1. Un corpo aperto
La nostra contemporaneità si caratterizza come era del transito, del mutamento, del divenire: non solo modalità di determinazione della stessa vita, ma anche, dimensioni che si gettano sul corpo, rendendolo aperto al contatto, al tocco, in un continuo processo di metamorfosi alimentato da una vera e propria attività demiurgica esercitata dall’uomo. Nella corporeità si incarnano continui flussi tecnologici che rendono sempre più prossima la coincidenza tra tecnica e natura, tra corpo e macchina, fino a giungere a quel transito che va dall’umano al post-umano, ovvero, a quella realtà che fa proprio il principio del superameno dei «limiti biologici, neurologici e psicologici insiti negli esseri umani per effetto del processo evolutivo», e presenta gli individui come «esseri aventi una capacità maggiore di riconfigurare e scolpire, la propria forma e funzione fisica».1
Si tratta di una trasformazione, o se si preferisce, di una trasmutazione, la quale si presenta come un attributo capace di determinare sia il modo di essere che di avere un corpo nel nostro tempo presente. Dove il rapporto tra corpo e macchina, tra natura e artificio condensa in sé una sostanziale duplicità, o meglio, un dualismo che è oramai un monismo presupponente un’accezione positiva ed una negativa. Nell’accezione positiva la tecnica si presenta come concreta imitazione dei naturali processi biologici e, quindi, come costante desiderio dell’uomo di rimanere in vita, di rientrare nella vita, nella sua dimensione corporea. In questo caso, l’elemento artificiale si fa tutt’uno col ritmo naturale del corpo poiché ne segue ogni modalità di espletamento, ogni modo di darsi della naturale funzionalità corporea. Due forze distinte: naturale e artificiale, si uniscono non come compensazione ma come incorporazione e incarnazione. La tecnica si incarna e diviene essa stessa corpo, il quale sfugge al destino, evolvendosi in antidestino, dato che lo stesso uomo si presenta come essere in grado di scegliere, di autorigenerarsi ed autoprodursi seguendo, tuttavia, la mappa del naturale flusso vitale. Per intenderci, un peacemaker è una macchina impiantata nel corpo, la quale si fa corpo in quanto partecipa alle funzioni biologiche, permettendo al cuore di normalizzare il suo battito, di rientrare nel suo ritmo naturale. Un dispositivo, quindi, che si unisce al corpo, proprio grazie alla sua biocompatibilità. Esso è compatibile col corpo, ciò significa che è elemento connaturale: tecnica che si fa tutt’uno con la natura in quel compatire, ossia in quel cum patior, in quel soffrire insieme, nel partecipare, nell’entrare nella vita dell’altro per farsi altro.
Tuttavia, dinanzi a questo particolare rapporto dialettico tra corpo e macchina, l’uomo tecnologico è anche colui che avanza il tentativo di «ingabbiare» il proprio corpo e superare la vulnerabilità di quest’ultimo, aprendosi non più al semplice antidestino di cui sopra, bensì, all’oltredestino, a ciò che rende l’uomo altro da sé. Un esempio significativo può essere la costruzione di esoscheletri destinati all’esercito americano, che si propongono fondamentalmente di alterare la funzionalità corporea, presentandosi come «un vestito per uccidere intessuto di microchip, batterie e serbatoi di alimentazione quadricipiti a pompaggio idraulico e rotule al titanio. L’esoscheletro, in natura, è lo scheletro esterno: quello dei crostacei, per esempio. E in gigantesche aragoste da prima linea a stelle e strisce sognano di trasformare i militari americani del prossimo futuro. “Più veloci, più forti, più resistenti”, è il facile slogan dei progettisti. Le corazze da superuomo dovranno aiutare le truppe di terra ad “aumentare le prestazioni”, a dimenticare la fatica e la paura, ad annullare pesi e distanze».2 Qui la tecnica si fa altro dall’elemento biologico e la coincidenza tra naturale e artificiale, quella sofferta e ricercata armonia si dissolve in uno schiacciante contrasto tra artificio e corpo, il quale viene allontanato dalle sue funzionalità biologiche, naturali, e accessoriato, rivestito di capacità estranee e avulse dall’essere uomo. Ecco che, il corpo viene reificato, reinventato e vestito, come un fantoccio, di umilianti e mortificanti ornamenti, che alterano il suo essere naturale. In questo caso si riapre il tradizionale conflitto tra natura e cultura, tra naturale e artificiale, dato che la tecnica strappa all’uomo la sua caratterizzazione primaria, facendolo cosa da manipolare. E la manipolazione «meta-umana» diviene, ben presto, «mutazione identitaria», che «spessissimo diventa una mutazione morfologica. Dalla nascita si vive come se niente fosse successo, come se il futuro fossero gli alieni: tutto ciò è comodo e rassicurante ma non è così. Di fatto noi siamo la prima generazione umana che riesce a procreare senza più rapporti sessuali, la prima generazione che riesce a creare la vita senza la maledizione biblica del partorire con dolore».3 L’uomo contemporaneo è proprio il soggetto della nuova identità costruita sulla reinvenzione dell’essere umano, il quale assiste a una codificazione, a un calcolo, a una sperimentazione che si dilata fino a giungere alla figura di un cyborg, ovvero, di quell’«immagine post-umana, estranea a ogni genere di intervento divino, soprannaturale o magico che dir si voglia».4 Essere un cyborg vuol dire -prima di tutto- indossare una nuova identità al fine di nascondere, di eludere la debole e precaria esistenza, e di rendersi -quindi- inattaccabile non solo da ciò che può uccidere, ma anche da ciò che impregna la contemporaneità, ovvero, un’esistenza isolata, sfociante nella nevrosi: malattia dei nostri tempi.
