1. Il problema
Com’è noto, l’espressione to páthos tou philosóphou posta a titolo di queste note, è di Platone, che vede questa «passione» nella meraviglia, nello stupore, nel thaumázein. La filosofia occidentale ha variamente ripetuto questo tema, che qui vogliamo ancora una volta riprendere per correlarlo alla questione dell’originario.
È legittima la domanda «che cos’è l’originario?» In altri termini, è legittimo porre la questione «categoriale» intorno a un tema che per definizione si pone al di là dell’uso possibile delle categorie, sia della categorialità ontologica aristotelica, che di quella gnoseologica kantiana? Di questo particolare «oggetto» non è possibile dire alcunché e, tuttavia, non è nulla, ma non rientra neanche nel «qualcosa». L’originario non è qualcosa e non è nulla, ad esso non può applicarsi il principio del fondamento, e quindi neppure la correlata logica del principio di ragione. Sembrerebbe un «al di là dell’essere». Non è neppure semplicemente meta-fisico. La sua presenza-assenza è stata e continua ad essere per il filosofo appunto la sua «passione».
In termini descrittivi o fenomenologici possiamo tentare un approccio a questa assenza che tuttavia si manifesta e si annuncia rompendo con gli schemi della rappresentazione. Mettendo insieme il linguaggio kantiano e quello husserliano, possiamo dire che di fronte all’originario la coscienza è perennemente «modalizzata», impossibilitata all’esercizio dell’apophansis e quindi della logica che è per essenza discorso apofantico. È pre-dato insieme ad ogni datità, ma sempre al di fuori di qualsiasi prensione intenzionale. Nel pre è detta una preliminarità che colloca l’originario fuori, oltre il limite, unico spazio di applicazione e di esercizio della categorialità apofantica, ma insieme lo annuncia come condizione del limite e quindi non dato, bensì inizio. L’inizio non è origine, e quindi fuori della presa della logica dell’essenza.
Il pensiero umano è costretto, in tal modo, a situarsi in maniera totalmente nuova, a rimodularsi, di fronte all’originario e soprattutto alla domanda che lo annuncia: perché l’essere piuttosto che il nulla? O anche, più semplicemente, perché l’essere è? il punto di partenza di questa rimodulazione deve necessariamente essere l’asserzione ontologica fondamentale, l’essere è, che si presenta nella sua immediatezza, non nella forma rappresentativa neutra, ma nella prima persona che si trova coinvolta nella domanda, io sono. Senza questa prima asserzione, infatti, non sarebbe possibile nessun altro tipo di asserzione, come mostra con estrema lucidità Descartes all’inizio della filosofia moderna: je suis, j’existe, è il primum logico di orientamento di tutta l’indagine successiva che troviamo dopo l’azione demolitrice del dubbio. In questa nuova prospettiva l’originario permette di mutare l’ottica fondamentale e di passare dalla logica del dato a quella del dono. Ma forse stiamo anticipando troppo. Avviciniamoci per approssimazioni successive, cercando nella storia del pensiero alcuni modelli di questo darsi dell’originario che si presentano sempre nella forma dell’affezione e mai in quella della determinazione. Mi limiterò a riflettere su alcuni passi platonici sull’eros — ma in questa linea di pensiero, potremmo anche ricordare Agostino, Bonaventura, Cusano o Pascal —, l’idea d’infinito di Descartes, la dialetticità della ragione di Kant e, infine, ci possono essere di aiuto le riflessioni husserliane sulla sintesi passiva e sul «precategoriale».
2. La théia manía e lo stupore della ragione
Iniziamo la nostra breve indagine dal Fedro platonico, da quella «teoria della divina mania» presentata nel discorso di Socrate, per comprendere la natura di Eros. Se le espressioni che Platone mette in bocca a Socrate vengono ripensate nel nostro contesto, assumono una valenza particolarmente suggestiva. Afferma Socrate:
I beni più grandi ci provengono da una mania che ci viene concessa per dono divino. Quando si trovavano in stato di mania (hieréiai manéisai) la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona procurarono alla Grecia molti e bei benefici sia in privato che in pubblico, mentre quando si trovavano in stato di senno (sophronóusai), ne procurarono pochi o nessuno (Fedro, 244a-b, corsivo mio).
