1. Introduzione
Questo intervento focalizza l’attenzione sulle riflessioni di due autori: Friederich Nietzsche e Albert Camus. La linea utilizzata per attraversare e confrontare l’analisi di alcuni testi dei due autori è quella delineata da una domanda che a sua volta non trova una formulazione definitiva, ma che rimanda ad un complesso insieme di problematiche: come vivere il nichilismo?
L’intento è quello di mostrare come i due autori abbiano riflettuto e analizzato la problematica del nichilismo e come abbiano tentato di esprimere le possibilità che si aprono oltre il nichilismo stesso. Entrambi gli autori spostano il fulcro della loro questione dal pensare, e pensare a fondo il nichilismo e la sua storia, al vivere la nostra esistenza coscienti di questa realtà, o meglio al tentativo di capirne le implicazioni nella nostra quotidianità.
Ho individuato, come vedremo meglio successivamente, il punto di partenza della speculazione di Camus nella tematica della finitudine esistenziale. Dall’emergere del limite costitutivo della coscienza di fronte all’essere e dalla conseguente affermazione di peculiarità del pensiero che si oppone all’annullamento ontologico e gnoseologico, infatti, sorge quel particolare atteggiamento esistenziale che solo all’uomo appartiene: la rivolta. Dopo che l’uomo ha svelato il suo essere finito, attraverso la contrapposizione tra la sua richiesta di unità e il silenzio del mondo, deve scegliere se perseverare nell’unico atteggiamento adeguato alla sua essenza (la rivolta), oppure se invocare un senso al di là dell’essere, arrendendosi così al non senso. La rivolta, per Camus, diventa un atteggiamento pratico attraverso il quale l’uomo esistente decide di essere un fine in sé e di rifiutare l’annichilimento teoretico e pratico. L’essere umano si libera così da ogni forma di trascendenza e diviene il solo responsabile del proprio agire.
Camus nelle sue riflessioni riprende e si confronta con le conclusioni a cui è giunto Nietzsche analizzando il fenomeno del nichilismo. Il nichilismo è, in approssimazione, la logica, pensata fino alla fine, dei nostri grandi valori e ideali. Approfondendo la storia del pensiero occidentale, Nietzsche ritiene di averne finalmente compreso il senso più intimo, il suo traguardo ultimo. Tale senso e traguardo sono il nulla.
Il termine nichilismo svolge una funzione diagnostica: esso serve a Nietzsche per designare la condizione pessimistica e passiva di un’umanità per la quale nulla ha più senso. Nell’epoca della crisi dei valori, l’uomo riconosce l’insensatezza del mondo e sviluppa un sentimento di perdita, di dolore e di risentimento per l’esistenza.
Se questa è la vita, si chiede il filosofo tedesco, quale compito rimane ancora all’uomo, quale senso è concesso al suo vivere sulla terra? Questa domanda si unisce a quella di Camus che si chiede come l’uomo, consapevole dell’assurdo, (cioè del suo limite e dell’impossibilità di soddisfare la sua esigenza di unità), possa vivere e accettare la propria vita.
Camus riconosce a Nietzsche il merito di essere il più acuto pensatore del nichilismo, ma al contempo, propone un tentativo di superamento del nichilismo che si differenzia tanto da quello di chi propone un ritorno all’interiorità inviolabile dell’individuo, quanto da quello di chi prende a pretesto il limite ontologico umano per prescrivere forme di abbandono al divino o alla temporalità. Camus afferma l’esistenza di una valore comune, quello della dignità umana, che permette all’uomo di superare il nichilismo. L’uomo camusiano, come vedremo, consapevole della propria dignità non cerca più fuori di sé un’autorità che lo regge, e non si sottomette più a forze che lo terrebbero legato alla propria schiavitù materiale e spirituale.
Camus si dispone ad ascoltare positivamente Nietzsche, assumendo come punto di partenza la rivolta e il carattere metodico del pensiero nicciano; comuni ad entrambi gli autori, infatti, è l’esigenza di una trasformazione radicale dell’esistenza.
Entrambi i pensatori, però, affermano che non basta prendere atto del nichilismo, quest’ultimo e l’assurdo non vanno normalizzati. La posizione che entrambi gli autori assumono è quella di chi afferma che il nichilismo va vissuto e sperimentato personalmente. Nietzsche e Camus ritengono impellente decidere come si possa vivere, piuttosto che stare in bilico sulla soglia, imbrigliati in un infinito ritornare sui propri passi di pensiero, sicuri che la risoluzione di andare oltre la porta non significhi raggiungere uno stato di certezze, ma rimanere ancora in un errante equilibrio.1 Si tratta di vivere e di pensare con questo strazio; di sapere se bisogna accettare o rifiutare, ma non mascherare l’evidenza, o sopprimere l’assurdo. Sapersi mantenere su questa cresta vertiginosa, secondo i due autori, significa abitare l’onestà: tutto il resto è sotterfugio.
La differenza fra Nietzsche e Camus si sviluppa nel momento in cui l’autore francese legge, all’interno della rivoluzione nichilistica, la possibilità che l’uomo diventi un mero strumento atto all’estensione e alla conservazione della volontà di potenza. La rivolta di Camus è, in primo luogo, coscienza dei propri limiti; proprio questi ultimi, secondo l’autore francese, non sono presenti nella rivolta nicciana, che sembra così degradare in un irrazionalismo che esalta il divenire nelle forme più brutali.
2. La genesi dell’assurdo in Camus
Albert Camus (1913-1960) è stato un importante esponente della letteratura francese che negli anni 1940-1950 si è dedicato alla ricerca di quale atteggiamento deve assumere l’uomo nei riguardi dell’esistenza. In tutte le sue riflessioni, dalla constatazione dell’impossibile comunanza della coscienza con le cose, al rifiuto di Dio e di ogni altra forma di assoluto che pretende di sostituirlo, il problema della finitezza umana gioca un ruolo fondamentale. È necessario insistere sul problema della frattura che si manifesta nell’esistenza, tra pensiero ed essere, e che conduce il pensatore francese a proclamare il nichilismo come metodo del suo pensiero. Detto in altre parole significa che la constatazione dell’assurdità dell’esistenza deve essere un punto di partenza e non una ferma conclusione.
Nel Mito di Sisifo2 (1942) questa problematica viene affrontata in modo esplicito, il punto di partenza è costituito dall’analisi di quello che viene definito l’unico problema veramente serio della filosofia: il suicidio. Sisifo diventa così l’eroe assurdo, colui che non conduce a termine nulla; nel suo compito non vi è né inizio né fine, ed egli ne è perfettamente cosciente. Sisifo rotola il suo macigno verso l’alto sulla sommità della collina, per vederlo ricadere, appena raggiunto la sommità, sul fondo, a questo punto l’eroe ridiscende e ricomincia a spingere in alto nuovamente la roccia.
Nell’universo contemporaneo, orfano di Dio e privo di salvezza, l’essere umano è legato al suo destino di ente finito che possiede come uniche risorse la vita e la sua forza. Il desiderio di unità e di comprensione che nascono nell’uomo di fronte allo scandalo della finitezza, del dolore e dell’incomprensibilità delle cose, hanno spinto Camus a concludere che non c’è nulla a misura d’uomo e che il senso delle cose è irrimediabilmente perduto. L’uomo è solo con il proprio desiderio di comprensione.
Camus dichiara apertamente l’impenetrabilità delle cose al pensiero e lo scacco inesorabile che l’uomo è costretto a subire ogni volta che si trova a misurarsi con il mondo. Vengono descritte le varie fasi attraverso le quali l’uomo si interroga sul perché delle cose, evidenziandone ogni volta l’impossibilità di una giustificazione definitiva che appaghi l’insorgere continuo di questa domanda.
