il culturale riposa sul polimorfismo dell’Essere selvaggio)». Nello stesso appunto del maggio 1960, Merleau-Ponty aveva poco prima già scritto: «Ciò che voglio fare è restituire il mondo come senso d’Essere assolutamente differente dal “rappresentato”, ossia come l’Essere verticale che nessuna delle “rappresentazioni” esaurisce e che tutte “attingono”, l’Essere selvaggio».19
Osservazioni che acquistano tutto il loro senso nel quadro delle ultime ricerche di Merleau-Ponty sull’ontologia della Natura, ricche di spunti e promesse ancora poco esplorate.20 Una delle linee di forza d’un tale progetto incompiuto consiste nell’allargare l’attenzione al fondamentale, che resta il privilegio e il compito della filosofia, all’analisi dei vari livelli o ambiti d’essere in cui si scompone la totalità frammentaria e plurale del reale. Questa attenzione al fondamentale o all’originario, che passa attraverso lo studio attento del derivato, è l’unico metodo adeguato all’essere. L’ontologia della Natura si pone perciò come ontologia indiretta: ma non si tratta, in alcun modo, d’un ripiego. Per questo motivo, la denuncia del carattere astratto della distinzione tra il piano naturale e quello culturale non significa affatto la rivendicazione d’una qualche unità originaria, semplice, immediata, che possa fungere da presupposto, ancorché inapparente, della distinzione, e che sia destinata a costituire il traguardo finale della ricerca ontologica. Quel che sta a cuore a Merleau-Ponty è ovviamente altro.21
In effetti, il punto di vista sulla base del quale è sostenibile la denuncia della distinzione astratta tra piano naturale e piano culturale, è il mondo umano come invalicabile campo d’apparenze nella cui concretezza e nella cui complessità siamo sempre già inseriti: è precisamente in esso che né la natura né la cultura costituiscono da sole il fondamento, poiché l’umano è il luogo della convivenza di entrambe, il luogo del passaggio «sempre di nuovo» all’opera dall’una all’altra. Tutte le dimensioni del mondo umano costituiscono dunque altrettanti strati dell’essere. Come ha scritto Norbert Elias, «non si potrà comprendere la loro modalità d’esistenza finché concetti come natura e cultura, società e individui, non saranno controbilanciati dalla definizione delle loro relazioni, della sintesi».22 È la stessa evoluzione biologica che — sottolinea con insistenza Elias — orienta l’essere umano allo sviluppo socio-culturale: è quindi la natura stessa che lo prepara alla vita sociale.23
Per Lévy-Strauss — come già per il Freud di Totem e tabù — la sintesi tra natura e cultura è costituita dall’imposizione della legge nella sua forma più elementare, cioè dalla proibizione dell’incesto. Sennonché, è proprio la proibizione dell’incesto che mette in crisi una rigida disgiunzione tra il naturale e il culturale. Infatti, la proibizione dell’incesto è una regola o norma che, unica fra tutte le regole sociali, possiede un’universalità analoga a quella delle costanti naturali. Bernard Flynn ha ragione di scorgere qui l’impossibilità di concepire l’insorgenza della legge — che in Lévy-Strauss precede l’atto della legislazione, mentre in Freud, attraverso il dispositivo dell’azione differita, è successiva alla sua trasgressione — come un inizio semplice, legato a un evento puntuale, databile e localizzabile.24 Questa impossibilità manda in rovina la pretesa stessa di risalire retrospettivamente il corso del tempo per raggiungere l’elemento semplice che dovrebbe costituirne il punto di partenza. È la stessa nozione elementare e unitaria d’origine che si rivela inadeguata, quando si riflette alla transizione da natura a cultura. Qui — come ha scritto Aldo Gargani a proposito del «differimento» che già s’insinua nella presunta immediatezza dell’originario — «la ripetizione, come scansione di differenze che si elaborano su un tema, appartiene all’origine».25
Ma a questo punto la questione dell’origine ne risulta trasformata: come ha sostenuto Antoine Vergote, essa «viene a sfociare su di un fatto primo, quello dell’insuperabile positività d’un ordine simbolico», oltre il quale ogni rappresentazione non può che presupporre «quell’universo di segni che viceversa essa ambirebbe a produrre: ma in questo caso non c’è nessuna procedura scientifica o filosofica che conduca dal generato al generatore».26 È infatti del tutto escluso che l’origine dell’ordine significante possa venir individuata nel disordine insignificante. «L’umanità s’è istituita come tale grazie al suo ingresso in un ordine simbolico autocostitutivo».27 Siamo di fronte a una circolarità insuperabile, in cui il passaggio all’ordine culturale, intanto diventa pensabile, in quanto viene sempre già necessariamente presupposto. Insomma, perché il desiderio umano possa esistere, gli è indispensabile la mediazione socio-culturale. D’altra parte quest’ultima viene a sua volta preparata, alimentata e richiesta dalla stessa tensione pulsionale. Tra desiderio e legge c’è dunque inerenza reciproca.