Senza la mania non si dà neppure vera poesia: «Ma chi giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, pensando che potrà essere buon poeta in conseguenza dell’arte (ex téchnes), resta incompleto, e la poesia di chi rimane in senno viene oscurata da quella di coloro che sono posseduti da mania» (245a).
Socrate, com’è noto, distingue due forme di mania, «una che deriva da malattie umane, l’altra, invece, che deriva da un divino mutamento radicale delle comuni consuetudini» (265a, corsivo mio). La «svolta» teoretica che propone poi Socrate, ci conduce direttamente alla definizione del dialettico come colui che è «capace di dividere e unificare per essere capace di parlare e di pensare» (266b, cfr. Repubblica VII, 534 b3-d1), cioè colui che è capace di guardare all’Uno ma anche ai Molti, cioè di guardare ai molti perché sa guardare all’Uno, ma proprio questa non è opera della sola ragione. Com’è noto, infatti, per Platone, la contemplazione dell’Uno corrisponde a una sorta di ritorno memorativo alla dimensione originaria. L’originario non può essere totalmente ri-presentificato, è la condizione dell’unificazione, ma in quanto tale estraneo alla stessa operazione di unificazione. L’originario non può essere attinto per via esclusivamente «tecnica», la ragione «calcolante», la ragione che rende conto, non possiede gli strumenti adeguati per questo approccio. Il suo compito, in questo particolare ambito, è quello di saper cogliere i luoghi del pháinesthai.
Il dialettico è colui che è «posseduto» dalla «divina mania» che in lui opera un «radicale mutamento delle comuni consuetudini». Questa è la «stranezza» del filosofo, abitare un luogo utopico, il luogo della memoria, che gli permette di «ri-conoscere» l’originario che si presenta. Forse per questo, nel termine verità, aletheia, risuona la potente voce della non-dimenticanza. Il discorso vero è quello che sa ricondurre il molteplice all’unità paradigmatica della memoria di un passato ora presente soltanto nella dimensione del «pathos», dell’affezione più radicale. Un «pathos divino», però, una «théia manía». A partire da queste brevi annotazioni sarebbe possibile ripensare la dialettica interna della temporalità propria del lógon didónai, almeno come si è poi strutturata nell’Occidente, l’esperienza filosofica come «passato», su cui tanto ha insistito per esempio Hegel.
Pure al passato, ma ora del tutto particolare in quanto fuori degli orizzonti della temporalità in senso proprio, si riferisce la riflessione cartesiana quando cerca di «rendere conto» dell’idea dell’infinito. Tuttavia in questo «passato» si esprime una passività che, in questo caso, non si tramuta neppure in «passione», ma evidenzia, in maniera esasperata, la logica del limite che, però, non è meno luminosa nella sua capacità rivelativa. L’idea di Dio, così come la presenta Descartes, è forse uno dei luoghi in cui l’epifania dell’originario si è prodotta con maggior forza, al di là dei limiti della stessa ragione e, tuttavia, senza che la ragione ne resti umiliata, bensì esaltata. Com’è noto, Descartes presenta l’idea di Dio partendo da una riflessione che potremmo definire categoriale, cioè l’origine delle idee. L’idea di Dio trascende radicalmente le capacità logico-deduttive dell’uomo. Nell’idea di Dio
il faut considerer s’il y a quelque chose qui n’ait pu venir de moi même. Par le nom de Dieu j’entends une substance infinie, éternelle, immuable, indépendante, toute connaissante, toute-puissante, et par laquelle moi-même, et toutes les autres choses qui sont […] ont été créées et produites. Or ces avantages sont si grands et si éminents, que plus attentivement je les considère, et moins je me persuade que l’idée que j’en ai puisse tirer son origine de moi seul. Et par conséquent il faut nécessairement conclure de tout ce que j’ai dit auparavant, que Dieu existe; car, encore que l’idée de la substance soit en moi, de cela même que je suis une substance, je n’aurais pas néanmoins l’idée d’une substance infinie, moi qui suis un être fini, si elle n’avait été mise en moi par quelque substance qui fût véritablement infinie.
