«Sarete come Dio». Il male come prezzo della libertà

1. Premessa

Il titolo di queste riflessioni è costituito da una citazione biblica dal libro della Genesi (3, 5), e da un’affermazione etico-metafisica che andrebbe ulteriormente argomentata e giustificata. In ogni caso l’orizzonte di senso è l’interrogativo mai sopito e sempre drammaticamente presente sull’origine del male. È nota l’affermazione di Boezio in De consolatione philosophiae: «Si Deus est unde malum? Et si non est, unde bonum?». In tutte le culture e in tutte le religioni, come mostrerebbe facilmente un’indagine fenomenologica, ritroviamo questa domanda radicale sul perché del male. Anche l’asserto che fa derivare il male dalla libertà, solo apparentemente è una risposta soddisfacente, poiché costringe a porre un’ulteriore questione ‘genetica’, la questione dell’origine della libertà. Anche se impiegassimo il linguaggio del Kant della Critica della ragion pratica, secondo cui la libertà è il grande fatto della ragione, ci mancherebbe ancora il ‘fondamento’ della libertà e non è un caso se questa questione come quella del male ha travagliato tutto il cammino del pensiero umano, non solo occidentale. Naturalmente in queste brevi riflessioni non affronteremo tutta la complessità delle questioni, ma mi limiterò a fornire una contestualizzazione filosofica all’affermazione biblica per analizzare poi la ripresa che della prospettiva biblica fanno alcuni filosofi e teologi del Novecento che vedremo più avanti.

Il male, come l’essere, si dice in molti modi, la riflessione filosofica, almeno, ha cercato di dirlo in molti modi: il male metafisico, che in quanto negazione dell’essere si presenta come il nulla; il male ontologico, che ricorda la dimensione della finitezza, del limite, della privazione che costituiscono ogni ente in quanto ente, e che quindi a rigore non si potrebbe neppure definire male; il male fisico, strutturalmente legato a quello ontologico, è l’aspetto di cui facciamo l’esperienza nella sofferenza e nel dolore che ci colpisce nella dimensione corporea; infine il male morale che si collega alla questione della libertà e della possibilità della colpa legata all’esercizio della libertà. Di questo male il XX secolo ha fatto un’esperienza tragica, la più tragica, forse, dell’intera storia dell’umanità. Su questo male molto si è scritto, soprattutto negli ultimi tempi, anche se sembra quasi che abbiamo avuto una riprova empirica della natura di male radicale che abita l’uomo, o almeno della sua radicale fragilità che lo tiene sospeso tra l’essere e il nulla. Rimando per un primo approfondimento, tra i molti, agli scritti di Primo Levi, T. Todorov, H. Arendt, H. Jonas, E. Fackenheim, L. Pareyson.

Detto in questi termini sembra quasi che abbiamo ormai acquisiti gli strumenti intellettuali per una comprensione esaustiva della questione del male, ma soltanto se lo pensiamo come un problema tra altri problemi. In realtà il male si presenta sempre alla nostra esperienza come mistero, come l’ingiustificabile che rimanda inevitabilmente a un bisogno di liberazione o, detto con più precisione, di redenzione. Tuttavia, proprio la consapevolezza del mistero del male, ci costringe a dire che la domanda ‘che cos’è il male ? ‘ è una domanda aporetica e intrinsecamente impossibile, poiché il male non è qualcosa su cui si possa porre una questione di carattere conoscitivo. Il male non è una sostanza, poiché in tal caso sarebbe una sostanza negativa, una non-sostanza, cioè un nulla. Questo ragionamento non è un sofisma anche se a prima vista potrebbe sembrarlo. L’orizzonte di riflessione del male è infatti il nulla, ed è proprio questa correlazione che ha creato e continua a creare problemi. È a questo livello che viene coinvolta la riflessione su Dio, e più esattamente la riflessione su Dio e il nulla. La questione di Dio/su Dio come causa nell’orizzonte dell’ontoteologia. Dio è onnipotente, impotente, oppure indifferente? Come si vede le questioni radicalizzandosi si intrecciano e la domanda sul male inevitabilmente si tramuta in una domanda rivolta a Dio, prima che una domanda su Dio. Il libro biblico di Giobbe ne è forse l’esempio più efficace.