E tuttavia, le considerazioni che precedono non escludono affatto la necessità di salvaguardare la stratificazione e la discontinuità. L’ambiguità del desiderio è tutta qui: nel costituire la transizione permanente dal naturale al culturale, senza però esibirne l’origine semplice o l’inizio assoluto. Siamo di fronte a quel che Elias chiama «processo privo di inizio, con fasi di cambiamento ma senza cesure assolute», e aggiunge: «Non c’è motivo di supporre che il nostro apparato teorico non possa adattarsi alla gestione di processi di questo tipo. Non si è condannati eternamente alla ricerca di cause e inizi quando né cause né inizi esistono realmente […] L’alternativa è il mito».28 Ma, come ci ricorda Kolakowski, delle stesse mitologie «noi non conosciamo le origini assolute […], così come non conosciamo la fase incondizionatamente iniziale di una qualsiasi formazione culturale, né mai potremo conoscerla».29
L’inaccessibilità immediata dell’origine, il fatto cioè che non vi siano origini assolute, che la nozione stessa di origine non abbia un carattere semplice e immediato, che dunque in definitiva l’originario sia in se stesso già derivato,30 non solo non esclude, ma permette d’accentuare la discontinuità implicata dalla relazione o sintesi tra natura e cultura. Infatti, proprio tale relazione o sintesi culmina nell’insorgere d’una dimensione o d’una complicazione nuova: si tratta dunque d’una transizione o d’un passaggio a un’altra figura o forma d’essere, e non del predeterminato venire a maturazione d’un qualcosa che fin dal principio fosse, sia pur implicitamente, già dato. Altrimenti, il piano naturale non sarebbe che il momento iniziale, provvisorio e privo di consistenza autonoma, d’un processo globale la cui autentica origine continuerebbe a venir concepita in termini di unità, semplicità e assolutezza d’un senso ideale.
L’illusoria pretesa d’individuare origini assolute, in cui secondo Elias va riconosciuto un diffuso costume sociale della modernità, si radica nell’economia psichica degli individui sociali. Integrando il paradigma sociologico di Elias con l’ispirazione psicoanalitica che feconda il pensiero filosofico di Castoriadis,31 si può riconoscere in quella pretesa un fantasma compensatorio del desiderio rimosso d’onnipotenza. Più precisamente, la circolarità insuperabile — o l’inerenza reciproca o l’implicazione scambievole — in cui è fin dall’inizio impigliata la relazione individuo/società, risulta inaccettabile alla psiche singola, che la vive necessariamente come una limitazione insopportabile del desiderio inconscio di onnipotenza e di centralità. Alla base della ricerca d’origini assolute va allora riconosciuta una fantasia psichica d’autogenerazione, nel cui carattere compensatorio e narcisistico si materializza il desiderio infantile e primitivo d’onnipotenza, cioè l’irrefrenabile anelito della psiche singola a porsi come la sorgente utlima d’ogni senso, ma innanzitutto del sensus sui.
Che la ricerca d’origini assolute corrisponda a un bisogno di rassicurazione ben radicato nell’economia psichica degli individui è confermato dal disagio che sempre accompagna la scoperta del carattere derivato dell’originario, dalla sofferta delusione che suscita il rivelarsi dell’inesistenza d’origini assolute. Ben lo esprime un’intensa pagina di Gargani: «A dirlo è facile, a leggerlo è facile, ma che l’originale sia la conseguenza delle copie, delle simulazioni alla fine è doloroso. Questo dolore, che è il più grande che vi sia, è la scoperta che le copie, le contraffazioni, i supplementi, le simulazioni intrattengono un insidioso rapporto con quello che noi siamo».32 Il bisogno di sicurezza che suscita la nostra convinzione di realizzare una «presa sulle cose», destinata poi a rivelarsi illusoria, è anche quello che introduce sotto forma di teoria la presunta «cognizione di un’origine», allo scopo di preservarci dalle inquietudini e dagli affanni della nostra esistenza.33
Scoprirne le radici profonde fa tutt’uno con l’esigenza di liberarsi dalla ripetizione dell’origine, senza dubbio rassicurante ma al tempo stesso altrettanto certamente paralizzante. In definitiva nella ricerca d’origini assolute ricevono soddisfacimento il desiderio di dipendenza e il bisogno di sicurezza che si radicano nella subordinazione infantile dell’io all’altro che fin dall’inizio se ne prende cura. Per questo motivo, «la lotta che combatte l’Io contro il suo stato inaugurale di dipendenza si rivelerà a cose fatte come una lotta combattuta contro una tendenza del suo stesso desiderio».34 In questa tendenza persistente del desiderio ricompare la fantasia compensatoria più profonda della vita psichica, l’illusione di provenire da uno stato originario di assoluta quiete e di compiuta e appagante pienezza di sé: «illusione di cui occorre elaborare il lutto»35 perché il soggetto del desiderio pulsionale e inconscio possa divenire un soggetto sociale, capace di prender di mira la propria autonomia.
Per quanto originario, il fantasma di un’origine assolutamente appagante e tranquillizzante è un’elaborazione immaginaria e retrospettiva del desiderio. Non testimonia la pienezza dell’origine perduta ma il suo vagheggiamento differito. Croce e delizia del desiderio è la mancanza d’un oggetto adeguato a colmarlo pienamente. In questa ambiguità del desiderio — che proprio mentre si proietta affascinato verso un futuro inedito e incerto, tende a garantire e fondare la propria ricerca vivendola regressivamente come un ritorno immaginario all’origine — occorre vedere una contraddizione che, per quanto insostenibile per la logica vigile del processo secondario, si manifesta originariamente come scissione vissuta del desiderio, provocata dalla dualità pulsionale. In effetti, la vitalità d’ogni desiderio ha come sua persistente contropartita una tendenza al proprio annientamento, che si precisa come desiderio «d’uno stato che lo renderebbe inutile e senza oggetto. Il desiderio di non aver da desiderare è una tendenza inerente al desiderio stesso»: ecco «il secondo intento proprio a ogni desiderio», nel quale secondo Piera Aulagnier va ravvisata l’origine della pulsione di morte,36 come nostalgia regressiva d’una mitica fase precedente il desiderio, «in cui s’ignorava d’esser “condannati a desiderare”».37 Nell’inconscio sopravvive il fantasma retrospettivo di questa fase immaginaria della vita psichica, divenuto il luogo ambiguo e antinomico del desiderio rimosso — ed è proprio questo luogo a costituire al tempo stesso il groviglio e lo snodo del naturale e del culturale, ove originariamente si complicano i temi e i problemi connessi alla costituzione dell’umano.