Dobbiamo ora analizzare come sorge e si costituisce la nozione dell’assurdo e vedremo che, come spesso accade per le grandi azioni e le grande opere che traggono la loro origine da circostanze di poco peso, anche l’assurdo ha una misera nascita.3 Finchè l’uomo vive immerso nelle cose del mondo e da queste si lascia prendere e occupare, seguendo lo stesso ritmo che quelle gli impongono, non prende coscienza della sua posizione. Ma il giorno in cui l’uomo si chiede perché, e si guarda intorno e inizia a considerare il senso della sua vita automatica e quello della realtà che lo circonda in cui ha vissuto fino ad oggi un’esistenza sempre portato dal tempo, inizia il momento della coscienza che lo desta e provoca il risveglio definitivo. L’assurdo diventa la ragione che conosce i propri limiti, l’impossibilità di dare un senso all’esistenza e di giustificare tutti i comportamenti umani. Detto in altro modo, l’assurdo è la presa di posizione dell’uomo di fronte al mondo e nasce allorché l’uomo, considerando razionalmente la sua condizione, è dalla logica costretto a concludere che il rapporto tra l’uomo e il mondo è assurdo. L’assurdo è quindi un rapporto che si stabilisce tra l’uomo che chiede, interroga e il mondo irrazionale che resta sordo al suo richiamo. Se nell’uomo cessasse quest’ansia irrefrenabile di conoscenza, l’assurdo sparirebbe, perché venendo meno uno dei termini del rapporto svanirebbe anche l’altro, e l’uomo diventerebbe una cosa tra le cose; viceversa, se il mondo fosse in grado di rispondere al nostro richiamo irragionevole, ugualmente crollerebbe l’assurdo e l’uomo sarebbe deificato. Non potendo né l’una né l’altra ipotesi essere possibile, la nostra situazione resta quella che è: desolante, insignificante e angosciosa.
Camus dice che l’assurdo non è una verità che si dimostra logicamente, ma una sensazione che si palesa in modo evidente all’uomo. Il mondo, cioè, diventa assurdo non alla fine di un movimento di pensiero che ne esige una giustificazione logica, ma nel momento in cui gli si pongono domande e gli si richiede di accordarsi alle aspirazioni dell’uomo. L’assurdità, dunque, non è secondo Camus una prerogativa dell’essere o del pensiero presi nella loro unilaterità, essa scaturisce dall’incontro tra ciò che è umano, la ricerca di senso e di unità, con il mondo irrazionale.
Stabilito pertanto che il mondo è assurdo, qual è l’atteggiamento più coerente che l’uomo deve assumere rispetto ad esso?
Di fronte all’assurdità, l’uomo può reagire in due modi diametralmente opposti: in primo luogo può fuggire l’assurdità con cui si presenta l’esistenza immaginando un universo superiore di senso, in grado di giustificare il divenire che ne sta al di sotto; in secondo luogo, può abbandonarsi al tempo e all’insensatezza, vivendo fino in fondo la sua condizione di ente finito.
L’uomo, però secondo Camus, non può rinunciare alla sua dignità e deve perciò rimanere nell’assurdo. Come si può notare, il pensatore francese non fa eccezione rispetto alla filosofia del suo tempo, infatti, egli condivide i presupposti e le analisi negative delle varie filosofie dell’esistenza. Se ne discosta però nel momento in cui deve trovare una soluzione per sfuggire al nulla assoluto, alla rassegnazione e all’abbandono.
Nel Mito di Sisifo, più volte, Camus ribadisce il rapporto con l’esistenzialismo, sottolineando che la sua riflessione prende spunto dalle conseguenze che quest ultimo trae dalla constatazione dell’assurdo nichilistico. Pur partendo dalle riflessioni esistenzialistiche, l’autore francese, però evidenzia il tentativo di superamento di queste ultime. La maggior parte degli autori esistenzialisti, infatti, utilizzano la finitudine e il dolore esistenziale per proclamare che nulla ha senso, se non nella speranza di un ordine che vada oltre la comprensione umana. Gli esistenzialisti si sono arresi di fronte al nulla e si sono rivolti alla speranza. Solo Dio potrebbe garantire, agli occhi di costoro, un senso alla vita umana; lo scacco esistenziale diventa così il mezzo per l’affermazione assoluta di Dio. Queste posizioni però, secondo Camus, partendo dal limite ontologico fondamentale dell’uomo, amplificano la sua finitezza ed affermano che egli non può nulla da solo, inducendolo ad abbracciare la fede in un al di là che da senso al suo essere. Per gli esistenzialisti, Dio si mostra in quel punto in cui il pensiero perviene ai limiti delle sue possibilità, ma lo sforzo esistenzialista, nel tentativo di dare un senso alla vita, che per definizione è senza senso, risulta sterile e inutile. Scoperto l’assurdo, invece, bisogna rinunciare alla folle aspirazione di dare un senso alla vita, perché una vita che abbia significato non è una vita umana.
Camus, come Nietzsche, si oppone ad ogni tentativo di totale denigrazione dell’esistenza umana, in nome di una qualsiasi altra forma di vita ultraterrena; un tale atteggiamento verso l’esistenza appare, ai due autori, come poco onesto.
L’unico modo, secondo Camus, di essere uomini fino in fondo, di fronte all’imperscrutabilità delle cose, al dolore e alla morte, è quello che ci porta ad essere coscienti del limite che ci è imposto. Tutto ciò che l’uomo può e deve fare, senza contraddire la sua natura, dopo essere giunto alla consapevolezza di essere un ente finito in mezzo agli altri, consiste nell’insistere nella rivolta contro la condizione che gli viene imposta e che percepisce come un’estrema ingiustizia.
Di fronte alla finitezza della condizione umana e ad un mondo incomprensibile, all’essere umano non rimane che la propria rivolta, la quale lo condurrà alla negazione di un ordine teleologicamente determinato del mondo, e quindi al rifiuto di un suo possibile artefice intelligente. Il pensatore francese si sta piano piano avvicinando a quello che chiamerà il pensiero meridiano, esposto nell’Uomo in rivolta,4 pensiero a misura d’uomo.
3. Nietzsche e il nichilismo
È soprattutto nei frammenti pubblicati postumi che compongono La volontà di potenza,5 che il nichilismo viene fatto oggetto di un’esplicita riflessione filosofica. Con Nietzsche, infatti, l’analisi del fenomeno raggiunge il suo culmine, alimentando nel contempo l’esigenza critica di un superamento dei mali in esso manifestatisi.
Ma per quale via, Nietzsche, giunge al problema del nichilismo?
Il termine viene impiegato per la prima volta negli appunti dell’estate 1880, ma da tempo Nietzsche aveva riconosciuto ed individuato, seguendo il motivo della morte di Dio, i tratti distintivi del fenomeno. È nella Gaia Scienza,6 nell’aforisma 125 intitolato L’uomo folle, che la morte di Dio viene presentata come l’esperienza decisiva attraverso cui emerge la consapevolezza dello svanire dei valori tradizionali. Dio muore al culmine della metafisica occidentale che ha cercato la verità sotto il velo dell’apparenza, fino a mettere in questione l’Ente che garantiva la saldezza di tutti i valori. Si tratta, per l’uomo folle che annuncia questo evento, di un omicidio consumato tacitamente, del quale l’umanità contemporanea non ha e non può avere ancora consapevolezza. Esso lascia vuoti gli orizzonti di senso. Non ci troviamo dunque dinnanzi a una semplice presa di posizione ateistica. La morte di Dio non significa, per Nietzsche, che gli uomini non credono più in Dio; essa ha piuttosto il valore di una constatazione: non c’è più alcun Dio che ci può salvare, oltre gli uomini sta solo il nulla. Proclamando la morte di Dio, Nietzsche, riassume in una formula radicale l’irruzione del nichilismo nel mondo moderno. Il valore supremo si svalorizza e si rivela come la nostra più grande menzogna, lasciando l’umanità orfana, priva del suo fondamento. Se Dio è morto no ha più senso, infatti, parlare di valori e di fini. La morte di Dio si annuncia così come un evento drammatico, proprio perché non è riducibile ad una presa di posizione razionalistica, non si configura come una negazione di Dio conseguita argomentativamente, secondo una logica razionalistica.7 La morte di Dio, cioè il venir meno dei valori tradizionali, diventa il filo conduttore per interpretare la storia occidentale come decadenza e fornire un’analisi critica del presente. Questo processo, per Nietzsche, ha le sue radici nel mondo greco che, con Socrate e Platone, ha contrapposto un mondo ideale e portatore di valori assoluti al mondo vissuto e reale, che è stato svalutato e negato. Il cristianesimo ha poi esaltato, agli occhi di Nietzsche, quel trascendere il mondo già presente in Platone; il mondo vero posto al di là è così diventato l’oggetto di una promessa e di un premio.
