Tempo ed eternità nella prospettiva filosofico-teologica di K. Rahner

1. Introduzione

Il rapporto tra il tempo e l’eternità è un tema molto attuale sia da un punto di vista filosofico-teologico sia umano-spirituale. Il tempo ci rinvia continuamente a una serie di domande che riguardano il nostro futuro, la nostra condizione umana. L’uomo percepisce il fluire dei giorni e nello stesso tempo sente l’anelito alla compiutezza eterna. Ed è proprio su questa consapevolezza che ognuno ha cercato di dare la sua ipotesi o teoria. Il tempo infatti appartiene all’essere stesso dell’uomo ma non può essere posseduto, controllato e tantomeno creato. Il rapporto tra entrambe le dimensioni determina la concezione stessa dell’infinito. Già Platone nella sua metafisica aveva cercato di chiarire in che modo concepire la temporalità e l’eterno, cioè la trascendenza dell’infinito e lo scorrere mutevole del mondo finito. Nel suo dualismo ontologico aveva intuito come il tempo non è altro che immagine dell’eternità. Esso infatti è la possibilità attraverso la quale il mondo finito può divenire infinito, tendere a quella verità eterna che è il «mondo delle Idee». Aristotele aggiunge l’importanza della consapevolezza del tempo. Esso è caratterizzato dall’essere sempre altro (aèi èteron) e nel momento in cui si prende consapevolezza di questo, l’uomo si apre alla trascendenza. L’intuizione di Aristotele e di Platone è importante per la speculazione teologica, perché il tempo, se è pensato non come pure chiusura nell’immanenza, ma apertura all’ulteriorità, esso diventa la dimensione originaria della trascendenza. Nel tempo il Divino si rivela. Il tema del tempo ed eternità iniziano a essere letti nella filosofia cristiana da Agostino. Agostino riflette su questo tema controverso riallacciandolo all’importanza mnemonica umana. Nell’antropologia agostiniana la memoria é identificata con l’animo stesso, che corrisponde alla mens, poiché in essa è presente Dio, il quale nello stesso tempo la trascende, poiché Egli è la vera e immutabile conoscenza verso cui giungere.

Agostino infatti scrive: «E ti sei degnato di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti conobbi!»1 e ancora «Ecco io, elevandomi per mezzo del mio animo sino a te che stai immutabile sopra di me, supererò anche la mia memoria, nell’anelito di coglierti e di aderire a te».2 Il superamento avviene quindi nella conoscenza della Verità, Dio che dimora nella memoria dell’uomo, di cui fa esperienza nella sua interiorità. Nonostante l’interpretazione antropologica della memoria dobbiamo dire che essa si esplica soprattutto nella sua funzione di conservare conoscenze, ricordi, episodi passati e sensazioni percepite ed esperite. Per mezzo della memoria l’uomo po’ riprendere ed evocare ciò che conserva in sé stessa, di cui già si è fatto precedentemente esperienza. Per questa caratteristica che questa «facoltà» umana è stata amata e apprezzata nella filosofia di Agostino: essa non è solo una riserva o luogo di conservazione di materiale, ma permette il pensiero stesso dell’uomo, né è l’essenza, e ad essa sono legati fenomeni connessi quali l’apprendimento, il linguaggio, come scrive in un passo del De Magistro: «Cosi noi portiamo nei repertori della memoria come mezzi d’insegnamento i fantasmi dei sensibili già percepiti. Quando li facciamo oggetto di pensiero, siamo consapevoli di non errare nel parlarne, ma essi sono mezzi di ammaestramento soltanto per noi».3Agostino, senza soffermarsi troppo su interpretazioni psicologiche della memoria, la considera nei suoi vari aspetti: conservazione di ricordi e sensazioni, i diversi gradi della conoscenza, unita alla sua teoria dell’illuminazione interiore da parte di Dio. Essa innanzitutto, come ho già detto, raccoglie nelle sue caverne e nei suoi antri, nel suo campos, tutto ciò che viene percepito e sentito, le immagini o fantasmi come dice Agostino stesso «non le cose in sé vi entrano, ma lì stanno le immagini delle cose sentite, pronte al richiamo del pensiero che le ricordi »4 e le dispone in maniera ordinata, dando loro immutabilità; inoltre vengono conservate anche realtà spirituali, meta-sensibili e intellettuali, infatti noi possiamo ricordarci di un sentimento senza risentirlo necessariamente. La memoria possiede allora questa preziosissima e stupenda capacità di permettere all’uomo di ricordarsi atti compiuti, e il tempo e il luogo dove sono stati compiuti e i sentimenti provati compiendoli. «La memoria ha questa grande forza, una grande potenza, Dio mio, santuario vasto e senza limiti»5 Tuttavia, però, l’animo umano non può guardare tutto in una volta tutto ciò che la memoria conserva, ma attraverso singole operazioni dell’intelletto e del pensiero, poiché estraiamo dalla memoria solo ciò che costituisce l’oggetto del nostro pensiero, mentre tutte le altre conoscenze, come ci insegna la vita di ogni giorno rimangono nascoste, senza che siano dimenticate. La memoria, come ho accennato all’inizio è strettamente legata alla teoria dell’illuminazione, di ispirazione biblica, cioè la mente dell’uomo partecipa alla luce eterna di Dio, che l’aiuta nella ricerca della Verità, che è Dio stesso, immutabile, il contenuto più alto della memoria, poiché è la direzione conoscitiva verso cui si innalzano le facoltà della mente. Questa tendenza a privilegiare l’interiorità della ricerca è il tempo, che secondo Agostino non è una realtà oggettiva, ma esiste solo nello spirito dell’uomo. Passato, presente e futuro vengono infatti ricondotti a tre differenti aspetti di una medesima ‘estensione dell’anima’(distensio animi): il presente del passato, ossia la memoria delle cose passate; il presente del presente, cioè l’intuizione delle cose presenti; il presente del futuro, ossia l’aspettazione delle cose future. La memoria è davvero, come dice Giorgio Santi, «la misura (mensura) del pensiero».6

