Editoriale: Potere, potenza, possesso

Solo quattro anni fa, nel 2017, in occasione di un convegno nazionale dell’Associazione italiana docenti di filosofia, svoltosi a Cividale del Friuli nel 2015 su Filosofi nella grande guerra per il centenario, scrivevo un saggio dal titolo «Dalla Metafisica della totalità al Principio solidarietà. Pensare la pace con Eric Weil ed Emmanuel Levinas».1 Tra quel testo e la immane tragedia dell’assolutamente ingiustificata invasione russa nei confronti dell’Ucraina che stiamo vivendo in questi giorni sembra passata un’era. Non so se è azzardato affermare che questa guerra è il vero ingresso nel XXI secolo dopo le molte guerre locali in cui le cosiddette grandi potenze si sono confrontate a distanza. Da filosofi, e questo è l’editoriale di una rivista accademica che nel suo titolo porta l’enunciato del dialogo, dovremmo riprendere a “pensare la guerra” come possibilità concreta e vicina. Il dialogo è il grande strumento che la filosofia ha ”inventato” per trovare soluzioni non violente alle situazioni di conflitto. Il conflitto appartiene ontologicamente all’umano che però deve diventare capace di gestirlo con l’esercizio della sua ragionevolezza. Riprendo le pagine introduttive di quel testo per contribuire a ricercare un senso, che non esiste. Non è tuttavia inutile.

«Lo sfondo, – scrivevo allora –, l’orizzonte di significato, su cui si situa la mia riflessione è quello più generale dell’alternativa-compito “pensare la guerra-costruire la pace» e al di là delle intenzioni programmatiche sottese al titolo è difficile ricondurre in un breve spazio la molteplicità delle questioni.2 L’occasione immediata, il centenario della prima guerra mondiale, costringe a rivolgere lo sguardo all’indietro, ma prima di arrivare al centenario, sul cammino a ritroso, si incontra qualcosa di ancora più tragico che è il secondo conflitto mondiale con il suo carico devastante di ideologia di distruzione che ha manifestato il lato più tragico della capacità di compiere il male posseduta dall’uomo. La guerra è un risultato così come pure la pace è un risultato, risultato di idee e di atteggiamenti che se ne nutrono e le realizzano; allora in entrambi i casi dobbiamo riconoscere che la filosofia non ha saputo cogliere e manifestare i presupposti che portano alla guerra o consentono di costruire la pace, non è stata in grado di svolgere adeguatamente la sua opera di reperimento genetico o, per dirla con Platone, di rendere ragione. O forse, in entrambi i casi, esiste una responsabilità diretta della filosofia che non solo non ha saputo essere veramente amore della sapienza, ma ha anche costruito modelli di pensiero che giustificavano la violenza stessa?

Il pensiero della guerra è certamente alternativo a quello che consente di costruire la pace che costituisce il vero compito dell’umano se non vuole degradarsi a meno che umano. Tuttavia, come si diceva, la guerra e la pace sono conseguenze, risultati o approdi di modelli e di atteggiamenti che determinano l’interazione dell’umano; interazione positiva e costruttiva, la pace, oppure di negazione e di distruzione, la guerra. Il XX secolo ha sperimentato nella maniera più radicale la potenza distruttiva della guerra, ma non si può neppure dire che il XXI secolo abbia fatto tesoro di questa negatività. Le forze della distruzione sono più attive che mai. Si insinua una domanda: è l’uomo che non è più capace di esercitare la sua razionalità, di “essere ragionevole” come direbbe Eric Weil? Oppure siamo al punto di svolta di paradigmi di pensiero e di modelli socio-politici la cui conclusione è necessariamente la negazione?

Forse bisogna pensare nuovi modelli di antropologia, più complessi, ma proprio per questo più capaci di dare risposte a situazioni inedite che pongono questioni inedite. Probabilmente la questione più radicale che però ci sfugge è proprio quella dell’uomo diventato incapace di dare una risposta significativa alla domanda essenziale che lo riguarda: «chi sono?». Se lo specchio è, materialmente e metaforicamente, la condizione della consapevolezza della propria identità, lo specchio che gli rimanda la sua immagine è uno specchio frantumato che produce un’immagine frantumata, cioè immagini molteplici senza una totalità. È la percezione della frantumazione del senso, una totalità senza senso che dice anche la crisi della stessa totalità. È l’impossibilità di affermare la propria identità: sono io. Questo io scisso e frammentato costituisce anche la perdita della possibilità relazionale all’alterità. Anche il pensiero della guerra appartiene a questo orizzonte frantumato. La conflittualità che genera la guerra istituisce una particolare correlazione tra ragione, verità e violenza la cui logica interna è una logica ego-nomica che ha strutturato l’umanesimo dell’io.

La caratteristica fondante di questo umanesimo possiamo coglierla all’opera nell’assunzione di una logica ego-nomica che ha generato una grammatica anch’essa ego-nomica. Il segno più manifesto di questa ego-nomia è lo sviluppo di una cultura ego-centrata che per estensione ha dato vita ad una logica del possesso che è all’origine, fino ad oggi, della conflittualità permanente che muove l’Occidente3 e l’intero pianeta nelle sue molteplici configurazioni. Dall’io si genera il mio, nei suoi molti nomi, ognuno dei quali avrebbe bisogno di una trattazione a sé. Si può cominciare con il mio Dio, la mia cultura, la mia terra, il mio patrimonio, i miei soldi, la mia donna e proseguire all’infinito con tutto ciò che può essere indicato come mio e quindi come la solidificazione di un io.