Avvertito come il problema capitale, il nichilismo diventa l’asse tematico intorno al quale ruota tutta l’ultima estenuante ricerca nicciana. Di questo intende render conto la distribuzione dei frammenti proposta nella Volontà di potenza, il cui primo libro, dei quattro in cui l’opera è suddivisa, ha per tema il nichilismo europeo.
Ma cosa vuol dire propriamente nichilismo?
Nel porsi egli stesso la domanda, Nietzsche, risponde con una definizione che descrive il fenomeno nella sua essenza ed afferma che il nichilismo è quando manca il fine, quando viene meno la risposta al perché. Il nichilismo è dunque la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al perché, e come tali illuminavano l’agire dell’uomo. Il nichilismo è dunque la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali.
In un breve testo inserito nel Crepuscolo degli idoli8 e intitolato Come il mondo vero finì per diventare favola, Nietzsche offre un compendio della storia del nichilismo-platonismo, in sei capitoli. La riflessione nicciana più volte sottolinea la necessità di affermare che il nichilismo non viene superato mediante lo scetticismo e il positivismo. Dopo l’abolizione del mondo soprasensibile, in quanto ipotesi superflua, rimangono, infatti, aperti due problemi: che ne è del luogo in cui stava l’ideale e che dopo l’abolizione di quest ultimo rimane vuoto? Qual è il senso del mondo sensibile dopo che è stato abolito l’ideale? Nietzsche afferma che abolendo il mondo ideale viene meno anche quello reale, ma ciò non implica un semplice venir meno del mondo sensibile come tale. Se così fosse, infatti, dal momento che il mondo ideale e quello sensibile costituiscono, nel loro insieme, la totalità dell’essere, la loro abolizione produrrebbe come risultato il nulla. Ma Nietzsche non può voler questo, se è vero che mira ad un superamento del nichilismo. Abolire il mondo apparente, significa piuttosto eliminare il modo in cui il sensibile è visto dalla prospettiva del platonismo, cioè togliergli il carattere di apparenza. Non si tratta dunque di eliminare il mondo sensibile, ma meglio di eliminare il fraintendimento platonico ed aprire la strada ad una nuova concezione del sensibile. A tal fine non basta semplicemente rovesciare la vecchia gerarchia e porre in alto ciò che prima stava in basso, apprezzando il sensibile e disprezzando il non sensibile. Bisogna invece uscire dall’orizzonte del platonismo ossia dalla dicotomia ontologica che esso implica e dalle relative categorie.
In un frammento intitolato Critica del nichilismo Nietzsche sostiene che il nichilismo subentra di necessità come stato psicologico quando le grandi categorie, con le quali si era introdotto nel mondo un principio organizzatore e si era dato un senso al divenire, vengono erose dal sospetto che ad alimentarle fosse semplicemente l’inconscia auto-illusione di cui la vita umana si serve per sopravvivere. Si tratta delle categorie di fine, verità e unità. Mentre un tempo gli uomini si erano illusi che il divenire avesse un senso e una meta, con l’insorgere del nichilismo, capiscono che il divenire non mira a nulla e non porta a nulla. O meglio, quando si fa chiaro che non è lecito interpretare il carattere generale dell’esistenza né con il concetto di fine, né con il concetto di unità, né con quello di verità, si finisce per rinunciare ad ogni principio organizzatore.
Il nichilismo porta l’uomo ad accettare la realtà del divenire come unica realtà, senza ammettere nessuna trascendenza. La morte di Dio e la conseguente trasvalutazione dei valori portano all’infrangersi dell’universo tradizionale. Tuttavia il nichilismo nicciano non va confuso con una pratica semplicemente mascherante che dissolve falsi orizzonti di senso. Il nichilismo che si impone come uno stato psicologico, e che avvia il processo di svalutazione e dissoluzione dei valori tradizionali, è infatti incompleto. In esso ha inizio la distruzione dei valori tradizionali, ma i nuovi che subentrano vanno ad occupare il medesimo posto dei precedenti, conservando un carattere ideale. L’uomo, infatti, ha ancora un rimpianto per il passato, per quel periodo felice in cui credeva ancora alle favole metafisiche. L’uomo moderno non crede più, ma vorrebbe credere; finisce così con l’inventarsi nuove fedi in sostituzione delle antiche. Il nichilismo incompleto si manifesta, secondo Nietzsche, sia in ambito scientifico con il positivismo e la spiegazione meccanicistica dell’universo, sia in ambito politico con il nazionalismo e il socialismo. Il vecchio Dio viene, infatti, sostituito con altrettanti idoli (la scienza, lo stato e il socialismo), che vanno a riempire il vuoto lasciato dalle precedenti strutture metafisiche.
Solo con quello che Nietzsche chiama il nichilismo completo viene distrutto, insieme ai vecchi valori, anche il luogo che essi occupavano, il mondo ideale. Il nichilismo completo innanzitutto si manifesta come nichilismo passivo che si limita a prendere atto della decadenza dei valori. Quest ultimo però deve essere, secondo la riflessione nicciana, un momento di transizione. Nietzsche, infatti, auspica l’avvento del nichilismo attivo che non è segnato dalla capitolazione di fronte al nulla che caratterizza quello passivo, ma esprime la speranza del superamento della decadenza. Nietzsche intende superare lo stato di angoscia in cui si trova l’uomo del suo tempo, che assiste con panico al venir meno del sacro nella cultura.9 Solo mediante il nichilismo attivo si può giungere all’eliminazione del luogo ideale dei valori tradizionali, e fare spazio alla possibilità di una nuova posizione di valori fondata sul riconoscimento della volontà di potenza quale carattere fondamentale di tutto ciò che è.
Proprio per portare a compimento il nichilismo, secondo Nietzsche, è necessario pensare l’eterno ritorno. Ciò significa che non dobbiamo soltanto pensare che la vita non si prefigge nulla, ma dobbiamo anche pensare che tutto ritorna eternamente. L’uomo della cultura occidentale è, infatti, prigioniero di un’errata concezione lineare del tempo, secondo cui ogni cosa ha un inizio e un fine, un principio e uno scopo. In questa visione, il passato ci condiziona in quanto irreversibile e il futuro si impone come un evento sempre incombente che ci impedisce di godere del presente. A questa concezione che intende il tempo scandito da istanti irripetibili, Nietzsche oppone una concezione ciclica, secondo la quale gli eventi sono destinati eternamente a ripetersi in un tempo circolare. Il mondo risulta così dominato dalla necessità della ripetizione, tutte le cose ritornano e noi con esse. Nella visione lineare del tempo, ogni istante acquista significato solo se legato agli altri, che lo precedono e lo seguono; il corso del tempo muove dunque verso un fine che trascende i singoli momenti di cui è costituito. Nella visione nicciana, invece, ogni momento del tempo, e dunque ogni esistenza singola in ogni suo attimo, possiede tutto intero il suo senso. L’attimo presenta può e merita perciò di essere vissuto per se stesso, come se fosse eterno.
Ma chi è che può sopportare questo terribile pensiero che sembra rendere insostenibile l’esistenza?
Secondo Nietzsche l’oltre-uomo, detto anche l’uomo dell’eterno ritorno, che è consapevole che ogni suo atto, ogni sua scelta si inseriscono in una realtà eterna. Tutti gli istanti, infatti, sono destinati a ritornare, sempre uguali, per sempre. L’eterno ritorno diventa così una verità terribile, ma l’oltre-uomo non si limita a sopportarla e ad abbandonarsi alla ciclicità del tempo. L’amor fati nicciano non è l’accettazione rassegnata delle cose così come esse accadono, ma l’amare e quindi volere ciò che accade così come accade. L’oltre-uomo è proprio colui che trasforma il caso in una necessità assunta e voluta, che trasforma ogni così fu in così volli che fosse; esso ha il coraggio di guardare in faccia la vita e di prendere atto dell’insensatezza del mondo, al di là di tutte le illusioni metafisiche. L’oltre-uomo ha dentro di sé la morte di Dio, mentre davanti a sé ha il mare aperto delle possibilità che nascono dalla liberazione da ogni struttura metafisica.