Così, la valenza della relazione tra uomo e macchina è doppia, e si pone come paniere capace di contenere elementi e attributi che ci inducono a parlare di cyborg: figura che, a sua volta, appartiene a una «narrazione mitopica, poiché, aprendosi a un futuro ancora indefinito, permette di pensare l’uomo come un essere geneticamente sempre perfettibile su cui è possibile, in linea di principio, intervenire tecnologicamente, manipolandone il codice genetico (cioè sostituendosi alla natura) e innestando nel suo corpo parti elettroniche al fine di migliorarne le caratteristiche».5 Proprio questa dimensione mitopica può redimere lo stesso mito della tecnica, secondo cui essa sarebbe solo un supplemento alle carenze della natura umana. La tematizzazione di una natura carente, infatti, non fa altro che legittimare la sfiducia dell’uomo nei processi naturali e, di conseguenza, convertire quel possibile antidestino in oltredestino, ossia, nell’uomo che, reificando il proprio corpo, si fa altro da sé. Di contro, inserirsi in un prospettivismo pensando alla perfettibilità e futuribilità dell’essere umano, il quale non si dà mai come essere determinato, giunto al suo valore finale, può significare considerare la tecnica come «quella condizione di contatto, di accesso, già insita nell’esistenza, il fare corpo con altri corpi» nel mondo di un’ecotecnia, dove, anziché vivere in conflitto con la natura, in un continuo desiderio di superamento di se stessi, si assume una relazione simbiotica con essa, dato che il divenire-uomo si avvale della coincidenza tra i processi di trasformazione, di creazione della natura seguiti da quelli della tecnica in una dimensione di imminente prossimità, di proteso prossimo.
2. Ocursus, affectio, conatus: corpo e artificio
E proprio per comprendere al meglio l’incontro della tecnica col corpo, il modo in cui essa si compone, appare estremamente interessante fare riferimento all’ocursus spinoziano, dato che l’uomo -oggi più che mai- è un essere immerso nel divenire, o meglio, in un continuo contatto con realtà a lui esterne, con materialità differenti, le quali lo calano in un flusso di dispiegamento di variopinte combinazioni. La sua esistenza, il suo esserci è costituito dal combinarsi con altri corpi fino a giungere all’incorporazione, all’incarnazione di quest’ultimi. Qui la materia si slarga facendosi incontro, ocursus, fino a giungere all’essenza dell’azione, ovvero, al contatto. Ma, è bene mettere in evidenza il fatto che l’ibridazione umana non trae determinazione solo dal contatto con la tecnica: prima di subire l’incarnazione di un corpo estraneo e artificiale, l’individuo ha già in sé componenti psichiche e modelli relazionali riferibili addirittura alla figura di un cyborg. Ognuno di noi, infatti, si relaziona con intelligenze artificiali, vive e condivide con esse una dimensione psichica. Tuttavia, la vera e propria ibridazione non può essere considerata completa, fino a quando i due “corpi” -naturale e artificiale- non giungono ad una condizione di tocco, di contatto, aprendosi, così, alla vita sensibile. Paradossalmente, l’uomo contemporaneo raggiunge e sente il suo essere corpo proprio nel momento in cui si compone con la macchina con cui entra in contatto. Ogni corpo, infatti, «non è altro che una composizione frutto di un rapporto specifico di movimento e riposo complesso al punto da continuare nonostante tutto a sussistere attraverso i cambiamenti che ne affettano le parti».6 Importante risulta essere proprio il concetto spinoziano di affectio, ossia, di quella condizione che genera l’azione di un corpo su un altro corpo. L’affezione, dunque, è composizione dei corpi, combinazione di un corpo con un altro corpo, e la capacità di essere affetti determina la potenzialità di un corpo, il quale essendo in una dimensione di continuo rapporto, di infinite combinazioni, può, tuttavia, imbattersi in cattivi incontri o in incontri benevoli. Il cattivo incontro è ciò che danneggia, ciò che mina la capacità di un corpo di essere affetto, e la stessa ibridazione, incorporazione e incarnazione costituiscono le basi preliminari per la conoscenza di quel corpo esteriore, diverso, entrato in contatto col mio. In tal senso, un qualsiasi elemento artificiale, capace di tenere in vita un soggetto, non può dirsi definitivamente scoperto fino a quando non se ne conoscono tutte le affezioni che esso provoca, che produce sul corpo umano. Può accadere, infatti, che lo strumento artificiale inizialmente si componga perfettamente con la biologicità del corpo, determinando un’affezione positiva. Ma, lo stesso artificio, capace di tenere in vita un individuo, può entrare in una dimensione negativa dell’ocursus, in un incontro che disgrega l’intera composizione corporea, portando alla morte. Un tocco, dunque, che si rivela letale.7
Così, la conoscenza integrale di ogni nuova tecnologia si può ottenere proprio attraverso l’affezione che esso produce sul singolo. Ciò sta a significare che lo stesso uomo, il quale si determina come ingegnoso artefice, giunge a completa conoscenza del suo artificio solo nel momento in cui quest’ultimo si compone con la biologicità del proprio corpo, la quale si configura come principio di movimento e quiete, come primordiale combinazione.