Boezio riprenderà questa concezione nella sua opera De consolazione philosophiae. Egli afferma che l’eternità è «il possesso simultaneo e perfetto di una vita senza termine» (aeternitas igitur est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio) e Dio è colui che tiene unito insieme ciò che nel tempo è distinto. «Quell’essere dunque che racchiude e possiede in sé simultaneamente la pienezza totale di una vita senza fine e al quale non manca nulla del futuro, nulla del passato è sfuggito, quello solo a ragione viene giudicato essere eterno, ed è necessario che, pienamente padrone di sé, sia sempre e per così dire accanto a se stesso, ed abbia a sé presente l’infinito scorrere del tempo».7 Egli fornisce alla teologia e alla filosofia un contributo notevole che si potrebbe esprimere così: il tempo non solo un limite ma una possibilità e che la tensione tra questi due momenti è risolta nell’eternità di Dio che principio e fine di tutte le cose.

Nell’età moderna l’intuizione del tempo come possibilità intrecciata all’eternità viene ripresa sa Kierkegaard e in maniera più approfondita da Schelling e dall’idealismo tedesco del 1800.

Kierkegaard non dedica un’opera completa a questo tema ma ne parla solo nelle Briciole di filsofia. Egli intuisce che l’eternità non può mai essere completamente separata dal tempo che è ciò che scandisce la vita umana, ma ne è in qualche modo la base. L’eternità adorna e riempie dall’interno la scansione dei minuti e dei giorni. Egli scrive: «l’istante è breve e temporale, com’è ogni istante; è transeunte, com’è ogni istante; è passato, com’è ogni istante nell’istante successivo. Eppure è esso l’istante decisivo, eppure esso è riempito dall’eternità».8

La riflessione di Schelling9 va più in profondità del tema e cerca in qualche modo di cogliere il nesso tra la storia e la risoluzione del finito nell’infinito. Egli lo approfondisce particolarmente nella sua Filosofia della rivelazione, anche se esso è già presente nel Sistema dell’idealismo trascendentale. l’Io finito deve diventare identico a quello assoluto e ciò è possibile solo attraverso la mediazione del divenire nel tempo, mediante un progresso infinito, un infinito avvicinamento. L’infinito diviene oggetto nel finito, ma proprio in questa finitudo l’io diventa infinito per sé, intuendosi come infinito divenire. In questo modo il tempo e l’eternità non sono contrapposti, come domini separati, ma condizionantesi a vicenda. Il tempo è accolto nell’eternità e, viceversa, l’eternità accolta nel tempo. Schelling nell’ultima filosofia ci offre proprio un’idea dinamica dell’eternità, intesa come libero disporre del tempo da parte di Dio. Dio nella sua libertà può separare le potenze, porre il limite del tempo, superandolo, confermandosi Signore del tempo, in cui inizio e fine si ricongiungono. È questo il tempo superato, ovvero l’eternità, dove tutto verrà ricondotto ad essa perché fondato in un volere radicato nell’eterna libertà di Dio. La reale eternità è superamento del tempo.

La riflessione di Rahner su questo tema si inserisce proprio in questa panoramica appena tracciata. Il tempo è la possibilità per l’eterno di superarsi, ovvero la sua potenza insita nel tempo stesso? In questa elaborazione non si vuole studiare come Rahner parli di questo tema in senso ampio, ma come lui lo affronti nei Nuovi Saggi, che sono la raccolta dei suoi articoli, presentazioni e recensioni filosofiche e teologiche. Egli stesso non parla sempre in maniera diretta ed esplicita questo tema, ma lo riprende in più occasioni o riflessioni. In particolare, da come si vedrà in seguito, il cuore e il luogo teologico della riflessione del tempo e dell’eternità è la cristologia. Nel mistero dell’incarnazione Dio realizza in modo definitivo l’apertura trascendentale dell’uomo al mistero indicibile di Dio. Dio stesso immutabile diventa mutabile nell’altro. Gesù Cristo è dunque vere homo, perfettamente uomo, poiché in lui si è realizzata l’umanità. Gesù Cristo è vere deus, poiché in virtù dell’auto-comunicazione chenotica di Dio fu resa possibile il compimento dell’umano. Rahner dirà in sintesi: la piena realizzazione e il compimento dell’antropologia è la cristologia. Per capire il pensiero di questo autore, è necessario premettere la struttura filosofico-teologico con cui egli ragiona, sia perché rende più fluido il discorso evitando continue chiarificazioni successive, sia perchè rappresenta un buon punto di partenza, che fa da sfondo nell’analisi dei suoi saggi. Rahner è sicuramente uno dei più grandi teologi del XX secolo, che con la sua riflessione ha contribuito al progresso del pensiero teologico, fornendo chiavi ermeneutiche interessanti per approfondire la Divina Rivelazione. È stato scritto, a ragione, che Rahner è uno dei primi teologi del nostro secolo che si pone seriamente il problema di ridare alla teologia un saldo supporto filosofico. Pertanto, nel tentativo di rendere “comprensibile” ed attuale il discorso teologico, egli muove la sua analisi in un contesto molto attento alle istanze filosofiche contemporanee, divenute di non facile approccio per la scienza teologica.