L’eterno ritorno, secondo Nietzsche, deve essere accettato con coraggio e tenacia, in quanto esso smaschera l’esistenza nella sua irriducibile dualità tragica di vita e di morte, di gioia e di dolore. L’eterno ritorno deve essere voluto e amato, scelto come la possibilità più propria dell’oltre-uomo.
4. Camus e la rivolta
Scoperto l’assurdo si deve morire, sfuggire con un salto o si deve accettare la scommessa straziante e meravigliosa dell’assurdo?10 Camus sostiene che l’uomo, nel momento in cui prende coscienza della radicale assurdità del mondo, non può che assumere un atteggiamento di perenne rivolta contro il limite insuperabile della propria esistenza.
Camus rifiuta il suicidio perché il destino degli uomini consapevoli dell’assurdo è quello di vivere sempre in rivolta. Il suicidio, secondo l’autore francese, non può essere interpretato come una forma di rivolta perché non conferisce valore alla vita, ma la annulla. Alla rivolta Camus ha dedicato un saggio L’uomo in rivolta, nel quale questo principio viene approfondito in chiave sociale e interindividuale, e non più da una prospettiva solipsistica (la rivolta vista come l’unico modo valido per rispondere e reagire al suicidio) come nel Mito di Sisifo. La rivolta nasce dallo spettacolo dell’irragionevolezza davanti ad una condizione ingiusta e incomprensibile. La rivolta nasce dallo spettacolo dell’irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta ed incomprensibile. La rivolta non è più lo scontro del singolo con la propria condizione umana, ma un valore che egli giudica superiore all’ individualità e comune a tutti gli uomini. La rivolta non è più la contemplazione dell’assurdo, la silenziosa presenza dell’uomo dinanzi all’assurdo, bensì un’azione concreta, un valore comunitario.
Con la rivolta l’uomo non si sottrae, come avrebbe fatto con il gesto vigliacco del suicidio, alla vita, ma la affronta. La rivolta pertanto non si identifica con il suicidio, perché anzi, questo come si è visto annulla la vita piuttosto che conferirle un valore. Quest utimo consiste nel riconoscere la vita nella sua scoperta verità, cui l’uomo non si sottrae, come avrebbe fatto col gesto vigliaccamente ingiustificato del suicida, ma la sopporta e la fronteggia con un atteggiamento di orgoglio ineguagliabile .
L’uomo non vive più inconsciamente ogni atto della sua esistenza, credendo fermamente che tutto ciò che egli fa possa avere un senso, ma rompendo il circolo meccanico delle sue azioni, si scopre nella sua triste verità. La rivolta, lungi dall’essere un moto egoistico di affermazione, porta con sé un valore che trascende l’individuo. La rivolta non nega la vita, ma anzi la afferma in se stessa e negli altri, si delinea come il termine in cui si raccolgono e si esprimono in un comune consenso le esigenze di giustizia, di comprensibilità, di felicità degli uomini di fronte a un mondo che ne è privo. La rivolta non è più il mondo isolato del singolo contro la propria condizione umana, ma un valore che egli giudica superiore all’individualità e comune a tutti gli uomini. Come nel Mito, la rivolta è qui intesa quale esigenza di unità-comprensibilità, come giustificazione di un rapporto interumano, intersoggetivo, senza il quale fatalmente la società umana si ridurrebbe all’estrinseco accostamento di atomi incomunicabili e non potrebbe quindi intendere il significato universale dell’umanità; ma diversamente che nel Mito, la rivolta ora, nell’Uomo in rivolta, è consapevole di essere comunitaria. Nel Mito la rivolta, come opposizione dell’uomo con l’oscurità del mondo, è anteriore alla coscienza, cioè è un sentimento immediato di rifiuto, di non accettazione; nell’Uomo in rivolta, essa diventa una consapevolezza, un valore vitale, su cui la coscienza si regge e si costruisce. Ciò è possibile, perché qui la rivolta non è più la sterile contemplazione del singolo di fronte all’assurdo, un’espressione egoistica, ma diventa un valore comunitario, di cui la molteplicità degli individui partecipa nello sforzo, non inutile, di una solidale fratellanza contro l’irrazionalità del mondo. Infatti, mentre nel Mito la rivolta resta puntualizzata al singolo, qui essa, riconosciuta come valore universale, acquista un significato costruttivo e creativo. La rivolta è il rifiuto di essere ridotti a mera storicità ed affermazione di una natura comune a tutti gli uomini.
Anche la questione riguardante Dio viene diffusamente affrontata nell’Uomo in rivolta. L’uomo che ha scoperto la propria finitezza, infatti, non può esimersi dal domandare se esiste un creatore e, se esiste, per quale motivo ha creato l’uomo e le altre cose, visto che un giorno dovranno perire. Infine l’uomo si chiede se questo artefice sia in grado di intervenire nelle vicende umane, oppure se egli si astiene consapevolmente. Camus definisce questo pensiero che osa chiedere ragioni a Dio: la rivolta metafisica. Dio è inaccettabile da un punto di vista morale; Egli, infatti, non può o non vuole porre rimedio all’ingiustizia che affligge l’uomo. Se la giustizia e la razionalità che l’uomo cerca, non si trovano nell’artefice della creazione, significa che Dio è crudele, oppure che è buono, ma impotente di fronte al male. Dio si dimostra inferiore alle aspettative morali dell’uomo; di fronte al disperato appello dell’uomo che cerca giustizia, eternità e felicità, Dio rimane ostinatamente in silenzio. Il suo silenzio è colpevole perché proprio la sua azione creatrice ha introdotto il dolore e la morte. L’uomo che si interroga intorno ad un fine morale delle cose è dunque costretto a considerare Dio colpevole, perché Egli con la sua creazione creatrice si è fatto padre della morte e del supremo scandalo.
L’uomo si ribella ai mali del mondo e alla morte, rifiuta di legittimare il potere che lo condanna a queste fragilità e a questa finitudine. La rivolta metafisica è quindi il movimento per il quale l’uomo si erge contro la propria condizione e contro l’intera creazione. É metafisica proprio perché contesta i limiti dell’uomo e della creazione. L’uomo si rivolta contro il Dio crudele e silenzioso.
L’ultimo artefice della rivolta metafisica, secondo Camus, è Nietzsche che si aggira inquieto tra i cocci dell’Idolo in frantumi. Se il mondo non ha più una finalità divina, l’uomo diviene, secondo Nietzsche responsabile di tutto ciò che vive. L’orfano di Dio dovrà autodeterminarsi, dovrà farsi egli stesso creatore. Camus riconosce che il passo decisivo compiuto da Nietzsche è l’aver affermato che se la salvezza dell’uomo non si fa in Dio, deve farsi sulla terra. Se nessun valore trascendente è più giustificabile, allora ogni esistenza è giustificata, non in quanto si conforma ad un modello, ma solo in base al proprio esistere; nulla è più in grado, secondo Nietzsche, di dare direzionalità all’agire umano. Uomo e Dio rimangono inesorabilmente separati: il primo, a cui l’eternità e la felicità appaiono irraggiungibili, non può che rinnegare il creatore; il secondo non possiede le caratteristiche dell’umanità, morte e dolore sono condizioni a lui estranee. Dio che tutto può, non potrà mai vivere la finitudine che all’uomo è imposta con forza. Su questa differenza ontologica si fonda, secondo Camus, il rifiuto morale che l’uomo ha rivolto contro Dio nella sua rivolta metafisica.
