1. Chi è persona
Affermare la struttura «dialogica» della persona significa in qualche modo ammettere una certa conoscenza preliminare dell’«oggetto» persona di cui predichiamo la dialogicità. Al tempo stesso però nel titolo che ho dato a queste riflessioni, la dialogicità viene predicata come dato essenziale della persona, che viene definita appunto una struttura dialogica. Ora entrambi i termini, persona e dialogo, sono tutt’altro che univoci nella loro definizione. In essi, infatti, è presente una certa intrinseca impossibilità, se non addirittura rifiuto, alla definizione o, che è lo stesso, alla predicazione.
Questa impossibilità di pervenire a una definizione non equivale, naturalmente, ad affermare l’inconsistenza ontologica della persona, semplicemente si tratta di un «dato» che trascende le possibilità offerte dalla dicibilità categoriale dell’ontologia. Non si tratta di una mistica ineffabilità, anche se l’assolutezza che la caratterizza si manifesta come eccedenza ontologica, cioè il suo statuto originario consiste nel suo perenne essere-oltre. La relazione tra linguaggio ed essere in questo caso è una relazione che non accade. Mentre l’essere viene al linguaggio attraverso la persona, questa resta un al di là dell’essere, essa stessa non è in grado di dirsi. La riflessività del verbo manifesta la necessità di una doppia intenzionalità a cui manca l’oggetto noematico del riempimento che si confonde con il soggetto noetico che compie l’atto intenzionale.
Se proviamo a prendere sul serio le definizioni «essenziali» che la tradizione filosofica ci ha tramandato, «rationalis naturae individua substantia» o «rationalis naturae individua existentia», immediatamente ci accorgiamo che l’accento cade sulla singolarità esistenziale che la stessa tradizione collocava nell’indicibilità. Il rimando all’esistenzialità però, a sua volta, ci rinvia a un ambito in cui la persona non si manifesta più nella solitarietà neutra dell’essenza, bensì nella relazionalità del con-essere, e dell’essere-l’uno-con-e-per-l’altro. Sono queste le dimensioni su cui ha maggiormente riflettuto il pensiero contemporaneo per tentare di cogliere la persona nel suo esercizio-d’essere. Prendiamo come punto di partenza della nostra riflessione le analisi husserliane sul soggetto monadico, che ci introducono a una fenomenologia della persona quale presupposto della sua struttura dialogica.
Il soggetto husserliano, infatti, non è una vuota struttura trascendentale, ma una «concrezione monadologica». E ciò non è di poco conto, infatti sollecita la formulazione di domande ulteriori circa l’unità di una individualità, la molteplicità di individualità, la condizione di possibilità della molteplicità stessa, la coesistenza di molteplici individualità ecc. La descrizione fenomenologica della monade come monadologia fenomenologica diviene in tal modo il presupposto per una fenomenologia della persona. E questa direzione di indagine, in continua tensione teorica, è particolarmente stimolante.
Per procedere in questo studio sulla fenomenologia della persona possiamo partire proprio dalla «definizione», di monade che Husserl dà.
Chiamo vivere monadico l’unità del vivere universale nell’Erleben con la partecipazione o senza partecipazione dell’io, in ogni caso con la partecipazione possibile e se prendiamo questo vivere nella piena concrezione che assume la connessa realtà essenziale dell’io di questo vivere nella sua coappartenenza, quindi l’io in relazione al suo Erleben e l’Erleben in relazione all’io, allora parliamo della monade.1
Ciò che mi sembra fondamentale in questa «definizione» è l’esibizione dell’unità dell’individualità come peculiare del soggetto, dove tra le altre cose si lascia intravedere la riformulazione di un «trascendentale concreto», metodologicamente innovativo, la cui indagine tuttavia rimandiamo ad altra occasione. Torniamo invece a riflettere sulla monade e sulle condizioni di possibilità della molteplicità delle monadi.
La monade è, per definizione, una «soggettività solipsistica», al solipsismo conduce anche la riduzione fenomenologica. Opportunamente, qui Husserl parla di riduzione solitaria all’io solitario ed esplicitamente ciò significa che «ogni io è per sé, è un’unità per sé, ha il suo flusso di vissuto, ha i suoi poli ideali ecc. Ogni io è una “monade”. Ma le monadi hanno finestre. Esse non hanno finestre o porte in cui possa entrare realmente un altro soggetto, ma attraverso di esse (le finestre sono le empatie) è possibile esperirle altrettanto bene, attraverso la rimemorazione, come propri vissuti passati».2 Prima di passare a riflettere con maggiore attenzione su queste «finestre», è opportuno notare, proprio a partire dall’esperienza empatica, la differenza della costituzione che nell’io si produce dal suo essere per sé. Ciò che funge è qui l’attività di incentramento dell’io, per cui si può dire che tutto quanto avviene all’io e nell’io in se est et per se concipitur e che tutti i conceptus delle res della natura provengono puramente da esso, dall’altro i concettti e le rappresentazioni, pur essendo propri di ciascuno, possono essere concepiti da un altro soggetto io. Da questo punto però viene meno l’attività rappresentazionale dell’io e la sua Leistung di incentramento/accentramento e si scopre invece dimensione rivelante di un’alterità come alterità:
L’altro si manifesta in me nell’esperienza empatica. Egli non è percepito in una originalità originaria, come una cosa che in verità si manifesta quindi come inerente al mio ambito come ogni oggettività ideale; che è una proprietà come l’intero mondo dell’ideale. Attraverso l’appresentazione egli viene esperito come altro in una manifestazione originaria, come un io, come una soggettività piena, che non sono io, che non è mia, ma è il mio di fronte..3
Riflettiamo su questa funzione rivelante da Husserl assegnata alla soggettività che scopre l’altro da sé come un originario Gegenüber, come un originario secondo io. Si stabilisce qui una connessione originaria di due soggettività diverse, ma ciò vuol dire che io sono rivelatore dell’io che mi sta di fronte, sono, a mia volta, rivelato proprio da questo io altro da me. Non sono più soltanto una soggettività esperiente, ma anche esperita o esperibile; il mio io è, per l’altro io, un corpo con funzione espressiva e rivelativa, funzione che è l’indice di apertura attraverso cui passa l’approccio empatico. Scrive Husserl:
Un polo oggettuale delle mie manifestazioni rappresentative reali e possibili, non è solo un’unità di possibili identificazioni che si pongono razionalmente per me in modo solitario, ma la seconda soggettività appresentata attraverso l’empatia ha manifestazioni diverse attualmente presenti e, come mi sembra, necessariamente diverse da quelle che ora ho io. Così l’altro io, per esempio di parti del suo corpo che io vedo e che egli stesso vede, ha manifestazioni dello stesso corpo. Tutte le sue manifestazioni reali e possibili sono per lui, l’altro io, nella realtà e possibilità, esattamente come tutte le mie reali e possibili manifestazioni sono per me. Nelle mie, viene alla mia attuale datità una unità rappresentativa intenzionale come polo oggettuale, come oggetto di natura; nelle sue, il polo oggettuale delle sue manifestazioni. Il polo, la cosa stessa è, evidentemente, il medesimo. Al contenuto sensibile della natura appresentata come unità costitutiva delle manifestazioni rappresentative degli atti compete che essa è la stessa di quella delle mie corrispondenti manifestazioni rappresentative e la posizione appresentativa della soggettività estranea racchiude in sé la posizione dell’unità delle manifestazioni reciprocamente rappresentative come unità percettive concordanti dello stesso contenuto.4
Anche se a prima vista potrebbe sembrare un paradosso, la scoperta di altre unità costitutive accanto alla mia, la possibilità di una connessione di oggettività intersoggettiva, è il ponte alla considerazione intersoggettiva della natura e del mondo, che in tal modo si costituiscono come unità di senso per l’unità intersoggettiva della pluralità delle monadi. La conclusione husserliana è abbastanza eloquente:
Tutti gli io, meglio, tutte le soggettività che debbono poter essere insieme (e perciò essere per principio conoscibili come un collettivo, come una pluralità) debbono aver costituito in sé una identica natura alla quale sono riferiti tutti i soggetti io e nella quale ciascuno di essi ha il proprio corpo. Viceversa, se una pluralità di io deve poter stare in una connessione empatica, deve allora essere una pluralità di io che sono rapportati all’unica e medesima natura e debbono essere io «dotati di un corpo» animale.5
Questa ultima affermazione husserliana ci rimanda chiaramente a un Grundproblem della fenomenologia, quello del corpo, elemento determinante per cogliere tanto l’identità dell’io, quanto l’alterità dell’altro e al tempo stesso struttura-base di una intersoggettività che in esercizio si esprime innanzitutto come intercorporalità. La riflessione sul corpo determina una duplice Auffassung des Menschen: subjektivistische e naturalistische, a seconda di come il corpo stesso è inteso.6 Oggetto e organo di percezione; coesperito nell’esperienza cosale come corpo fungente, il corpo è l’indice originario di appartenenza e di proprietà e quindi di unificazione dell’io nella propria autoesperienza, niente mi appartiene come il corpo. Scrive Husserl in una densa suggestiva pagina:
Tra tutte le cose spaziali della mia sfera universale pratica il «mio» corpo è la più originariamente mia, la mia proprietà originaria, la mia proprietà duratura, duratura nella mia disposizione, la più originaria e l’unica immediata che è a mia disposizione. Ciò di cui (da bambino) mi sono appropriato come prima cosa e immediatamente e che ora è organo, è mezzo per l’appropriazione di tutto: direzione più diretta dello sguardo nel mondo […]; il corpo ha quindi in sé il carattere più originario del mio, appartenente a me, contrasta con l’estraneo al quale io non sono partecipe, cioè non praticamente. La più grande estraneità consiste nel fatto che io esperisco semplicemente le cose esterne, in una pura passività, e appena voglio conoscerle l’intenzione si dirige verso la loro appropriazione conforme all’esperienza. Il loro essere, la loro verità diviene il mio proprio e ciò per la mediazione del mio corpo quale attivo organo di percezione. Tra tutte le cose il mio corpo è la cosa più prossima alla percezione la più prossima al mio sentire e vedere. E quindi io, l’io fungente, sono unito ad esso in una maniera particolare, prima di tutti gli altri oggetti del mondo circostante. Esso è in maniera propria e diversa, punto centrale, oggetto che sta nel mezzo, io l’ho come oggetto fungente nel mezzo e diviene, sebbene esso stesso è già oggetto (di fronte a me), centro di funzione per tutti gli altri oggetti, per tutte le mie funzioni.7
Se da un lato, però, il corpo è condizione di possibilità di autopercezione, di proprietà (è mio, mi, come segni grammaticali di rimando al soggetto, alla sua strutturale unità), è al tempo stesso la possibilità della presenza, della spazio-temporalità, e della manifestazione spazio-temporale. Tutto ciò è particolarmente importante per «fondare» (si licet) l’intersoggettività, inizialmente a partire da una modalizzazione analogante e in un secondo momento come specularità motivata dalla determinazione e sempre a partire dalla corporeità e in particolare, nel nostro contesto, dalla duplice considerazione del corpo come Ding e come Leib.8
Muovendo da queste considerazioni si può dire che l’Einfühlung diviene pienamente significante se colta come atto intenzionale che si compie sulla base del corpo inteso come espressione9 e indice (Auszeichnung) di una soggettività individuale. Approfondendo la particolare Gegenseitigkeit che Husserl descrive e con il guadagno dello spessore della corporeità possiamo tornare a guardare alla soggettività per riflettere sulla (condizione di) possibilità di una pluralità di soggetti. Particolarmente suggestivo è il testo n. 410 al quale mi riferirò brevemente. Husserl formula due domande: «Due o più soggetti possono essere o essere riferiti a tempi immanenti o trascendenti totalmente distinti?» «È quindi da dimostrare che, se vi sono molteplici soggetti, essi debbono poter stare necessariamente in un commercio possibile, quindi debbono aver costituito in sé un mondo comune (come medesimo regno di un’esperienza possibile)?»11 È interessante rimarcare come l’analisi della nozione di Erfahrung conduca Husserl in primo luogo a una «fondazione» della monade come «reale» possibilità di esperienza12 e quindi a ulteriori domande: «Wie nun aber bei einer Mehrheit von Subjekten?»13 e ancora «… ob so wie Dinge im Plural so auch Subjekte (vereinzelte Subjektmöglichkeiten) im Plural als miteinander koexistierend gedacht werden können und wie sie es können, ob und inwiefern sie unter Wesengesetzen möglicher Koexistenz stehen».14 La coesistenza di molteplici soggetti è, dice Husserl, un fatto d’esperienza che si articola secondo la legge analogica del «wie» e approda a una sorta particolare di «riconoscimento»:
Evidentemente quindi l’altro è nella mia medesima posizione: come egli è nel mio campo d’esperienza così io sono nel suo e noi non siamo semplicemente coesistenti, bensì coesistenti l’uno per l’altro. In questo caso ciascuno nella sua esperienza soggettiva, ed entrambi in una possibile esperienza reciproca, abbiamo costituito un mondo comune. Ciascuno esperisce non soltanto un mondo fisico, ma vi introduce il corpo estraneo e quindi l’altro come essere animale. Ciascuno in questo mondo trova anche il suo corpo attraverso l’empatia (nella realtà e nella possibilità) trova l’altro come l’altro che esperisce il mio corpo e me stesso come uomo, come animal. Ciascuno colloca quindi se stesso in questo mondo come animal, come essere corporeo-spirituale.15
Al termine delle sue analisi, Husserrl propone due risultati importanti. Il primo che «la costituzione in un mondo comune e una corrispondente regola saldamente impostata per ciascun io per sé e per entrambi in relazione l’un per l’altro è la condizione di possibilità dell’esperienza empatica o dell’essere l’un per l’altro di soggetti separati e dell’essere coesistenti di entrambi i soggetti come esperienza e conoscenza possibile per se stessa».16 Il secondo risultato suona: «Si può dare soltanto un mondo, soltanto un tempo, soltanto uno spazio con una natura e una molteplicità di esseri umani. Mondo e animali sono inscindibili l’uno dall’altro; è impensabile una natura che non sia una natura animale, come pure sono impensabili soggetti non animali, che non sono relazionati a una natura, che quindi non sono l’uno per l’altro, «oggetti» l’uno per l’altro, ciascuno essendo per l’altro nel quadro di una possibile esperienza empatica… Tutti i soggetti che sono, che coesistono, sono l’uno per l’altro e necessariamente l’uno per l’altro oggetti in un tempo».17
Nel contesto di una fenomenologia della monade, l’essere «oggetto» l’una per l’altra che abbiamo appena visto, si traduce nella reciprocità della relazione comunicativa:
Quindi io non ho soltanto un io, una monade che nel suo orizzonte ha vissuti empatici, regolazioni che permettono una certa tipica di riempimenti come vissuti ulteriori e certi atti di identificazione ecc., ma io ho una monade relazionata in sé a un’altra monade e ho l’altra monade relazionata o che si può relazionare empaticamente alla prima monade. Ho così una molteplicità di monadi in comunicazione reale e possibile, tuttavia però, in relazione ad esse un’identica natura, una natura intersoggettiva, come possibilmente comune a tutte le possibili monadi coesistenti e realmente comune a tutte le monadi realmente comunicanti con me e che stanno in comunicazione possibile. Ho quindi una natura con delle molteplicità di manifestazioni che si ripartiscono in sistemi chiusi in tute le monadi, sistemi di costituzione di esperienza solitaria e che si estende alla costituzione di una natura intersoggetivamente identica attraverso lo «scambio» empatico di questi sistemi.18
La costituzione intersoggettiva della natura implica un riferirsi reciproco, attivo delle monadi tra di loro. La costituzione del mondo e il risultato di una soggettività monadica assoluta causalmente determinante. Diversa è però la «causalità spirituale» reciproca che ci fa attingere ormai la dimensione della persona.
