Merito indiscusso di Zygmunt Bauman è di aver individuato nell’aggettivo liquido un elemento qualificante della modernità-contemporaneità. Vale la pena anche semplicemente annotare i molti contesti in cui egli ha usato questo aggettivo: Modernità liquida, Amore liquido, Vita liquida, Tempi liquidi. Vivere nel tempo dell’incertezza, Paura liquida, La cultura in un mondo moderno liquido… Il sociologo ha registrato quanto è in essere nella nostra quotidianità. Questa stessa quotidianità dovrebbe però interpellare anche il filosofo, se non altro per tentare di darle un senso o per coglierne la genesi. Al contrario la filosofia sembra sempre più assente nell’assolvimento del suo compito che fin da Platone è quello di rendere conto dell’essenza delle cose, ma non soltanto a cose fatte, come voleva Hegel. Se compito del filosofo è pensare la vita, ciò può accadere esclusivamente non abbandonando la vita. Certamente la provocazione di Bauman non è l’unica ottica con cui si può accedere alla contemporaneità, ma consente di penetrare in un tessuto che mostra indubbiamente delle peculiarità.
Proviamo a partire dalla lettura filosofica della definizione scientifica di liquido. Nel dizionario Treccani leggiamo: «lìquido agg. e s. m. (f. -a) [dal lat. liquĭdus, der. di liquere “essere liquido”]. Nel linguaggio scient., in contrapp. a solido e aeriforme, detto di un particolare stato di aggregazione della materia (stato l.), caratterizzato dal fatto che un corpo che si trova in tale stato ha volume ben determinato e pressoché invariabile qualunque sia la pressione cui esso è sottoposto, ma non ha una forma propria, e assume perciò quella del recipiente che lo contiene» (corsivo mio). Liquido quindi è ciò che non ha una forma propria, è l’informe che riceve la sua forma da ciò che lo riceve. È ciò che si adatta a tutto, questa sembrerebbe essere la caratteristica più rilevante del liquido. Dal punto di vista antropologico, ma anche etico, un’identità informe che riceve e mantiene la propria forma da un’identità estranea pone non pochi problemi. Ci si potrebbe chiedere se l’informe non possa anche essere o almeno divenire de-forme.
Fuori dalla metafora quindi, la liquidità significa la scomparsa dell’identità e quindi di tutta la vasta gamma semantica che intorno all’identità ruota. Identità non equivale a rigidità e quindi a staticità, fissità, immodificabilità, ma piuttosto a plasticità, dove però la struttura formante è nell’identità stessa che si compie secondo un progetto identificativo intrinseco costantemente in dialogo con l’esterno. Dal punto di vista antropologico l’identità rimanda a una consistenza che costituisce anche l’esemplarità irriducibile di ogni identità. Paradossalmente, l’assenza di identità, la liquefazione delle identità e la nascita di identità forti demagogiche che assumono il ruolo e la funzione di contenitori capaci di formare (o deformare) le stesse identità liquide marciano di pari passo. La massa è forse uno degli esempi più illuminanti della liquefazione dell’identità. E difficilmente si può contestare che oggi siamo dentro uno dei momenti di maggiore massificazione che l’umanità abbia vissuti, nonostante l’apparenza di un narcisismo anarchico. Altrettanto incontestabile mi sembra la spinta demagogica che struttura la nostra cultura e la nostra società. Questi fenomeni manifestano una più radicale crisi dell’umano, una messa in questione della visione umanistica che non si traduce solo in antropocentrismo, oggi messo sotto accusa, ma anche in una cultura dei diritti che rende tutti gli esseri umani di pari dignità. Come già insegnava Kant, ma anche molti altri prima e dopo di lui, ogni essere umano per la sua dignità vuole essere riconosciuto per sé stesso: forse negli ultimi tempi è proprio la logica e quindi l’etica del riconoscimento che è messa in questione, se non al livello teoretico, certamente a quello pratico, fattuale. Per questo identità e dignità sono due termini che si richiamano reciprocamente, si nutrono l’uno dell’altro; non c’è una cultura, una società, un’economia che possa vantare una dignità maggiore di un’altra. Sono gli esseri umani che hanno tutti la stessa dignità e che quindi esigono lo stesso riconoscimento. È per questo che oggi c’è bisogno della filosofia, per fare memoria di questi valori fondativi, per proporre modelli di pensiero che forniscano risposte più adeguate al nostro tempo della frammentazione.