La conclusione a cui Camus perviene nell’Uomo in rivolta sostiene che l’uomo assurdo non può fare altro che tutto esaurire e tutto esaurirsi in uno sforzo disperato che egli non riconosce isolato alla sua singola individualità, ma comune a tutti gli uomini che come tali si trovano immersi in una situazione assurda. L’uomo si trova costantemente in una lotta solitaria e comune insieme, perché sa che in questa rivolta, giorno per giorno afferma la sua verità. Consapevolezza del limite e richiamo alla misura sono strettamente congiunte: l’uomo non può introdurre l’unità nel mondo, unità che priverebbe la rivolta delle sue ragioni. Mai potranno essere realizzate integralmente la sincerità, l’innocenza e la felicità.
L’uomo ha sciolto tutti i vincoli e tutte le illusioni, ha distrutto la scala dei valori tradizionali, ma cosa può significare una vita in un tale universo? Innanzitutto questa domanda per l’uomo assurdo è illecita. Non si tratta di chiedere un senso e un valore alla vita; perché la vita non ha né senso né valore. Da un lato, infatti, l’assurdo insegna che tutte le esperienze sono indifferenti, mentre dall’altro, spinge verso la più grande quantità di esse. Ma vivere il più possibile, per Camus, non significa il più a lungo che si può, ma vivere più intensamente che si può, con il maggior grado di consapevolezza possibile. Questo sforzo di vivere consapevolmente tutte le esperienze, è la passione di vivere, che ha come unica nemica la morte. Quest’ultima intesa come la perdita di coscienza dell’assurdo e rifugio nella speranza e nell’avvenire.
L’uomo di Camus è l’uomo che vive in una continua tensione, in uno stato di consapevolezza, in una vita in cui non riconosce alcun significato logico. L’uomo in rivolta è l’uomo che nel caos vuole trovare la razionalità, l’uomo che disperatamente si sforza, urtando tutto e tutti, di illuminare l’oscurità del mondo. L’uomo comune invece, per Camus, vive vigliaccamente all’ombra, nelle menzogne tradizionali, perché non ha il coraggio di rinunciarvi, preso dalla paura della verità, e così, pur di rifiutare la rivolta e di vivere in pace con se stesso, si rifugia nell’illusione.
L’uomo invece deve accettare la realtà niccianamente, cioè come essa è, senza illusioni; l’uomo deve accettare l’assurdo e viverlo senza tentare di spiegarlo con ricorsi alla fede. L’uomo non può comprendere questo mondo assurdo, deve secondo Camus accettarlo.
Camus riconosce alla ragione un solo potere, quello di svelare all’uomo la difficoltà della condizione umana senza senso, ma nega che possa indicargli quali sono i valori dell’esistenza e il fine che l’uomo deve perseguire in essa. Il mondo non può avere una giustificazione razionale e la ragione non può dire in che cosa consiste l’importanza del vivere.
La rivolta diventa così la lucida e consapevole accettazione dell’uomo di una condizione di vita senza alcun significato logico. L’uomo si trova alla fine consapevole della propria dignità, e non cercherà più fuori di sè una autorità che lo regga, non si sottometterà più alle forze che lo terrebbero legato alla propria schiavitù materiale e spirituale.11
La rivolta non è affatto una rivendicazione di libertà totale. Lungi dal rivendicare nella sua rivolta un’indipendenza generale, l’uomo vuole si riconosca che la libertà ha i suoi limiti ovunque si trova un essere umano, il limite appunto costituito dal potere di rivolta di quest’essere. La logica della rivolta sta nel voler servire la giustizia per non accrescere l’ingiustizia della condizione, nello sforzarsi al linguaggio chiaro per non infittire la menzogna universale e nel puntare, di fronte al dolore degli uomini, alla felicità.
5. Camus, Nietzsche e il nichilismo
Il nichilismo che sta alla base del pensiero camusiano scaturisce interamente dal dualismo irriducibile che il reale porta con sé; senso (coscienza) e non senso (mondo) sono inesorabilmente intrecciati e danno luogo al fenomeno dell’assurdo che si unisce alla rivolta metafisica dell’uomo contro la sua condizione. La problematica del non senso è costante nella trattazione di Camus e rimarrà irrisolta anche nella fase più matura del suo pensiero; infatti, anche quando l’autore espliciterà le conseguenze etiche a cui l’hanno condotto la rivolta teoretico-pratica, egli non avrà ancora risolto il tema dell’assurdità della condizione umana.
Come abbiamo detto in precedenza, Camus è un pensatore che fa del nichilismo il suo punto di partenza, ma soprattutto il suo metodo. Egli è convinto, infatti, che il nichilismo assoluto sia incompatibile con la vita e con la stessa volontà di comunicare con gli altri. In ciò il suo nichilismo «metodico» si distingue dalla forma che esso assume nella dottrina di Nietzsche. Quest’ ultima, secondo Camus, nata dalla rivolta contro il trascendente e ogni forma di potere che tende a ridurre l’uomo a semplice strumento, finisce, invece, per creare nuove forme di dominio, miranti a fare degli uomini dei puri strumenti della potenza individuale.
Nella discussione su Nietzsche, Camus afferma che portando al punto estremo la logica del nichilismo, la sua analisi ha indicato la prospettiva di nuovi modelli di esistenza individuale e sociale dell’uomo. Infatti, pur allineandosi nella conclusione alle posizioni interpretative della letteratura nicciana che vede Nietzsche come coerente risultato dello sviluppo fallimentare del pensiero occidentale, Camus, su un piano filosofico e teoretico avvia l’analisi mettendosi in una disposizione di possibile ricezione del contenuto autentico del pensiero nicciano.
Camus assume come punto di partenza la visione di un Nietzsche rinnovatore: la sua rivolta, nel suo moto iniziale, contiene in sé tutti i presupposti per un’apertura alla ricostruzione di un uomo nuovo. Il no di Nietzsche viene assunto come una proposta di rinnovamento delle dimensioni individuali e sociali della vita. La filosofia di Nietzsche, secondo Camus, si aggira, infatti, senza dubbio intorno al problema della rivolta. L’utilizzazione della rivolta non è più fine a se stessa, ma dovrebbe approdare alla nascita di un uomo nuovo. La lettura camusiana si muove in questo senso, ma l’ipotesi di recuperare Nietzsche, in un dialogo positivo, si mostra nel corso dell’analisi impossibile.
La rivolta di Nietzsche, nella lettura camusiana, non è il sintomo di una crisi, ma un’apertura di reali visioni alternative. Essa appare a Camus, nei suoi presupposti iniziali, come il momento più autentico del nichilismo europeo, lo sforzo di dar luogo a una proposta di rinnovamento. Con Nietzsche la rivolta mette capo a una rivendicazione di unità.
Camus si dispone ad ascoltare positivamente Nietzsche, perché sono comuni ad entrambi l’esigenza di una trasformazione radicale dell’esistenza e la necessità di rispondere agli interrogativi dell’uomo riguardanti la sua condizione; tuttavia non gli sfugge il tradimento della rivolta che Nietzsche compie nella misura in cui porta allo scoperto la vera essenza dell’uomo e dell’esistenza storica così come essa finora si è data. Camus, infatti, legge all’interno della filosofia nicciana dei contenuti distruttivi e negativi che non riesce ad accettare. Nel suo punto di arrivo il progetto nicciano, secondo Camus, codifica la violenza come costitutiva della storia, e rimanda l’uomo ad uno stato di conflitto.