3. Il desiderio e il «perturbante»
Allorché Freud attribuisce alla formazione collettiva un carattere unheimlich o «perturbante»,38 non fa che mettere a fuoco, nella peculiare ambivalenza di familiarità e spaesamento propria al perturbante, la medesima inaccessibilità immediata dell’originario che secondo la definizione husserliana costituisce il modo d’essere dell’altro da sé in quanto estraneo.39 Prendendo spunto dalle descrizioni della psicologia delle folle proposte da Le Bon, Freud scrive che la massa «non tollera alcun indugio [keinen Aufschub] tra il proprio desiderio [Begehren] e il compimento di ciò che desidera [Verwirklichung des Begehrten]. Si sente onnipotente, per l’individuo appartenente alla massa svanisce il concetto dell’impossibile».40 Ed è proprio l’assegnazione alla formazione collettiva d’una simile struttura retrospettivamente considerata originaria, che induce ad attribuirle un carattere perturbante, dal momento che, come già si leggeva in una nota contenuta nel capitolo sull’animismo in Totem e tabù, «sembra che noi attribuiamo una qualità perturbante alle impressioni che tendono a confermare l’onnipotenza dei pensieri e il modo di pensare animistico in generale, anche se nel nostro giudizio ci siamo già distolti da esse».41
Il mito infantile e primitivo dell’onnipotenza magica dei pensieri, considerato come caratteristica della vita psichica originaria, è un’espressione dell’onnipotenza immaginaria del desiderio, in quanto automatismo d’un appagamento immediato e totale, vale a dire allucinatorio. In questa fantasia retrospettiva si manifesta il carattere antinomico, insostenibile e «perturbante» del desiderio umano. Ciò che qui al tempo stesso attrae e respinge è l’estraneità stessa del proprio. Il vagheggiamento di questa totalità originaria, il richiamo avvincente ma paralizzante di questa inclusione inglobante nel proprio, nasce dalla tensione del desiderio verso l’impossibile riappropriazione del suo presunto oggetto originario. Su questo punto, come ha mostrato a più riprese Gargani, le strategie di Freud e Wittgenstein sono convergenti nel ritenere che il significato simbolico dell’origine, anziché derivare dalla costrizione referenziale d’una qualche storia esterna e remotissima, sia una proiezione immaginaria del desiderio: il che ne giustifica il carattere oscillante, al tempo stesso allettante e minaccioso. Non c’è dunque alcun vissuto immediato dell’origine. Quest’ultima non può esser ricordata: essa viene invece ripetuta in virtù del significato inquietante che proiettiamo su di essa a partire da un’esperienza intima e sinistra — ma differita — che ha luogo a cose fatte nell’attualità del nostro presente.42
Il desiderio si radica dunque in questa capacità immaginaria della psiche di proiettare sullo schermo dell’originario un’elaborazione differita del senso. Nella radicale singolarità di questo autoriferimento sprovvisto di modello preesistente, la vita — da vivente che è — si fa vissuta.43 L’autoaffezione della psiche, grazie al desiderio che costituisce l’intenzionalità dell’affettivo, è già estroversione, tensione inarrestabile all’esteriorità, implicazione d’un ordine simbolico. Ma a questa intenzionalità che s’insinua fin nel sentimento di sé sotto forma di desiderio, manca qualunque intuizione immediata capace di colmare o appagare il vuoto donde essa trae origine. L’intenzionalità della vita psichica originaria è radicale — cioè inappagabile. Non v’è Erfüllung che possa definitivamente placarla. La deriva del desiderio — il suo movimento indiretto verso sempre parziali forme di appagamento e soddisfacimento differito — è originaria proprio perché il desiderio non è mai immediato e diretto ma fin dall’inizio coinvolto nella mediazione istituita. Il desiderio emerge nel rimando del senso all’altro da sé, all’estraneo: perciò, il desiderio è originario proprio in quanto incapace d’autogenerarsi.
L’evento decisivo in questo passaggio è l’interruzione della prevedibilità del ciclo biologico e l’esigenza d’una nuova codificazione dell’esperienza: d’una codificazione vissuta e autocentrata, messa in opera dall’immaginazione o fantasia, che svincola la psiche dall’automatismo ripetitivo e funzionale del ciclo vitale. Poiché l’intenzionalità propria all’affettivo è rappresentata dal desiderio in quanto tensione all’altro, ciò implica una trasformazione inevitabile della struttura originaria del desiderio inconscio, caratterizzato dalla più pura immanenza del sentirsi. Tuttavia, nello stesso carattere indiretto del desiderio sociale la psiche continua ad avvertire, avvincente e imperioso, il richiamo profondo dell’autoaffezione o dell’interiorità. Perciò il desiderio continua a inseguire nell’altro l’immagine di sé, provandosi così a placare, attraverso la ricerca impossibile del possesso dell’altro, il dolore d’una perdita immemorabile e l’ansia d’un recupero sempre imminente.
È dunque dall’isanabile ambiguità del desiderio che emergono le forme nelle quali si presenta il «perturbante» freudiano, lo Unheimliche. In quest’ultimo, infatti, è in gioco il peculiare disagio che si connette alla perdita o alla contraffazione d’una confortevole familiarità che — almeno di primo acchito — sembrerebbe connessa a ciò che ciascuno avverte come intimo e proprio. Si tratta di un’angoscia o d’uno sgomento il cui senso è lugubre e sinistro proprio perché capovolge o interrompe una condizione che si sarebbe voluta di tranquillizzante familiarità. Il carattere privativo del termine tedesco un-heimlich, in parte conservato in italiano dall’aggettivo spaesante, allude precisamente a questa estromissione da una presunta non-estraneità, il cui carattere assolutamente confortevole e ospitale si rivelerà tuttavia effetto retrospettivo e rassicurante del desiderio.