Tutto ciò mostra quanto sia difficile creare una teologia scientifica. Essa è diventata da parte sua un coacervo enorme di singole scienze; deve necessariamente tenere i contatti con innumerevoli filosofie per essere scientifica in questo senso immediato; inoltre deve avere legami anche con le scienze che non si lasciano più interpretare filosoficamente.10

Egli è consapevole della necessaria unità tra filosofia e teologia: «Tale unità originaria infatti esiste già nella vita concreta del cristiano. Questi è un cristiano credente ed è nel contempo —e precisamente come esigenza della sua fede— un uomo che riflette sul complesso della sua esistenza».11 Fattosi difficile un discorso su Dio, dato il contesto ostile al pensiero metafisico —contesto in cui si muove Rahner e tutta la teologia della seconda metà del secolo XX— riflette sull’uomo. È in questa creatura, infatti, che troviamo un’apertura atematica, una tensione al trascendente che è la via da percorrere per reimpostare una significativa teologia, un’antropologia e una densa cristologia:

Questa con-conoscenza del soggetto conoscente, con-conoscenza soggettiva, atematica, presente in ogni atto di conoscenza spirituale, necessaria ed ineliminabile, nonché la sua apertura alla sterminata ampiezza di tutta la realtà possibile, viene da noi denominata esperienza trascendentale.12

Il momento antropologico deve determinare tutta la considerazione teologica, senza tuttavia che si costituisca l’uomo come misura della parola di Dio e senza che la rivelazione di Dio venga ridotta a una dimensione umana. «Dio parla all’uomo», costituito come uditore della sua Parola, e nello stesso tempo «parla da uomo». La caratterizzazione antropologica della teologia risulta necessariamente da quella cristologica. La svolta antropologica in teologia significa da un lato ripartire dal soggetto umano per annunciare la fede: in questo si caratterizzerà il metodo trascendentale di Rahner.13 Dall’altro lato questo soggetto umano è storico e contingente: la trascendentalità metodologica14 non potrà tener presente la categorialità delle espressioni storiche, particolari e concrete in cui si dà l’universale. La grammatica della fede deve quindi ritradursi tenendo presente queste due coordinate: trascendentalità e categorialità. Un’importante precisazione da fare a riguardo è che la svolta antropologica non significa affatto dedurre dall’esperienza umana la fede: questo sarebbe modernismo. Rahner parla di una corrispondenza (cfr αvαλoγία) tra l’esperienza umana e l’esperienza di fede. C’è una corrispondenza tra trascendentalità della conoscenza e l’evento della rivelazione, che rende possibile l’intelligibilità e la rilevanza di questo evento. La domanda che guida di continuo il riflettere rahneriano è infatti quella sul senso e la rilevanza antropologica della fede cristiana. Come coniugare la gratuità e la contingenza dell’evento storico e singolare di Gesù Cristo con la pretesa che quell’avvenimento (tunc et illuc) abbia significato universale e dunque per tutti i tempi: sia dunque anche un avvenimento che interessi il qui e l’ora (hic et nunc)? Come evitare che questa coniugazione o corrispondenza non sia compresa come «mitologica»? Queste sono le domande di Rahner, che la teologia non può non tener presente. Per addentrarci nel suo pensiero teologico occorre chiarire brevemente i termini teologici, da lui adoperati. Il metodo da lui usato è allora trascendentale. Egli vuole evidenziare le condizioni di possibilità di ciò che avviene. Ciò che non corrisponde a queste condizioni di possibilità è impossibile che avvenga. Il termine trascendentale si riferisce alla struttura apriorica, necessaria e dinamica del soggetto: l’orientamento dell’uomo al trascendente. Il metodo «trascendentale» s’interroga sulla costituzione conoscitiva ed esperienziale dell’uomo. Ci si interroga sui presupposti, che debbono essere dati, affinché l’uomo si esperisca così come e si esperisce come è. Con struttura trascendentale non s’intende tanto un contenuto innato, ma una realtà strutturale che non proviene dall’esperienza, ma precede l’esperienza seppur riferita all’esperienza: la nostra esperienza conoscitiva, volitiva e di libertà è sempre aposteriorica e dunque categoriale: storica e contingente. Rahner rifiuta l’innatismo come dottrina filosofica. Il termine «categoriale» significa dunque concreto, empirico, determinato dallo spazio e dal tempo in cui l’uomo vive. E’ categoriale per Rahner anche la storia dell’uomo e dell’umanità. Ogni oggettivazione e concretizzazione, ogni apparizione e determinazione, appartiene all’elemento categoriale. Il termine «trascendenza» significa invece l’oggettiva realtà di Dio, a cui si relaziona l’uomo. La trascendenza è il terminus ad quem dell’universale apertura del soggetto conoscitivo: per questo il mistero di Dio in quanto trascendente è indicibile ed inconcepibile. Il trascendente fonda l’apertura trascendentale dell’uomo. Alla luce di queste categorie filosofiche egli rilegge tutta la Rivelazione. Dio ha una relazione reale con l’uomo, si autocomunica all’uomo. Dio ha davvero assunto tutta la storia e il destino dell’uomo, anzi sono il luogo in cui egli si è fatto carne. Per mezzo dell’incarnazione Dio si è inserito nella storia stessa, facendo partecipe di sé la realtà umana. La volontà salvifica di Dio si manifesta dunque realmente in questa trascendentalità storica di ogni uomo; l’autocomunicazione divina eleva l’uomo. È quello che Rahner chiama «esistenziale soprannaturale», ovvero l’aspetto trascendentale in ogni esperienza religiosa categoriale. Dio si offre all’uomo.

Per la nostra concezione, nel fatto che Dio, nella sua libertà, nella sua grazia assolutamente e radicalmente soprannaturale, discende in quella che abbiamo chiamato autocomunicazione divina sotto forma di offerta, è già sempre all’opera il Dio della salvezza soprannaturale e della grazia, cosicché l’uomo non può mai incominciare a fare qualcosa o a dirigersi verso Dio senza essere in ciò sorretto dalla grazia di Dio.15

L’esperienza trascendentale è un punto chiave del discorso di Rahner. Essa consiste in questo autotrascendentimento, di cui è capace l’uomo e che fa parte della struttura necessaria ed ineluttabile del soggetto conoscente e d è l’angolo da cui il gesuita vede e riflette sulla Rivelazione.