L’idea dell’infinito in me è l’originario realissimum, condizione di possibilità, senza essere un trascendentale, della stessa coscienza del dubbio, per cui è possibile dire che essa è preliminare alla stesa nozione di finitezza che mi costituisce. L’originarietà dell’idea dell’infinito è ancora, per Descartes, il paradigma del limite, della struttura carente che descrive l’uomo. Di fronte a questa idea, che però per Descartes non è soltanto idea, il filosofo francese confessa l’impotenza della capacità della ragione e conclude la sua meditazione dicendo:
Il me semble très à propos de m’arrêter quelque temps à la contemplation de ce Dieu tout parfait , de peser tout à loisir ses merveilleux attributs, de considerer, d’admirer et d’adorer l’incomparable beauté de cette immense lumière, au moins autant que la force de mon esprit, qui en demeure en quelque sorte ébloui, me le pourra permettre.
La sequenza dei verbi proposta dal filosofo è particolarmente illuminante, sono una sorta di «dichiarazione di resa» di fronte al mistero che non si presenta semplicemente come l’ignoto, bensì come l’eccesso di luce che «acceca». Il «razionalista» Descartes non ha timore di usare il verbo «adorare» che esplicita certamente il limite «della forza dell’intelletto», ma che è anche consapevolezza di contenere un dato-dono («messa in me» dice dell’idea dell’infinito Descartes) che eccede le possibilità «manifestative». Riflettendo su questi limiti e riportandoli a un orizzonte fenomenologico, Levinas ha riproposto il testo cartesiano in un contesto decisamente originale. Nel saggio Dio e la filosofia Levinas scrive:
L’idea di Dio, cogitatum di una cogitazione che di primo acchito la contiene — […] — oltrepassa ogni capacità; la sua «realtà oggettiva» di cogitatum, fa saltare la «realtà formale» della cogitazione. Ciò rovescia, ante litteram, la validità universale e il carattere originario dell’intenzionalità. Diremo che l’idea di Dio fa saltare il pensiero che — investimento, sinossi e sintesi — non fa altro che rinchiudere in una presenza, rap-presenta, riporta alla presenza o lascia essere.
L’idea di Dio spezza le possibilità rappresentative della coscienza e si colloca nell’al di là della comprensione.
E tuttavia, prosegue Levinas, l’idea di Dio — o Dio in noi — come se il non-lasciarsi-inglobare fosse anche una relazione eccezionale con me, come se la differenza tra l’Infinito e ciò che doveva inglobarlo e comprenderlo, fosse una non-indifferenza a questo impossibile inglobamento, non-indifferenza dell’Infinito per il pensiero: posizione (mise) dell’Infinito nel pensiero, ma completamente diversa da quella che si struttura come comprensione del cogitatum attraverso una cogitazione. Posizione come passività senza pari, poiché inassumibile. […] O più esattamente, come se lo psichismo della soggettività equivalesse alla negazione del finito da parte dell’Infinito, come se, senza voler giocare con le parole, l’in dell’Infinito significasse insieme il non e l’in.
Forse è proprio la «dialettica» tra «non» e «in» che giustifica il fatto che il filosofo, ma direi ogni uomo che si interroga sul senso dell’esistenza, possiede la passione dell’originario come quella nascosta, presente-assente, riserva di senso in cui è custodito il segreto e che proprio per questo attrae e sollecita e che continua quindi a porre interrogativi, anzi che fa della vita e della riflessione un’interrogazione. È per questa domanda ultima che lo abita che l’uomo è essenzialmente un interrogante. Con un linguaggio paradossale possiamo dire che l’interrogativo umano intorno all’originario ha la struttura di una risposta. È un’autentica esperienza e, tuttavia, senza giudizio, esperienza quindi meta-logica e meta-fisica, in cui lo stupore, origine di ogni conoscenza, viene meno in quanto lascia il posto ad un’angoscia radicale.
