Scienza ed esistenza. La questione dell’unità del sapere in Karl Jaspers

1. Il problema metafisico dell’unità in Von der Wahrheit

Se dovessimo tracciare una linea che ripercorre il problema dell’unità del sapere all’interno dell’intera opera jaspersiana, ci accorgeremmo che un testo come Die Idee der Universität, pubblicato insieme a Kurt Rossmann nel 1961, risulti essere un interessante ed inaspettato elemento di continuità circa il problema teorico dell’unità del sapere. L’obiettivo di questo testo, sul quale Jaspers aveva già curiosamente iniziato a lavorare nel 1923, non era soltanto quello di proporre un’elaborazione sistematica ed unitaria circa un compito programmatico e concreto della conoscenza all’interno dell’accademia, ma di tematizzare, seppur in maniera più liminale, un primo punto di confronto con il problema teorico dell’unità del sapere.1 Ponendosi sulla direttrice del modello universitario humboldtiano, Jaspers riteneva che l’università si realizzasse proprio nel concetto di unità: un’unità pensata non come un mero aggregato di saperi, né come un insieme di corpora stabili di conoscenze enciclopediche volte all’esclusiva trasmissione di una memoria, ma piuttosto come totalità costruita sull’idea di unicità della realtà in grado di indirizzare continuamente la ricerca.

In realtà, l’ idea di un pensiero volto all’unità del sapere all’interno dell’università traeva la propria forza proprio da questo costante volgersi verso un’unità strutturale,2 a cui Jaspers darà una forma teoretica più consapevole nel 1947 in Von Der Wahrheit: sarà dunque in questo testo che il filosofo di Oldenburg tenterà di andare oltre una nozione di verità come pregnanza logica e ciò lo porterà a fare i conti con l’esperienza di un pensiero che cerca costantemente un’unità sistematica. Se in Vernunft und Wiedervernunft in unserer Zeit,3 Jaspers spiegava che il termine «ragione» dovesse essere contrapposto a quello di «antiragione», con la pubblicazione di Von Der Wahrheit, osserva Diego Angelo, Jaspers esce da questa polarità per entrare in un percorso dialettico più esteso, in cui la ragione nella periecontologia, servendosi della logica, rappresenterebbe lo strumento privilegiato per accedere al regno della trascendenza. Più in particolare, l’obiettivo di Von der Wahrheit, il primo di quattro volumi di un’opera più vasta,4 aspirerebbe quindi ad un’esplorazione sistematica del termine Verità, con l’intento più specifico di affermarne l’unicità: egli comprende anzitutto che il riconoscimento di tale termine avviene tramite molteplici modalità logiche che possono darsi contemporaneamente in quello che chiama l’«Abbracciante» (Umgreifende).

L’operazione di chiarificazione della verità consisterà, dunque, nel mantenimento di un confronto aperto tra la formalità del linguaggio e la concretezza dell’esistenza orientata verso una trascendenza: il tutto sempre considerando il problema dell’unità, che è intesa più come sistematicità del pensiero, che non come sistematicità filosofica. Se la lacerazione dell’essere (Die Zerrissenheit des Seins) manifestantesi nell’Umgreifende, mostra la scindibilità dell’unità teoretica del linguaggio rispetto alla vita, allora il compito di una logica filosofica non consisterà soltanto nel recupero di un pensiero volto a rintracciarne la frattura, ma anche nell’intreccio attivo con un mondo perennemente in divenire:

Così come l’inventore di nuove tecnologie deve progredire per evitare che le armi da lui stesso prodotte lo annientino se finiscono nelle mani sbagliate, e così come egli può difendersi dalla tecnica puramente materiale nelle mani del nemico solo grazie alla vastità e alla profondità del suo spirito, così la logica filosofica deve sempre essere un passo avanti rispetto a quella logica che, degenerando, diventa un’arma contro lo spirito della logica stessa.5