Inoltre, l’ocursus è un concetto che si innesta su quello di conatus, ovvero, su quello spinoziano sforzo per esistere che è tendere verso l’interpretazione del mondo e verso l’azione dell’uomo sul mondo, la quale si sostituisce alla stessa natura. Proprio l’interpretazione mette al centro di tutto l’uomo, l’io come fondamento del sapere, diverso dall’io cartesiano e aderente all’io nietzschiano. Se, infatti, per Cartesio il cogito ergo sum viene ad assurgere a completa trasposizione di un io definito e stabile nel reale, per Nietzsche, l’io è io provvisorio, lanciato a mutare la propria connotazione. Un io in continuo mutamento che è il nostro istinto, la nostra volontà di potenza,8 alla quale Nietzsche ha dato una ben precisa collocazione esistenziale e filosofica: l’essenza della vita umana.
La realtà, dunque, si presenta come interpretazione avente per variabili i nostri istinti, i nostri bisogni. Non esiste un io strutturato. Tutto vaga in una sorta di relativismo assoluto che va sempre interpretato in relazione all’individuo stesso. Ogni individuo è punto di riferimento e origine di valori, in quanto esprime una prospettiva particolare del mondo. Non vi è un significato univoco e oggettivo del mondo, viene introdotta una molteplicità di significati che hanno il loro centro nei singoli individui, intesi e definiti come centri di forza indipendenti.
Del resto, la volontà di potenza si riferisce anche alla conoscenza che deve necessariamente essere ricondotta ad un conoscere prospettico, ed è perciò produzione e creazione continua.9
La volontà di potenza è recupero dell’uomo della sua facoltà di avere in proprio potere la sua stessa esistenza. Per questo individuo, il superuomo, la volontà di potenza sono dare al mondo i propri significati ed esprimere nel mondo se stesso, dato che, «ogni signoreggiare, ogni dominare è un reinterpretare nel senso che una volontà di potenza ha imposto la sua signoria su qualcosa di meno potente e gli ha impresso, sulla base del proprio arbitrio, il senso di una funzione. L’intera storia di una “cosa”, di un organo, di un uso può essere in tal modo un’ininterrotta catena di segni che accenna a sempre nuove interpretazioni e riassestamenti».10
Perciò, potremmo sostenere che Nietzsche è un nichilista attivo, in quanto non ha niente, non crede in niente ma comprende che deve istituire il tempo e tracciare la vita.11 Questi sono i due unici pilastri sui quali si fonda la volontà di potenza, l’essenza umana. Questo è il superuomo che si fa tutt’uno con la teoria dell’eterno ritorno. Tutto torna. Se ogni individuo concepisce il tempo come forma già data e intende il suo scandire in: «così è stato, così è e così sarà», il superuomo dirà, invece, «volli che fu, voglio che sia, vorrò che sia». Il superuomo non subisce il tempo, ma lo istituisce, lo plasma tramite il suo potere. Dovremmo immaginare una sorta di omogenea tela sulla quale si ordisce la trama di tre concetti estremamente connessi tra di loro: l’eterno ritorno, il superuomo, la volontà di potenza. La volontà di potenza entra in relazione col fatto che l’individuo si impone alla sua stessa vita, decidendo tutto ciò che deve essere fatto. Il superuomo non è il profeta, non è colui che si impone al mondo. E’, viceversa, colui che è libero. Libero di forgiare la sua esistenza scegliendo tra le tante possibilità. Da qui, infatti, la teoria dell’eterno ritorno che è accettazione che tutto torni, poiché ogni attimo della mia esistenza è frutto di un mio libero potere di scelta. Il tempo non è più orizzontale, bensì, circolare, figlio della volontà di potenza, la quale, insieme al conatus spinoziano, costituisce un rapporto di forza da cui ne deriva l’essenza delle cose.
Il conatus, dunque, è proprio lo sforzo,12 la forza di un corpo che costruisce la cosa, determinandola.