Forse Kant, pur nella lucidità delle sue analisi, è l’autore che più ha percepito il senso dell’angoscia confessato nella percezione del limite e, insieme, nella necessità della «posizione» dell’incondizionato che è un altro nome per ciò che chiamiamo originario. La lucidità, apparentemente fredda lucidità, della proposizione con cui Kant apre la sua Critica della ragion pura è una sconcertante confessione di quella situazione originaria che si diceva, in cui cioè l’interrogazione è piuttosto un tentativo di risposta. Credo la si possa definire uno dei luoghi più veri dell’emergenza della coscienza dell’originario. Rileggiamola in questa ottica:
In un genere delle sue conoscenze, la ragione umana ha il particolare destino di venir assediata da questioni che essa non può respingere, poiché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non può neppure dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della ragione umana.
Necessità e impossibilità, tenere insieme questi due concetti senza provocarne l’elisione reciproca, è la genialità della Critica kantiana, e la «Dialettica trascendentale» è la chiara esibizione del tentativo di mantenere questo equilibrio. E infatti, l’originario si presenta proprio con queste due caratteristiche, necessario, e ciò giustifica il pathos del filosofo, ma anche impossibile, di qui l’angoscia di trovarsi di fronte all’abisso. La fenomenologia della ragione che Kant compie esibisce la possibilità e i limiti intrinseci a una qualsiasi «logica della determinazione» e in tal modo guadagna però un risultato tutt’altro che secondario e cioè che una riflessione metodologica sulla fondazione conduce in ultima istanza a un’ontologia del fondamento. Verso la conclusione della impossibilità della prova cosmologica dell’esistenza di Dio, Kant ha scritto una delle pagine più sconvolgenti della storia della filosofia che molto ha fatto pensare Schelling e su cui infine è tornato Pareyson. Scrive Kant ripetendo ancora una volta la dialettica tra necessità e impossibilità che si diceva:
L’intera questione dell’ideale trascendentale consiste o nel trovare un concetto adeguato alla necessità assoluta, oppure nello scoprire, rispetto al concetto di una qualche cosa, la necessità assoluta di essa. Se si può giungere a uno di questi risultati, si dovrà giungere altresì all’altro. Soltanto ciò che è necessario in base al proprio concetto, difatti, può essere riconosciuto dalla ragione come assolutamente necessario. L’uno e l’altro risultato, però, sono del tutto inattingibili, nonostante le più ardite aspirazioni di soddisfare il nostro intelletto su questo punto, ma d’altro canto sono pure vani gli sforzi per acquietarlo a riguardo di questa sua impotenza. La necessità incondizionata, che noi richiediamo così urgentemente come sostegno ultimo di tutte le cose, è il vero abisso della ragione umana. Persino l’eternità […] è ben lungi dal recare all’animo una simile impressione di vertigine. L’eternità, infatti, misura soltanto la durata delle cose, ma non la sostiene. Non ci si può trattenere dal pensare (ma tale pensiero è altresì intollerabile) che un ente da, da noi rappresentato d’altronde come il supremo tra tutti gli enti possibili, debba dire a se stesso: io esisto dall’eternità e per l’eternità, al di fuori di me non esiste nulla, se non ciò che è qualcosa mediante la mia volontà, ma donde sono sorto io allora? A questo punto tutto sprofonda sotto di noi, e tanto la massima perfezione quanto la minima ondeggiano senza appoggio, semplicemente di fronte alla ragione speculativa, alla quale non costa nulla far scomparire senza il minimo ostacolo tanto l’una quanto l’altra.
Ho riportato per intero questo passo per la sua decisività, anche se bisogna notare che Kant qui parla ancora di «ente» riferendosi a Dio, prestando il fianco all’accusa che gli verrà mossa di situarsi ancora nell’onto-teologia. Ma allora la situazione dell’uomo è quella di «permanere» nell’oscillazione o, questa può essere oltrepassata in qualche modo? «Che cosa possiamo sperare?», per dirla ancora con lo stesso Kant.