Da questa citazione percepiamo il valore attivo di una logica che si annida e nutre dall’interno il pensiero, il quale, consapevole del suo agire, si spinge aldilà della conoscenza e raggiunge, grazie alle idee, i punti più alti di una filosofia che ingloba le rappresentazioni del mondo e della vita. Pur riconoscendo che le idee non possiedono alcun valore conoscitivo, in quanto, come aveva ampliamente spiegato Kant nella Dialettica trascendentale le antinomie, sorte in seno ad un’esigenza metafisica, ruotano intorno a sofismi e paralogismi in grado di poter dedurre a partire da una visione d’essenza, l’esistenza del rispettivo oggetto della conoscenza, Jaspers spiegherà che queste idee non hanno un significato così lontano dalla conoscenza, ma assumono un valore «positivo». Nell’Appendice a Psychologie der Weltanschauungen Jaspers riflettendo insieme a Kant scrive che «le idee non sono costitutive degli oggetti, bensì hanno carattere regolatore per l’intelletto. Esse non sono date – così suona il famoso motto – bensì assegnate in compito».6 Questo compito consisterebbe proprio nell’idea di unità sintetica, che diverrebbe oggetto di conoscenza nel momento in cui l’esperienza singola riceve la sua forma unitaria, questa volta non più ad opera delle categorie. Infatti, se per Kant l’unità avviene esclusivamente come fase di sintesi del molteplice, Jaspers cercherà di estendere la nozione di unità anche a tutte le idee, poiché «se è vero che nelle idee noi non veniamo a conoscere oggetto alcuno, le idee sono per altro per noi una luce che indica le vie della ricerca nel campo dell’intelletto puro e dà a questo una sistematica».7 Per tale ragione «la totalità della scienza, totalità alla quale si aspira e si tende con le idee, riceve la sua direttiva dalla totalità degli oggetti».8

Gli effetti più pregnanti della logica che si interseca con le maglie del pensiero, Jaspers li enuclea nelle prime pagine di Von Der Wahrheit: «Fa spazio libero», «risveglia le origini», «espande la comunicabilità», «mette in atto pensieri fondamentali che mettono in movimento», è «un’arma nella lotta contro la non-verità», ma soprattutto «ricerca l’unità». Si tratta, dunque, di una logica interrogante sempre in movimento che riguarda innanzitutto l’esistenza giacché, per utilizzare un’espressione di Heidegger, «ogni cercare intorno a … in qualche modo, è un interrogare qualcuno».9 Viene da sé che il taglio sarà quindi quello di creare un ponte, un intreccio, o, per utilizzare un termine di Merleau-Ponty, un «chiasma», per cui l’esistenza, ramificandosi entro la trama stessa di un pensiero razionale già da sempre inserito nell’Umgreifende, accede alla trascendenza. Jaspers in tutta la prima parte di Von Der Wahrheit, interpreterà l’Umgreifende come l’essere che nella sua essenza si mostra sempre in due prospettive contrapposte:

O l’abbracciante è l’essere che è tutto, nel quale e grazie al quale noi stessi siamo, oppure è l’essere che noi stessi siamo e nel quale ogni modalità determinata dell’essere, anche tutto l’esser-mondo può apparire.10