Ma, a differenza della filosofia nietzschiana, Spinoza non ammette l’eterno ritorno poiché ad esso si contrappone l’irripetibilità dei rapporti, delle composizioni nella natura che egli caratterizza come infinita e come rispondente a specifiche leggi espresse dalla rivelazione divina, nozione questa che sfocia nel deus sive natura.^[13] Natura che diviene «totalità infinita frutto dell’effettuazione di tutti i rapporti possibili e dunque necessari: l’identità assoluta del possibile e del necessario».13 Nella dimensione dell’ocursus dell’incontro tra corpi, si assiste ad un’altalenante contingenza di composizione e decomposizione, di affezioni positive e negative, del tutto assenti nella natura infinita, la quale si caratterizza per avere -solo ed esclusivamente- composizioni. Essa si compone all’infinito, e lo stesso corpo, determinandosi come infinito processo di composizione seguirebbe proprio quella possibilità e necessità naturale, offuscata nel momento in cui il singolo si sottrae all’infinito naturale per entrare nel finito parziale dove subisce decomposizioni nutrite da «cattivi incontri». Pertanto, proprio nella realtà attuale l’uomo giunge in una situazione di contatto che lo estrapola da quell’essere infinita composizione e lo apre alla decomposizione, o meglio, al male. E lo stesso uomo dovrebbe giungere a conoscenza delle specifiche e immutabili leggi della natura che più che dominata andrebbe svelata e imitata, dato che quest’ultime non sono altro che «composizioni fisiche e rapporti tra corpi», concetto questo essenziale per ricongiungere l’uomo con se stesso, con la propria fisicità. Del resto, «una legge è interpretata come un ordine quando non la si comprende. Dio non ha assolutamente proibito nulla ad Adamo, spiega Spinoza, gli ha composto un rapporto che avrebbe distrutto il suo rapporto costitutivo: una semplice legge di natura, esattamente come abbiamo visto accadere nel caso dell’arsenico. Ma Adamo ottusamente pensò che questo fosse un interdetto di Dio, non una legge».14
3. Iron Man: incontro di corpo e artificio
Iron Man — supereroe che affonda le sue radici nel 1963, quando Stan Lee e Larry Lieber creano un personaggio dei fumetti per la Marvel — ritorna nella contemporaneità divenendo un mito dei nostri tempi, poiché racchiude in sé valenze simboliche attraverso le quali poter comprendere e decodificare sia la capacità mitopoietica del nostro immaginario collettivo, che la possibilità data dalla contingenza storica in cui ci troviamo a vivere, di far emergere archetipi che nutrono l’inconscio collettivo. Non a caso il mito di Iron Man -facendosi film- viene proposto nelle sale cinematografiche nel 2008 e, successivamente, nel 2010 dal regista Jon Favreau,15 il quale mette in scena le vicende del milionario Tony Stark: il futuro Iron Man che, tuttavia, ancor prima dell’innesto di elementi artificiali sul e nel corpo, vive la propria esistenza come un cyborg,16 o meglio, come un «soggetto tecnosensibile»,17 il quale condivide la propria quotidianità con un’intelligenza artefatta, che «a sua volta si sforza in ogni modo di imitare la naturalità del pensiero e del comportamento» umani, in un ambiente che è, oramai, «ecotecnia», in cui «l’oggetto primario» della tecnica «non sono più tanto le concrete prestazioni di cui l’uomo è capace, quanto le facoltà in se stesse, che presiedono a queste realizzazioni».18
La figura di Iron Man, dunque, si presenta molto complessa e articolata, poiché in essa converge una vera e propria stratificazione di elementi che possono essere definiti sia come gli attributi della società contemporanea, e sia come le determinazioni generalissime del rapporto sussistente tra macchina e corpo, tra tecnica e vita umana. Filo conduttore della vicenda di Iron Man è sicuramente la trasformazione, il transito, il passaggio, ma anche, il tocco, il contatto, l’incontro, ossia, quello spinoziano ocursus. Sin dalle prime scene Tony Stark appare come un personaggio in divenire, o meglio, in continuo contatto con realtà a lui esterne, con materialità differenti, le quali lo calano in un flusso di dispiegamento di variopinte combinazioni. La sua esistenza, il suo esserci è costituito dal combinarsi con altri corpi fino a giungere all’ incorporazione, all’incarnazione di quest’ultimi. Qui la materia si slarga facendosi incontro, ocursus, fino a giungere all’essenza dell’azione, ovvero, al contatto. Prima di subire l’incarnazione di un corpo estraneo e artificiale, Tony Stark ha già in sé componenti psichiche e modelli relazionali riferibili alla figura di cyborg, egli, infatti, si relaziona con un’ intelligenza artificiale, vive con essa. Ma, la sua ibridazione non può essere considerata completa, dato che questi due “corpi” non giungono ad una condizione di tocco, di contatto, chiudendosi, così, alla vita sensibile. Paradossalmente, Tony Stark raggiunge e sente il suo essere corpo proprio nel momento in cui si compone con la macchina che entra in contatto col suo corpo.