2. La riflessione sul tempo e sull’eternità nei Nuovi Saggi

2.1. Stile e intentio generalis dei Nuovi Saggi

I Nuovi Saggi sono dieci volumi, in cui sono raccolti gli articoli e i vari saggi, che Rahner ha scritto in diverse occasioni. Rahner stesso amava definirsi come «pensatori di problemi», in quanto riflette su rilevanti sviluppi storici e sociali, nonché teologici della modernità. «Molti saggi costituiscono già per la loro mole delle piccole monografie. Se si volesse sviluppare il loro denso contenuto per renderlo mediaticamente comprensibile a un vasto pubblico bisognerebbe scrivere una montagna di libri».16 Lo stile di questi saggi è quello di un pensatore, che riflette sulle singole questioni partendo dalla teologia dogmatica e dalla dottrina della Chiesa, attraverso il suo impianto filosofico «trascendentale». Rahner nei Nuovi saggi dimostra di volere aprire gli spazi, creare punti di incontro con il mondo moderno, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. La teologia non deve temere questo confronto, ma aprirsi ai problemi attuali, rifacendosi ai Padri, alla scolastica, alla filosofia di Marèchal e di Heidegger. Questo teologare è definito come «scolare» (Schulttheologie). Nei Nuovi Saggi compare continuamente questa espressione per indicare la lettura dei «segni dei tempi», una «volontà di perseguire un “aggiornamento”, di usare un linguaggio teologico capace di esprimersi in maniera adeguata rispetto all’ora storica di volta in volta nuova».17 Lo stesso tema del «tempo e dell’eternità» viene ripreso in più volumi in base all’«occasione» in cui Rahner si è trovato a scrivere. Le linee teologiche di questo tema convergono poi alla cristologia «dall’alto», esaminata nel capitolo secondo. Metodologicamente si prenderanno in esame i vari testi in cui Rahner affronta questa tematica, partendo dall’ordine stesso dei volumi dei Nuovi Saggi, per poi vedere il quadro teologico sintetico-complessivo e la proposta rahneriana. I volumi considerati sono: III, IV, VII, VIII.

2.2. Tempo ed eternità nei volumi dei Nuovi Saggi III-IV: concetto di «futuro» e «temporalità».

In questo volumi Rahner affronta il tema del «futuro» e quello della «temporalità». Dal modo con cui noi concepiamo l’indefinito futuro e il tempo si comprende in che modo l’eternità è nel tempo, e non un separata da esso.

Il futuro non è, o non è soltanto, quel che oggi concretamente prevediamo e domani realizzeremo, disponendo di piani precisi e di mezzi efficaci, che ci permetteranno – è solo questione di tempo-di tradurlo in realtà. A voler essere esatti, tutto questo fa parte del presente. È vero che anch’esso è attraversato da una segreta dimensione futura, per lo più inavvertita o da noi censurata. Ma non si differenzia essenzialmente dal domani, che abbiamo già pianificato e su cui pur grava ancora l’incertezza. Forse un imprevisto scompaginerà i nostri progetti, forse la morte, magari un infarto, ci impedirà di portarli a termine. Ecco perché non riusciamo ad esperire come «oggi» questo «domani». Quindi non si può intendere correttamente il futuro attraverso categorie evoluzionistiche.18

Il futuro assoluto domina comunque, in quanto ci mette a disposizione il «materiale» del futuro progettabile, con il suo sorgere e il suo scomparire. In tal modo l’esistenza di un futuro progettabile, come presenza del futuro cronologico, è preziosa e insostituibile. Certo non lo si può considerare soltanto come futuro progettabile esclusivamente in chiave tecnica (NS III; 624).

Ecco come egli inizia a delineare che la realtà futura non è qualcosa di misurabile crono metricamente o un’insieme di progettazioni. Molte volte infatti il futuro si configura come la verifica puntuale di previsioni teoriche o pratiche e riguarda la situazione concreta dell’uomo. Il futuro appare come una realtà imponderabile che rende provvisori e problematici anche i calcoli più precisi. Esso sfugge alla presa dalla verificabilità e nello stesso tempo accade nel tempo degli uomini. L’uomo percepisce che il «domani» viene oggi. In forza di ciò, il soggetto sperimenta che il futuro, benché imponderabile, è presente, pur sottratto ai voleri umani non è estraneo. Il futuro si presenta come «assoluto», ab-solutus sciolto da qualsiasi prova o possessione verificabile, ma che nello stesso tempo si fa incontro all’uomo pur nella sua misteriosità. Il futuro assoluto delimita il futuro verificabile, fatto dalle progettazioni umane come una forza liberante e non come carceriere. L’uomo è un essere storico, che può scoprire nelle maglie della storia, la presenza assoluta del Mistero del futuro, che entra nella storia come accadimento. Il futuro apre alla speranza, che è fiducia che l’Eterno incomprensibile si «faccia tempo», entri nella storia come concretamente sperimentabile e venga percepito come anelito infinito dell’uomo. Queste intuizioni sul futuro sono riprese ed elaborate sistematicamente nei Nuovi Saggi IV. Nel successivo saggio di questo volume IV (Il problema del futuro) Rahner esplicita quella distinzione tra futuro assoluto e intramondano, accennato in NS III per comprendere il legame tra l’eterno e lo storico.

  • Il futuro assoluto è Dio stesso, in quanto partecipa egli stesso del mondo da lui creato. Il creatore è il fondamento trascendentale che abbraccia tutta la realtà e perciò l’uomo non lo può né progettare né produrre.
  • il futuro intramondano o progettuale è invece ciò che è determinabile dall’uomo. Esso è: «conseguenza precodificato di momenti situazionali volta per volta dati, esito coerente della loro interazione. In questi futuri o forme di essi l’a-venire è prestabilito rigorosamente, è risultato “matematico” dell’operazione Presente + Passato» (NS IV, 651).

Il cristiano deve liberare l’autentico futuro che è quello divino, perché il futuro assoluto non è una mera evoluzione come quello intramondano. Questo è chiaro nella seguente citazione del teologo gesuita.

Il mondo e l’uomo hanno una storia che Dio ha voluto sua; essa, storia di Dio, del mondo e dell’uomo, risulta comprensibile e realizzabile appieno (se veramente intesa come storia) solo nella prospettiva del suo futuro. Questo, a sua volta, non è altro che la radicale e completa partecipazione di sé di Dio al mondo; non è, invece, una indefinita situazione o aspetto che differenzino il mondo dal Dio assoluto e infinito. Dio, futuro assoluto del mondo e dell’uomo, è il mistero assolutamente incomprensibile che rimane sempre e che ora esiste solamente nell’apertura radicale della conoscenza e della libertà umana al di là di ogni singolo momento determinabile (NS IV, 654).