La comunità monadica è una comunità personalistica. Nell’orizzonte fenomenologico, la persona è «l’individualità di una soggettività».19 Occorre cogliere qui il senso profondo della determinazione della persona come centro dell’attività soggettiva; significa farne il centro fungente di spiritualità. Tenendo conto della Zentrierung a cui accennavo, la persona potrebbe definirsi il «centro del centro», dove ciò che mi preme notare è il primato del senso. E infatti quando Husserl parla della persona abbandona una certa terminologia per assumerne un’altra più caratterizzante. Scrive Husserl:
Gli uomini nel mondo compiono «azioni spirituali» l’uno verso l’altro, stabiliscono legami spirituali, agiscono l’uno verso l’altro da io a io; l’altro sa quello che io faccio e questo lo determina da parte sua «a regolarsi di conseguenza». Essi però agiscono anche l’uno nell’altro. Io accolgo il volere dell’altro nel mio volere. Ciò che faccio non lo faccio semplicemente per conto mio, ma per suo incarico, nel mio volere influisce il suo volere. Partecipando al dolore e alla gioia io non patisco semplicemente come io, ma nel mio patire vive il patire dell’altro e vivo nel suo vivere e specialmente, patisco le sue sofferenze. Come partecipo al suo giudizio […] così con-sento il suo dolore. Non posso con-volere la sua volontà, ma posso partecipare al suo agire o posso nel servizio o nel dominio, formare un’unità di volontà con lui.20
In tal modo, attraverso la Verbindung delle monadi, viene anche a costituirsi una totalità come nuova soggettività e realtà21 e si produce così il «passaggio alla molteplicità delle monadi come assoluto».22 La descrizione fenomenologica non ha la pretesa della definizione, ma non vuole neppure rinunciare a una qualche presa sull’essenza. E in questa direzione Husserl è stato seguito da altri suoi discepoli. Nel caso di Scheler, si è trattato addirittura di un’anticipazione, dato che la sua opera Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik. Neuer Versuch der Grundlegung eines ethisches Personalismus, risale al 1913-1916. In quest’opera, com’è noto, egli fornisce una «definizione essenziale» che recita:
Persona è l’unità-di-essere concreta e in se stessa essenziale di atti di diversa natura, tale da darsi in sé (non quindi prós hemás) prima di ogni essenziale differenza d’atto e, in particolare, prima della differenza tra percezione interna ed esterna, tra volontà interna ed esterna, tra sentire amare, odiare nella propria interiorità o nella sfera dell’alterità ecc. L’essere della persona «fonda» tutti gli atti essenzialmente diversi.23
Poco oltre, il filosofo tedesco presenta un’argomentazione preziosa per approfondire l’essenza concreta su cui stiamo insistendo. Scrive Scheler:
La persona non può mai venir ridotta alla X di un mero «punto di cominciamento» di atti né a un qualche semplice tipo di «correlazione» oppure a un intreccio d’atti, come avviene invece nell’ambito di una cosiddetta concezione «attualistica» della persona intesa a comprendere l’essere della persona a partire dal suo agire («ex operari sequitur esse»). La persona non è un vuoto «punto di cominciamento» d’atti, bensì è l’essere concreto senza il quale ogni discorso circa gli atti non potrebbe mai far riferimento all’essenza completamente adeguata d’un atto qualsiasi, ma solo a un’essenza astratta; solo in quanto inerenti all’essenza di questa o di quella persona individuale, gli atti si concretizzano trasformandosi da essenze astratte in essenze concrete. Per tale ragione non è mai possibile cogliere in maniera adeguata ed esaustiva un atto concreto senza una precedente conoscenza intenzionale dell’essenza della persona stessa.24
Heidegger ha fatto della chiarificazione della relazione tra essere e tempo l’impegno teoretico costante della sua vita filosofica, approdando a una «filosofia della finitezza» che costituisce uno dei guadagni più interessanti del pensiero filosofico del Novecento. Tuttavia, se la finitezza trova la sua espressione più esplicita nella Befindlichkeit e nel Verstehen, quest’ultimo esistenziale si caratterizza per una duplice «fenomenalità»: l’espressione e il discorso. Se l’essere più proprio dell’esserci è comprensione, significa che l’esserci deve continuamente appropriarsi di ciò che comprende. Heidegger definisce interpretazione questo processo e in questo orizzonte si colloca la significatività del linguaggio. Scrive Heidegger: «Il fondamento ontologico-esistenziale del linguaggio è il discorso… Il discorso è esistenzialmente cooriginario alla situazione emotiva e alla comprensione. La comprensibilità, anche prima dell’interpretazione appropriante, è già sempre articolata. Il discorso è l’articolazione della comprensibilità».25 Il filosofo tedesco chiarisce poi il rapporto tra linguaggio e discorso nell’orizzonte della Weltlichkeit:
Il linguaggio è l’espressione del discorso. La totalità delle parole attraverso cui il discorso acquista un proprio essere «mondano», viene ad essere disponibile come un ente intramondano, come un utilizzabile. Il linguaggio può essere frantumato in parole-cosa semplicemente-presenti. Il discorso è linguaggio esistenziale, perché l’ente di cui esso articola l’apertura in base a significati ha il modo di essere dell’essere-nel-mondo, gettato e confinato nel «mondo».26
Posto in questi termini il problema del linguaggio resta confinato all’interno di un’analitica del Dasein e ciò spiega il silenzio o, meglio, l’indicibilità dell’essere come approdo dell’opera heideggeriana del 1927. Il parlante comprende ed esprime se stesso, a partire dall’essere dell’ente che egli è. Tuttavia il discorso non svolge una funzione disvelativa dell’essere, qual era presentata nel famoso paragrafo 7 dell’«Introduzione»: «Il lógos lascia vedere qualcosa (pháinesthai) e precisamente ciò su cui il discorso verte… Il discorso «lascia vedere» apó…, cioè a partire da ciò stesso di cui si discorre».27 Dell’essere non può esserci discorso, ma soltanto ascolto del linguaggio dell’essere e neppure può esserci pensiero se non come pensiero dell’essere, ma il genitivo è diventato ormai soggettivo, è l’essere che parla e che si esprime nel pensiero pensante.
Da un versante culturale e filosofico diverso, anche se nello stesso orizzonte fenomenologico, P. Ricœur, attraverso i campi della psicanalisi, della linguistica, della critica storica, ha lucidamente mostrato l’irriducibilità della persona alla coscienza, al soggetto, all’io,28 e ha assunto piuttosto un termine «debole», parlando di attitudine-persona. E l’attitudine, come ha mostrato Eric Weil, a cui lo stesso Ricœur si riferisce, non può mai diventare categoria.29
Stimoli preziosi per una riflessione sulla persona nella direzione qui indicata possono venire anche da un «classico» della corrente analitica della filosofia contemporanea, il libro di P.F. Strawson, Individuals,30 che, nel capitolo III dedicato a «Le persone», parla di «natura primitiva del concetto di persona» e, poco oltre afferma che «il concetto di persona è logicamente anteriore a quello di coscienza individuale».
Nel contesto di un saggio che vuole presentare le condizioni di possibilità del darsi della persona come struttura dialogica, cioè renderne conto, non è possibile dilungarsi oltre. I risultati conseguiti in questa prima fase della nostra riflessione mi sembrano però fondamentali per tentare ora di iniziare un’indagine vera e propria sulla dialogicità, e sui nuovi modelli etico-antropologici che questa definizione necessariamente comporta.