Sebbene non possiamo affermare che il male sia qualcosa, che non può essere pensato secondo la logica della non-contraddizione e della determinazione, poiché equivarrebbe ad affermare la possibilità di pensare il nulla; tuttavia, pensare il non essere, pensare il nulla, significa semplicemente impossibilità di pensare, anche se facciamo quotidianamente l’esperienza del negativo nella nostra vita e nella storia. Il male abita nella casa dell’uomo. Mi sembra però, che si possa tentare anche un altro percorso. L’unica possibilità di ‘pensare il male’ è pensare male, cioè mettere in essere un pensiero negativo che precede e fonda un agire negativo. Anche questa è una possibilità dell’umano che contraddice l’assunto parmenideo secondo cui pensare è sempre pensare l’essere. L’essere umano ha la capacità di affermare attraverso la negazione cioè negando. La negazione, a sua volta, è il segno della presenza del nulla dentro l’essere. Possiamo quindi affermare la presenza del negativo accanto alla positività dell’essente o, anche, dentro questa positività. Oserei dire che soltanto attraverso l’uomo il nulla può entrare nell’essere. È la grande questione della possibilità del nichilismo di cui è stato vittima e artefice il secolo XX come lo è ancora questo inizio del XXI.

Dopo questa premessa di carattere più propriamente filosofica, di cornice, come dicevo, vorrei cercare, con l’aiuto di un teologo, Dietrich Bonhoeffer, e di due filosofi, Martin Buber e a Luigi Pareyson, di penetrare più a fondo nel significato antropologico del racconto biblico.

2. Il dato biblico

Nella prospettiva cosmo-antropologica biblica è affermata una positività fondamentale dell’operato di Dio anche dopo la creazione dell’uomo: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn. 1, 31). Non c’è spazio per il negativo. La narrazione della creazione dell’uomo, a sua volta, ci consegna delle affermazioni che pensate nella loro radicalità costituiscono l’autentica differenza antropologica rispetto alle culture coeve e un’ontologia dell’umano che è ancora da pensare. Nel testo biblico leggiamo: E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine (eicon), a nostra somiglianza (omoiosis), e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn, 1, 26-27). Che cosa può suggerire alla riflessione filosofica e antropologica l’affermazione che l’uomo è ‘icona’ di Dio e che con lui ha una ‘omogeneità’? Se assumiamo il testo biblico non soltanto come il codice in cui è depositato il kerygma della rivelazione ebraico-cristiana, ma anche come un codice culturale che può generare prospettive di senso condivisibili prima e indipendentemente da un’ottica credente, allora possiamo dire che questa prospettiva antropologica possiede uno statuto ontologico che non ha ancora ispirato veramente né un’antropologia, né un’etica e tanto meno una politica o un’economia. Ma questo potrebbe essere il tema di un’altra riflessione. Detto in termini icastici il messaggio biblico può essere tradotto con queste parole: «l’essere umano è assoluto come Dio, di cui è icona, è assoluto». È questo il senso più radicale del monoteismo biblico. La riflessione su questa omogeneità permette di cogliere altrimenti anche il senso dell’origine del male. La positività di Dio che vince il nulla non consente alcuna possibilità al negativo; l’origine del male si gioca sul piano dell’umano, ma soltanto nel versante che lo rende affine a Dio. A mio avviso nell’intreccio del rapporto tra Dio e la sua creatura si gioca una lotta che sarà nella storia la lotta tra il bene e il male. Leggiamo il seguito del racconto biblico che trovo di grande fascino:

Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn. 2, 15-17).

Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture (Gn. 3, 1-7).

Il Signore Dio disse allora: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita (Gn. 3, 22-24).

Il racconto dell’ingresso del male nel mondo esibito dal testo biblico è di grande suggestione e lascia intravedere molteplici percorsi possibili di riflessione e di analisi. Il primo dato che appare con grande evidenza è che il male è qui presentato come ‘peccato’, narrazione di una colpa che, in quanto tale, è sempre indice di una rivolta. Si tratta semplicemente dell’inizio della storia, della titanica lotta tra il bene e il male che segna e segnerà per sempre lo scorrere del tempo umano. In questo senso il capitolo 3 della Genesi deve essere letto quasi come premessa e, quindi, in continuità a quelli che seguono e che ne sono in un certo senso la conseguenza. Che com’è noto sono i racconti della graduale ribellione emancipativa dell’uomo da Dio. E il tempo umano, a sua volta, è quello che disegna l’accadere della libertà. Soltanto perchè l’essere umano è libero la sua storia è l’intreccio costante e continuo, l’annodarsi dell’essere con il nulla, in cui ciò che di volta in volta accade è un precipitato di forze contrastanti.