Il distacco fra Nietzsche e Camus avviene sulla nozione di storia, nonostante sia presente una convergenza di fondo tra le due posizioni, il rifiuto dell’idea romantica della storia come progresso indefinito verso stadi di sempre maggiore civiltà. Ma la struttura concettuale di questa idea, se dà luogo in entrambi a un medesimo esito prospettico, la visione di un rinnovamento delle forme sociali e individuali della vita, annunciata in Nietzsche dall’immagine dell’oltre-uomo e in Camus dell’ uomo in rivolta, presenta tuttavia nello sviluppo una divergenza metodologica. In Nietzsche è presente l’unità di cosmo e uomo richiesta dalla necessità di ritrovare un valore, di rifondare un criterio di valutazione della nostra esistenza; uomo, natura e storia trovano il loro punto di incontro nella dottrina dell’eterno ritorno dell’eguale. Questa circolarità, manca in Camus; il ritorno camusiano alla natura non implica un assorbimento totale dell’essere nel tutto, che smarrirebbe così la sua identità originaria, ma è il ritrovamento di una condizione di semplicità, uno stato di equilibrio che l’essere stesso porta con sé. Le analogie con il pensiero nicciano si fermano così alla rivoltà contro Dio e la morale; la rivolta metafisica che anima il pensiero di Nietzsche, pur partendo dall’amore per l’esistente finirebbe, infatti, ancora una volta, con la giustificazione del male, inteso come necessario alla piena realizzazione della vita in tutte le sue forme. La negazione di ogni trascendenza e l’esaltazione smisurata della vita nella sua datità possono portare a giustificare ogni azione in nome del proprio valore smisurato. Se nessun valore trascendente è più giustificabile, allora ogni esistenza è giustificata, non in quanto si conforma ad un modello, ma solo in base al proprio esistere; nulla è più in grado di dare direzionalità all’agire dell’uomo se non una serie di pulsioni più o meno consapevoli. La rivolta che mirava a trascendere la temporalità e a liberarsi dal dominio della finitudine, viene contraddetta, e l’uomo, liberato dal giogo divino, può divenire mezzo, sottoposto al volere dei propri simili; egli diviene un ente tra gli altri, che, al pari di essi, può venire utilizzato.
Nella rivoluzione nichilistica, come la definisce Camus, l’uomo diviene un mero strumento, atto all’ estensione e alla conservazione del dominio, infatti, una volta negata ogni forma di trascendenza in grado di dare norme all’agire, non rimangono che il divenire e l’agire al massimo delle proprie possibilità. La rivolta metafisica, lungi dal liberare gli uomini, li ha resi schiavi gli uni degli altri, negando se stessa come moto di liberazione. La rivolta descritta da Nietzsche diventa così, per Camus, una rivolta tradita che coincide con la negazione di ogni essere; fondata appunto sull’accettazione totale, sul sì senza il no. Per non accettare tutto bisogna, secondo Camus, avere un criterio normativo di riferimento; quindi la rivolta deve essere un sì accompagnato da un no e deve essere fondata su un valore comune che l’autore francese individuerà nella natura umana.
Secondo Camus, quest’interpretazione data al pensiero nicciano affonda le sue radici nella dismisura che egli impresse al suo pensiero per poter finalmente superare il nichilismo negativo. Tale è la logica contraddittoria dell’ amor fati che intendeva ripristinare la pienezza dell’esistenza umana sulla terra e che, invece, ha sortito anche effetti contrari, portando al fanatismo e al culto della morte. Le ragioni morali che hanno condotto Dio in giudizio, accusandolo di essere contro l’uomo, hanno optato dapprima alla negazione e al rifiuto della creazione nella sua datità e, quindi, alla negazione del suo artefice come primo responsabile del male che affligge l’uomo. L’uomo che pretende di ricreare il mondo con nuovi valori, da lui generati, finisce nuovamente con l’infliggere ai propri simili, direttamente o indirettamente, il male che pretendeva di eliminare.
Nel momento in cui Nietzsche cerca la libertà dalla storia come forsennata adesione dell’uomo al divenire, secondo Camus, sommerge nuovamente l’individuo in una necessità totale. La divinizzazione dell’individuo mira alle realizzazione dell’oltre-uomo che si arroga il diritto di vita e di morte sugli altri, sostituendosi a Dio. La rivolta nichilistica di Nietzsche fa del solipsismo esistenziale l’unica realtà, annullando ogni traccia di natura comune e, quindi, di solidarietà umana.
Ma esiste un limite a questa forma di nichilismo, nato dalla rivolta contro la finitezza e il male che attanagliano l’uomo? A questa domanda, Camus risponde in modo molto onesto, insistendo sulla finitudine che caratterizza l’esistenza umana e, dunque, prefigurando una soluzione che non potrà porsi come radicale e definitiva. Sicuramente Camus libera Nietzsche dal pensiero dell’interpretazione tradizionale incapace di porsi al di là di un giudizio di crisi e di decadenza, contemporaneamente però ne stabilisce anche un limite nell’interpretazione. Possiamo, infatti, assumere come punto di partenza la rivolta metafisica nicciana, ma dobbiamo sempre ricordare il suo carattere metodico per non cadere nel nichilismo assoluto e nella contraddittorietà.
La lettura camusiana di Nietzsche è legata ad una particolarità: l’assunzione della rivolta come metodologia di rinnovamento della condizione storica dell’umanità.12 Camus può accettare i presupposti della rivolta nicciana, ma non può accettare le conseguenze alla quale essa porta.
La rivolta, per Camus, lungi dall’essere un moto egoistico di affermazione, porta con sé un fine ed un valore che trascendono l’individuo; ma tale trascendenza si afferma soltanto grazie alla coscienza individuale dell’uomo e della sua situazione esistenziale, nel momento in cui egli decide di condividere il destino comune degli uomini, che consiste nell’esigenza di chiarezza e di liberazione dai mali che li affliggono. La rivolta libera sempre il singolo, ma, dando voce ad un’esigenza universale, libera contemporaneamente anche l’umanità che vi è nell’individuo. La rivolta, dunque, scopre e fonda la dignità dell’esistenza, non su di un piano solipsistico e individuale, che sarebbe in contraddizione con la struttura universale della rivolta stessa e con ogni tipo di comunicazione di tale esperienza, bensì su un piano ontologico-esistenziale che si estende all’intera umanità esistente, con la quale è possibile comunicare a livello teoretico e pratico. Gli uomini affermano con la rivolta il loro primato ontologico in quanto umanità esistente. La rivolta svolge la funzione stessa del cogito nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’uomo dalla sua solitudine. É un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Il suo presentarsi tanto all’interno della coscienza teoretica, quanto in quella pratica, ci autorizza a individuarla come un principio etico-metafisico in grado di guidare l’uomo nel suo agire. Dall’insorgere della coscienza contro il male, la finitudine e l’incomprensibilità dell’essere, alla condanna della creazione e del suo preteso artefice, sino al rifiuto delle rivoluzioni nichilistiche che pretendono di riplasmare uomo e natura attraverso la legge della potenza, il pensiero ha individuato nell’essere dell’uomo un appiglio sicuro che lo trattiene dal nichilismo assoluto.
Il noi siamo che la rivolta evidenzia, ci obbliga a riconoscere che vi è un’umanità che reclama il suo fine in ogni singolo uomo; il rivoltarsi di quest’ultimo contro il male ontologico e morale vale contemporaneamente per se stesso e per gli altri. La rivolta di Camus è in primo luogo coscienza dei propri limiti e delle contraddizioni legate ad ogni tentativo di assolutizzazione, implicante il loro superamento. Proprio questo limite, secondo Camus, non è presente nella rivolta analizzata all’interno del pensiero nicciano; per questo essa giunge ad un’inevitabile contraddizione. Negando la sua natura metodologica, la rivolta di Nietzsche conduce alla giustificazione del male; anzi trasforma il male di natura ontologica, legato indissolubilmente alla condizione dell’uomo nel mondo, in male morale per delirio di onnipotenza. La rivolta contro il trascendente qui, secondo Camus, degrada in un irrazionalismo che esalta il divenire nelle forme più brutali; in assenza di valori, uomo e natura divengono i mezzi, e il solo fine è una sorta di dominio dinamico che tende ad estendersi sempre di più.
Per evitare questa degenerazione della rivolta, nel pensiero camusiano ritorna sempre il problema della finitezza che contraddistingue ogni azione umana, e che costituisce il male radicale connesso all’esistenza; quest ultimo dovrà essere combattuto costantemente senza tregua ma anche senza speranze di distruzione totale.