È la difesa del mio di fronte a chi vuole appropriarsene (farlo proprio), o la volontà di espropriare qualcuno che è stata la genesi costante di ogni forma di conflittualità. Se si provasse empiricamente a fare un’indagine storica, quindi non più soltanto della modernità, si troverebbe che il paradigma fondamentale che ha generato guerre e violenza, da sempre e dovunque, è stata sempre una forma di affermazione di un io ipertrofico a discapito di altri. L’opera dell’autoaffermazione, è la forma ego-nomica più evidente, è necessariamente la negazione di chi non è io o mio. Lascio alla fantasia di ciascuno la possibilità di esemplificazione. Qui è sufficiente l’enunciazione del principio, a mio avviso, difficilmente contestabile che l’affermazione dell’io, l’affermazione di sé, a meno che non sia contestualmente riconoscimento dell’altro, è, per definizione, negazione dell’altro, genesi della violenza nelle sue molteplici forme. Si può dare un’altra formula, forse meno politically correct, ma più vera nella sua brutalità, per cogliere la genesi di ogni guerra: Il potere genera potenza che genera possesso che aumenta il potere che aumenta la volontà di potenza e la volontà di possesso. La ricorsività di queste tre P segna in maniera tragica, ma paradigmatica, la plurimillenaria storia dell’uomo sulla terra.

È urgente abbandonare questo umanesimo soprattutto perché è ad esso che dobbiamo lo sconquasso attuale a livello socio-economico, non meno che politico e infine etico-antropologico. La volontà di potenza come volontà di dominio ha reso cieco l’uomo e, soprattutto, non gli consente più una convivenza pacificata nell’interumano e nell’ambiente. La conflittualità manifesta che la guerra, pur facendo parte essenzialmente della storia dell’umano, è in realtà contro l’umano. Pensare la guerra infatti equivale a pensare la negazione come autoaffermazione escludente. Inversamente, pensare la pace significherà proporre un’autoaffermazione includente in cui c’è posto per le categorie del riconoscimento e della prossimità, categorie fondamentali della solidarietà. Come uscire da questo umanesimo esasperato dell’io? Soltanto attraverso una diversa modalità di pensare lo stesso io che, tuttavia, non coincide con diverse modalità di pensare il soggetto. Uscire dalla logica della totalità significherà inaugurare la grammatica della pluralità.”

Rileggendo queste note mi sembra, senza presunzione, di poter affermare cha hanno ancora oggi di fronte alla nuova situazione una loro capacità di provocazione. Questo conflitto ha messo, e sta mettendo, in luce tutte le contraddizioni in cui si dibatte l’umanità di oggi. In primis direi la molla segreta, ma in fondo molto evidente del primato dell’economia e quindi la corsa ad appropriarsi sempre più delle risorse per generare reti di dipendenza e quindi di potere che aumentano il possesso. In questo contesto l’umanità avrebbe bisogno di una vera conversione eco-cosmo-antropologica. In quanto abitanti dello stesso pianeta dovremmo vivere in un’ottica che a volte con retorica chiamiamo di bene comune. Ma non è retorica è espressione di un diritto elementare: le risorse del pianeta sono di/per tutta l’umanità. Invece sono diventate la fonte di accaparramento di pochi e quindi della massima ingiustizia, della violenza. Siamo ospiti sul pianeta Terra che dovremmo restituire a chi ce lo ha dato in prestito, le generazioni future, meno saccheggiato e impoverito.

Ciò che sconcerta è la impressionante capacità distruttiva raggiunta dalle armi sempre più sofisticate frutto dell’immenso investimento nella ricerca bellica. La capacità, non solo distruttiva, ma auodistruttiva umana ha raggiunto livelli assolutamente impensabili fino a qualche decennio fa. Le armi hanno solo una funzione e si costruiscono solo per questo: uccidere e distruggere. Questa è forse la più grande follia che l’uomo ha coltivato con maggiore pervicacia, guidato dalle tre P che dicevo. Se nei nostri laboratori si fossero fatti altri tipi ricerche, per es. di carattere sanitario, o educativo, avremmo un’umanità meno squilibrata. Le armi hanno una forza di deterrenza, così si dice che mantiene la pace. Einstein a mo’ di battuta ci ha lasciato in proposito, una verità fulminante: «L’uomo ha scoperto la bomba atomica, però nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi». È noto che il grande fisico aveva una soluzione radicale che io condivido fino in fondo: basta armi! Finché si costruiranno armi ci saranno guerre.

Ma la pace non è questa, non si può costruire sulla paura che genera semplicemente odio. Una guerra genera distruzione, risentimenti, conflitti tra i popoli che si prolungano nel tempo. Ciò che stiamo vedendo nelle tragiche immagini che la tecnologia ci mette a disposizione è un processo di imbarbarimento progressivo in cui di umano non è rimasto più nulla. La totale assenza del principio del riconoscimento dell’umano rende i comportamenti bestiali. L’odio accieca e cosifica l’umano. La violenza gratuita e indiscriminata su bambini e innocenti è insopportabile e ingiustificabile. Che tutto ciò stia avvenendo tra nazioni che hanno espresso nei secoli altissimi valori culturali, dice anche la terribile fragilità dell’abitante della Terra che nella sua miopia preferisce guardare in basso per difendere il suo piccolo campo, dimenticando che la prospettiva migliore si ha se guarda in alto e dall’alto.


  1. Gli atti del convegno sono stati pubblicati sul n. 99 (aprile-giugno 2017) della rivista «Per la filosofia». ↩︎

  2. Era questo il titolo della sezione proposto dagli organizzatori del Convegno: «Il pensiero e la crisi. Filosofia e primo conflitto mondiale». ↩︎

  3. Tuttavia, se accettiamo la provocazione del filosofo sociologo francese Serge Latouche che parla di «occidentalizzazione del mondo», la questione non riguarda più ormai soltanto l’Occidente. ↩︎