Ma, al fine di comprendere al meglio la figura simbolica di Iron Man è necessario fare un breve riferimento alla vicenda che lo attraversa. Tony Stark -colui che costruendo e indossando un’armatura diviene Iron Man- inizia la sua avventura e -essendo erede e capo di grandi industrie americane di armi da guerra-, è chiamato in Afghanistan per testare nuove armi da lui stesso create. Ma, durante questa ordinaria spedizione, Tony viene coinvolto in un’esplosione, che lo colpisce al petto facendo penetrare schegge letali vicino al cuore. Lo scopo di quest’attentato è proprio il suo rapimento. Al risveglio, infatti, lo smodato milionario, scopre di essere prigioniero di un gruppo di terroristi afgani dal nome «I Dieci Anelli», comandato da Raza, il quale pretende che Tony riproduca per lui l’ultima sua grande creazione, ossia, un sofisticato missile, potente strumento di guerra. L’aspetto più interessante di questa vicenda è però costituito da ciò che il corpo di Tony, durante le cure dalle ferite provocate dall’esplosione, è diventato, o meglio, dalla transazione che ha subito da «cyborg psichico» a «cyborg fisico». Egli, infatti, è mantenuto in vita da un elettromagnete collegato ad una batteria per auto, che permette al cuore di funzionare poiché tiene lontane le micro-schegge presenti nel suo petto. Quest’aggeggio, è costruito e impiantato nel suo corpo da un altro prigioniero che sarà suo amico e assistente, il dottor Yinsen. Tony, dunque, comprende bene di essere in un vicolo cieco, poiché una volta costruito il missile avrebbe trovato la morte. Così, si ingegna, crea il «reattore Arc» miniaturizzato, un piccolo gioiellino di avanzata tecnologia che, incarnato nel petto, gli permette di allontanare le schegge dal cuore, e, inoltre, anziché costruire il missile promesso a Raza, progetta un’armatura invincibile per fuggire dalla prigione. Ritornato a casa, nella sua quotidianità, Tony si rinchiude nel suo laboratorio e perfeziona l’armatura robotica alimentata dallo stesso «reattore Arc», divenendo, definitivamente, Iron Man. L’unica presenza umana che Tony accetta intorno a lui è quella della sua fedele assistente Pepper Potts, la quale lo aiuta a sconfiggere uno dei suoi peggiori nemici ma, soprattutto, lo illumina su ciò di cui egli ha più bisogno, ossia, una dimensione umana permeata da un autentico sentimento di terreno amore.
La storia di Tony Stark continua in «Iron Man 2», film che esce nelle sale cinematografiche nel 2010, diretto sempre da Jon Favreau. Qui la vicenda del supereroe contemporaneo si complica di molto poiché ciò che lo mantiene in vita, ovvero, il reattore Arc miniaturizzato, in realtà lo sta uccidendo. Infatti, il palladio ci cui l’artificio è composto si rivela letale per il corpo di Tony Stark, il quale è soggetto ad un crescente avvelenamento. Forti sono le contrapposizioni che emergono già dalla prima scena del film. Da un lato Tony Stark si presenta come lo sfrenato antieroe protagonista del più grande expo della storia organizzato dalle Stark Indutries, dall’altro egli vive con se stesso, o meglio, col suo corpo un vero e proprio dramma, una graduale intossicazione da palladio che lo conduce inevitabilmente alla morte.
Intanto, svelato al mondo la sua identità, il suo essere Iron Man, Tony Stark viene preso di mira dagli Stati Uniti d’America, rappresentati dal senatore Stern, il quale pretende da Tony il segreto tecnologico per la costruzione dell’armatura di Iron Man. Armatura che, per il sistema politico americano, costituisce una vera e propria arma di attacco e di difesa e, di conseguenza, la possibilità di possedere un mezzo, uno strumento di supremazia, di potere sulle altre nazioni.19 Ma, mentre i più grandi centri di potere mondiali si adoperano e si destreggiano per tentare di riprodurre il modello di «arma Iron Man», capace di rendere invincibili, di acquisire potere, dominio, Tony Stark condensa in sé un sentire del tutto differente. La sua armatura è ben più che un’ arma, essa è, come egli stesso commenta in una scena del film, una «protesi ad alta tecnologia», e vendere Iron Man significherebbe vendere se stesso. Tony Stark, dunque, avverte un’endemica unità tra il suo corpo e la macchina, derivante dal fatto che, oltre ad essere una sua creazione, Iron Man rappresenta l’altro da sé, paradossalmente rappresenta il suo essere più autentico. Tony si fa Iron Man per volare al di sopra della sua stessa esistenza. Egli vola di notte, momento in cui può liberarsi da tutto ciò che lo tormenta durante ogni sua giornata, ossia, la solitudine, l’assenza di relazioni fondate su sentimenti autentici. Non dimentichiamo, poi, che la notte è proprio l’immagine della liberazione dell’inconscio, che risulta represso e soffocato dalle dinamiche del quotidiano, dimensione in cui Tony Stark rende evidente il suo ego oramai impazzito, in delirio di onnipotenza. Onnipotenza che ben presto entra in conflitto con l’impotenza di sottrarsi alla morte, con l’ineluttabile destino disegnato dal suo stesso corpo, il quale subisce gli effetti negativi dell’artificio incarnato, che intossica il sangue facendo di ciò che mantiene in vita Tony ciò che contemporaneamente lo uccide. Ma, a voler uccidere Tony Stark non è solo il palladio, bensì, Ivan Vanko, figlio di uno stretto collaboratore del padre di Tony, fondatore delle Stark Industries, il quale dopo aver creato con l’aiuto di Anton Vanko il reattore Arc, lo tradisce. Si apre, così, una lotta tra i due figli dei due inventori dell’artificio al palladio. Tony Stark non è, quindi, l’unico a conoscere il segreto di Iron Man, dato che anche Ivan Vanko custodisce il sapere tecnico ereditato dal padre. Da qui, uno scontro tra l’eroe e l’ antieroe nutrito da un forte sentimento di vendetta. I combattimenti di Iron Man, infatti, si presentano con una connotazione individualistica che tocca alte punte di egoismo, oltre che di egocentrismo. A differenza dei classici supereroi, che si assumono il compito, l’onere di difendere il pianeta come anche i più deboli dai più forti, dai malvagi, Iron Man sembra condurre le sue battaglie soprattutto per motivazioni che si inscrivono nella sua esistenza, circoscrivendosi al suo ego.