La peculiarità del cristianesimo è dunque l’incarnazione di Gesù Cristo, nel quale Dio si dà al mondo come futuro assoluto. La futurologia, che si chiama anche analisi dell’eternità nel tempo, si basa per Rahner nell’uomo, visto egli stesso come libero soggetto creatore, che benché riesce a «creare un futuro prevedibile intramondano», percepisce nella categorialità della sua esistenza, che il futuro non è mai una realtà adeguatamente prevedibile e precalcolabile. Questo futuro assoluto si radica nell’uomo solo nella speranza, nella fiducia di essere posto in questo orizzonte infinito, che compie la sua storicità, il cui vertice e mediatore è l’eterno Figlio di Dio.19 Il teologo gesuita cerca di dare un’esistenza concreta a questo concetto del tempo in teologia. Dalla Bibbia e dai Padri emerge appunto che il tempus è un dinamismo che si dispiega dalla creazione e tende alla sua consumazione nella parusia. Rahner passa in rassegna i termini del Nuovo Testamento20 usati per notare come la componente temporale abbia una rivelazione teologica. Il termine più utile per questo tema è quello di kairòs, che esprime l’essenza stessa del tempo che contiene la definitività dell’Eterno. Dio si è incarnato e l’eternità è diventata nel tempo.

Dalla concezione dommatica, secondo la quale persino l’essenza e il risultato ultimi della storia della natura e del mondo sono determinati dalla storia della libertà di fronte alla salvezza e alla predizione, si ricava che il tempo della realtà materiale, a bene guardare, non è la potenza che domina sopra la storia umana, ma rimane un momento particolare e deficiente che appartiene al tempo della libertà personale (NS IV; 362-363).

L’eternità è il superamento del tempo, in quanto contiene in sé il passato, presente e futuro. Quindi, dopo aver lanciato il tema, nelle prime pagine del Saggio, Rahner cerca di colmare questa lacuna, cercando di fornire una comprensione adeguata del concetto di tempo in 3 momenti. I primi due riguardano la creazione, il terzo la temporalità di Dio. Questo primo momento riguarda l’eternità del mondo, tema controverso fin dalla scolastica medioevale. Il dogma cattolico del Concilio Lateranense IV afferma che il mondo invece non è eterno, bensì ha un inizio, che è dato dalla creazione. Le conseguenze di questo dogma è di considerare il tempo reale come finito e che il mondo non è eterno. Non esiste uno spazio temporale vuoto prima di questo inizio della creazione, abitato solo da Dio e poi un tempo reale e finito dell’uomo. Rahner cerca di evitare questa opposizione tra un «prima» o un «dopo», cioè di due mondi separati tra il tempo dopo la creazione e il tempo prima la creazione. Per spiegare questo, riporta l’esempio dell’orologio (Cf. NS IV; 368). Rahner dice di immaginare da una parte un cosmo in cui collochiamo un orologio che batte alla stessa velocità e che esso segna un tempo finito perché il tempo del mondo è finito. Allo stesso tempo immaginiamo un altro orologio che però calcoli il tempo di una parte del mondo. Esso non potrebbe calcolare tutto il tempo nel suo insieme. Quindi non si può calcolare un tempo infinito paragonandolo al tempo finito. Queste due dimensioni non possono essere considerati misura l’uno dell’altro.21 Il tempo quindi non è la numerabilità degli eventi, o una finitezza empiricamente scomponibile all’infinito in momenti minori. Queste singole parti sono riunite nell’infinito.22 Il dogma cattolico vuole dunque salvaguardare questa unità di salvezza, che l’uomo è un soggetto storico, che vive in una dimensione promissoria e finita, ma ha la possibilità nel tempo di realizzare l’eternità. «L’uomo è parte del mondo, siccome egli è un’unità spirituale-materiale, con la conseguente risurrezione della carne e la pienezza finale del “nuovo cielo e nuova terra”, il mondo deve essere costituito in maniera tale da permettere all’uomo di essere quello che è: sostanza caratterizzata da una libertà storico-temporale, che nella decisione definitiva della sua libertà raggiunge la condizione definitiva di Dio» (NS IV, 373). Questo approfondimento del dogma riguardo al tema della «temporalità» si articola in tre aspetti:

  1. Temporalità interiore verificabile nell’esistenza dell’uomo e la morte;
  2. Temporalità del mondo nel mondo;
  3. Temporalità storico-salvifica;

Primo aspetto: esiste infatti nell’infraumano una dimensione irreversibile che dà senso unico al tempo: la morte. Nelle scienze naturali la morte è un tassello nella linea continua della trasformazione della natura, che fa parte del processo di ricambio biologico. Teologicamente23 però l’uomo non è una particella nucleica del processo naturale e la morte non è solamente una rigenerazione molecolare (questo stesso tema sarà ripreso successivamente a proposito della morte di Gesù).

l’uomo, comunque esperimenta se stesso storico e responsabile, che vive la libertà e quindi esiste in un tempo orientato in maniera univoca e irreversibile. Voler cambiare questo orientamento significherebbe distruggere l’essenza dell’uomo come decisione per qualcosa di definitivo. L’uomo sente che la storia della libertà nel tempo è finita e limitata nei due sensi, dal primo atto compiuto in libertà e dalla morte, escludenti, l’uno e l’altra, che la storia personale del singolo possa, per se stessa, possedere una preesistenza nel passato e una continuazione nel futuro (NS IV, 375).