Prima di continuare la nostra riflessione filosofica, è utile riprendere alcune considerazioni di Gerhard von Rad nella sua Teologia dell’Antico Testamento1 che permettono una migliore contestualizzazione. Nella narrazione biblica il grande biblista coglie e analizza tre diversi piani di lettura: quello teologico, quello antropologico e infine quello storico-culturale. Mi limito qui al primo aspetto che è in qualche modo quello fondativo. Come abbiamo letto nel testo biblico, la vicenda inizia quando i progenitori colsero il frutto dell’albero della conoscenza. Scrive von Rad: «Nella sua paterna sollecitudine Dio aveva procurato agli uomini tutti i possibili beni; ma era sua volontà che nel settore della conoscenza si rispettasse un confine tra lui e gli uomini. Per altro, con la locuzione ‘conoscenza del bene e del male’ il narratore, secondo l’uso linguistico ebraico, intende molto più di un mero processo intellettuale. La parola jada’ significa al tempo stesso l’esperienza di ogni cosa e l’impadronirsi di tutte le cose e di tutti i segreti, giacché ‘bene e male’ sono da intendere qui non unilateralmente in senso morale, ma nel significato di ‘tutto’. L’uomo uscì in tal modo dalla semplicità dell’obbedienza nei confronti di Dio, tentando di ampliare la sua natura verso Dio, cercando un accrescimento divino della sua vita oltre i suoi limiti creaturali, ossia nel desiderio di diventare come Dio. perse così la possibilità di vivere nel giardino delle delizie e nelle vicinanze di Dio. gli rimase una vita di fatiche e di enigmi snervanti, presa in una lotta disperata con la potenza del male e destinata inevitabilmente alla morte» (vol. 1, p. 185-186).

Ciò che nel testo biblico appare come fortemente problematico e insieme affascinante e inquietante è la correlazione così strutturale di conoscenza del bene e del male e la morte. C’è poi una sorta di ysteron proteron che veramente inquieta. Il divieto di Dio deve essere inteso come un divieto assoluto: ‘non devi mangiare questo frutto’, tutti gli altri elementi a cui fa riferimento il narratore appartengono, per i primi esseri umani, all’ignoto e all’incomprensibile. Non sanno, perché non possono ancora saperlo, che cos’è il bene e il male, non sanno che cos’è la morte, poiché manca il senso della morte, infatti, significativamente, il narratore nota che la tentazione è l’invito ad uscire dal buio dell’ignoranza: «Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». L’apertura degli occhi corrisponde ad una sorta di acquisizione di autonomia, la capacità di trovare da sé il proprio orientamento e la propria strada. Conoscere il bene e il male significherà quindi capacità di optare e decidere. Questa è l’origine della libertà, anche se il testo biblico lascia trasparire una libertà ancora più radicale, oserei dire ontologica, che costituisce la più notevole differenza della narrazione biblica rispetto ad altre narrazioni genealogiche. Se l’uomo fosse stato assolutamente determinato, il divieto, qualsiasi divieto è un controsenso. Il divieto presuppone la duplice possibilità dell’osservanza o dell’inadempienza, presuppone, nel soggetto a cui è rivolto, l’esercizio della libertà. Questa prima libertà, che ho chiamato ontologica, è la possibilità del compimento della seconda in cui la trasgressione del divieto diventa concretamente affermazione di sé. Tra l’imago Dei e il sicut Deus si struttura una dialettica interna che si traduce nella conflittualità connaturata dell’umano. Con l’apertura degli occhi, infatti, «si accorsero di essere nudi» e il sentimento della vergogna potremmo coglierlo come la frattura intrinseca, l’inadeguazione di sé con sé, che articola ontologicamente l’umano. L’essere umano prova vergogna dei suoi limiti, che, per altro verso, appaiono inensistenti. La dialettica tra imago Dei e sicut Deus si ritrova in quello che potremmo definire il sentimento della terrestrità: «Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita». L’icona di Dio nella sua volontà di identificazione con Dio, nel processo di autoaffermazione e di introiezione assolutizzante, si ritrova vincolata a una dipendenza totale dal suolo da cui originariamente proviene. L’essere umano è da allora quell’essere che nel desiderio di assoluto, di essere l’assoluto, si scopre comunque dipendente dal suolo su cui risiede. E la terrestrità manifesta tutto il suo peso nella vita che per ogni vivente è necessariamente un dato, ciò di cui non ci si può in nessun caso appropriare.