Queste riflessioni nascono dalla semplice osservazione della nostra situazione contraddistinta da una crescente incapacità di allargare gli orizzonti del proprio sguardo al di là dell’immediato, del contingente, dell’interesse particolare. Infatti, il particolare momento storico che stiamo attraversando a livello planetario, ed europeo in particolare, che vede grandi masse di esseri umani che si spostano da una nazione all’altra e da un continente all’altro, in fuga da guerre o da regimi dittatoriali, alla ricerca di condizioni di vita più umane, pone in primo piano la questione dei movimenti migratori con un’urgenza particolare nella molteplicità e varietà dei suoi aspetti. Questi movimenti appaiono come flussi – così anche si chiamano – incontenibili che sconvolgono i canoni antropologici, politici, socio-economici, etici, religiosi che costituiscono gli elementi identitari di ogni forma di società. L’Europa e le nazioni europee si interrogano, preoccupate, sulla salvaguardia della propria identità, sui rischi derivanti da processi di meticciamento. Tuttavia la genesi di questi flussi non è propriamente una forma di nomadismo, quanto piuttosto la conseguenza di squilibri socio-economici, politici e, paradossalmente, religiosi, che mettono in questione i canoni su cui l’Occidente, ma ormai non solo esso, ha costruito le proprie strutture giuridiche e socio-politiche e reclamano come risposta nuove forme di comportamenti etici, nuove forme di solidarietà. Questi flussi migratori sono al contrario percepiti come un assalto alla nostra civiltà a cui proviamo a rispondere alzando nuovi steccati. La difesa delle identità non può passare solo dalla negazione del diverso. Si è pericolosamente di nuovo innalzata la categoria del nemico e non soltanto in riferimento al flusso dei migranti o dei richiedenti asilo. L’inimicizia genera inimicizia; il nemico non potrà mai diventare un ospite, mentre un ospite considerato nemico può trasformarsi in nemico. «È successo, può ancora succedere» ammoniva Primo Levi e la risorgente ideologia nazista, come negazione di una memoria ancora viva e sanguinante, ci dovrebbe preoccupare non poco, proprio in quanto filosofi. La guerra sempre più pericolosamente appare l’alternativa per risolvere contese che hanno origini spesso discutibili nella loro validità. Forse la categoria antropologica più messa in questione in questa prospettiva è quella di relazione, interpersonale e tra i popoli. E su questo fronte il filosofo ha veramente la responsabilità di riaffermare il primato della relazione che genera identità nella differenza, ma anche capacità di dialogare tra differenti che rimangono differenti senza negarsi reciprocamente.
È questa anche la condizione, a mio avviso, per riproporre il senso della democrazia, ormai a livello planetario, anche come attenzione, rispetto e difesa delle differenze. Ricominciare dal pluralismo significa mettersi nell’ottica del bene comune per tutti e quindi costruire istituzioni che riescano a ridare senso all’umano. Forse potrebbe essere sufficiente riprendere in mano la dichiarazione dei diritti umani del 1948, quasi una carta etica, un nomos, sottoscritto dalla quasi totalità degli stati e di cui a dicembre prossimo celebreremo il 70º anniversario, per ritrovare un senso di marcia meno traumatico e traumatizzante. Mi limito a riportare il preambolo e il primo articolo che hanno una fortissima valenza filosofico antropologica.
Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;
Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo;
Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione;
Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;
Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà;
Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali;
Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;
L’Assemblea Generale proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.
Articolo 1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Ciò accadeva solo settanta anni fa, ma era un altro secolo e un altro millennio…