Il pensiero meridiano che Camus raccomanda al termine della propria speculazione è una lezione di equilibrio tra gli estremi che tendono entrambi alla negazione di un aspetto dell’esistenza umana. All’affermazione totale di sé e alla negazione totale degli altri, in nome dell’onnipotenza dell’individuo, e alla negazione totale di sé in nome dell’onnipotenza della specie, il pensiero meridiano risponde con la ragione e la cognizione del limite umano; non vi è rivolta individuale che non sorga da una situazione comune o, almeno possibile per ogni uomo, e non c’è rivoluzione collettiva che non si affermi con il consenso e il concorso dell’individuo. Anche Nietzsche però, discostandoci un po’ dall’interpretazione che ci offre Camus, grida che la terra è la sola verità, alla quale ogni uomo deve essere fedele, e sulla quale bisogna operare e vivere. Dall’istante in cui si riconosce che il mondo non persegue alcun fine, Nietzsche propone di ammettere la sua innocenza, di affermare che esso (il mondo) non cade sotto giudizio poiché non si può giudicarlo in base ad alcuna intenzione e bisogna quindi sostituire quindi tutti i giudizi di valore con un solo sì, con un’adesione intera e totale a questo mondo. Nietzsche afferma che il senso è di questa terra, il senso è la fedeltà alla terra, la fedeltà a questo mondo, eternamente diveniente e rinascente, in tutta la sua insensatezza e assurdità. Il senso non sta nell’assoluto, nell’eterno, nell’oggettivo, ma nella transitorietà. Proprio perché fugge via, ogni attimo è carico di senso, di valore, pieno di colore e di calore. Proprio perché è fuggevole, Nietzsche ci esorta a lasciarlo essere, a esserne pietosi, senza forzarlo in schemi assoluti. Bisogna far si che ogni evento terreno sbocci, che si manifesti per quello che è, cioè che ritorni e che dispieghi un nuovo senso, perché ritornare significa proprio questo. Lasciare essere che si esprima in altre interpretazioni, in altre forme e in altre prospettive.
Con la rivolta l’uomo si imbatte nella sua condizione di essere finito, costretto a scegliere tra due posizioni contrapposte: da un lato, può mantenere integra la propria libertà, divinizzando la propria individualità a scapito di ogni trascendenza orizzontale o verticale, dall’altro, può creare nuove mete a cui l’umanità intera deve tendere. Chi sceglie la prima alternativa, afferma assolutamente se stesso, ma nega gli altri uomini: chi invece opta per la seconda possibilità, afferma assolutamente l’uomo collettivo che dev’essere realizzato. Il primo atteggiamento è quello che Camus attribuisce all’oltre-uomo nicciano, che mira alla mera realizzazione della propria volontà senza considerazione degli altri uomini. Secondo Camus l’oltre-uomo non è più un fine in sé, bensì acquista un valore subordinato al raggiungimento di un fine estrinseco. Egli non vale per quello che è, bensì per ciò che può divenire. Camus non può accettare l’affermazione assoluta dell’esistente che degrada gli uomini riconducendoli a meri mezzi della volontà di potenza. La condizione dell’uomo nicciano, che è l’uomo moderno che prende atto della morte di Dio, non è quella di chi ha trovato finalmente la pacificazione nel riconoscimento della verità; ciò che lo caratterizza, invece, è la forza, una sorta di violenza nei confronti di sé e delle cose. Camus legge il passaggio alla condizione dell’oltre-uomo, così come il passaggio dal nichilismo passivo al nichilismo attivo, non come lo stabilirsi in una condizione di salute dell’anima, di chiarezza, ma come liberazione del gioco di forze, come massima espressione della volontà di potenza. L’autore francese non può accettare un mondo come quello nicciano, fondato sulla volontà di potenza; un mondo che è un mostro di forza, in cui gli individui mirano solo ad essere più forti in quanto meri centri di energia.
Analizzando meglio l’universo descritto da Nietzsche non possiamo però accettare la definizione fornita da Camus, che interpreta il mondo nicciano come un irradiamento di molti centri di potenza. Innanzitutto nei frammenti della Volontà di potenza, Nietzsche, definisce noi uomini degli «anfibi»: siamo anfibi, tra terra e mare, dobbiamo saperci muovere e aderire ad un prospettivismo che è espressione di volontà di potenza, e che diventa amore per il divenire eternamente ritornante. L’estrema potenza sta dunque nell’accettare l’impotenza di fronte a ciò che diviene, a ciò che passa e va. La volontà di potenza oltre a coincidere con il desiderio dell’eterno ritorno, è vista come la potenza di riconoscersi impotenti di fronte al fluire incessante delle cose. Non possiamo parlare, quindi, di meri centri di forza intendendo meri centri di violenza, ma dobbiamo parlare di centri di forza dicendo che ognuno di questi è una prospettiva.
Il problema della volontà di potenza diventa il problema della creatività, se si vuole, anche della ermeneuticità dell’esistere.
La vita è interpretazione e continua creazione, donazione di senso. Il mondo è un’insieme di prospettive, è un confronto tra questi punti di vista differenti; esistono, infatti, una molteplicità di interpretazioni tutte destinate a tramontare.
Anche l’uomo di Camus non è un mero centro di forze, ma la sua natura più propria è la coscienza; quell’insopprimibile brama di verità che lo ha condotto a rivoltarsi contro la creazione e il suo artefice e, da ultimo, contro il male generato dall’uomo.
Si è visto che la rivolta è fatta in nome di quel valore che è la dignità umana, la quale, assurgendo così al ruolo di nostra unica verità, è in grado, secondo Camus, di superare il nichilismo assoluto. Più volte nel corso della sua analisi, l’autore francese, parla del valore, che si identifica innanzitutto con la consapevolezza, interna alla rivolta stessa, del destino comune che unisce gli uomini nella solidarietà, articolandosi attraverso il dialogo e la parola. Ma questo valore richiama, quale suo fondamento ultimo, la natura umana come essenza, cioè come dato ontologico che la rivolta conduce a scoprire, porta alla luce, fa emergere agli occhi di chi intende mettere in atto una riflessione volta alla comprensione di essa nel suo significato più proprio. La storia diventa in tal modo solo un’occasione in cui l’uomo può presentire il proprio valore.
La rivolta metafisica non deve approdare né all’assoluta negazione né all’assoluta affermazione. In entrambe, secondo Camus, si giunge alla negazione della libertà, cioè della rivolta che ne è la massima espressione, allora la rivolta metafisica, negando quella dignità umana, in nome della quale essa è nata, nega insieme se stessa e la libertà che in essa si realizza. La vera libertà, infatti, è la vera rivolta, quella cioè capace di restare fedele a se stessa, non dimenticando mai il valore originario che è alla sua base, capace di rispettare quella dignità, il cui abbandono è causa del nichilismo assoluto. La vera rivolta è nella sua essenza coscienza di quel valore, per cui ci si rivolta: dunque la libertà è coscienza di dipendere da un valore, che la regola e la fonda, il quale, ponendosi nei suoi confronti come regola di condotta, è capace di condurre l’uomo al di fuori del nichilismo. Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni non possediamo più valori assoluti, che stiamo navigando negli arcipelaghi della vita, del mondo e della storia. Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni, ma ha anche dissolto i dogmatismi, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nell’attraversata del divenire e nella transizione da una cultura all’altra. Tuttavia bisogna domandarsi ora, se effettivamente tale valore è sufficiente ad annullare l’assurdo iniziale. Sicuramente no, infatti, se ciò contro cui la rivolta è diretta è l’assurdo, e la rivolta implica il mantenimento di ciò contro cui ci si rivolta, e deve essere continua, è chiaro allora che l’assurdo non viene affatto superato, anzi è il concetto stesso di rivolta che lo esige continuamente, quale propria legittimazione logica. Infatti, come lo stesso Camus conferma, la rivolta non nega l’assurdo in quanto essere, ma in quanto padrone, cioè non ne nega l’esistenza, ma vorrebbe negarlo nel suo carattere di verità assoluta e schiacciante.
Nel Mito di Sisifo, Camus ha espresso, come abbiamo visto in precedenza, la verità dell’assurdo come rapporto uomo-mondo, la verità quindi si è presentata come la rivelazione della radicale impossibilità di dare un senso positivo alla nostra vita. La libertà invece si era risolta in necessità, o meglio, nel riconoscimento da parte dell’uomo della sua impossibilità di essere libero, l’unica verità cioè consiste nell’impossibilità del rifiuto della nostra condizione.