Il risultato più significativo dell’indagine freudiana nel saggio intitolato appunto Das Unheimliche, culminante com’è noto nella tesi che il prefisso negativo «un» sia in questo termine «il contrassegno della rimozione», sta proprio nell’aver messo in discussione questa apparenza di semplicità, linearità e rassicurante intimità del familiare: nell’avervi individuato una proiezione immaginaria del desiderio, un fantasma compensatorio dell’inospitalità dell’origine. Infatti, perturbante è proprio l’insorgere d’una complicazione, d’una dissimulazione, d’una estraneità in seno all’intimità originaria del proprio: il punto è che questa stessa intimità, lungi dal risultar vissuta come pienamente appagante e tranquillizzante, può solo esser vagheggiata come tale. Il suo carattere rassicurante non è che un effetto posteriore del desiderio, la cui scaturigine è allora l’estraneità del proprio, rispetto alla quale la condizione di non inquietudine e non spaesamento che caratterizzerebbe originariamente il familiare si rivela come una fantastica rielaborazione posteriore e quindi come un mascheramento dell’inabitabilità dell’origine.
Come si sa, è il carattere ambiguo e dissimulato del proprio a fungere da punto di partenza degli interrogativi di Freud, che si domanda per quale motivo, fra le tante possibili esperienze spaventose e angoscianti, ve ne sono alcune nelle quali si vive un disagio peculiare, particolarmente inquietante e sinistro, in cui la fonte del nostro malessere è data precisamente dal provare disorientamento, dal sentirci letteralmente spaesati, non già perché ci si scontri con il carattere minaccioso di qualcosa di esterno a noi, ma proprio perché un qualche aspetto del nostro stesso vissuto ci si mostra inusitatamente sprovvisto di familiarità, quasi irriconoscibile e tuttavia ancora nostro. Ciò che in questo caso inquieta — così si può riassumere la risposta di Freud — è il repentino manifestarsi del carattere recondito, contraffatto, segreto della nostra stessa intimità a noi stessi. Ciò che si rivela propriamente inaudito e sconvolgente non è questa o quella dimensione della realtà esterna a noi, ma l’interiorità stessa del proprio. In altri termini è precisamente la vagheggiata tranquillità del familiare che ci risulta spaventosa e minacciosa, e provoca in noi l’impressione d’un profondo smarrimento, l’incapacità di raccapezzarci nel bel mezzo di quel che ci sembrava noto e consueto, la perdita dei più abituali punti di riferimento.
In questo senso Freud trova assai pertinente la definizione schellinghiana del perturbante o dello spaesante, secondo la quale «si dice unheimlich tutto ciò che doveva restare nel segreto, nell’occulto, nella latenza e invece è uscito allo scoperto».44 Qui, commenta H. Cixous, Schelling collega il perturbante a una colpa contro il pudore: e con questo in definitiva entra in scena la minaccia del sesso.45
Minaccia connessa ovviamente al carattere inesauribile del desiderio: minaccia dunque legata non già al bisogno sessuale come automatismo della funzione riproduttiva, ma al desiderio la cui fonte oscura e perturbante è l’estraneità del proprio che nell’erotismo al tempo stesso s’esibisce e si dissimula, manifestandosi proprio nel suo occultamento. Nella sessualità infatti viene in luce tutta l’ambiguità del desiderio, il suo radicamento naturale o pulsionale nell’interiorità del sé e al tempo stesso, proprio per questo, la sua relazionalità, la sua estroversione: il suo costituire l’essenza dello psichico. Lo specifico del sessuale non consiste certo nella sua funzione biologica, ma nell’esser diventato l’energia stessa dello psichico. Ed è per questo motivo che in Freud la libido come energia fondamentale della psiche è essenzialmente sessuale: non solo genitale o protesa al suo soddisfacimento funzionale, ma desiderante.
Tra desiderio inconscio e desiderio sociale, centrale è il ruolo della rimozione originaria come rinuncia all’immediato. «Prima» della rimozione originaria non c’è che l’inospitalità dell’origine, la sua insostenibilità, la sua mitica pienezza soffocante, vagheggiata tuttavia a posteriori come luogo assoluto dell’appagamento immediato del desiderio. Ecco perché la tendenza regressiva del desiderio rimosso che prende di mira questo immemorabile «prima del desiderio» è una tendenza mortifera. Il desiderio sociale è dal canto suo sempre oltre l’inconscio come luogo dei desideri rimossi, che tuttavia ne costituiscono il fondo oscuro e la scaturigine nascosta, la cui improvvisa comparsa provoca il sentimento del perturbante. L’intenzionalità dell’affettivo che culmina nel desiderio sociale come tensione verso l’altro da sé, non va tuttavia in alcun modo confusa con un’intenzione conoscitiva. Non c’è oggetto suscettibile d’esser conosciuto o posseduto che possa appagarla. Si tratta d’una intenzione cui per definizione manca un’intuizione che possa spegnere il fuoco del desiderio.