Il tempo dell’uomo è orientato verso una fine irrevocabile, ma nella sua libertà e responsabilità, sente che oltre il limite temporale della morte, esiste questa tensione tra la «preesistenza del passato» e la «continuazione del futuro». Per la sua struttura metafisica il soggetto umano percepisce questa tensione dialettica tra i due momenti: tra l’irreversibilità del tempo, dotato di un inizio e una fine, e l’irripetibilità del tempo reale della sua libertà. Questo dato originario della «fisicità» del tempo non può mai essere esplicitato completamente, ma fornisce le possibilità grazie alle quali l’uomo può nella libertà della sua storia percepirsi come soggetto chiamato a realizzarsi attraverso le sue decisioni.

La decisione — scrive la Salatiello riprendendo questa riflessione rahneriana — cioè, nella sua particolarità e nel suo originarsi in un preciso momento ed in un determinato contesto che è ad essa preesistente, si presenta come assoluta e la sua validità non è vincolata che ha condizionato il suo sorgere.24

Secondo aspetto: il mondo è lo spazio di questa espansione decisionale della libertà. L’uomo è dotato di questa forza, che gli fa vedere come ne produce atti eterni. Il tempo non è da pensare come la successione infinita di attimi e momenti, ma è assunto fino in fondo nella completezza della sua decisione definitiva.25 L’atto libero dell’uomo è questa espansione dell’eternità vissuta dalla coscienza atematica dell’uomo.26 Tuttavia in questa riflessione Rahner recupera il dinamismo circolare tra il tempo e l’eternità e la ratio stessa del dogma, come dirà nel Corso fondamentale della fede.27 In questo senso l’eternità non è la prosecuzione finale del divenire storico al di là del blocco della morte, ma si esprime in maniera irriflessa nella coscienza, nella scansione del passato, presente e futuro del tempo reale, esplicata nell’atto libero e definitivo della decisione umana.

Terzo aspetto: Rahner ha voluto, attraverso i momenti precedenti, evidenziare l’intreccio tra il tempo e l’eternità che si gioca nella decisionalità libera dell’uomo. Tuttavia lo stesso mondo vive questa temporalità perché inserito nella creazione, ma è anche il luogo della salvezza e dell’azione liberante di Dio per il mondo. Il Dio «immutabile» diviene uomo. Il tempo dell’uomo è tempo storico-salvifico nella misura in cui si orienta al Bene.

Dio stesso sperimenta nell’altro della storia del mondo, del suo divenire e del suo tempo, e che quindi il tempo del mondo è la storia propria di Dio. Dio, in quanto essere eterno, non solo pone il tempo come atto creativo, ma liberamente lo accetta come suo predicato. Assumendo tempus creat tempus, potremmo dire (NS IV; 383).

3. Conclusioni

La «testimonianza» è la categoria ermeneutica attraverso la quale comprendiamo che la storia umana non è una somma di eventi distanti dall’Infinito eterno, che è invece appare imponderabile e unito. Nell’incarnazione del figlio di Dio, l’eterno ha scelto fino in fondo di essere quello che è: Dio in sé è Dio per noi. La storia dell’uomo è intrinsecamente aperta al futuro assoluto di Dio nell’unione ipostatica di Cristo. È lui il Salvatore assoluto, in quanto nella sua morte e resurrezione ogni uomo è salvato. La morte non è più una fine della materialità della vita umana, ma anzi è il segno eloquente del trionfo dell’eterno. Potrebbe a tal proposito aiutare a dare spessore a questa concezione, la filosofia di Ricœur. La riflessione del filosofo però non va assunta integralmente per la sua vastità, ma solo la prospettiva che interessa al tema del rapporto tra tempo ed eternità descritta nella sua opera La memoria, la storia e l’oblio.28 Utilizzando la terminologia ricœuriana potremmo dire:

  • il tempo è chiamato «storia e memoria», in quanto è l’unione del passato, presente e futuro;
  • l’eterno è invece il perdono.

L’unione dei due eventi è garantita dal riconoscimento. Il filosofo francese incomincia ad analizzare tutte le varie dimensioni prismatiche della memoria, confrontandosi con i grandi del pensiero e sulle loro posizioni riguardo a questo tema. L’uomo, che secondo l’antropologia ricœuriana, è considerato un essere capace, in quanto può, è colui che sa costruire una continuità narrativa e biografica, che non rinnega il passato, ma anzi combatte contro il tentativo di ridurre il tempo a una dimensione puntiforme, discontinua, a una frammentazione della linearità temporale. La memoria permette la costruzione di un’identità narrativa. L’uomo ritrova le sue radici nel passato, per vivere pienamente il presente e aperto tendenzialmente al futuro. Il «dovere di memoria» è proprio costruire quel legame vissuto tra le generazioni. Il passato, dunque, è difficile da afferrare e la memoria stessa va incontro ad usi e abusi. Esso esprime una durata temporale che si rigenera nel presente, ed è talvolta compromesso con la nostra materialità corporea. Rientra qui la complessa dinamica del «ritornare al cuore», nella ricerca di un tempo interiore, di un vivere un passato nel presente, in una sistemazione progressiva in quello spazio che separa il prima e il dopo, i due estremi che testimoniano il salto avvenuto, attraverso la dinamica del riconoscimento. La memoria non procede senza di esso. Dobbiamo prendere in considerazione la concezione personalistica. Il riconoscimento è l’atto concreto cui si riafferma il passato nel presente, e se il ricordo, come scrive Bergson, «resta attaccato al passato per le sue radici profonde, e se, una volta realizzato, non risentisse della sua originaria virtualità, se non fosse nello stesso tempo uno stato presente e qualcosa che spezza il presente, non lo riconosceremmo mai come un ricordo».29 Nel riconoscimento si intersecano l’approccio cognitivo e pragmatico poiché in esso si corona la ricerca riuscita del richiamo, che diviene azione, fare. L’esercizio della memoria sta nella sua attualizzazione. Il riconoscimento vi designa la faccia cognitiva del richiamo, mentre questo sforzo di memoria si inscrive nell’ambito pratico.