Nell’Uomo in rivolta, se è vero che la verità diventa dignità umana, e se è vero che la libertà da accettazione della necessità dell’assurdo diviene coscienza di quel valore, è anche vero che questo presunto valore non riesce a superare l’assurdo, il quale perciò rimane ancora la nostra unica verità. La verità è sempre l’accettazione dell’impossibilità della propria libertà, perciò verità e libertà coincidono, perché l’uomo è nel vero soltanto quando riconosce l’impossibilità di essere libero. L’uomo è e deve essere un fine in se stesso: questa è l’unica verità metafisica che si può strappare all’esistenza. Solo partendo da questa constatazione si può comprendere l’antiteismo di Camus: Dio, autore del male, farebbe degli uomini, immersi nella loro finitudine, dei mezzi della propria affermazione di onnipotenza. Per il medesimo principio vengono rifiutati, nel pensiero dell’autore francese, ogni forma di trascendenza orizzontale o verticale che pretendono di ridurre l’uomo a mezzo della propria realizzazione. Il pensiero audace e frugale, invocato al termine dell’Uomo in rivolta, ci insegna a vedere le cose in modo nuovo e diverso; invece di un’ esistenza destinata a una redenzione totale e alla definitiva liberazione dal male, si gettano qui le basi di un’ esistenza che identifica il male e l’assurdo nel loro concreto esistere e si impegna a combatterli con la ragione e con la forza, quando è necessaria, appellandosi non alla speranza bensì alla dignità umana. Tra la rassegnazione a subire l’insensatezza e la finitudine nella speranza di un giudizio finale, e il velleitario sogno di ricreare un senso con la sola intelligenza limitata dell’uomo, vi è dunque una possibilità di rivolta che si mantiene entro i limiti posti dall’esistenza. L’uomo è infatti, per Camus, quella forza che finisce sempre per scuotere i tiranni e gli dei. La natura più propria dell’uomo è dunque la coscienza, che consiste in quell’insopprimibile brama di verità, di unità e di giustizia che lo ha condotto a rivoltarsi contro i suoi limiti, contro la creazione e il suo artefice e, da ultimo, contro il male generato dall’uomo stesso. Ancora una volta possiamo leggere un’affinità con le riflessioni nicciane, nelle quali l’uomo è in equilibrio tra due estremi, come una corda tesa tra due abissi: la brama di verità che è accrescimento della volontà di potenza e il suo contrario, l’eccesso che distrugge. La condizione di quest uomo, che prende atto della morte di Dio, non è quella di chi ha trovato finalmente la pacificazione nel riconoscimento della verità; ciò che lo caratterizza, invece, è una tensione nei confronti del mondo e delle cose. Una volta smascherate le fedi metafisiche, Nietzsche, ci ricorda che la nostra esistenza diviene una continua navigazione; la nostra imbarcazione si trova a essere nell’oceano infinito, senza possibilità alcuna di intravedere all’orizzonte una meta raggiungibile e la terra da cui pure si è intrapreso il viaggio; insomma, non si dà finalità, ma non si riconosce neppure un’origine. Nell’aforisma 374, Nietzsche, sottolinea che il nostro mondo è divenuto per noi ancora una volta infinito, in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé infinite interpretazioni. Siamo così giunti al luogo del prospettivismo nicciano, in cui non ci sono fatti, ma solo differenti prospettive.
La volontà di verità ha così messo capo alla sua ultima verità: ogni verità, si potrebbe dire, è una prospettiva, un’interpretazione, un segno, in ultima analisi una maschera. Il nostro angolo di visuale, la nostra prospettiva o il nostro punto di vista, qualsiasi angolo di visuale, non si darà più come l’unico possibile, anzi dovrà considerarsi come uno dei tanti, degli infiniti possibili.
L’uomo è un processo in divenire, che comporta il superamento di interpretazioni più ristrette, tramite nuove prospettive. Ci troviamo di fronte un uomo che accetta un mondo ormai privo di un senso ultimo, un modo nuovamente infinito o come lo definirebbe Camus un mondo assurdo. Un uomo che accetta un universo improvvisamente ridotto al silenzio, in cui si fanno tacere tutti gli idoli. Un uomo che dice sì, accetta la sua finitudine, e sa che il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore; l’uomo sa di essere il padrone dei propri giorni. Il destino diventa una questione tra uomini, che deve essere regolato fra gli uomini. Questo universo, ormai senza padrone, non ci appare sterile né futile.
Sia Nietzsche che Camus ci insegnano la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni; quella fedeltà che permette ad entrambi di descrivere un uomo felice. La descrizione che Nietzsche dà, nell’aforisma 341 della Gaia scienza, dell’uomo capace di volere l’eterno ritorno dell’eguale è, infatti, quella di un uomo felice, che può volere il ripetersi dell’attimo presente in quanto in esso esperisce la felicità, cioè la coincidenza dell’evento con il suo senso. Anche Camus ci lascia con la figura di Sisifo felice. La felicità e l’assurdo sono infatti figli della stessa terra e sono inseparabili. Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta nella consapevolezza che il destino gli appartiene, che il macigno è cosa sua. Camus afferma che il momento in cui il macigno di Sisifo ricade lungo il pendio è l’ora della coscienza; in cui egli consapevole del proprio destino è più forte di quest ultimo. Egli persuaso e consapevole dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, è sempre in cammino.
Come non pensare all’esortazione di Nietzsche di trasformare ogni così fu, in un così volli che fossi; la vita deve continuamente ricrearsi e inventarsi. La grandezza dell’uomo sta nell’accettare senza rimproverare le difficoltà e i dolori della vita, sta nel saper accettare la vita come transizione e tramonto.
Nietzsche e Camus si trovano all’alba di un mondo disincantato non più coperto da nebbie mistiche e nuvole metafisiche, in cui l’uomo mira a riconoscere se stesso come colui che crea e impone i propri valori e giunge a conquistare la propria esistenza. Entrambi mirano ad affermare all’interno della loro produzione, la grandezza dell’esistenza: la vita dell’uomo ha valore per i grandi progetti che è capace di esprimere. Lo stato d’animo che accomuna le ricerche dei due autori è quello di un’inquieta e curiosa attesa degli sviluppi di un pensiero ancora in movimento. Dall’ Aurora leggiamo: «E dove dunque vogliamo arrivare? Al di la del mare? … Perché proprio in quella direzione laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua ad occidente, anche noi speravamo di raggiungere un’ India, ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito».13 Entrambi sperano di poter insegnare all’uomo la felicità che quest ultimo fino ad ora non ha mai conosciuto, felicità che consiste nell’avere la forza di portare con sé il passato, sentendosi erede delle conquiste e delle vittorie così come delle perdite e delle sconfitte, del dolore dell’umanità così come della sua gioia.
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Cfr. C. Sini, Distanza un segno, Cuem, Milano 2005, p. 88. ↩︎
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A. Camus, Il mito di Sisifo, Tascabili Bompiani, Milano 2008. ↩︎
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Cfr. M. Ricci, Albert Camus dal nichilismo al nichilismo, Cadmo Editore, Roma 1976, pp. 10-14. ↩︎
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A. Camus, L’uomo in rivolta, Tascabili Bompiani, Milano 2005. ↩︎
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F. Nietzsche, La volontà di potenza, Tascabili Bompiani, Milano 2005. ↩︎
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F. Nietzsche, Gaia scienza, Adelphi, Milano 2000. ↩︎
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Cfr. F. Vercellone, Introduzione al nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1994, p.66. ↩︎
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F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1983. ↩︎
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Cfr. G. Penzo, Il nichilismo da Nietzsche a Sartre, Cadmo Editore, Roma 1984, p.54. ↩︎
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Cfr. M. Ricci, Assurdo e rivolta in Albert Camus, Di Mauro Cava, Roma 1966. ↩︎
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Cfr. Ivi, p.68. ↩︎
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Cfr. M. Del Vecchio, La fenomenologia in Albert Camus, La nuova Italia Editrice, Firenze 1979, p. 88. ↩︎
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F. Nietzsche, Aurora, Mondatori, Milano 2008, cit., p.121. ↩︎