Certo, è proprio la struttura immediata e diretta dell’intuizione quella verso cui la tradizione speculativa del discorso filosofico vede proteso il desiderio, il cui esito culminerebbe nel possesso intuitivo del suo oggetto. Là il desiderio s’estinguerebbe soddisfatto, e con esso si fermerebbe il tempo del desiderare, superato nel presente pieno e senza tempo del godimento immediato. Un tale desiderio culminante nella visione diretta ritroverebbe nell’attingimento conclusivo del suo oggetto l’unità perduta di cui ha nostalgia. Infatti esso ambisce a riattingere quel complemento naturale della propria pienezza che si presume esserle stato sottratto. La meta del desiderio sarebbe allora il ripristino dell’origine prima posseduta e poi accidentalmente perduta, il ritorno alla pienezza dimenticata, il lenimento della nostalgia in quanto insopportabile dolore dell’espulsione dalla patria.
Sostenendo che all’intenzione del desiderio manca qualunque intuizione capace di colmarne il vuoto, si cerca qui di sottrarsi a questa mitologia del desiderio nostalgico, che persiste nel privilegio filosofico dell’intuizione intellettuale, costante nella tradizione del pensiero speculativo.46 Va perciò ribadito che la struttura indiretta e obliqua del desiderio — la sua inappagabilità immediata — non è un ripiego reso necessario dal suo presunto carattere ontologicamente derivato e secondario rispetto al paradigma dell’intuizione intellettuale, sì invece l’unica via d’accesso possibile all’inaccessibilità immediata dell’originario. Il fatto che il desiderio sia incapace dell’afferramento diretto dell’origine che si presume proprio della visione immediata, non è un limite del desiderio, dal momento che la non-semplicità, la complicazione e l’inaccessibilità immediata costituiscono parte integrante del modo d’essere dell’originario. Ne consegue che la portata speculativa dell’intuizione intellettuale è solo una pretesa immaginaria, nella quale trova espressione l’auspicio più profondo e più irrealizzabile della vita psichica, che, abbagliata dall’anelito all’istantaneità del possesso naturale, presume di conquistarsi accesso immediato e diretto all’assoluto dell’origine.
D’altra parte, però, la transizione alla cultura, proprio mentre implica discontinuità e insorgenza d’un livello d’essere inedito, non esclude la permanenza e l’irrefrenabile urgenza della dimensione selvaggia dell’essere, che — come s’è visto — l’ultimo Merleau-Ponty definiva altresì verticale, a indicarne la penetrazione o l’attraversamento dal fondo alla superficie dell’economia generale dell’umano. È proprio nel desiderio, nella sua ambiguità, nella sua contraddittorietà, che il passaggio dalla natura alla cultura ha sempre già avuto luogo perché sempre di nuovo si rinnova, giacché ovviamente non c’è desiderio che non sia, anche nella sua forma più elementare e meno addomesticabile, inevitabilmente tradotto nei codici d’una cultura, e non esiste espressione umana del desiderio priva d’un suo radicamento naturale, magari sconfessato e disconosciuto.
La dimensione naturale e selvaggia dell’essere umano non è perciò da confondere con il residuo indicibile o addirittura insignificante che l’espressione simbolica dei codici culturali non riesce a mediare e a sublimare: al contrario tale espressione ha sempre come suo presupposto e sua inesauribile sorgente di senso non già una generica naturalità ma un’istanza determinata che costituisce di volta in volta il risvegliarsi della vita al senso in questa o quella psiche singola. Tale risveglio non accade se non nel carattere radicale della pretesa del desiderio, la quale però, proprio in virtù della sua ambiguità, può esser soddisfatta solo attraverso una mediazione.
L’idea d’una causalità indiretta della rappresentazione rispetto alla realtà effettiva del suo oggetto è, già secondo Kant, lo specifico della facoltà di desiderare come facoltà dell’animo.47 Bisogna quindi che vi sia «“causazione” per rappresentazione»,48 bisogna cioè che determinate modificazioni della rappresentazione divengano produttive d’effetti reali, perché la facoltà del desiderare possa appagarsi nel sentimento del piacere: ma l’efficacia della rappresentazione e della sua causalità diventa tangibile solo grazie alla via indiretta d’una «prova di realtà».
Per rendere il desiderio socialmente appagabile, bisogna dunque passare dal vagheggiamento dell’onnipotenza immediata e originaria della sua pretesa assoluta all’attraversamento della realtà e delle sue mediazioni. Ma in che modo concepire questo passaggio? Come ammonisce Davide Lopez, «la soppressione di ogni elemento selvaggio, barbarico, malvagio è una pericolosa operazione culturale che inconsapevolmente e perniciosamente avvilisce la natura e isterilisce la civiltà», esponendo la stessa democrazia «al rigurgito incontrollabile della volontà di potenza».49 Nella stessa direzione va la correzione della ben nota massima freudiana («dove era l’Es, deve subentrare l’Io») proposta da Castoriadis: «Dove Io sono, Es deve sorgere. Anche desiderio e pulsioni — che si tratti di Eros o di Thanatos — sono Io e si tratta di portarli non solo alla coscienza, ma all’espressione e all’esistenza».50
Per non mortificare l’incessante incalzare del desiderio naturale, il suo irrefrenabile impulso, la sua brace inestinguibile senza di cui la vita psichica perderebbe la sua vitalità, occorre dargli forma ed emanciparlo dal paralizzante richiamo della ripetizione dell’origine. Solo la creazione dell’ordine derivato dei simboli e delle mediazioni può garantire al desiderio un suo soddisfacimento differito, liberandolo dal mito d’un suo presunto appagamento originario, da ripristinare o recuperare nel conclusivo ritrovamento di sé.