Al riconoscimento appartiene, infatti la rimemorazione, il richiamo, la sopravvivenza delle immagini in uno stato latente. Ma dove? È questa la domanda di fronte alla speranza di ritrovare un ricordo, che non si è perduti, ma che è immagazzinato insieme ad altri ricordi secondo l’immagine agostiniana nelle «caverne» della memoria. Il riferimento di base del «prendersi cura» e ancor prima al riconoscimento del «che cosa» dei ricordi e il «chi» di colui che ricorda può servire come un tentativo per un incontro, un punto di sutura tra una fenomenologia della memoria e il discorso sulla storia. L’essere storico è caratterizzato dal «prendersi cura» della sua storicità nella sua triplice ossatura «passato-presente-futuro», in cui notiamo come la storia e la memorazione siano due grandi istanze di retro-spezione, che aprono un orizzonte di aspettative. Scrive Heidegger:«L’essere per la morte autentico, cioè la finitudine della temporalità è il fondamento nascosto della storicità dell’Esserci».30Ecco che il versante ermeneutico-critico ci consente di imporre dei limiti a qualsiasi impresa totalizzante verso una comprensione della condizione storica, che tiene conto di tutte le «fratture» temporali e che sono da «curare». Il «prendersi cura» e l’interpretazione della storicità dell’Esserci si rivela come questa elaborazione più concreta della temporalità, che ci fa riscoprire tutta la portata significativa ermeneutico-ontologico del processo di ripetizione, che avviene nella memoria come nella storia. La storia contiene in sé uno sforzo di resurrezione. Ricordare è riandare agli eventi del passato con le domande dell’Oggi, che contiene in sé un’esigenza di attualizzazione e apre al ringraziamento e al perdono. Il perdono incrocia tutte le tematiche relative alla memoria, alla storia e all’oblio, ne costituisce l’orizzonte comune, la motivazione del mio studio personale sulla rappresentazione del passato. Il perdono ha la capacità di riconciliare e conduce al riconoscimento delle possibilità ma anche dei limiti umani, che possono essere superati nella logica del dono. Esso è la definitività dell’esistenza, in quanto slega il colpevole dalla gravità dei suoi atti, lo libera. Nel saldare insieme queste dimensioni attraverso il perdono l’uomo contemporaneo può confrontarsi davvero con un passato per lui carico di macigni e violenze, alleviando e rischiarando le mete del futuro. Paul Ricœur ha indagato la possibilità del perdono proprio a partire dalla dialettica di memoria e oblio, che costituisce ogni rapporto umano con il passato, e in particolare con l’evento violento, la ferita del passato col quale ci si deve sempre relazionare. La teologia di Rahner, arricchita dalla riflessione del filosofo francese, illumina, per quanto possibile umanamente, in che senso il tempo «non può» fare a meno dell’eterno.


  1. Agostino, Confessiones, 10, 24 ↩︎

  2. Ibid.10,17,26 ↩︎

  3. Agostino, Il Maestro, Città nuova, Roma, c.12,39. ↩︎

  4. Agostino, Le Confessioni, Città nuova, Roma, c.10,8,13. ↩︎

  5. Ibid. c. 10,17,26 ↩︎

  6. G. Santi, La memoria e l’ermeneutica del segno in Sant’Agostino, in Congresso internazionale su Sant’Agostino nel XVI centenario della conversione, Roma (1986),436. ↩︎

  7. S. Boezio, La consolazione della filosofia – Gli opuscoli teologici, a cura di L. Orbetello, Rusconi, Milano 1979, 309. ↩︎

  8. S. Kierkegaard, Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, 209. ↩︎

  9. Per la concezione di Schelling si segue la lettura dell’articolo di S. P. Bonanni, «Quo nihil maius fieri potest, ovvero: il tempo superato. Percorsi schellinghiani e riflessione cristologica in Walter Kasper», in Lateranum 2 (1999) 223-270 e di W. Kasper, L’Assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, Milano 1986.. ↩︎

  10. K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Alba 1977, 25. ↩︎

  11. Ibid., 28. ↩︎

  12. Ibid., 40. ↩︎

  13. Il modo in cui Rahner giunge a questa esperienza trascendentale è attraverso l’applicazione del metodo trascendentale -intrapreso fra gli altri da J. Maréchal, suo maestro ed ispiratore. Un tale approccio tenta di ricostruire la metafisica accettando in qualche modo -anche se in un contesto non esclusivamente fenomenico e riveduto, in Rahner, alla luce della filosofia heideggeriana-il suggerimento kantiano di partire dalle strutture conoscitive per arrivare alle verità della metafisica. ↩︎

  14. Sul metodo trascendentale ci sono molti testi, che qui non citiamo. ↩︎

  15. K.Rahner, op.cit.,162. ↩︎

  16. A. Raffelt—H. Verweyen, Leggere Karl Rahner, Queriniana, Brescia 20043, 85. ↩︎

  17. Ibid., 66. ↩︎

  18. K. Rahner, «Il concetto di futuro. Considerazioni frammentarie di un teologo» in Nuovi Saggi, Ed. Paoline, Roma 1969, 619. D’ora in poi le citazioni dei Nuovi Saggi daranno fatti affianco delle citazioni stesse attraverso la sigla NS seguita dal numero del volume e da quello della pagina. ↩︎

  19. «Nella dottrina dell’incarnazione del Logos divino il dogma esprime il mistero del tempo come vero predicato del «in-sé» del Dio immutabile, il quale accetta e sperimenta la propria storia «nel mondo» (an der Welt)» (NS IV, 362). Non esiste-sottolinea Rahner-una dottrina sistematica sull’essenza del tempo, benché ci siano stati numerosi interventi nella lotta contro lo gnosticismo, nel rifiuto dell’apocatastasi o nella controversia scolastica dell’«aeternitate mundi». Una riflessione sul tempo si trova appena elaborata nell’escatologia o nella dottrina della creazione. ↩︎