3. Precategorialità e trascendenza: il «naufragio del pensiero» come automanifestazione dell’originario
Dal punto di vista teoretico-categoriale, la speranza è sicuramente vana, come ha mostrato gran parte della filosofia contemporanea. Per dirla con Wittgenstein, dobbiamo essere consapevoli che non tutto il pensabile è dicibile nella forma definitoria («Tutto il senso del libro — scriveva il filosofo austriaco nell’introduzione al Tractatus, ma era anche l’ultima proposizione dello stesso — si potrebbe riassumere nelle parole: Quanto può dirsi, si può dire chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»), il che significa che occorre trovare altre strade. E, tuttavia, l’ineffabilità non è il vicolo cieco del non senso, bensì una sorta di confessione del limite che abita l’uomo: «V’è davvero dell’ineffabile — scrive ancora Wittgenstein — Esso mostra sé, è il mistico.» Se prendiamo l’espressione wittgensteiniana veramente sul serio, ci troviamo di fronte a una svolta che ci costringe a riformulare i modi di porsi di fronte all’originario, non più nell’attività della coscienza, bensì nella passività. Dell’originario non si dà sapere nel senso usuale del termine, anche se possiamo farne esperienza, come abbiamo detto, e propriamente non siamo di fronte né allo scetticismo, né all’agnosticismo teoretico in senso proprio. Esperienza senza giudizio quindi. O, anche, esperienza di ciò che rende possibile il giudizio. La pre-categorialità è il rimando al piano originario della Lebenswelt, nella quale soltanto è possibile la formulazione dell’asserzione ontologica «io sono», che dischiude il proprio significato di essere dativo. Proviamo a riflettere brevemente sul rimando alla precategorialità come esperienza originaria quale si è presentata in due autori particolarmente significativi del pensiero filosofico del Novecento: Husserl e Jaspers.
Abbiamo affermato sopra che l’originario si presenta come struttura paradossale, di non essere cioè un nulla, ma neppure un qualcosa; di fronte ad esso il soggetto è in un atteggiamento di passività. L’originario si impone, affètta l’io, senza però mai entrare pienamente nel campo della coscienza. La sua costituzione fondamentale è di permanere nella trascendenza, ossia nella differenza. La capacità di affezione che questo particolare «oggetto» esercita è forse la più grande di cui l’uomo sia in grado di accorgersi, ciò nonostante non può mai giungere alla soddisfazione dell’Erfüllung, quindi l’atto intenzionale che cercherà di portarlo a manifestazione permarrà sempre nell’incompiutezza e questo, in linguaggio fenomenologico, significa che non si può mai giungere alla perfetta adeguazione dell’evidenza. L’originario permane sempre «pre-liminare», l’atto della coscienza rimane sempre sulla soglia, in quanto la sua attività è s-proporzionata, come diceva Levinas. La forza attrattiva dell’originario tiene «sveglia» la coscienza. Scrive Husserl, naturalmente nell’ottica chiarificatrice delle operazioni intenzionali, ma il passo è pienamente significativo anche nel nostro contesto:
Il compiersi del volgimento è ciò che noi indichiamo come l’essere sveglio dell’io. […] Vegliare significa dirigere lo sguardo a qualcosa. Essere svegliati significa subire un’affezione efficace; uno sfondo diviene ‘vivo’ e a partire da esso gli oggetti intenzionali si avvicinano più o meno all’io, questo o quell’oggetto attrae a sé più o meno l’io. l’oggetto arriva all’io quando questo gli si volge. In quanto l’io nel suo volgersi accoglie ciò che gli è già dato per lo stimolo afficiente, noi possiamo qui parlare di ricettività dell’io.
L’affezione si tramuta in attenzione interessata e, tuttavia, proprio qui abbiamo l’orizzonte fenomenologico a partire da cui possiamo comprendere che questo interesse non potrà mai essere totalmente appagato e che quindi non ci sarà mai il «soddisfacimento delle intenzioni di aspettazione».
Di fronte all’originario la coscienza intenzionale è tenuta sveglia da una permanente «modalizzazione». Dal punto di vista ontologico e da quello antropologico si disegna qui il senso fondamentale di quella che possiamo chiamare la metafisica del limite o anche della differenza, ora però con consapevolezza diversa da quella kantiana. Infatti, non si tratta più semplicemente si affermare i limiti della ragione, ma di cogliere e dare «senso» a quella s-proporzione che abita originariamente l’uomo e che lo costituisce nella sua paradossalità di essere anche il luogo in cui l’originario «mostra sé», per riprendere Wittgenstein. Il limite della ragione, o meglio la coscienza del limite, è insieme la condizione e lo spazio epifanico dell’originario, anche se non più «apofantico».