Bisogna perciò riconoscere che l’appagamento possibile del desiderio è necessariamente parziale e frammentario, giacché ci sono solo frammento e parzialità, dal momento che l’oggetto totale e compiuto non è che un fantasma del desiderio stesso. Di conseguenza l’appagamento è possibile unicamente nel futuro, in forma creativa, non già in forma nostalgicamente regressiva. Come scrive lucidamente Piera Aulagnier, fornendo al desiderio una declinazione futura priva d’ogni spettro nostalgico, «lo scopo del progetto analitico è innanzitutto e per prima cosa “temporale”: esso mira a render possibile per il soggetto l’investimento e la creazione di rappresentazioni capaci di anticipare ciò stesso che per definizione non è mai stato in grado d’esistere in precedenza. Un momento del tempo futuro che, proprio in quanto futuro, non è mai identico ad alcun momento passato».51
Il desiderio di volta in volta realizzabile è dunque il desiderio proteso al futuro, il desiderio di ciò che per definizione sfugge alla presa dell’intuizione immediata e diretta, perché si sottrae ad ogni possesso istantaneo. L’altro verso cui s’orienta l’intenzione del desiderio gli è fin dall’inizio inaccessibile immediatamente. Come dice Levinas nella sua «fenomenologia dell’eros», il possesso è quanto di più eterogeneo al desiderio, il quale, dal canto suo, è già in se stesso voluttà.52 Solo così si sfugge al mito nostalgico del desiderio, senza però abolirne l’ambiguità: senza dunque reprimerne l’irrefrenabile natura selvaggia — fonte della sua vitalità e creatività — ma senza sognare un’incoerente negazione dell’ordine inattingibile dell’alterità, il che di fatto implicherebbe la fine del desiderio e della stessa vita.
Raccolgo in queste pagine risultati d’una ricerca che prolunga due miei studi precedenti: «La nostalgia dell’origine e l’eccesso del desiderio. Lo Unheimliche e l’angoscia in Freud e Heidegger», in Fabio Ciaramelli, Bruno Moroncini, Felice Ciro Papparo, Diffrazioni. La filosofia alla prova della psicoanalisi, Guerini, Milano 1994 e «L’inospitalità dell’origine. Il fascino e la minaccia dell’«estraneo» tra fenomenologia e psicoanalisi», in Gianfranco Borrelli — Felice Ciro Papparo (a cura di), Nella dispersione del vero. I filosofi: la ragione e la follia, Filema, Napoli 1998. Per un più adeguato svolgimento rinvio al mio volume La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell’epoca del consumo di massa, Dedalo, Bari 2000.
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Sándor Márai, Le braci, a cura di Marinella D’Alessandro, Adelphi, Milano 1998, pp. 169-170, corsivo mio. ↩︎
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Manlio Sgalambro, Trattato dell’età. Una lezione di metafisica, Adelphi, Milano 1999. ↩︎
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Cornelius Castoriadis, Figures du pensable. Les carrefours du Labyrinthe VI, Seuil, Paris 1999, p. 186. Cfr. Idem, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, trad. Riccardo Currado, Postfazione Fabio Ciaramelli, Dedalo, Bari 1998, pp. 254-254. ↩︎
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René Girard, La violenza e il sacro, trad. Ottavio Fatica ed Eva Czerkl, Adelphi, Milano 1980, pp. 204-205. ↩︎
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Ibid., p. 204. «Anche se solo in parte, quest’animale mancante e perciò mimetico, quest’animale mimetico e perciò desiderante, s’avvicina all’essere non finito gehleniano, desiderante e perciò mimetico, condannato al desiderio non-terminabile di (cor) rispondere a un bisogno-di-far-qualcosa che è vuoto d’oggetto», Roberto Escobar, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna 1997, p. 177. «Per Gehlen, non il desiderio ha natura mimetica, ma la mimesi ha natura desiderante: è il desiderio vuoto d’oggetti che induce alla mimesi», ibid., p. 190. ↩︎
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«Se il desiderio è libero di fissarsi dove vuole, la sua natura mimetica lo trascinerà quasi sempre nell’impasse del double bind. La libera mimesis si getta ciecamente sull’ostacolo di un desiderio concorrente; genera il proprio fallimento e questo, di rimando, rafforzerà la tendenza mimetica. C’è qui un processo che si nutre di se stesso», René Girard, La violenza e il sacro, p. 207. ↩︎
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René Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, trad. Giovanni Luciani, Adelphi, Milano 1998, p. 37. ↩︎
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Su questo punto, mi sia permesso di rinviare al mio articolo Levinas e la fenomenologia del desiderio, in Levinas. Filosofia e trascendenza, a cura di A.Moscato, Marietti, Genova 1992, pp. 143-168, e per un’interpretazione complessiva al mio volume Transcendance et éthique. Essai sur Levinas, Ousia, Bruxelles1989. ↩︎
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Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C.Musatti, Boringhieri, Torino 1967 e sgg., vol. III, p. 517, corsivo nell’originale. ↩︎
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Bernard Baas, Le désir pur. Parcours philosophiques dans les parages de J. Lacan, Peeters, Leuven 1992, pp. 52-53. È proprio al paradosso di questa perdita anteriore a quanto è perduto che allude Levinas quando parla di «anacronismo», come ho cercato di mostrare in un testo intitolato appunto L’anacronismo, apparso come Postilla a Emmanuel Levinas — Adriaan Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di F.Ciaramelli (Saggi dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Guerini, Milano 1989, pp. 155-179. ↩︎
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Sigmund Freud, Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno, OSF. VIII, p. 94. ↩︎
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Cfr. Caducità, in OSF, VIII, pp. 173-176. ↩︎
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Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Notes des cours au Collège de France 1958-1959 et 1960-1961, a cura di S. Ménasé, Gallimard, Paris 1997, p. 149. ↩︎
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Cfr. Jean Laplanche e Jean-Baptiste Pontalis, Fantasma originario, fantasmi delle origini, origini del fantasma, trad.P. Lalli, Il Mulino, Bologna 1988, p. 86. ↩︎