Jaspers, infatti, riattiverebbe il significato dell’essere dell’Umgreifende, non più come assolutamente incoglibile, ma come spinta propulsiva volta all’attraversamento di quel limite fenomenologico di un abbracciante determinato, limite percorribile, a quanto pare, anche dalle modalità dell’esserci, giacché «l’esserci è il modo dell’abbracciante in cui io sono un essere vivente con un inizio e una fine; in quanto tale, l’esserci è lo spazio di realtà nel quale è tutto ciò che io sono e che è per me».11 Le modalità nelle quali l’esser-mondo dell’Umgreifende si manifesta, sono date non soltanto da quei modi che diventano reali a partire dall’unità stessa del mondo, ma anche da quelle modalità nelle quali l’esserci si riconosce come Umgreifende. Ma, se l’Umgreifende non riguarda soltanto «l’essere che è tutto», ma anche l’esistenza e, più nello specifico, quella coscienza dell’esserci che insieme alla coscienza in generale è posta di fronte al mondo, è possibile immaginare che Jaspers voglia sottolineare che gli stessi limiti del mondo possono essere superati dacché valicabili dal pensiero. Con ciò il filosofo di Oldenburg fa un passo avanti e cerca di riflettere in maniera più estesa anche sul problema dell’unità: problema che, a quanto pare, non poteva eludere così facilmente in Philosophie nel 1932. Nonostante Jaspers avesse spiegato in Philosophie, come vedremo, che l’unità sia da intendere in un senso esclusivamente normativo, in Von Der Wahrheit arriverà ad interrogarsi in maniera più sistematica sulle origini e sul senso dell’unità della verità, per cui, non potendo non considerare come pregnante la stessa taratura teoretica del problema dell’unità nella verità, arriverà a spiegare come qualsiasi formulazione sulla verità sia caratterizzata da modalità (Weisen) significative12 di ordini interdipendenti tra loro,13 che si interfacciano come indicazioni verso l’unità,14 nei quali la stessa verità può essere rivelata e pensata.15 Dunque, il problema dell’unità rispetto alla verità ritorna costantemente dal momento che «l’esser-vero rimane vero per noi solo quando torna per noi ad essere Uno».16 Il voler incessantemente perseguire l’unità, non più soltanto del mondo, ma anche della trascendenza, è, tuttavia, un’impellente esigenza primariamente metafisica, poiché mostra come la nostra coscienza si trova a doversi confrontare con quei mondi che nell’Umgreifende non possono esistere anzitutto se non in relazione tra loro. Infatti, nel rapporto con la trascendenza (che è una), le esistenze mostrano il loro legame unitario nella misura in cui, pur essendo in conflitto, «non possono semplicemente passarsi accanto nell’indifferenza». La trascendenza, infatti, congiungerebbe le esistenze nell’unità, giacché «la vera unità come cardine di ogni unità si trova solo nella trascendenza, ma è accessibile solamente attraverso tutte le unità in tutte le modalità dell’abbracciante».17 Con il fine più specifico di voler tematizzare l’unità della verità, prerogativa di Jaspers è quella di risalire all’unità di tutte le unità dell’abbracciante, con il tramite di una logica che aveva visto nell’interrogazione attiva il vero nucleo della filosofia jaspersiana; come infatti osserva Claudio Fiorillo, quella di Jaspers è una logica del domandare e non una logica formale.18 Se il filosofo di Oldenburg in tutta la prima parte di Von Der Wahrheit, cercherà di superare nell’Umgreifede gli stessi limiti del conoscere, nelle ultime pagine, spiegherà che è soltanto nel trascendere da parte del singolo, pensato anch’esso come un abbracciante esteso a tutti gli abbraccianti, che la ragione si dirige verso nuove formulazioni trascendenti della verità. Ma come vedremo, è lo stesso singolo che immerso nell’esistenza sfonda e rompe questo evidente scoglio dell’unità. In tal misura, il fallimento – o esistenzialmente parlando, il naufragio – avrebbe luogo quando il singolo prova a cogliere il tutto, quando cioè cerca di abbracciare l’essere della trascendenza. Il particolare riferimento al momento della lacerazione (Zerrissenheit) viene giocato proprio da quelle visioni originarie che Jaspers affronterà nell’ultima parte del testo: «il tragico», «l’esperienza dell’amore», «le cifre della trascendenza» e «l’idea di Dio», momenti che mostrano il loro pieno ed evidente carattere di evanescenza rispetto alla chiarezza di una logica in cerca di un’unità.

2. Il fondo attivo dell’unità e il confine tra scienza e tecnica

È opportuno premettere che, se la questione dell’unità può essere rintracciata entro il tessuto di un pensiero dinamico verso quei luoghi inesplorati della trascendenza, anche la riflessione coinvolta nel problema dell’unità arriverà a confinare con territori più marcatamente legati ad una praxis, territori etici e politici che esuleranno solo parzialmente dall’ontologia e che mostreranno un’inevitabile contaminazione con il problema della tecnica. Jaspers si soffermerà sul problema politico dell’unità come totalità delle volontà nel testo Die geistige Situation der Zeit (1931), spiegando come il declino di fronte al quale si trovava il suo tempo dipendeva, a sua detta, da quegli insanabili conflitti all’interno degli Stati che, al contrario, avrebbero dovuto manifestare l’esemplificazione unitaria di un «passaggio dall’indeterminato al determinato»,19 come sintesi del molteplice. Ma, dacché il mondo in cui viviamo rappresenta l’esatto opposto, per cui tutto sembra gettato in mano al caos e alla contingenza più esasperata, l’unità apparirebbe essere niente più che un semplice ideale remoto. Lo Stato, pensato come corpus di uomini che compongono una totalità che dovrebbe garantire l’integrità delle forme organizzative e sociali, non sembra essere più in grado di assicurare fino in fondo quell’unità che le volontà nel loro insieme ricercano costantemente. Per tale ragione, la componente politica insieme a quella sociale e pedagogica giocherebbero un ruolo preponderante per la formazione e l’educazione degli individui. L’avvento del nazionalsocialismo, e gli orrori della Seconda guerra mondiale che Jaspers tra le pagine di Die geistige Situation der Zeit sembrava già presagire, dipendevano infatti, non tanto dall’assenza di una totalità onnicomprensiva che rassicurasse tutti gli uomini e che mostrasse una rivalsa che sarebbe spettata loro, quanto piuttosto da un significato più autentico di unità che sarebbe stato in grado di far emergere una nuova direzione e che avrebbe permesso un avvenire tramite un esplicito lavoro di «educazione». Eppure, Jaspers sapeva bene che:

La totalità è una tensione di incomponibili. Essa non può essere un oggetto per noi ma, in un orizzonte indefinito, la sede dell’uomo in quanto esistenza che è sé stessa, il luogo ove le sue creazioni divengono visibili, ove si venera il sovrasensibile nel sensibile e dove tutto sprofonda ancora nell’abisso del non-essere-più.20

Anche qui, specularmente a quanto accade in Von der Wahrheit, abbiamo a che fare con delle unità che combattono e si contendono qualcosa nell’azione politica «entro una totalità non conoscibile come tale»,21 in uno scontro che somiglia ad una lotta tra fedi in cerca di un’unità. Lo stesso problema riguarderebbe, infatti, anche la scienza, che oggi è sottoposta ad innumerevoli problemi ed il cui processo di svuotamento spirituale «favorisce l’esserci meccanizzato delle masse».22 In tal guisa, Jaspers, nel riflettere sulla questione circa lo svuotamento spirituale del sapere scientifico ed avvicinandosi per molti aspetti ad alcune delle posizioni della Scuola di Francoforte, arriverà a sostenere che il termine «tecnica» possieda un retroterra più analogo a quello di massa che non a quello di scienza, nella misura in cui la grande macchina dello stato per acquisire una legittimità politica, deve essere collaudata secondo le qualità, i desideri e anche le debolezze di quegli uomini che perdono la loro identità nel numero: soltanto nel confine con un dominio tecnico il senso dell’unità sembrerebbe essere garantito. Ma, una delle riflessioni più importanti in merito alla questione della tecnica emersa verso la fine degli anni ’40 viene giocata proprio da Heidegger, con il quale lo stesso Jaspers si troverà più volte a dialogare.23 Heidegger è a conoscenza del fatto che il significato della tecnica non dipende dall’uso che di questa ne viene fatto, giacché lo strumento, in quanto prolungamento dell’essente, è radicalmente intrecciato con la volontà dell’esserci. Da sempre la tecnica nasconderebbe quei rischi derivati da una potenza che genererebbe nell’uomo, per utilizzare l’espressione di Gunther Anders, un «dislivello prometeico», e che vedrebbe un dissolvimento antropologico innanzi al cospetto della macchina. Una simile riflessione sulla tecnica, tra l’altro, non era a pieno e completo appannaggio del pensiero heideggeriano. Anche Arnold Gelhen aveva analogamente argomentato alcuni anni prima nel suo Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940) che l’essere umano, in quanto essere mancante, cerca di riprodurre artificialmente sé stesso attraverso la sua azione nel mondo. Per Heidegger tale riproduzione avviene quasi inconsapevolmente, come se l’esserci, apparentemente fin troppo sicuro di sé (ma forse non abbastanza per comprendere la sua finitudine), ritiene di poter essere in grado di domare lo strumento a suo piacimento. Pensando, dunque, la tecnica come l’ultimo prodotto del compimento metafisico dell’Occidente, conseguenza inevitabile di una volontà di potenza tesa all’assoggettamento delle forze che abitano il mondo, Heidegger percepisce non soltanto che lo strumento può svincolarsi dal dominio e dal controllo umano, ma che il vero significato della scienza è genuinamente riconducibile al problema della tecnica. Tutta la riflessione heideggeriana di questo secondo punto si pone in pieno contrasto rispetto alla riflessione jaspersiana sulla scienza, tant’è che, ancor prima di pubblicare La questione della tecnica nel 1951, in una lettera del 21 settembre 1949, Heidegger scriverà a Jaspers:

Lei rifiuta l’idea che la tecnica moderna abbia un carattere aggressivo. Ce l’ha invece, e per questo ce l’hanno anche la moderna scienza della natura e la storiografia. Mi sembra che Lei non abbia fatto sufficiente chiarezza sul rapporto tra la moderna scienza della natura e la tecnica moderna […] Questa essenza corrisponde, per quello che vedo, all’essenza compiuta della metafisica occidentale.24