La riflessione che Jaspers dedica al «trascendere formale» nella sua Metafisica, che, com’è noto, costituisce il terzo volume della sua Philosophie, è preziosa per la nostra argomentazione. Pensare, come ho già detto, significa impiegare delle categorie, cioè forme determinate e determinanti e questo anche quando cerca di pensare il trascendente. L’uso delle categorie è, però, come hanno mostrato, in contesti diversi, sia Aristotele che Kant, esclusivamente finito, cioè limitato all’esserci determinato che può perciò con successo essere intenzionato dalla coscienza generale quale organo del conoscere scientifico o dall’intelletto. La domanda sull’essere trascendente ha anch’essa un senso, un’intenzionalità propria, ma concretamente si compie soltanto nel superamento delle varie forme categoriali determinate. Un primo significato dell’aggettivo «formale» è quindi per Jaspers quello riguardante la categorialità del pensiero. Se non si dà pensiero senza categorie, anche per cogliere l’essere stesso, a cui si riferisce il trascendere formale, bisogna usare l’impianto categoriale, che però ogni volta riduce l’essere ad esserci, oggettiva cioè l’inoggettivabile. Occorre quindi trascendere la stessa categorialità o formalità del pensiero, occorre cioè spingersi fin dove avremo il «naufragio» del pensiero.
Un secondo significato di «formale» è «assenza di contenuto» per cui il risultato del trascendere formale
nella sua esplicita formulazione, consiste nella negazione. Tutto ciò che è pensabile viene rifiutato dalla Trascendenza come non-valido. La Trascendenza non può essere determinata da alcun predicato, né rappresentata come un oggetto, né escogitata da un’argomentazione; eppure tutte le categorie sono utilizzabili per dire che la Trascendenza non è né quantità, né qualità, né relazione né fondamento, né uno né molti, né essere né nulla, e così via (p. 133-134).
Dentro il regno dell’esserci del mondo, dell’esistenza, l’uomo è spinto verso la domanda radicale sull’essere. Oltre il disvelamento dell’essere si cerca inevitabilmente l’accertamento di questo stesso essere, che significa «trascendere dal pensabile all’impensabile». L’assolutezza dell’essere è impensabile e ciononostante nell’incontro con l’esserci non si smette di volerla pensare. Questo essere assoluto è la Trascendenza che io non posso comprendere,
ma devo trascendere verso di esso in un pensiero che si conclude in un non-poter-pensare. Ora il pensiero che non può fissare la Trascendenza come pensata deve annullare il pensato nel pensiero. Ciò accade nel trascendere dal pensabile all’impensabile. […] Il pensare può compiere il suo ultimo passo trascendente solo in un annientamento di sé. Si concepisce allora questo pensiero: si può pensare che ci sia ciò che non è pensabile? Questo è il modo di esprimere il passo di un pensiero che cessa di essere tale nel momento preciso in cui lo compie. Il pensiero si pone un limite che non può oltrepassare, e che, per il fatto stesso che esso lo pensa, lo spinge a oltrepassarlo (p. 132-133).
L’ineffabilità della Trascendenza è strutturalmente e insieme paradossalmente l’unica sua dicibilità. «La Trascendenza — scrive Jaspers — è oltre ogni forma. Il pensiero filosofico di Dio, che si accerta nel naufragio del pensiero, comprende che la divinità è, ma non che cosa è» (p. 134). Il naufragio del pensiero crea spazio per un incontro esistenziale con la Trascendenza, dove è possibile trovare una «pienezza» che è indice di una presenza di rinvio (metaforica?) e mai di oggettività. L’accertamento della Trascendenza avviene attraverso un «pensare un non pensare». Ogni volta si tratta di spingere il pensiero al limite, verso il proprio naufragio. Si può dire che il tentativo di Jaspers è quello di far saltare il principio di non-contraddizione come espressione categoriale, per affermare la Trascendenza come inclusione impensabile di contrari o di opposti. «Se si vuole naufragare autenticamente col pensiero si deve comprendere come identico ciò che nello stesso tempo è impossibile pensare come identico» (p. 152). Applicando questo principio alle categorie «oggettive» della «possibilità» e della «realtà», Jaspers scrive:
Noi entriamo nella Trascendenza solo mediante l’inestinguibile pensiero dell’identità di possibilità e realtà, che lega l’uno all’altro gli opposti in modo da escludere la scissione. Nel non-poter-pensare questa identità, io penso l’essere come origine, in cui il possibile e il reale non sono divisibili, ma l’uno è l’altro. Possibilità e realtà non sono più categorie nell’esserci, ma sono simboli nella cui identità l’essere risplende (p. 148).