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Aldo G. Gargani, «Freud e Wittgenstein», in Idem, Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 126-7. ↩︎
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Prima ancora che in Levinas, questa formula ricorre nel Merleau-Ponty della Fenomenologia della percezione. Se ne legga la suggestiva ricostruzione che, sullo sfondo della nozione freudiana di Nachträglichkeit, fornisce Bernhard Waldenfels, Deutsch-Französische Gedankengänge, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995, pp. 17-30. ↩︎
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Secondo le suggestive analisi levinasiane, su cui rinvio al mio «Levinas e la fenomenologia del desiderio», in Alberto Moscato (a cura di), Levinas. Filosofia e trascendenza, con due saggi di Emmanuel Levinas, Marietti, Genova 1992. ↩︎
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«Ciò che io sento soltanto, è mio [was ich nur meine, ist mein], appartiene a me come a questo particolare individuo: ma se la lingua esprime sempre l’universale, io non posso dire ciò che è soltanto un mio sentimento [was ich nur meine]. E l’ineffabile, il sentimento, la sensazione è non già il più eccellente e il più vero, ma ciò che v’ha di più insignificante e di men vero», G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 20, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1973, vol. I., p. 31. ↩︎
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Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, a cura di C. Lefort, Gallimard, Paris 1964, pp. 306-307. ↩︎
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Su cui si sofferma nel suo contributo a questo volume il saggio di Mauro Carbone, curatore dell’edizione italiana di Maurice Merleau-Ponty, La natura. Lezioni al Collège de France 1959-1960, testo stabilito e annotato da Dominique Séglard, Cortina, Milano 1996. ↩︎
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Come cerco di mostrare, limitatamente alla critica dell’ontologia heideggeriana, in «L’originaire et l’immédiat. Remarques sur Heidegger et le dernier Merleau-Ponty», Revue philosophique de Louvain, maggio 1998. ↩︎
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Norbert Elias, Teoria dei simboli, trad. E.Scoppola, Il Mulino, Bologna 1998, p. 203. ↩︎
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Ivi, p. 77. ↩︎
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Cfr. Bernard Flynn, «Political Theory and the Metaphysics of Presence», Philosophy and Social Criticism, 11.3 (1986), pp. 245-258 e Idem, Political Philosophy at the Closure of Metaphysics, Humanity Press, New Jersey-London 1992, pp. 29-30, 65-66. ↩︎
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Aldo G. Gargani, «Epistemologia e scena primitiva: Freud e Wittgenstein», in Idem, Freud Wittgenstein Musil, Shakespeare and Company, Roma 1982 (seconda edizione), p. 50. Ad analoghi esiti giunge una recente ricerca di M.Carbone, che partendo da una rilettura di Proust attraverso Merleau-Ponty e Deleuze, fa emergere in maniera assai avvincente il rapporto tra le variazioni e il tema come elaborazione differita d’un passato originale che non fu mai presente: cfr. Mauro Carbone, Di alcuni motivi in Marcel Proust, Cortina, Milano 1998. ↩︎
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Antoine Vergote, «La psychanalyse, limite interne de la philosophie», in Savoir, faire, espérer. Les limites de la raison, Hommage à Mgr H.Van Camp, Facultés Universitaires Sain-Louis, Bruxelles 1976, vol. II, pp. 409-500. ↩︎
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Ivi, p. 497. ↩︎
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N. Elias, Teoria dei simboli, pp. 160-161. ↩︎
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Leszek Kolakowski, Presenza del mito, trad. P. Kobau, Il Mulino, Bologna 1992, p. 177. ↩︎
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Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Le visisble et l’invisible, cit., pp. 56-57. ↩︎
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Cfr. Cornelius Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, trad. F. Ciaramelli e F. Nicolini, a cura di F. Ciaramelli, con Introduzione di P. Barcellona, Bollati Boringhieri, Torino 1995 e Idem, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, trad. R. Currado, a cura e con una Postfazione di F. Ciaramelli, Dedalo, Bari 1998. Per un’originale rielaborazione delle analisi di Castoriadis a partire da un’acuta consapevolezza della crisi della modernità e del suo immaginario, rinvio alle ultime ricerche di Pietro Barcellona, in modo particolare a L’individuo sociale, Costa e Nolan, Genova 1986, Politica e passioni, Bollati Boringhieri, Torino 1997, e infine al capitolo «Psiche e società: la grammatica delle passioni», in Idem, Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, De Donato, Bari 1998, pp. 289-323, cui direttamente si riallaccia il discorso svolto nel presente testo. ↩︎
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Aldo G. Gargani, Il testo del tempo, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 36. ↩︎
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Cfr. Idem, Sguardo e destino, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 90-91. ↩︎
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Piera Castoriadis-Aulagnier, «Le risque de l’excès et l’illusion mortifère», in Savoir faire espérer, cit., vol. II, pp. 428-429. ↩︎
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Ivi. Ci sono qui le premesse per comprendere il carattere mortifero della paradossale «servitù volontaria» denunciata da La Boétie all’alba della modernità (cfr. Etienne de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, trad. F. Ciaramelli, a cura e con Introduzione di U.M. Olivieri, La Rosa, Torino 1995), in cui va vista un’ulteriore manifestazione dell’antinomia del desiderio. ↩︎
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Piera Castoriadis-Aulagnier, La violence de l’interprétation. Du pictogramme à l’énoncé, Puf, Paris 1975, pp. 51-52 e p. 32. ↩︎
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Ivi, p. 65. ↩︎