2. La situazione interrogativa originaria
La nostra ricerca deve necessariamente riprendere le mosse dal dato più elementare che abbiamo acquisito in precedenza: l’originarietà e inizialità della persona. L’analisi ci ha però mostrato, almeno in parte, che questa non si manifesta in una solitaria mancanza di relazioni, ma anzi, al contrario, il vivere concreto della persona si svolge attraverso «mitmenschlichen Begegnungen in der Milieuwelt», per dirla con l’espressione di A. Gurwitsch.31 Ciò significa che la persona è originariamente inserita in un tessuto di relazioni che normalmente chiamiamo «situazione» e che il mondo che abita non è soltanto una Mitwelt, bensì più propriamente una Menschenwelt in cui l’esercizio della propria umanità si svolge attraverso una duplice certezza, di sé e degli altri. La situazione è il primo orizzonte interrogativo in cui si scopre di non essere soli al mondo. Gurwitsch fa opportunamente notare che l’esperienza della Mitwelt manifesta anche, accanto alla certezza di sé, una seconda certezza originaria, la Du-Gewißheit, e che anzi «la certezza del tu rappresenta in generale un necessario correlato alla certezza dell’io, esse è originaria anche nel senso dell’immediatezza».32 Se a questo punto ricordiamo la «definizione essenziale» di Scheler che ho menzionato sopra, scopriamo che l’atto intenzionale della persona rappresenta una Verweisung auf Andere, nel senso che almeno quelli che Scheler chiama i Geistes- e Gemütsakte sono atti compiuti di-fronte-a (Gegenakte) e come tali portano in luce la struttura della Mitwelt.33
D’altra parte l’essere in situazione della persona, su cui tanto ha insistito, dopo le analisi fenomenologiche, la filosofia dell’esistenza, si traduce immediatamente nell’esercizio di un ruolo. L’incontro con l’altro avviene sempre attraverso il concreto esercizio di un ruolo, che se non può rappresentare l’essenza della persona, ne costituisce certamente la manifestazione. Non va dimenticato che nell’etimologia stessa del termine persona resta la presenza di ciò. Ciascuno è concretamente padre, figlio, studente, professore, imprenditore, dipendente ecc; e perfino più ruoli insieme. In questo senso l’esercizio del ruolo diventa la condizione dell’incontro e delle relazioni, della tessitura umanizzante del mondo che in tal modo diventa mondo umano. L’incontro avviene nell’esercizio del ruolo,34 attraverso cui le persone divengono tra di loro partner (il termine è di Gurwitsch). È quasi superfluo ricordare qui la preziosa indagine compiuta da K. Löwith nella sua opera Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen.35 Da ciò si vede anche che la «situazionalità» specificamente umana è insieme determinante e determinata.
A questo punto della nostra riflessione conviene cercare di cogliere con maggior precisione lo statuto ontologico dell’interrogatività originaria che costituisce l’essere umano, che lo costituisce come essere interrogativo. Possiamo farlo andando ad indagare l’implicito che si cela dietro l’asserzione originaria che Descartes ci presenta nelle sue Meditazioni metafisiche.
Il pensiero moderno, infatti, inizia il suo cammino con la sfida del dubbio metodologico, che vuole arrivare a risultati «garantiti», una certezza apodittica, sul piano dell’essenza e su quello dell’esistenza. In questo senso l’esperienza del dubbio cartesiano genera l’identità autoreferenziale dell’esistenza aprendo però lo spazio interrogativo sull’essenza. La prima scissione che si opera è tra il proprio essere e la propria manifestazione d’essere. Il dubbio, immediatamente tradotto nel cogito, è il presupposto di manifestazione del sum, je suis, j’existe. Molto opportunamente nota al riguardo J. Patocka:
Nessuno ignora che la certezza dell’ego è, agli occhi di Descartes, certezza dell’essenza e insieme dell’esistenza. La certezza dell’ego come certezza dell’esistenza propria impone una barriera insormontabile al dubbio iperbolico. L’esistenza dell’ego resta un presupposto anche per lo scetticismo più estremo. Questa esistenza non può essere in se stessa la semplice apparenza (forse ingannevole) di altra cosa. Al contrario, l’apparizione come tale implica qui l’esistenza. L’esistenza dell’ego è essenzialmente esistenza-nell’apparizione, che non è necessariamente il caso delle altre cose esistenti, per esempio delle cose della natura. In questo senso la certezza dell’ego può essere eretta a principio filosofico: essa è anche una condizione necessaria dell’apparizione di ciò che non è esistenza-nell’apparizione.36
Le annotazioni del filosofo ceco hanno chiaramente un sapore fortemente fenomenologico, ma credo che valga la pena soffermarsi sulla démarche del discorso cartesiano così come ci è stato tramandato nelle Meditazioni metafisiche e che ci porta al cuore della genesi del dualismo. L’approdo, inizialmente nebuloso, una certezza carica d’incertezza, è rivelativo, almeno da un punto di vista fenomenologico. «Il faut conclure et tenir pour constant que cette proposition: je suis, j’existe est necessairement vraie toutes les fois que je la prononce, ou que je la conçois en mon esprit».37 La proposizione immediatamente successiva implica una lettura diversa, almeno a me sembra, a seconda che la si legga in latino o nel testo francese, e non si tratta soltanto di acribia filologica, dato che permette di formulare percorsi filosofici diversi: «Mais je ne connais pas encore assez clairment ce que je suis, moi qui suis certain que je suis»; «Nondum vero satis intelligo quisnam sim ego ille, qui jam necessario sum».38 Nel testo latino è detta una necessità di per sé non legata alla certezza. La necessità d’essere manifesta delle implicazioni di carattere ontologico che permettono di dire altrimenti lo stesso cogito. L’operazione di accertamento sollecita infine due interrogativi che possono essere considerati originari, l’alba del pensiero moderno. Anche qui vorrei riflettere a partire dalla diversa formulazione del testo francese e di quello latino. Nel primo leggiamo: «Mais qu’est-ce donc que je suis? Une chose qui pense. Qu’est-ce qu’une chose qui pense?»; il testo latino è più lapidario: «Sed quid igitur sum? Res cogitans. Quid est hoc?».39 È lecito tradurre quest’ultimo interrogativo con «che cos’è questa cosa?». Il pronome dimostrativo neutro non è soltanto ostensivo della cosalizzazione del cogito, nella misura in cui si interroga sul quid est è anche indicazione di uno «sdoppiamento» tra essenza ed esistenza o, se si preferisce, di un’esistenza alla ricerca della propria giustificazione.
Qu’est-ce que un chose qui pense? Quid est hoc? Questo interrogativo è la molla segreta del pensiero della modernità filosofica, che ha cercato di articolarlo nelle modulazioni più varie. Tuttavia, al tempo stesso, è la manifestazione del tentativo di dare una risposta alla domanda radicale che al livello ontologico parte necessariamente da una datità: io sono. Ogni qualsivoglia domanda di senso sul senso d’essere del mio essere non può prescindere da questa proposizione elementare, che esibisce già di per sé la situazionalita che dicevamo per la quale l’uomo è uomo insieme ad altri uomini (Mensch ist Mensch als Mitmensch),40 qui diventa propriamente significativa l’originarietà dell’io, ma anche del tu; al tempo stesso, però, in quanto proposizione, manifesta una dimensione originaria dell’essere umano, la linguisticità, sebbene in una prospettiva diversa da quella che abbiamo già vista in Heidegger. Nella sua struttura elementare l’umano si articola e si compie totalmente intorno alla «parola», per dirla con Ferdinand Ebner, che si è autocompreso come Bedenker des Wortes e a cui mi riferirò brevemente. La persona nella sua dimensione spirituale più propria è descritta da tre «tempi», in cui la situazione si ridefinisce come evento, o, più propriamente come successione di eventi (ma su questo torneremo tra breve): il Wort-haben, il Wort-hören, e il Wort-machen.
«“In principio era la parola”, inteso nella pienezza del suo senso ciò non significa nient’altro che la restituzione dell’essere nella parola» (S.,41 II, p. 290). Qual è in questa prospettiva il vero significato dell’affermazione «io sono» se non può più essere assunta nella sua autosufficienza? Possiamo tentare una chiarificazione a tre livelli in cui il primo mette in risalto il pronome personale (io sono), il secondo il verbo (io sono) e infine il terzo l’intera proposizione (io sono).