E tra le tante vicende, ai fini dell’argomentazione in oggetto, risulta di fondamentale importanza la modalità secondo la quale Tony Stark riesce a sopravvivere. L’avvelenamento da palladio viene contrastato proprio grazie al recupero di alcuni appunti del padre contenenti lo studio di una tecnologia innovativa capace di costruire un nuovo elemento in grado di sostituire il palladio, ossia, ciò che avvelena il corpo di Tony Stark. Un risanamento dunque che proviene da un nuovo Dedalo redento.
E il reattore Arc miniaturizzato, che tiene in vita Tony Stark, non può dirsi definitivamente scoperto fino a quando non se ne conoscono tutte le affezioni che esso provoca, che produce sul corpo. Dapprima, infatti, quest’invenzione al palladio si compone perfettamente col corpo di Tony Stark, determinando un’ affezione positiva. Ma, ben presto, lo stesso artificio, capace di tenere in vita il corpo del protagonista, entra in una dimensione negativa dell’ocursus, in un incontro che disgrega l’intera composizione corporea, portando alla morte. Un tocco, dunque, che si rivela letale.
Così, la conoscenza integrale del reattore Arc miniaturizzato si ottiene proprio attraverso l’affezione che esso produce sul corpo di Iron Man. Ciò sta a significare che lo stesso uomo, il quale si determina come ingegnoso artefice, giunge a completa conoscenza del suo artificio solo nel momento in cui quest’ultimo si compone con la biologicità del proprio corpo, la quale si configura come principio di movimento e quiete, come primordiale combinazione. E le leggi della natura si mostrano proprio sul corpo di Tony Stark sotto forma di una diramazione di vene violacee che simboleggiano l’avvelenamento del palladio presente nel reattore incarnato nel petto di Tony, il quale giunge ad un contatto, ad una situazione di decomposizione più che di composizione con la macchina che ha dentro di sé.
Nella figura di Tony Stark possiamo rintracciare dunque una continua composizione e decomposizione tra corpi in un processo di affezione. E la stessa composizione infinita della natura emerge non solo nel momento in cui Tony comprende che la composizione con quel determinato elemento artificiale sta distruggendo il rapporto primario che caratterizza il suo corpo, ma anche quando per contrastare, o meglio, controbilanciare i sintomi della tossicità del sangue prodotta dal palladio, Tony si idrata con la clorofilla, ossia, con ciò che «contiene» l’energia solare, con ciò che per natura si compone secondo un’affezione positiva col corpo. L’atto del bere la clorofilla potrebbe essere il simbolo di un disperato richiamo alla natura per riabilitare una composizione vitale, un corpo che si può rigenerare con l’incontro benevolo di un elemento naturale quale la clorofilla. Inglobare il naturale per tentare di contrastare l’artificiale attraverso un ricongiungimento con il principio vitale. La clorofilla, infatti, ci riporta a quel processo di fotosintesi delle piante, le quali, grazie a questa sostanza sono in grado di captare la forza dell’elemento igneo, l’energia del sole che è fonte di vita. L’assumere clorofilla sembra, così, un ritorno di Tony Stark ad una sua intima forma di fede e preghiera verso la natura, simboleggiata dalle piante, le quali nella tradizione vedica assumono una funzione medicamentosa proprio perché discendono dal cielo e appartengono agli dei e, per questo, capaci di liberare l’uomo dalla morte, dal male, dal cattivo incontro, come avverte Tony Stark, il quale invoca l’energia, la forza della pianta, o forse, la forza di quel rizoma che simboleggia, oggi più che mai, la nostra vita, creazione attuata, continuo flusso vitale senza inizio ne fine «dove prolungare artificialmente la vita significa allora mutar pelle, dunque sentire altrimenti». E «di questa metamorfosi, per ora, possediamo solo un debole indizio i cui esiti non sono affatto scontati».20
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A. Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano, 2008, p. 139. ↩︎
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G. Buccini, Un’armatura corazzata per i marines, in «Corriere.it », 2001. ↩︎
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P. C. Fraschini, La metamorfosi nel corpo, Mimesis, Milano, 2002, p. 128. ↩︎
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P. Bellini, Il cyborg, una nuova mitopia tecnologica, in «Pedagogika», anno XIV, n. 4, 2010, p. 45. ↩︎
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Idem, Tra mito e logos: Il concetto di Mitopia e la civiltà tecnologica post-moderna in «Metabasis» n. 8, anno IV, 2009, p. 9. ↩︎
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G. Deleuze, Cosa può un corpo?, Ombre corte, Verona, 2010, p. 52. ↩︎
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E. Palese, Da Icaro a Iron Man. Il corpo nell’era del post-umano, Mimesis, Milano, 2011, pp. 82-88. ↩︎