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Cf. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, OSF, IX, p. 315. ↩︎
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La delucidazione di questo nesso emerge nelle ricerche di Bernhard Waldenfels dedicate alla fenomenonologia dell’estraneo, come si evince dal seguente passo, tratto da uno dei suoi ultimi libri, Topographie des Fremden. Studien zur Phänomenologie des Fremden 1, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1997: «Il perturbante [das Unheimliche], che già s’insinua nella “casa” [im “Heim”] sotto l’aspetto del “recondito” [des “Heimlichen”], costituisce, secondo l’osservazione di Freud (GW, XII, p. 231 = OSF, IX, p. 82), “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, e questo perturbante-estraneo [dieses Unheimlich-Fremde] è a sua volta — secondo la nostra definizione iniziale — determinato da una forma specifica d’accessibile inaccessibilità» (Topographie des Fremden, p. 44). La determinazione iniziale da cui prende le mosse Waldenfels è la tesi di Husserl, che definisce il modo d’essere dell’estraneo come accessibilità di ciò che è originalmente inaccessibile (cf. essenzialmente Meditazioni cartesiane § 52, e Topographie des Fremden, pp. 25, 75 e 90). Quel che è decisivo è che questo modo di accedere all’estraneo precisamente nella sua inaccessibilità immediata e non suo malgrado, costituisce una modalità primordiale dell’esperienza, fondata su una datità indiretta, in cui quel che si dà, sfugge fin dall’inizio alla presa dell’intuizione originariamente donatrice. Per un maggiore approfondimento della proposta di Waldenfels, rinvio ai frequenti cenni vi ho fatto in «L’inospitalità dell’origine. Il fascino e la minaccia dell’«estraneo» tra fenomenologia e psicoanalisi», in Gianfranco Borrelli — Felice Ciro Papparo (a cura di), Nella dispersione del vero. I filosofi, la ragione e la follia, cit., nonché alla discussione che le ho dedicato nello studio critico intitolato «L’inquiétante étrangeté de l’origine», Revue philosophique de Louvain, agosto 1998. ↩︎
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OSF, IX, p. 268. ↩︎
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OSF, VII, p. 92. ↩︎
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Cfr. Aldo G. Gargani, «Freud e Wittgenstein», Idem, Lo stupore e il caso, pp. 122-123, che si riferisce in modo particolare a Ludwig Wittgenstein, Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, trad. S. de Waal, Adelphi, Milano 1995, pp. 44-45. ↩︎
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Mi ispiro liberamente alle categorie usate da Aldo Masullo, Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza, Donzelli, Roma 1995, che discuto più dettagliatamente in «L’épreuve du temps», Revue philosophique de Louvain, novembre 1995. ↩︎
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Cfr. Sigmund Freud, Il perturbante, OSF, IX, p. 86. ↩︎
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Cfr. Hélène Cixous, «La fiction et ses fantômes. Une lecture de l’Unheimliche de Freud», in Poétique, 10 (1972), p. 201. ↩︎
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Privilegio assai coerentemente ed emblematicamente sottolineato con enfasi da un piccolo classico del pensiero tradizionale qual è ormai da considerarsi il libro di Elémire Zolla, di recente riedito: Che cos’è la tradizione (1971), Adelphi, Milano 1997, p. 136, p. 155. Per una critica delle implicazioni nostalgiche del privilegio speculativo dell’intuizione intellettuale, rinvio al mio «Intuizione intellettuale e nostalgia dell’unità originaria. Una nota su alcune pagine kantiane di Hegel e Heidegger», in Rossella Bonito Oliva — Giuseppe Cantillo (a cura di), Fede e sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, Guerini, Milano 1998. ↩︎
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Secondo le cristalline definizioni di una famosa nota della Prefazione alla Critica della ragione pratica, a cura di A.M. Marietti, con testo tedesco a fronte, Rizzoli, Milano 1992, pp. 106-109, richiamate e approfondite in un’altrettanto fondamentale nota dell’Introduzione alla Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, con testo tedesco a fronte, Rizzoli, Milano 1995, vol. I, pp. 88-91, a conclusione della quale si legge: «Ma perché mai è stata posta nella nostra natura la tendenza a desideri consapevolmente vuoti [der Hang zu mit Bewußtsein leeren Begehrungen]? Si tratta d’un problema teleologico-antropologico. […] Ordinariamente, infatti, impariamo a riconoscere le nostre capacità [Kräfte] solo ed esclusivamente mettendole alla prova. Quest’illuderci in vuoti desideri [Diese Täuschung in leeren Wünschen] non è dunque che la conseguenza di un benefico ordinamento nella nostra natura» (Introduzione, III, nota 1, pp. 90-91). ↩︎
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In cui Castoriadis riconosce un «presupposto assoluto […] di tutta l’opera psicoanalitica di Freud»: cfr. Cornelius Castoriadis, L’enigma del soggetto, pp. 123-124. ↩︎
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Davide Lopez, La psicoanalisi della persona, Boringhieri, Torino 1983, p. 22. ↩︎
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Cornelius Castoriadis, L’enigma del soggetto, p. 168. ↩︎
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Piera Castoriadis-Aulagnier, «Le risque de l’excès et l’illusion mortifère», cit., p. 431. ↩︎
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Cfr. Emmanuel Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961, p. 243: «Rien ne s’éloigne davantage de l’Eros que la possession»; p. 237: «La volupté commnece déjà dans le désir érotique et reste, à tout instant, désir. La volupté ne vient pas combler le désir, elle est ce désir même». Osservazioni acute sulla fenomenologia levinasiana dell’eros come inopinato e indiretto contributo a una teoria della sublimazione si leggono nella terza parte del brillante saggio di Rudolf Bernet, «Trieb und Transzendenz. Zur Theorie der Sublimierung», in Bernhard Waldenfels — Iris Därmann, Der Anspruch des Anderen: Perspektiven phänomenologischer Ethik, Fink, München 1998, pp. 197-217. ↩︎