L’affermazione alla prima persona circoscrive immediatamente i limiti e le possibilità. Ci dice innanzi tutto che si tratta di un soggetto personale che affermando qualcosa di sé, in questo caso la propria identità, lo fa attraverso una connotazione ontologica. L’affermazione della propria identità è una sorta di evento d’essere che acquista il suo senso compiuto nella relazione all’esistenza, ma è anche epifania di uno stupore ontologico dove il predicato non dice «qualcosa» del soggetto, ma semplicemente ne è la condizione di possibilità di affermazione. Dir-si significa riconoscer-si nell’essere, nella concretezza di un mistero, che è insieme mistero dell’essere e mistero della parola che cerca di esprimerlo: io. L’affermazione di sé non è autoaffermazione, manca la ricorsività, e, soprattutto, manca l’originarietà. Da un lato quindi, tutta la forza dell’affermazione dell’Io nella sua unicità di io personale, ma, dall’altro, il confronto con l’essere mostra che il soggetto si afferma in maniera «derivata». Io sono, perché sono dato a me stesso.
Credo che questa affermazione, che ci permette di passare al secondo livello di lettura, sposti completamente l’asse della riflessione. Quando io affermo di me che sono, riconosco la non principialità del mio io e insieme lo stupore di qualcosa che è in se stesso un evento. Io sono, ma non da me stesso. L’affermazione come autoaffermazione della propria esistenza è in qualche modo l’affermazione dello stupore di trovarsi ad essere. Sono costituito in una originaria passività, che si esprime nel riconoscimento di una «datività», che nel dirsi al «nominativo» della prima persona manifesta una struttura di bisogno, il bisogno d’essere o del proprio essere come bisogno. Questa ontologia «indigenziale» è, in un certo senso, la stessa che si può reperire nella Geworfenheit heideggeriana, soltanto che là assistiamo anche al tentativo di acquisizione di un’autenticità intraesistenziale che incatena l’esser-ci al suo ci, alla sua finitezza e non gli permette di aprirsi. In Ebner, al contrario la stessa affermazione io sono è l’indice dell’indigenza aperta e lo è proprio nella sua struttura di espressione.
Infatti l’affermazione di sé nella sua interezza, io sono, ha il carattere grammaticale di un’espressione e come tale rinvia immediatamente a un fuori di sé che è il referente destinatario dell’espressione stessa. In questo senso io sono è la parola originaria. È la manifestazione elementare dell’aver-la-parola, ma anche della spiritualità, Ebner la chiama «asserzione esistenziale».42 Per illuminare meglio il problema ci possiamo richiamare al frammento 14 che, proprio illustrando l’asserzione esistenziale in riferimento alla personalità, si presenta come uno dei più densi e decisivi dell’intera opera ebeneriana:
L’asserzione esistenziale di se stessa nella «parola originaria» — scrive Ebner — da parte della «persona parlante» era l’autonominazione dell’Io, che però non costituiva ancora un nome. Quando l’Io divenne in essa consapevole della propria esistenza — mediante la parola — e al tempo stesso si pose in rapporto con il Tu, poiché questa è la premessa dell’asserzione, l’Io dovette ovviamente divenir consapevole anche dell’esistenza del Tu. Così all’asserzione esistenziale nella «prima» persona seguì immediatamente quella nella «seconda persona», all’«Io sono» quel «Tu sei» che gli sta già intimamente e spiritualmente alla base (S., I, p. 254).
Ciò che Ebner propone qui è veramente rivoluzionario; da un lato è la proposta di una sorta di ontologia linguistica, dall’altro, in maniera consequenziale, troviamo l’affermazione che il linguaggio ha ontologicamente una struttura tuale. Parlare è parlare a qualcuno e quindi la stessa asserzione «io sono» in quanto «detta» è l’inizio della consapevolezza di essere «di fronte» a qualcuno, un qualcuno di cui si è bisognosi per affermare se stessi.43 L’essere accede allo spirito, alla dimensione personale e in tal modo si trasforma in linguaggio. Scrive Ebner:
Come non si può affermare l’esistenza dell’Io nella terza persona senza sfidare la contraddizione del pensare come quella dello spirito del linguaggio, così nemmeno quella del Tu. Le cose stanno altrimenti con il moi di Pascal che è impegnato sulla via della «spersonalizzazione». Non L’Io «è», bensì «io sono» — e anche: non il Tu «è», bensì «Tu sei». Nelle proposizioni «io sono» e «tu sei» — e solo in esse — viene affermato ed espresso un essere «personale»; non però nel senso di un esistere «sostanziale», la cui affermazione non può avere altra forma grammaticale che quella della «terza persona» (ovvero con il verbo essere in «è» e «sono») e in una certa visuale dà come premessa l’entrata in vigore della «tendenza alla sostanzializzazione» del pensare con la sua oggettivazione di tutto l’essere e dal punto di vista linguistico la denominazione che con questa va a braccetto. L’«è» esprime sempre in certo modo un essere impersonale; non solo quando sta in relazione con qualcosa di impersonale di per sé (animali, piante, cose), bensì anche quando viene impiegato verso una persona sia questa un uomo oppure Dio. L’asserzione dell’essere nella prima e nella seconda persona è sollecitazione e appellazione di un essere «soggettivo» (e qui intendiamo «personale»), quella nella terza persona sollecitazione e appellazione di un essere «oggettivo», «impersonale», «sostanziale». La denominazione sostantiva di ciò che di fatto esiste nell’«Io sono» e «Tu sei», non tocca di per sé mai direttamente questo esistente — nella sua personalità — bensì indirettamente per la deviazione della «terza persona», ovvero tramite la sfera della denominazione nel suo divenire parola sostantiva e dell’affermazione d’essere «oggettiva». Nella spiritualità della sua esistenza, nel suo essere immediato e «personale», l’uomo è senza nome (S., I, pp. 254-255).44
La correlazione essere e parola, che qui viene manifestata, apre a una dimensione ontologica assolutamente nuova e provocatoria per il pensiero filosofico che, per brevità, possiamo chiamare ontologia «pneumatologica», e che in realtà pone fortemente l’accento sulla traduzione linguistica attraverso cui l’essere «è detto». In realtà, la pneumatologia la si può pensare a partire da una «grammatica filosofica»45 e anche da una «filosofia della grammatica» che ne costituiscono dei presupposti fondamentali (cfr. S., II, pp. 240-41).46 Il rapporto della filosofia con il linguaggio è tutt’altro che estrinseco, ne è anzi una dimensione costitutiva.47 Il problema è però nella struttura fondamentale del linguaggio che è costitutivamente relazione48 dell’Io al Tu, a sua volta espressione dello spirituale nell’uomo, e la filosofia
non comprende del tutto questa relazione… Essa ha di mira soltanto un momento, il rapporto dell’Io a se stesso (l’io riflettente) e misconosce il rapporto dell’Io a quell’altro… Se la filosofia avesse considerato e inteso l’io nel suo rapporto al tu (nel quale e attraverso il quale esso esiste) immediatamente essa si sarebbe imbattuta dall’interno con il problema del linguaggio, riconoscendo in questo l’autentico centro, il centro gravitazionale dei suoi problemi, allora avrebbe anche compreso se stessa (S., II, p. 254).49
La riflessione interna all’asserzione ontologica elementare, che abbiamo ripreso da Descartes, ci ha permesso di compiere un percorso che ci ha portato molto lontano rispetto a quello dello stesso filosofo francese.