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«Che cos’è buono? -Tutto ciò che eleva il senso della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa dell’uomo. Che cos’è cattivo? Tutto ciò che ha origine dalla debolezza. Che cos’è felicità?-Sentire che la potenza sta crescendo, che una resistenza viene superata. Non appagamento, ma maggior potenza, non pace sovra ogni altra cosa, ma guerra; non virtù, ma gagliardia. I deboli e i mal riusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve anche essere loro d’aiuto. Che cos’è più dannoso di qualsiasi altro vizio?- Agire pietosamente verso tutti i malriusciti e i deboli- il cristianesimo. ?…?. Il problema che io pongo qui non riguarda il posto che l’umanità deve prendere nella serie successive degli esseri: bensì quale tipo umano deve essere allevato, deve essere voluto, in quanto tipo di superiore valore, più degno di vivere, più certo dell’avvenire. Questo tipo di superiore valore è già esistito abbastanza spesso: come caso fortunato, però, come eccezione; mai come qualcosa di voluto. E’ stato proprio questo invece ad essere particolarmente temuto, esso è stato fino a oggi quasi la cosa terribile, e prendendo le mosse dal timore è stato voluto, allevato, raggiunto il tipo opposto: l’animale domestico, l’animale d’armento, l’uomo come animale malato, il cristiano. ?…?». F. Nietzsche, L’anticristo, in G. Colli, M. Montanari, Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano, 1977, vol. VI, tomo III, pp. 168-69. ↩︎
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«D’ora innanzi guardiamoci meglio infatti, i signori filosofi, dal pericoloso, antico favoreggiamento concettuale, che ha impiantato un puro, senza volontà, senza dolore, atemporale soggetto della conoscenza, guardiamoci dalle prensili braccia di tali concetti contraddittori come pura ragione, assoluta spiritualità, conoscenza in sé; qui si pretende sempre di pensare un occhio che non può affatto venir pensato, un occhio che non deve avere assolutamente direzione, in cui devono essere troncate, devono mancare le forze attive e interpretative, mediante le quali soltanto vedere diventa vedere qualcosa: qui dunque viene sempre preteso un controsenso e non un non-concetto di occhio. Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un conoscere prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stesa cosa, tanto più completo sarà il nostro concetto di essa, la nostra obiettività. Ma eliminare in genere la volontà, sospendere tutte quante le passioni, ammesso che di questo fossimo capaci: come? Non significherebbe castrare l’intelletto? ?…?». F. Nietzsche, Genealogia della morale, in G. Colli, M. Montinari, Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., vol. VI, tomo II, pp. 101-102. ↩︎
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U. Galimberti, Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica, op. cit., p. 243. ↩︎
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F. Nietzsche, Frammenti postumi, in G. Colli, M. Montinari, Opere di Friedrich Nietzsche, op. cit., vol. VIII, II, p. 17. ↩︎
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Lo sforzo viene accentuato da Ravaisson, il quale vede il tatto come esemplificazione della valorizzazione dinamica dello sforzo, reso come luogo medio della coscienza personale. Per Ravaisson, lo sforzo è punto di equilibrio tra le dinamiche spirituali e materiali dell’individuo. Unisce attività volontaria della coscienza e passività materiale della corporeità, entrambe convergenti nel senso del tatto. Il moto volontario si trasforma in inclinazione e stimolo della volontà libera che rivela una possibilità da realizzare, un’idea che si fa realtà. Spesso tale dinamismo sfocia nell’abitudine che non è puro meccanicismo ma, idea sostanziale, concrezione dell’intelligenza e dello spirito. La volontà percorre una sorta di tragitto nel momento in cui si avvicina all’oggetto per poi farlo immediatamente proprio. Tragitto che è movimento tendenziale della volontà che si fa abitudine, inclinazione individuale producente molteplici stati organizzati. L’abitudine è, così, riflesso dell’attività motrice della coscienza. Essa pone il suo influsso in tute le potenze che si estendono dalla volontà all’istinto. Ogni movimento naturale, ogni meccanicismo è dato dall’estensione della volontà che si tramuta in abitudine. «L’Abitudine è dunque, per così dire, la differenziale infinitesimale, o, ancora, il fluire dinamico della Volontà verso la Natura. La natura è il limite del movimento di decrescenza dell’abitudine ?…?» . La coscienza, dunque, è volontà, possibilità, azione creatrice del mondo morale, religioso e sociale. J.G.F. Ravaisson-Mollien, L’abitudine, Ed. Paoline, Roma, 1960, pp. 63-67. Inoltre si consideri la filosofia di Biran, il quale dirà: «…noi sentiamo ogni giorno, in ogni momento della nostra vita, che abbiamo la potenza di fermare, di fissare la nostra attenzione su un oggetto, di spostarla su un altro; per tal mezzo, riteniamo certe idee nel nostro spirito, diamo loro maggior intensità, ne aumentiamo il potere, da questo potere, quale che ne sia la causa, quale che ne sia la sorgente, dipende la facoltà mediante la quale incliniamo a certe azioni più che a certe altre. ?…? Che m’importa di indagare se l’anima si determina da se stessa o mediante cause ad essa estranee; mi basta, non dico sapere, ma sentire che posso ordinariamente e nel mio stato abituale, modificare tali diverse determinazioni, conferendo loro maggiore o minore intensità, applicando un principio che è in mio potere. Se si nega ch’io sia padrone dell’applicazione del mio spirito, risponderò che lo sono e tanto mi basta». L’idea di libertà è il sentimento stesso del nostro potere di agire. Essa così come la forza, la sostanza, l’identità, la causa, l’unità, deriva dalla coscienza. In questa realtà dinamica lo sforzo volontario contiene in sé la possibilità della conoscenza e, dunque, la realtà del soggetto; di contro, la materia che resiste è oggettivazione del corpo e della possibilità del rapporto col mondo esterno. M. F. P. G. Biran, Diario intimo, in Grande antologia filosofica, op. cit. vol. XIX, pp. 350-51. ↩︎
