Editoriale: Ripensare l’umano

Tra la violenza che agita la vita e la tranquillità delle nostre aule universitarie si è stabilita una distanza abissale che interpella in modo sempre più angosciante la nostra coscienza di filosofi. La percezione che siamo di fronte a una delle più drammatiche crisi antropologiche della storia; un punto di svolta, ma di cui non riusciamo a cogliere e a dare le direzioni. Fin dall’inizio la nostra rivista si è proposta come una palestra o, se si vuole, una scena in cui si rappresenta la vita nella concretezza delle sue contraddizioni. E vogliamo farlo con la serietà e il rigore della filosofia, ma non con l’asetticità indifferente dell’Accademia. Oggi siamo interpellanti per difendere ancora l’uomo dalla barbarie montante su fronti diversi. Pensare l’umano! Ripensare l’umano! E pensarlo ancora. Con l’accortezza che il disumano può ammantarsi anche di presunta civiltà. Infatti, abbiamo smarrito le coordinate di senso che rendono un percorso percorribile e non un tracciato che fa paura. Quali sono i parametri che misurano una civiltà e il suo grado di umanità? Una bella domanda, ma anche inquietante.

Le religioni sono tornate ad essere strumento di morte, contraddicendo la natura fondamentale del loro stesso essere. Ciò che mi appare come una contraddizione storica è l’esito della stessa idea di monoteismo, la scorciatoia riduttivistica del fondamentalismo che ovunque genera intolleranza e violenza. È urgente ripensare l’uomo nell’ottica di un monoteismo radicale che fa di ogni essere umano un assoluto, unico e intangibile. Nei decenni passati, l’accettazione delle differenze culturali e religiose sembrava una conquista ormai incontrovertibile e definitiva. Oggi sappiamo che non è così. La storia, come storia anche della barbarie possibile, non ha soltanto una direzione progressiva, può anche imboccare la strada del regresso. È la storia della deformazione della libertà in cui l’uomo può essere allo stesso tempo umano, più che umano o disumano. Si è celebrato in molte istituzioni anche laiche il cinquantesimo anniversario della dichiarazione del Concilio Vaticano II, Nostra Aetate, il cui incipit suonava così:

Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce. Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo (corsivi miei).

A distanza di cinquant’anni possiamo ancora sottoscrivere questa spinta unificatrice e questa crescita di interdipendenza nell’umanità? Cinquant’anni fa non c’erano i «social media» che oggi hanno effettivamente unificato l’umanità, ma di quale unità parliamo? Le potenzialità sono enormi, forse mai l’umanità ha avuto a disposizione strumenti così potenti per scoprirsi unitaria e oserei dire, utilizzando un aggettivo tanto abusato quanto inattualizzato, prossima. Sulla «prossimità» in questa nuova dimensione forse non abbiamo ancora riflettuto, al contrario i social possono diventare i luoghi di esibizione dell’inumanità o della disumanizzazione ai diversi gradi. Una prossimità «distante» ha il sapore illusorio di una distanza che si fa prossima rimanendo distante. La rete in molti casi sta manifestando una socialità non relazionale e deresponsabilizzante. Tuttavia, può diventare anche una nuova modalità di inter-esse, di partecipazione alla vita dell’intera umanità. In questa prospettiva il mondo si è fatto veramente piccolo.

Siamo ormai prossimi anche al 70° anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti umani dell’ONU (1948), che magari celebreremo con grande enfasi, la cui traduzione attuale è il più grande tradimento. Le nazioni e i popoli si stanno richiudendo dentro un narcisismo politico-economico escludente e pieno di paura. La Dichiarazione dei diritti umani del 1948, una sorta di carta etica delle nazioni, rischia di essere totalmente rinnegata con conseguenze gravi sui diritti dei singoli e delle società. Le potenti e inarrestabili spinte migratorie derivanti dalla disperazione delle guerre e della fame sono destabilizzanti, ma è comodo, o fa comodo, vedere soltanto la coda di fenomeni in cui l’Occidente è più coinvolto di quanto voglia far credere o riconoscere.

Si sta ridisegnando una nuova mappa geopolitica che sarà il risultato di violenze strumentalmente religiose, ma che invece appartengono a una storia egonomica che nell’economia trova la sua spinta propulsiva, che però non è un’economia del bene comune. Qualche tempo fa pubblicammo sulla nostra rivista la piramide della ricchezza che oggi è ancora più allarmante. Se dieci individui posseggono l’equivalente della ricchezza dei paesi più poveri, significa che abbiamo costruito un mondo disumano, significa che il nomos dell’economia è al di fuori dell’eudaimonia, se non contro, della felicità della polis. L’autoreferenzialità dell’economia che oggi ha il nome metafisico di Mercato genera sempre più povertà, sempre più disumanità.

Se questa descrizione riguarda la macrostoria, è la microstoria che allarma di più, perché è questa che nutre quella. È a questo livello, infatti, che la disumanizzazione si è fatta preoccupante perché riguarda il nostro quotidiano, le nostre relazioni interpersonali, la nostra capacità di riconoscimento e quindi di accettazione delle differenze. È possibile sconfiggere la barbarie soltanto se ognuno la vince dentro di sé. E non si tratta di un’utopia, o peggio di retorica, bensì dell’applicazione della regula aurea, in cui si riconosco tutte le culture umane: Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te o, in positivo, fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. Ciò che è in gioco è il senso dell’umano o, più «utopisticamente», un mondo più umano come reale casa comune. Nella drammaticità del quotidiano e della cronaca, ciò che è in gioco è una società e una cultura più umana o una barbarie che si impone sempre di più.