3. Tempo-linguaggio-verità
Per fornire un approccio più adeguato, pur nella sua brevità, dobbiamo ora prendere in considerazione in che modo si modificano i rapporti tra tempo, linguaggio e verità nella prospettiva dialogica che veniamo delineando. Fino a questo momento la nostra riflessione si è articolata su un piano fenomenologico che solo nell’ultima parte si è aperta a un approccio «ontologico» sui generis, un’ontologia però che non si colloca più nell’orizzonte intemporale dell’essenza, bensì nella temporalità della parola. Se ogni singolarità nella sua situazione partecipa ad una necessaria connessione con le altre singolarità con cui forma un mondo comune che proprio nella comunanza si rivela, occorre aggiungere che questa compartecipazione si manifesta come un’originaria An-frage,50 come domanda rivolta a qualcuno, come un rivolgere la parola, nell’ordine del sapere qualcosa o semplicemente in quello del saluto, come ha sottolineato E. Levinas.51 La relazione elementare accade nella parola, parola ascoltata52 e parola detta. Tra l’ascolto e il dire il tempo accade come differenza dei soggetti e come diacronia.
Possiamo riferirci a una splendida pagina di Franz Rosenzweig che è forse il pensatore che in maniera più decisiva ha riflettuto su questo aspetto formulando la nuova possibilità dello Sprachdenker, un pensatore assolutamente originale. Scrive Rosenzweig:
Parlare è legato al tempo, si nutre di tempo, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia che siano gli altri a dargli la battuta. Vive soprattutto della vita di altri. […] Nel dialogo vero qualcosa accade su serio; io non so prima che cosa l’altro mi dirà perché in realtà non so neppure che cosa dirò io, anzi non so neppure se parlerò; potrebbe anche essere l’altro a cominciare e anzi nei colloqui autentici per lo più è così. […] Il pensatore conosce in precedenza i propri pensieri, il fatto che egli li «esprima» è solo una concessione alle carenze dei nostri — così li chiama — mezzi di comunicazione interpersonale, le quali carenze non stanno nel fatto che abbiamo bisogno del linguaggio, bensì nel fatto che abbiamo bisogno di tempo. Avere bisogno di tempo significa non poter anticipare nulla, dover attendere tutto, per ciò che è proprio essere dipendenti dagli altri. […] La differenza tra pensiero vecchio e nuovo, tra pensiero logico e pensiero grammaticale, non consiste nell’esprimersi a voce alta o a bassa voce, bensì nel bisogno dell’altro o, il che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo.53
Nella pagina rosenzweighiana è detta la «svolta» a cui è chiamato il pensiero se vuole veramente «comprendere» la dialogicità della persona. La struttura parlante viene definita dalla temporalità non soltanto del limite, della finitezza, bensì dell’intervallo, del ritmo, della pazienza e dell’attesa. Ad ogni dire attivo si pone di fronte, non come ostacolo, ma come bisogno, un orecchio che «ha anche una bocca». Il tempo è scandito nel suo stesso accadere come evento della presenza. Al di fuori di questo evento siamo nell’intemporalità del pensare sub specie aeternitatis, sogno e mira dell’autentico pensiero filosofico, direbbe Rosenzweig. Ma anche chiusura dentro la Einsamkeit, la solitarietà dell’io che non ha ancora trovato la sua vera natura di Duhaftigkeit, la tuità, per dirla con Ebner. Il tempo si disegna così come «accadere relazionale» come il tessuto risultante dalle molteplici intersezioni del parlare e del rispondere. Anche il silenzio, in questa prospettiva, è abitato dalla stessa «dipendenza», poiché è ricco di voci, è esso stesso nutrito da quel bisogno degli altri che comunque restano presenti.
La relazione tra tempo e linguaggio si completa e si manifesta in tutta la sua portata se aggiungiamo un terzo termine, la verità. Ogni autentico dialogo si svolge nella tensione alla verità, si nutre di un discorso vero che manifesta anche la struttura profonda della persona.54
Anche Heidegger, come abbiamo visto, ha preso certamente sul serio il tempo, ma nel tempo dell’essere si è, per così dire, «dileguato» l’essente. Accettiamo la radicalità provocatoria della prospettiva heideggeriana della finitezza e relatività. L’uomo nel suo essere temporale non può che essere relativo; e tuttavia, in questa «fatticità» relativa permane come ab-solutus. La situazionalità non è soltanto limite, ma anche condizione di possibilità di percezione-autopercezione di sé come singolarità, una sorta peculiare di trascendenza rispetto alla stessa soggettività. La singolarità è l’assolutezza della soggettività.55 Si potrebbe applicare in maniera particolarmente feconda qui l’idea di separazione tematizzata da Levinas in Totalità e Infinito, ma qui ci basta raccogliere il dato. La singolarità non rimanda ad altro che a se stessa, è essenza e centro a se stessa, è «metaetica», per dirla con Rosenzweig. La differenza ontica la caratterizza prima di qualsiasi altra differenza. Mi pare questa la condizione fondamentale del dialogo.
Bisogna però compiere un ulteriore passo e comprendere la relatività come «relazionalità». Nella sua assolutezza, ogni soggettività singolare manifesta i caratteri del limite e del bisogno ontologico che la costituiscono. È il bisogno dell’altro, di cui parlava Rosenzweig nel passo citato, anche per la propria determinazione. Ciò giustifica il nuovo modello di conoscenza che occorre predisporre per approcciare l’uomo nella sua singolarità irriducibile a qualsiasi universalità. Ma questo è anche il punto da cui bisogna prendere le mosse per una teoria della verità dialogica. Molto opportunamente E. Cassirer, riflettendo sulla «crisi della conoscenza di sé dell’uomo», notava:
Non si può scoprire la natura dell’uomo allo stesso modo in cui si giunge a conoscere la natura delle cose del mondo materiale. Queste cose possono essere descritte riferendosi alle loro proprietà oggettive, mentre l’uomo può essere descritto e definito solamente in termini di coscienza. Ciò pone un problema del tutto nuovo, non risolvibile con i comuni metodi di indagine. […] Solamente mediante un pensiero dialogico o dialettico possiamo avvicinarci alla conoscenza della natura umana. In precedenza la verità era stata concepita come qualcosa di bello e fatto che poteva venir colta con uno sforzo intellettuale del singolo individuo ed essere poi trasmessa e comunicata ad altri. […] Per la sua stessa natura la verità è il risultato di un pensiero dialettico. Così non si può giungere ad essa senza la costante cooperazione di soggetti che si fanno domande e che rispondono. A differenza di ogni realtà fattuale, la verità si definisce per mezzo di un’attività sociale.56
Il filosofo neokantiano si colloca qui esplicitamente nell’orizzonte di una filosofia della cultura, come suona anche il sottotitolo del suo libro, e tuttavia le sue affermazioni trovano riscontro anche se ci si colloca in una dimensione ontologica nuova.
Dire la verità significa essere nella verità, ma credo si possa anche aggiungere, configurando una sorta di ontologia della singolarità, che apre ad un orizzonte elementare di eticità, che dire la verità significa essere veri. Nessun dialogo e nessuna interpretazione è possibile senza questa elementare condizione di volontà di verità, farsi veri. Ciò significa naturalmente anche che il dialogo costitutivamente appartiene a un orizzonte debole e che la sua efficacia riposa in una «volontà» di verità, vero e proprio trascendentale pratico. Non è questo il luogo per approfondire questa direzione del percorso a cui basta questa rapida allusione.