  20. Cf. NS IV; 363. ↩︎

  21. Lo stesso problema, che qui accenniamo per brevità, si ritrova riguardo alla generazione del Figlio, interpretata soprattutto nei primi secoli come una realtà funzionale alla creazione. Questo era l’inizio del tempo? Cosa faceva Dio prima di questo? «Questa autodeterminazione (cioè che Dio genera il Figlio in quanto è Dio per-noi) presuppone un «prima»: Dio Padre che è fons et origo divinitatis, e dunque prima del Figlio lo genera liberamente per amore. Si tratta, però, di un “prima” ontologico e non cronologico» (P. Gamberini, Un Dio relazione, breve manuale di dottrina trinitaria, Città Nuova, Roma 2007, 157).«Che cosa era e che cosa ha fatto Dio “prima” del tempo e “prima” della creazione? La differenza fra Dio e mondo non viene negata, se di Dio si riconosce che abbia da sempre voluto comunicarsi al radicalmente diverso da lui» (H. Vorgrimler, Dottrina teologica su Dio, Queriniana, Brescia 2000, 198. ↩︎

  22. È interessante a tal proposito, perché chiarisce in qualche modo l’impostazione filosofica di Rahner, il concetto di «presentarsi-e-assentarsi» del tempo. Il tempo è un paradosso, perché mentre esso appare come un limite dell’esistenza umana, esso è anche l’unica possibilità che è l’uomo, perché grazie al tempo realizza il suo poter-essere. Il tempo è una realtà oggettiva, fisica in quanto è il tempo biologico dei viventi, psicologica in quanto è il tempo dell’anima, come diceva Agostino. Questo tempo è poi una coordinata essenziale dello spazio, cioè della creazione. Il tempo scorre in maniera inesorabile come ci dimostra la natura stessa, ma a questa esteriorità si articola in un passato che è necessario, in quanto indica ciò che è «avvenuto», il futuro come tempo della decisione la cui sintesi è il presente. «Nell’assentarsi del presente è “ritenuto”-sotto forma di ricordo – il suo presentarsi nella forma dell’essere-stato. Non soltanto: il suo assentarsi è per così dire necessario perché possa continuare a presentarsi nella forma dell’attesa». (S. Bongiovanni, «Competere con il tempo» in Rassegna di Teologia, 49 (2008), 357-382, qui 373. ↩︎

  23. La morte segna il passaggio da questa vita, il suo ineluttabile termine, il momento che tocca ogni uomo. La morte è umanamente invincibile e inevitabile. Benché si avverte la morte come minaccia permanente, un limite invalicabile, tuttavia non si può non fare a meno di non tematizzarla. Vita e morte sono tra loro fortemente implicate. La morte come dramma esistenziale e fine di tutto viene vinta nell’ambito di fede. La morte deve essere radicalmente vinta e solo così l’uomo può sperare nella felicità. Nell’evento pasquale la morte viene trasformata in eternità, da limite diventa possibilità di una condizione di vita qualitativamente diversa. Gesù stesso ha sperimentato la morte, nella discesa agli inferi, in cui ha mostrato la sua solidarietà con i morti. Egli rende la morte dono di salvezza e dona l’immortalità, dono di Cristo. Solo attraverso la morte può portarci alla vita nuova, che è la relazione con lui. Questa idea è ripresa da Rahner, il quale ritiene la morte come il prodotto finale per la resurrezione, l’offerta ultima della grazia per un definitivo compimento. La morte diventa il momento massimo di personalizzazione, che attraversa tutta l’esistenza dell’uomo. La morte allora non è più il risultato ultimo del peccato, fonte di dolore e sofferenza, ma condizione escatologica che esprime la pienezza di un incontro salvifico. Morire in Cristo per risorgere con lui. La morte come compimento dell’esistenza personale indica anche la dimensione dello svelamento di tutto quanto l’uomo ha vissuto, scelto e operato rispetto alla relazione con Dio, che viene fissata in modo definitivo. L’uomo riceve il suo destino escatologico, in relazione a Cristo. ↩︎

  24. G. Salatiello, Tempo e vita eterna. Karl Rahner e l’apertura del pensiero, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2006, 65. ↩︎

  25. «Tale validità definitiva, dunque, sorge necessariamente dal tempo, poiché solo in esso può essere posto l’atto della libertà, ma da quest’ultimo scaturisce qualcosa che “sta al di sopra del tempo come il non più temporale”, in quanto è sottratto al continuo fluire e non è più superabile da momenti successivi che possano annullarne il valore». (NS IV; 378) ↩︎

  26. Essa è l’orizzonte di pensiero e di conoscenza nel quale l’uomo percepisce, esamina e riflette. ↩︎

  27. «In realtà è nel tempo, come frutto maturo di questo, che diviene l’eternità, la quale propriamente non continua al di là del tempo vissuto, bensì elimina il tempo, in quanto viene a sua volta disgiunta dal tempo, che diviene provvisoriamente affinchè fosse possibile attuare la libertà e la definitività. L’eternità non è un modo (sterminatamente lungo) di perdurare del tempo puro, bensì è un modo della spiritualità e della libertà maturate nel tempo e quindi va concepita solo partendo dalla retta comprensione di queste ultime. Un tempo che non perdura quale avvio dello spirito e della libertà, non partorisce neppure alcuna eternità. Ma siccome la definitività (che supera il tempo) dell’esistenza dell’uomo attuata nella libertà e nello spirito noi dobbiamo assumerla dal tempo e tuttavia quasi senza volerlo la pensiamo come un perdurare senza fine, noi rimaniamo naturalmente smarriti […] è attraverso la morte non dopo la morte che viene ad esserci la definitività attuata dell’esistenza dell’uomo maturata liberamente» (K.Rahner, op.cit.,554-555). In questo testo, punto già maturo del suo pensiero escatologico, Rahner riflette come la decisione definitiva dell’uomo per Dio è eterna e si realizza attraverso la morte. ↩︎

  28. P. Ricœur, La memoria, la storia e l’oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003. ↩︎

  29. H. Bergson, Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, Laterza, Bari, 1996, 114. ↩︎

  30. M. Heidegger, Essere e tempo, [tr.it. di P. Chiodi] Longanesi, Milano, 1976, 462. ↩︎