Lo splendore dell’essere è l’accecamento del pensiero e l’uomo in concreto vive continuamente tra la «legge del giorno» e la «passione della notte». Siamo qui di fronte al rovesciamento radicale dell’antica memoria filosofica che ha preso inizio con il sentiero del giorno e quello della notte e a una ridefinizione della «passione del filosofo». In una pagina di straordinaria suggestione Jaspers scrive:
La legge del giorno mette ordine nel nostro esserci, esige chiarezza, consequenzialità e fedeltà, lega alla ragione e all’idea, all’Uno e a noi stessi. Essa esige la realizzazione nel mondo, la costruzione nel tempo, il compimento dell’esserci lungo una via che va all’infinito. Ma ai confini del giorno ci parla qualcos’altro. l’averlo respinto non ci lascia quieti. La passione per la notte sconvolge ogni ordine. Si precipita nell’abisso senza tempo del nulla, che tutto trascina nel suo vortice. Ogni costruzione che si manifesta storicamente nel tempo le appare nella forma della vana illusione. Al suo cospetto la chiarezza non può penetrare nulla di essenziale, ma dimentica di sé abbraccia ciò che non ha chiarezza, in quanto è l’oscurità intemporale dell’autentico. Per una necessità che non si lascia comprendere, che non cerca neppure la possibilità di una giustificazione, diventa incredula e infedele di fronte al giorno (p. 210).
La domanda ultima della filosofia esige che questa venga abbandonata per trovare una risposta. La «passione per l’origine» ci fa divenire increduli e infedeli di fronte al «sentiero del giorno».
L’impossibilità dell’esercizio della logica categoriale, della fenomenologia, per l’approccio all’originario, ci costringono quindi, a cambiare radicalmente registro. La passione del filosofo diviene essa stessa «modalità di pensiero», ma di un pensiero «rivelativo», per utilizzare il linguaggio di Luigi Pareyson. Nel pensiero che pensa nella verità, che ascolta l’originario, questo viene a manifestazione, sebbene sempre nella forma del limite o della cifra. Il Novecento ha assunto questa consapevolezza quando ha cominciato a pensare «ermeneuticamente». L’ermeneutica però, non è soltanto interpretazione, bensì una comprensione parlante che nel suo dire è rivelazione. Dall’esperienza alla rivelazione, o, anche dal logos al mistero. Infatti la comprensione parlante che si fa rivelazione è anche coscienza che ciò che viene a manifestazione è stato semplicemente «dato», o ascoltato. Se si riprendesse il nostro discorso da questo punto dovremmo ripetere completamente in un’altra ottica tutta l’argomentazione che ci costringerebbe a ripensare Heidegger e la sua prospettiva del linguaggio dell’essere, ma anche a compiere una svolta che il pensiero contemporaneo non ha ancora fatto completamente. L’originario viene a manifestazione perché parla, e l’uomo parla perché ascolta. Ma allora il dire dell’uomo non è suscitato soltanto da un’esperienza, non ha un contenuto che si è costituito a partire da sé, bensì è «ripetizione» di un ascolto, comunicazione e testimonianza di un dono ricevuto. Risposta e responsabilità. Forse il luogo più prossimo dove l’originario viene a manifestazione è l’esperienza religiosa. Il senso ultimo di queste affermazione è un’implicito riconoscimento del limite della filosofia stessa che, in fondo, presenta una struttura che possiamo definire provocatoriamente «atea», non potendo fare ricorso che a se stessa per rendere ragione del mondo. Si tratta forse di una ricorsività che manifesta l’impossibilità di attingere il fondamento. L’essere è, questo è l’inizio della filosofia, ma alla domanda perché l’essere è, al mistero dell’essere, non è in grado di fornire una risposta. Il mistero precede e segue il sapere.