Torniamo, invece a riflettere al piano ontologico del nostro problema, al rapporto tra essere nella verità e dire la verità che svelano prospettive nuove per percorsi inediti nella direzione di una filosofia della differenza. Serviamoci di un passo gadameriano di Verità e metodo, dove il dialogo è visto nell’ottica del gioco e in cui risuona tuttavia, l’ispirazione di un’opera di E. Fink:57 “Il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco che si pro-duce attraverso i giocatori”.58 Poco oltre Gadamer aggiunge:
Ogni giocare è un essere giocato. Il fascino del gioco, l’attrazione che esso esercita, consiste appunto nel fatto che gioco diventa signore del giocatore. Anche quando si tratta di giochi in cui ci si sforza di realizzare compiti che si sono scelti, quel che costituisce il fascino del gioco è il rischio, l’incertezza… Colui che così prova è in realtà egli stesso messo alla prova. L’autentico soggetto del gioco… non è il giocatore, ma il gioco stesso. È il gioco che ha in sua balia il giocatore, lo irretisce nel gioco, lo fa stare al gioco.59
La prospettiva gadameriana, certamente corretta dal punto di vista ermeneutico nell’orizzonte heideggeriano, non è del tutto soddisfacente per una teoria dialogica della verità. Questa infatti esige la consistenza dei soggetti ripensati nell’ottica della singolarità, ma anche un’ontologia della verità come fondamento dello stesso essere dei soggetti. La logica sottesa reclama il superamento del principio di determinazione e l’apertura al rischio, che però è anche l’avventura, dell’andare incontro alla verità in una situazione di incertezza, quale appunto il dialogo presuppone. Il pensiero della verità, oltrepassando l’ostensività della determinazione, oserei dire, oltrepassando anche il piano della manifestatività fenomenologica, non può che essere rivelativo, una rivelazione tuttavia che accade nel dire la verità. Se si considera la situazionalità della persona, a cui si è fatto riferimento in precedenza, e il suo carattere finito, la sua struttura ontologica, è lecito dire che «della verità non c’è che interpretazione e che non c’è interpretazione che della verità».60 La verità «consiste» nella suo rivelarsi, in un processo continuo di disvelamento e occultamento, mai completamente e totalmente data e tuttavia sempre a disposizione, senza poter in alcun modo essere colta nella dimensione strumentale della utilizzabilità. A portata di mano e mai utilizzabile. Nella rivelatività è detta una trascendenza che nel discorso viene a manifestazione. La persona nella sua singolarità è la struttura disvelante, la condizione di possibilità della presenza della verità, ma proprio perciò anche senso del limite della prospettiva, bisognosa delle infinite possibilità prospettiche che si relazionano senza relativizzarsi. Il dialogo è bisogno di verità. La persona acquista il senso di un «testimone intelligente».61 Nell’espressione è detta insieme la trascendenza di ciò che si testimonia e l’attività personale insostituibile e, soprattutto, mi sembra che si possa accogliere come riformulazione di un pensiero concreto in cui non si postula più soltanto un soggetto astratto e disinteressato, come direbbe Husserl, bensì una nuova modalità di dizione del senso. Pareyson ha formulato in maniera rigorosa il senso di questo percorso in Verità e interpretazione, quando scrive:
Dire che l’interpretazione è insieme e inseparabilmente rivelativa e storica è come dire che la verità è accessibile soltanto all’interno di ogni singola prospettiva, la quale, a sua volta, è la stessa situazione come via d’accesso alla verità: non si può rivelare la verità se non già determinandola e formulandola, il che accade solo storicamente e personalmente. La verità allora, pur essendo unica,62 non si presenta mai con una determinazione sua propria, in una formulazione che sia riconoscibile come unica e definitiva, ma si offre solo all’interno della formulazione che, di volta in volta, se ne dà ed è inseparabile da essa, sì che l’unico suo modo di comparire è appunto la singolarità delle sue formulazioni personali e storiche.63
La verità dialogica è quindi sempre e necessariamente una verità-frammento e tuttavia, nel frammento, totalità. È questo il presupposto dell’essere nella verità come inserimento in un discorso infinito. L’infinitezza del discorso rimanda tuttavia, non soltanto ad un’incompletezza che, com’è noto, Pareyson chiama «ontologia dell’inesauribile», bensì soprattutto a ciò che Rosenzweig ha definito bisogno del tempo e bisogno dell’altro. Se il discorso sarà sempre e soltanto prospettico, ciò acquista il significato di un compito. Dire la verità non è soltanto rilevante sul piano categoriale, ma lo sarà ancora di più su quello del dovere che mi lega inscindibilmente all’infinità delle altre prospettive. La singolarità posta davanti alla differenza manifesta una valenza plurale del discorso. Il pensiero rivelativo, per natura dialogico, manifesta la verità interpretata in un’offerta-scambio di senso da accogliere come dono della/dalla differenza. La famosa Sinngebung, la donazione di senso che abbiamo appreso dalla fenomenologia, nell’ottica della ragione dialogica diventa vero e proprio dono del senso, dono della verità alla differenza che nel discorso si fa responsabilità per la verità. Nel discorso infinito, in cui ciascuno è originariamente inserito, si manifesta in tutta la sua forza la simbolicità della verità. La verità è simbolica, nel senso etimologico del termine, e nella sua rivelazione, attraverso la dialogicità della ragione, viene alla luce la stessa simbolicità dell’uomo, struttura finita e bisognosa della differenza. Il mio dono di senso all’altro manifesta il mio bisogno dell’altro.
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Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. II, p. 46. ↩︎
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Ivi, p. 260. ↩︎
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Ivi pp. 257-258. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Ivi, p. 260. ↩︎
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Cfr. p. 56. ↩︎
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Ivi, pp. 58-59. ↩︎
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Cfr. ivi, pp. 63-65. ↩︎
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Cfr. p. 60. ↩︎
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Intitolato: Kann es getrennte Subjekte bezogen auf getrennte Welten geben? Bedingungen der Möglichkeit der Koexistenz von Subjekten. Deduktion, daß er nur eine Welt, nur eine Zeit, einen Raum gegeben kann. ↩︎
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Ivi, p. 91. ↩︎
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A p. 93 leggiamo: «La possibilità dell’esperienza di essenti non è la possibilità dell’immaginazione di esperienze degli essenti. Come non sono la stessa cosa un essere come essere reale e idealmente essere possibile, così una possibilità di esperienza è “reale” cioè una possibilità motivata in un soggetto reale è qualcosa di diverso da una possibilità “ideale” come meramente immaginata possibilità reale in relazione a soggetti puramente immaginari. Esperienza significa “rea-lizzazione” di un essente nella conoscenza di un soggetto, e un essente è polo intenzionale, polo di una “reale” intenzionalità, esistente in soggetti reali, come reale vissuto o come reale disposizione, facoltà, capacità. Quindi un essente e un indice per soggetti costituenti, una reale possibilità di rivolgersi al polo, all’oggetto, di comprenderlo, di portarlo alla costituzione realizzante in un colpo solo o in processi regolati della “realizzazione” progressiva, Ciò vale per ogni oggetto possibile, che è da considerare come essente, vale anche per un soggetto, per uno spirito, per un concreto soggetto umano. Esso è soggetto e al tempo stesso oggetto, polo intenzionale per l’io, che in esso stesso è ed è costituito, e per il quale lo stesso soggetto concreto è costituito e di conseguenza può essere oggetto di una conoscenza possibile. La monade non è un flusso fluente per nessuno; in esso stesso sta il qualcuno per il quale il flusso può divenire oggettivamente oggetto di conoscenza». ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Ivi, p. 99. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Ivi, pp. 102 e 103. ↩︎
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Ivi, pp. 256-266. ↩︎
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Ivi, p. 18. ↩︎
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Ivi, pp. 268-272. ↩︎
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Cfr. pp. 270-272. ↩︎
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Ivi, p. 265. Per ulteriori approfondimenti, mi permetto di rimandare al mio saggio: «Il “senso” della persona nel Großes systematisches Werk di E. Husserl», da cui ora ho ripreso alcune pagine, ora in E. Baccarini, La persona e i suoi volti. Etica e antropologia, Anicia, Roma 1996. ↩︎
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M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996, p. 473. ↩︎