3. La riflessione filosofica

Come si è già detto, la questione del male occupa da sempre il pensiero filosofico proprio perchè riguarda il senso ultimo dell’esistenza dell’essere umano e della sua storia ed è quindi difficile renderne conto in un beve spazio. La filosofia deve sempre trovare e mantenere aperto lo spazio di riflessione sul male se non vuole precipitare in forme di ottimismo metafisico totalmente fallaci.

Per mettere a fuoco meglio la prospettiva biblica in cui ci siamo collocati è di grande ausilio il piccolo libro di Martin Buber, Immagini del bene e del male.2 Secondo il grande filosofo ebreo, la «conoscenza del bene e del male» a cui si riferisce il testo biblico, «non significa altro che conoscenza delle antitesi che l’antica letteratura del genere umano indica con questi due concetti» (p. 20). In Dio non c’è antiteticità come non c’è nella prima creatura che Dio ha voluta a Sé omogenea, ma nel momento in cui si sottrae al volere di Dio e afferma la sua ‘differenza’, come negazione che si afferma, in quel preciso istante trovandosi nell’antiteticità egli la conosce. «Più esattamente — prosegue Buber — egli la conosce in quanto considera come male lo stato in cui viene a trovarsi trasgredendo l’ordine di Dio e come bene quello in tal modo perduto e ora irraggiungibile. A questo punto però il processo nell’anima dell’uomo diventa processo nel mondo: venendo conosciuta, l’antiteticità, sempre presente nella creazione, irrompe nella realtà attuale; diviene esistente» (p. 22-23). La latenza dell’antiteticità è in qualche modo la presenza possibile del nulla inscritta nella stessa opera della creazione. Su questa incombenza del nulla insisterà maggiormente Luigi Pareyson, come vedremo tra breve. In un’ottica di ontologia genetica Buber scrive ancora: «L’uomo — … — si è sottratto al volere di Dio e alla sua custodia; e senza sapere bene quel che faceva, con questa sua azione non realizzata nella conoscenza, ha fatto esplodere l’antiteticità latente proprio nel punto più pericoloso, in quello della maggiore vicinanza del mondo a Dio. Da allora in poi egli è soggetto all’antiteticità, non in quanto dover-peccare — … — bensì in quanto ricorrente riduzione alla condizione negativa e alla sua prospettiva disperata. … Questa situazione porterebbe a una compiuta demonicità se non le fosse posta fine. … Per l’uomo in quanto ‘anima vivente’ la morte conosciuta è il limite minaccioso; per lui in quanto essere travolto dall’antiteticità, essa può diventare un porto la cui conoscenza è consolatrice» (p. 25-26).