Jaspers non risponderà mai a tale questione sollevata da Heidegger, tuttavia, ben consapevole del peso e della portata che queste riflessioni portano con sé, non può accettare una comunanza tra scienza e tecnica. Innanzitutto, se scienza e tecnica coincidessero, non ci sarebbe alcun confine tra la ricerca scientifica e la sua attuazione pratica. Ma, paradossalmente, è proprio nell’applicazione dello stesso sapere scientifico che ci vengono palesemente mostrati, come vedremo, i limiti di cosa può essere prodotto e costruito da che cosa non è possibile produrre e costruire una volta che viene pensato. I limiti infatti non apparterrebbero alla realtà, ma all’uomo che, in quanto coscienza di esistere, coscienza morale e coscienza in generale, manifesta il proprio potere d’azione in cui è incluso anche ciò che egli può realmente conoscere. Proprio perché è nell’esserci che sopraggiungono i limiti del mondo, l’intero potenziale della tecnica può essere ricondotto a quell’azione dell’uomo su di un mondo inconoscibile nella sua totalità.25 Jaspers infatti, concentrandosi su questioni che riguardano più nello specifico i limiti presenti nella scienza, affronta implicitamente il problema della tecnica, spiegando in Über Meine Philosophie (1941) che spesso vi è un fraintendimento radicale circa il significato autentico del procedere scientifico.

Per contraccolpo all’umiliazione della scienza mediante la sua subordinazione agli scopi della tecnica e della pratica della vita, la scienza è stata dichiarata, con un pathos strano e discutibile fine a sé stessa. Se però con questo si voleva senz’altro affermare il valore di ogni constatazione di fatto, di ogni rigore ed esattezza di metodo, di ogni accrescimento di qualsiasi tipo di sapere; se ogni attività scientifica, in quanto tale, si voleva far credere come qualcosa di sacro ed inviolabile, allora bisogna dire che c’era veramente una strana confusione di idee.26

Tale fraintendimento circa il potenziale significativo del sapere scientifico dipenderebbe non esclusivamente dalla subordinazione al suo relativo uso che legittimerebbe un discorso sulla tecnica, ma più radicalmente da quell’inconsapevole tentativo di dare alla scienza un fondamento ideologico e dunque metafisico. Certamente le scienze devono cercare di emanciparsi da costruzioni di ordine metafisico, ma, al tempo stesso, devono riconoscere che il suolo su cui esse poggiano è estremamente fluido, e che acquisiscono il loro significato più autentico esclusivamente in virtù del paradigma metafisico di unità. Se allora «la scienza provvista di senso si realizza tramite la metafisica e al contempo la scienza autentica si realizza senza la metafisica»,27 il senso ultimo della scienza è dato proprio dall’unità metafisica che la il sapere ricerca continuamente. Infatti, le scienze che cercano di tematizzare e vincolare la realtà sotto molteplici sfaccettature dovrebbero avere come obiettivo ultimo, appunto, il loro trascendimento al fine di ritrovare l’unità nella molteplicità. Per tale ragione «l’orientazione nel mondo possiede il suo senso nell’unità delle scienze, dove si prepara la via per la metafisica. Questa sola dà al sapere in quanto sapere un punto di appoggio e di sostegno in un senso che lo trascende».28 L’intero tracciato significativo del sapere verrebbe restituito da quell’unità integrata delle scienze, senza la quale, la scienza sarebbe ridotta ai relativi punti di vista particolari volti al conseguimento di uno scopo. Il problema dell’unità diventa centrale non più soltanto per una ricerca votata esclusivamente all’indagine metafisica di un’unità, ma anche per la scienza, la quale, nella sua operatività, deve poter avere all’interno di sé un centro, un nucleo che ne legittimi la sistematicità e lo sviluppo,29 giacché «ogni progresso è la scoperta di una realtà che si converte in unità».30 Pertanto, se da un lato Jaspers arriverà, come abbiamo visto precedentemente, ad ammettere l’importanza del problema dell’unità per la stessa riflessione metafisico-ontologica, da un punto di vista più squisitamente gnoseologico, cercherà di riproporre il problema dell’unità sul piano autonomo della scienza la quale «mostra l’unità del conoscibile e concepisce un’unità sistematica in cui tutto si connette con tutto».31