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Ibid., p. 474. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1969, cit., p. 260. ↩︎
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Ibid., p. 261. ↩︎
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Ibid., p. 92. ↩︎
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Si veda il saggio del 1983, «Meurt le personnalisme, revient la personne», ora in Id., Lectures 2. La contrée des philosophes, Ed. du Seuil, Paris 1992, tr. it. La persona, Morcelliana, Brescia 1997, p. 27. ↩︎
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Si veda il suggestivo capitolo XII della sua Logique de la philosophie, Paris 1950, tr. it. Logica della filosofia, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 389-435. ↩︎
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London 1959. Le citazioni si riferiscono alle pp. 101 e 103. ↩︎
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È questo il titolo di un’opera particolarmente preziosa per la nostra argomentazione a cui mi riferirò anche in seguito (De Gruyter, Berlin-New York, 1976). ↩︎
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Ibid., p. 144. ↩︎
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Si veda di Scheler Essenza e forme della simpatia, opera che risale al 1923. ↩︎
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Si veda ancora l’opera citata di Gurwitsch, pp. 153ss. ↩︎
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München 1928. ↩︎
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Il passo è tratto dal saggio «Le subjectivisme de la phénoménologie husserlienne et l’exigence d’une phénoménologie asubjective» del 1971, ora nel volume Qu’est-ce que la phénoménologie, Millon, Grenoble 1988. ↩︎
-
R. Descartes, Œuvres philosophiques, ed. F. Alquié, Garnier, Paris 1967, vol. II, pp. 415-416. ↩︎
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Ibid., rispettivamente p. 416 e 183. ↩︎
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Ibid., rispettivamente p. 420 e 185. ↩︎
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L’espressione è di H. Rombach, Über Ursprung und Wesen der Frage, Alber, Freiburg/München 1952, 19882, p. 23, che poco più avanti definisce la situazione «als die natürliche Dimension menschlichen Daseins». Si potrebbe dire che l’ontico precede l’ontologico. L’opera del Rombach è veramente fondamentale per l’originalità del suo approccio e ad essa rimando per ulteriori approfondimenti. L’Autore sottolinea la differenza tra Frage e An-frage, dove nel caso dell’umano il vero domandare è sempre un domandare-a. ↩︎
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Schriften I-III, Kösel-Verlag, München 1963. Citerò direttamente nel testo con l’abbreviazione S. seguita dal volume e dal numero della pagina. ↩︎
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Si può vedere ciò che Ebner scrive nel Grundgedanke ai suoi Frammenti (S., I, pp. 81-82). Intorno a questo Grundgedanke e alla sua elaborazione teoretica si veda il bel libro di A.K. Wucherer-Huldenfeld, Personales Sein und Wort. Einführung in den Grundgedanken Ferdinand Ebners, Wien-Köln-Graz 1985. Lo stesso autore aveva già dedicato un breve saggio «Der Grundgedanke Ferdinand Ebners», nel volume degli Atti del Simposio di Gablitz per il cinquantesimo della morte e il centenario della nascita di F. Ebner, Gegen den Traum vom Geist. Ferdinand Ebner, Salzburg 1985. ↩︎
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Per un primo approccio a uno dei problemi che ritengo cruciali dell’intera proposta ebneriana rimando al bel saggio di B. Casper, «Bedürfen des Anderen und Erfahrung Gottes. Zur religionsphilosophischen und theologischen Bedeutung des Werkes Ferdinand Ebners», nel volume degli Atti di Gablitz citato, pagine 128 sgg. ↩︎
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Si veda anche la suggestiva annotazione del 1/9/1921 (S., II, p. 285). Si comprende da queste annotazioni di Ebner, perché «dare il nome» è una rinascita di un essere nello spirito. Cfr. p. 275. ↩︎
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Sarebbe interessante, ma, data la novità dell’argomento, anche troppo lungo, riferirsi alla figura di E. Rosenstock-Huessy, a mio avviso uno dei più grandi «pensatori della parola». Si vedano gli scritti su questo argomento raccolti nei due volumi Die Sprache des Menschengeschlechts. Eine leibhaftige Grammatik in vier Teilen, Verlag Lambert Schneider, Heidelberg 1963. ↩︎
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Cfr. la suggestiva annotazione del 14/12/1917 (S., II, p. 245). ↩︎
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Infatti, scrive Ebner: «Il problema della parola è il problema dello spirito. Nel problema della parola, anche se non sono risolti tutti i problemi della filosofia, sono tuttavia sbrogliati. Presupposto che la filosofia ha il proprio autonomo significato accanto alla scienza della natura e che ha il proprio significato appunto nel fatto che fa suo il problema dello spirito, allora il problema della parola è giustamente il suo autentico problema. Finora essa lo ha eluso, lo ha sempre sfiorato soltanto occasionalmente. In un unico caso essa lo ha preso in un’intenzione totalmente scettica che era uno sbaglio e un errore nel senso più profondo. Infatti chi si accosta al problema del linguaggio senza fiducia nella parola, senza fede nella parola, costui non comprende assolutamente il significato ultimo della realtà che l’uomo ha la parola. Sta nell’essenza della parola esigere la fede. Sta nella sua essenza che nell’attualità del suo essere data implichi ed esiga la posizione della personalità. Posizione della personalità, proprio questa è la fede» (S., II, p. 255). ↩︎
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Tra i tanti passi possibili si veda quanto scrive Ebner il 29/7/1921: «Le realtà della vita spirituale, l’io e il tu, sono “soggettivamente”, la parola, in cui è dato il rapporto di entrambi, l’uno all’altro, è “oggettivamente”. Propriamente la parola nella sua oggettività è al di fuori dell’Io e del tu, poiché essa li comprende entrambi nel loro rapporto reciproco: l’io e il tu sono in essa. Ma d’altro canto, la parola non è nulla senza l’io e il tu; se essa non comprende in sé il rapporto di ambedue è un segno morto, una morta astrazione» (S., II, p. 275). ↩︎
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Per ulteriori approfondimenti rimando al mio saggio «[In principio era la parola. La svolta di Ferdinand Ebner](emilio-baccarini-01 “Articolo su Dialegesthai”)», Dialegesthai, anno I (1999), che sarà pubblicato anche nel volume di AA.VV., La filosofia del linguaggio di Ferdinand Ebner, Morcelliana, Brescia. ↩︎
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Cfr. H. Rombach, op. cit., pp. 15 sgg. dove si legge: «Das Mitsein in einer Situation ist in sich schon ein Ansprechen». ↩︎
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Cfr. per esempio il saggio «L’ontologia è fondamentale?», in Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, Jaca Book, Milano 1998. ↩︎
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Sulla dimensione dell’ascolto rimando al bel libro di R. Mancini, L’ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995. Tutto il cosiddetto pensiero dialogico ha insistito sulla doppia valenza del linguaggio e direi anche sull’originarieta dell’ascolto, ma su ciò non possiamo fermarci oltre in questo contesto. ↩︎
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Franz Rosenzweig, «Das neue Denken», Der Morgen, 1 (1925), Heft 4, , tr. it. in Id., La scrittura, a cura di G. Bonola, Città Nuova, Roma 1991, p. 271. I corsivi sono miei. ↩︎
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Per un maggiore approfondimento di questi aspetti che qui possono essere soltanto accennati, mi permetto di rimandare a due miei precedenti saggi: il primo è «Dialogo e persona», risale al 1977 ed è stato pubblicato sulla Rivista di Filosofia Neoscolastica, l’altro è «Ragione ermeneutica come ragione dialogica», pubblicato su Hermeneutica nel 1997. ↩︎
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L. Stefanini scrive: «L’ente personale è un universale perché nella sua unicità, non è parte di un tutto, ma un tutto nel tutto… Particolare e universale coincidono nel concetto determinatissimo della singolarità personale» (Métaphysique et ontologie, Atti del XI Congresso Internazionale di Filosofia, Bruxelles 1953). ↩︎
-
E. Cassirer, Saggio sull’uomo, Roma 1968, p. 51. ↩︎
-
Il gioco come simbolo del mondo.. ↩︎
-
Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 133. ↩︎
-
Ibid., pp. 137-138. ↩︎
-
L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano 1971, p. 53. ↩︎
-
L’espressione è di S. Strasser nella sua opera, preziosa in questa prospettiva, Phénoménologie et sciences de l’homme. Vers un nouvel esprit scientifique, Paris-Louvain 1967, p. 165. ↩︎
-
Io aggiungerei che ciò accade soltanto se la verità è unica. ↩︎
-
Op. cit., pp. 60-61. Si veda anche Strasser, op. cit., pp. 229-236. ↩︎