Sapere di essere mortale e bandito per le vie del mondo sono queste le caratteristiche dell’essere umano che costituiscono la stessa storicità del mondo. La scelta ‘malvagia’ dei progenitori non è tale in sé, ma lo è in quanto produce la scissione da Dio a cui si disobbedisce. La colpa è tutta qui, nel rifiuto di accettare la condizione di obbedienza che garantisce un equilibrio per affermarsi come Dio. Questa è l’antitesi, la posizione contrapposta. E per questo ancora, che l’uomo è mortale. L’antiteticità giustifica il fatto che «il male non può essere compiuto con tutta l’anima; il bene può essere compiuto soltanto con tutta l’anima» (p. 78). Infatti, secondo il filosofo ebreo, «il male è la mancanza di direzione» mentre «il bene è la direzione», che tradotto in un linguaggio più astratto significa che il male è il non senso, mentre il bene è il senso. L’ingresso dell’antiteticità dal punto di vista antropologico ha una particolare rilevanza poiché introduce la categoria della possibilità. Scrive ancora Buber: «L’uomo è l’unico essere vivente a noi noto in cui ci sia in certo qual modo incarnata la categoria della possibilità, e la cui realtà sia incessantemente contornata dalle possibilità, è l’unico ad aver bisogno della conferma» (p. 83). La necessità di essere confermati nel proprio poter essere fa dell’uomo «in quanto uomo un rischio della vita, non determinato e non fissato» (p. 84). Nella parte finale del suo saggio Buber, sebbene richiamandosi a dei miti antichi, mette in risalto una peculiare dialettica tra l’affermazione dell’ordine che pone il bene e l’autoaffermazione che invece, il bene lo esclude. Trovo di grande interesse la fenomenologia di questa antiteticità che fonda la possibilità dell’affermazione di uno dei due poli, ma non nella logica della reciprocità che pure è una forma di antitesi, bensì contro l’altro polo che viene dialetticamente escluso. L’autoaffermazione come origine del disordine del male o come negazione del bene. Dal punto di vista antropologico, ma anche culturale e socio-politico mi sembra un principio generale di importanza decisiva. L’affermazione di sé coincide necessariamente con la negazione e il rovesciamento dell’ordine del bene; è l’origine di ogni forma di violenza.

A conclusioni analoghe, nella profonda differenza della prospettiva di fondo, giunge a Luigi Pareyson nella sua visione di un’Ontologia della libertà.3 Il male ha una sua intrinseca realtà che però, è una ‘realtà positiva nella sua negatività’. Scrive il filosofo torinese: «Esso risulta da un positivo atto di negazione: da un atto consapevole e intenzionale di trasgressione e rivolta, di rifiuto e rinnegamento nei confronti di una previa positività; da una forza negatrice, che non si limita a un atto negativo e privativo, ma che, instaurando positivamente una negatività, è un atto negatore e distruttore. Il male va dunque preso nel significato più intenso della ribellione e della distruzione» (p. 167-168). Il male come volontà di male rappresenta quindi l’attualizzazione di una volontà negativa che affermando nega e nega anche se stessa. È la distruzione della libertà mediante la libertà. L’ontologia della libertà si origina da una positività originaria, la positività dell’essere e di Dio che volendo essere vince per l’eternità il nulla, positività della creazione che si situa nell’orizzonte dell’essere. Soltanto nell’essere umano permane la possibilità e quindi l’antiteticità di cui diceva Buber. È la grandezza della libertà che dice anche, nel suo essere, la grandezza del Creatore che ha voluto un essere capace di ribellarglisi. «La libertà — scrive Pareyson — è libera anche di non essee libera, ed è pur sempre con un atto di libertà che essa si nega come libertà, diventando così potenza di distruzione, nel duplice senso dell’autodistruzione e dell’onnidistruzione. Donde l’ambiguità sia della libertà sia del male: per un verso la libertà che vuol distruggere l’essere finisce invece col distruggere se stessa […], e per l’altro verso l’autodistruzione della libertà è pur sempre un atto di libertà, e quindi autoaffermazione» (ivi). C’è come si vede un’affinità tra le due prospettive. Va notata l’insistenza sull’autoaffermazione che, se si fuoriesce dall’orizzonte dell’origine, sul piano antropologico e quindi etico si traduce in un per sé che si situa come contrapposizione; affermarsi è necessariamente negare. L’esercizio della libertà può facilmente tramutarsi in una distruttiva volontà di potenza. È questo il senso della storia, come abbiamo già accennato, ma la storia è la storia delle avventure della libertà, storia umana, che ha il suo atto instauratore nella narrazione della caduta. A questa dialettica tra la positività dell’eternità in cui il negativo e il male è stato per sempre vinto e la negatività nella storia, Pareyson dedica delle pagine di grande incisività nel suo saggio La filosofia e il probelma del male.