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G. Deleuze, Cosa può un corpo, op. cit., p. 107. ↩︎
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G. Deleuze, Cosa può un corpo, op. cit., p. 107. ↩︎
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J. Favreau, Iron Man, Marvel Studios, Paramount Pictures, USA, 2008; J. Favreau, Iron Man 2, Marvel Studios, Paramount Pictures, USA, 2010. ↩︎
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Sul cyborg si veda: U. Fadini, La vita eccentrica, Dedalo, Bari, 2009, pp. 37-49; A. Caronia, Il cyborg: saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano, 2008; R. Braidotti, Madri, mostri e macchine, Manifestolibri, Roma, 2005, p. 132; C. H. Gray, Cyborg citizen: politics in the posthuman age, Routledge, New York, 2001; V. Tagliasco, Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali, Mondadori, Milano, 1999, p. 156; D. J. Haraway, Manifesto cyborg, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1995; T. Villani, Athena cyborg, Mimesis, Milano, 1995. ↩︎
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P. Bellini, Cyberfilosofia del potere, Mimesis, Milano, 2006, p. 126. ↩︎
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M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 9. ↩︎
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Da qui traspare la politica di potenza delle nazioni che è politica di forza, o meglio relazione basata sul potere determinato dal possesso di armi. Armi, forza, potenza costituiscono gli elementi attraverso i quali una nazione domina su un’altra. Ciò può essere ben compreso prendendo in considerazione Tucidide, il quale nel raccontare l’ascesa di Atene e l’inevitabile scontro con Sparta, mette in luce i fatti politico militari attraverso un’attenta analisi delle prime regole generalissime della convivenza tra stati,o meglio, tra città-stato, e del loro modo di stare sullo scenario politico interno ed esterno alla polis. Parametro del potere è la forza, la quale determina le modalità dialettiche tra gli enti messi a confronto. Nel momento del suo scritto Tucidide aveva già compreso che la guerra tra Sparta ed Atene sarebbe stata una guerra memorabile e di dimensioni del tutto diverse rispetto alle precedenti. Ciò emergeva dal fatto che entrambi i popoli affrontavano la loro guerra mentre erano al culmine delle forze. Entrambi avrebbero combattuto per l’affermazione della loro identità, della loro capacità, del loro potere. Il combattimento è frutto di un’ingiustizia “internazionale”. L’ingiustizia internazionale assurge ad avere un significato completamente differente da come noi oggi la intendiamo soprattutto nell’ambito morale. Secondo Tucidide, infatti, la giustizia politica è proprio la capacità ed il dovere di ogni stato di stare al proprio posto, nello status a lui consono, secondo le proprie forze. La disuguaglianza delle forze è disuguaglianza naturale e criterio di giustizia. Ognuno deve avere forza differente rispetto all’altro soggetto politico e comprendere il modo e lo spazio del suo posizionarsi nel sistema internazionale. Nel momento in cui due nazioni si trovano in una condizione di parallela forza e di uguaglianza sorge la situazione internazionale ingiusta e la conseguente lotta per la conquista della propria collocazione. Così come l’uomo, anche le nazioni sono diseguali tra di loro in termini di forza e di capacità di dominare gli altri e difendere se stessi. Proprio partendo da tali presupposti, Tucidide distingue nelle sue opere le “ragioni ufficiali” dalla “causa più vera”. Ragione ufficiale del turbamento della pace tra Atene e Sparta è, infatti, la presenza di piccoli incidenti ma la causa più vera si riferisce alla crescita della potenza di Atene che allarmava Sparta e conduceva,dunque, ad un sistema esterno insicuro e instabile. Pertanto la guerra risultava inevitabile per assestare la sistematica convivenza tra città-stato. Se la forza determina il conflitto, la potenza si identifica con lo Stato. Ogni stato diviene, infatti, testimone della sua potenza. Così la politica che questo stesso conduce è pressoché politica di potenza. AA.VV., Il telaio di Elena, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 226; L. Canfora, Tucidide e l’impero, Bari, Laterza, 1992, pp. 16-20. ↩︎
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G. Deleuze, Felicità nel divenire. Nomadismo, una vita, Mimesis, Milano, 1996, p. 63. ↩︎