Se vogliamo andare al di là della semplice comprensione della questione del senso del male dobbiamo interrogarci anche sulla possibilità della liberazione dal male, della redenzione, la possibilità della salvezza su cui si gioca il senso ultimo della storia e dell’esistenza. Se la tragedia non si risolvesse in commedia, il male avrebbe comunque l’ultima parola; ma è appunto a questo livello che la tragedia umana, la tragedia di cui l’uomo è all’origine, trova la sua risposta nella divina commedia che, tuttavia, per essere pienamente efficace deve iniziare anch’essa con la tragedia dell’incarnazione, l’umanizzazione di Dio. Ma di ciò fra breve. Scrive Pareyson in un passo di lucida suggestione: «Questa è la tragedia dell’uomo: egli è immerso nel negativo, autore del male e soggetto al dolore, marchiato dall’onnicolpevolezza e destinato alla sofferenza universale. Ma è anche la tragedia di Dio, perché la caduta umana, segnando il fallimento della creazione, colpisce l’opera sua e lo costringe a intervenire per rettificarla, ciò che Dio non può fare se non soffrendo a sua volta, perché solo con il dolore si può vincere il male. L’uomo è riuscito a intaccare la creazione, ma non ha la capacità di riparare il disastro provocato da lui, non bastando a tal fine tutte le sue sofferenze; sì che Dio stesso è chiamato in causa, a espiare un errore non suo e a redimere la sua opere degradata e svilita; per risanare la situazione Dio deve pagare il suo scotto di dolore, colmando egli stesso con un supplemento di sofferenza l’insufficienza riparatrice dell’uomo» (p. 194).

La riflessione filosofica di Pareyson si è spinta molto più avanti di altri filosofi, ma per l’analisi che stiamo qui facendo, è sufficiente ciò che abbiamo detto. L’esercizio della libertà umana non è in grado di riparare i guasti che questa stessa libertà ha prodotto e produce. È ancora una volta Dio stesso che deve restaurare la sua icona.

4. Riflessione teologica e risposta etica

Per quest’ultima parte del nostro percorso che cerca di chiarire il senso del male, mi riferirò brevemente a Dietrich Bonhoeffer che, nell’opera Creazione e caduta4 dedica uno specifico capitolo al tema del sicut Deus. Il punto di partenza che abbiamo già visto nelle analisi precedenti è, da un lato, la situazione, la realtà in cui si trovano Adamo ed Eva di essere per Dio nell’obbedienza creaturale e, dall’altro l’apertura dello spazio della possibilità operato dalla tentazione. «Per il primo uomo, che vive interamente in questa realtà, — scrive Bonhoeffer — l’appello alla possibilità — quella cioè di non obbedire alla parola di Dio — equivale ad un appello alla sua libertà, in cui si attua l’integrale appartenenza a Dio, ed è possibile solo per il fatto che questa possibilità di disubbidire a Dio è celata nella realtà del suo ‘essere per Dio’» (p. 91). Essere per Dio per proprio conto e non secondo Dio questo è secondo il teologo tedesco il senso dell’essere sicut Deus, la sua nuova devozione. «E in effetti questa devozione dovrebbe consistere nel fatto che l’uomo, risalendo oltre la parola data da Dio, si procuri una propria conoscenza di Dio; questa possibilità di sapere qualcosa di Dio, al di là della parola che Dio dà, è il suo essere sicut Deus; infatti, da dove potrebbe l’uomo ricavare questo sapere, se non attingendo alle fonti della sua propria vita e del suo proprio essere, cioè rinunciando, per amore di questo sapere di Dio, alla parola di Dio, che continua a rivolgersi a lui dal centro e dal limite inaccessibile della vita? Se non rinunciando alla vita che viene da questa parola e appropriandosene di prepotenza? Ora egli stesso è al centro. Dunque è la disubbidienza in vesti di obbedienza, è volontà di dominio nell’apparenza del servizio, è desiderio di essere creatore sotto l’apparenza ella creaturalità, è condizione di morte in forma di vita» (p. 97).

Le analisi di Bonhoeffer sono di grande lucidità e descrivono una fenomenologia dell’umano che lascia vedere la dialetticità ontologica che lo costituisce. La dialettica interna tra l’imago Dei e l’essere sicut Deus è l’apertura di una nuova storia, la storia della salvezza che risponde e risolve la storia della libertà. Il pericolo è infatti che essere sicut Deus possa ridursi semplicemente ad essere morti: «L’uomo-sicut Deus è morto, — scrive il Nostro — perché si è staccato dall’albero della vita, vive delle proprie forze e tuttavia, non vi riesce. Deve vivere pur non essendone in grado. Questo significa esser morto» (p. 113). La risoluzione del conflitto deve necessariamente venire dall’altrove di Dio, da Dio stesso. In un altro passaggio di grande tensione antropologica e teologica leggiamo, a partire dalla contrapposizione di un Dio contro Dio che si è prodotta con la ribellione: «E questo secondo Dio è al tempo stesso il Dio della promessa all’uomo di essere sicut Deus. Dio contro l’uomo-sicut-Deus. Dio e l’uomo-imago-Dei contro Dio e l’uomo sicut Deus. Imago Dei: l’uomo a immagine di Dio, nel suo essere per Dio e il prossimo, nella sua creaturalità e limitatezza originaria; sicut Deus: l’uomo uguale a Dio nel suo conoscere il bene e il male in base alle sue forze, nella sua mancanza di limiti e nel suo agire autonomo, nella propria aseità, nel suo essere solo; imago Dei: legato alla parola del creatore e vivente di questa; sicut Deus: legato alla profondità del proprio sapere su Dio, sul bene e sul male; imago Dei: la creatura vivente nell’unità dell’ubbiedienza; sicut Deus: l’uomo creatore che vive nel dissidio fra il bene e il male; imago Dei, sicut Deus, agnus Dei: l’uomo-Dio sacrificato per la salvezza del sicut Deus, che uccide nella divinità autentica la falsa divinità dell’uomo sicut Deus e ristabilisce l’imago Dei» (p. 94-95). L’agnus Dei è l’evento salvifico a partire da cui inizia una nuova storia, la storia di una libertà che non si esercita come autoaffermazione negante, bensì come responsabilità.

La riflessione di Bonhoeffer ha esercitato e continua ad esercitare un grande fascino, non soltanto per la grandezza della sua testimonianza di martire della resistenza al nazismo, ma anche per la lucidità anticipatrice con cui ha presentato alcune sue tesi. La sua prospettiva è incentrata in una cristologia forte che nella Gestaltung (conformazione) a Cristo trova il paradigma esistenziale fondamentale. È nel saggio centrale dell’Etica,5 opera rimasta incompiuta e pubblicata con redazioni diverse, intitolato La storia e il bene che il teologo tedesco si confronta con il nostro tema. In modo assolutamente categorico Bonhoeffer afferma: «Non esiste uomo che possa sfuggire alla responsabilità e cioè alla sostituzione vicaria». Poco oltre, in una pagina di rara densità leggiamo: «Poiché Gesù — la vita, la nostra vita — è vissuto in qualità di Figlio di Dio fattosi uomo vicariamente per noi, ogni vita umana è attraverso di lui essenzialmente una vita vicaria. Egli non era il singolo che volesse pervenire alla propria perfezione, bensì visse solo come colui che ha assunto e porta in sé l’io di tutti gli uomini. Il suo vivere, fare, soffrire, nella loro interezza furono sostituzione vicaria. Quanto gli uomini dovrebbero vivere, agire e soffrire si adempì in lui. In questa sua reale sostituzione vicaria, in cui si riassume la sua esistenza umana, egli è il responsabile per eccellenza. Poiché egli è la vita, attraverso di lui tutta la vita è destinata alla sostituzione vicaria. Essa potrà opporsi a questo fatto, ma ciò malgrado rimane vicaria per la vita o per la morte… si ha sostituzione vicaria e quindi responsabilità solo nella dedizione piena della propria vita all’altro uomo. solo chi non è legato al proprio sé vive responsabilmente e cioè, solo chi non è legato al proprio sé vive» (p. 225). «Il responsabile è rinviato al prossimo concreto nella sua concreta realtà» (p. 227). La logica agapica della prossimità, logica delle beatitudini, è l’unica risposta possibile al male nella sua struttura di autoaffermazione negante, anche se la libertà sarà per sempre la possibilità di scegliere il negativo.

Il testo è la rielaborazione di una relazione tenuta all’Università di Pisa nell’ambito di una serie di incontri interdisciplinari sulla questione del male.


  1. Brescia 1972. ↩︎

  2. Milano 1981. ↩︎

  3. Torino 1995. ↩︎

  4. Brescia 1992. ↩︎

  5. Milano 1970, da cui cito. Poi Brescia 1995. ↩︎