3. L’impossibilità dell’unità delle scienze. Le fratture tra le sfere del reale

Se «a lungo andare, però, tutte le unità ipotizzate si rivelano unità nel mondo e non l’unità del mondo»,32 questo significa che è impossibile giungere ad un’immagine della realtà univoca e complessiva, racchiusa in un’unica narrazione, giacché «l’unità del mondo è vera solo, di volta in volta, come guida, non come l’oggetto esistente di questa unità».33 Per Jaspers infatti l’unità, tradotta nei termini di un’«orientazione filosofica nel mondo», resta soltanto un’idea che ha un compito esclusivamente regolativo, cioè funge da ideale prescrittivo. Dal momento che il sapere nella sua totalità non possiede un’unità, ma, come vedremo, è diviso in teorie che possiedono un’esattezza relativa in funzione dell’applicazione dei rispettivi metodi, l’idea di un’unità risolutiva intesa come possibilità compiuta e reale è impossibile, infatti «se il mondo costituisse in sé stesso un’unità, e quindi fosse conoscibile come un oggetto in sé concluso, allora con la conoscenza del mondo sarebbe conosciuto tutto».34 Ma, siccome, «l’idea di unità non possiede una compiutezza, essa rimane quell’origine infinita, che nel trascendere si accerta di ogni totalità e di ogni schematica determinata in cui prende forma la sua manifestazione fenomenica. L’idea trova così in una pienezza totalizzante, tuttavia non ha in sé il compimento».35 Se potessimo avere un’unità assoluta nelle scienze, ciò significherebbe che il mondo sarebbe completamente a nostra disposizione sia da un punto di vista puramente conoscitivo, sia da un punto di vista tecnico. Potremmo pertanto non soltanto avere quella chiave che ci permetterebbe di dischiudere le infinite porte per una comprensione totalizzante della realtà e di tutti i mondi possibili, ma sarebbe anche possibile riprodurre in maniera del tutto artificiale ogni sfera della realtà a nostro piacimento, come quella della «libertà».36

Posta la questione in questi termini, sembrerebbe che tutto ciò che è al di fuori del mondo da noi compreso, calcolato e riprodotto non esiste nulla e ciò che si propone oltre le nostre possibilità di conoscenza logicamente vincolante è inteso come un «non-ancora-compreso» o un «inesistente», che dipende esclusivamente dalla nostra ignoranza attuale che aspetta di essere colmata. Ma non è possibile abolire quei limiti, giacché se la metafisica viene spazzata via con un semplice colpo di polso, anche l’unità verso la quale la scienza è sottesa perderebbe di significato. Pertanto, l’«orientazione filosofica nel mondo», di cui parla Jaspers nel primo volume di Philosophie, giunge a compimento nel momento in cui la scienza è posta di fronte ai suoi limiti, ovvero, quando realizza l’impossibilità di conseguire l’unità.37 Più nello specifico quei limiti che mostrano l’impossibilità di giungere ad un’unità rappresentano i limiti di quelle strutture di pensiero che vincolano le stesse interpretazioni dell’esserci. In particolar modo,

I limiti vanno in due direzioni. Il limite negativo è costituito dall’irrazionalità dell’incalcolabile e dell’inconcepibile che si manifesta nelle «costanti» fisiche, nei movimenti degli atomi e in tutta la «contingenza» delle leggi di natura. Tutto ciò è l’alterità che il logos non riesce a penetrare, è la materia. Positivo è invece il limite che si incontra nella libertà. Qui mi accerto di un essere che era determinato solo negativamente e che per noi non sussisteva se non come resistenza.38

Questo significa che i limiti che non permettono l’unità dipendono dall’impossibilità della scomposizione di un certo sapere. Ad esempio, i limiti che nelle scienze matematiche conducono verso quegli assiomi non ulteriormente scomponibili, costituiscono l’apoditticità di ogni asserzione a cui il sapere matematico giunge.39 Nelle scienze empiriche, invece, vincolante è il «dato di fatto», rappresentato nel pensiero ed accessibile mediante la sensibilità, il cui vincolo dipende da quegli approcci che tendono ad assolutizzare il dato empirico. Infine, vi è un limite compreso da quelle che in fenomenologia vengono definite come «intuizioni essenziali», la cui apertura positiva permette la definizione di alcune strutture fondamentali come la «comunicazione», la «sistematicità» e l’«integrità». Ad ogni modo, il discorso che Jaspers conduce sul problema del «limite» è esteso anche al problema delle sfere del reale, i cui confini sono caratterizzati non tanto dall’irriducibilità di un certo sapere, quanto piuttosto dall’impossibilità di alcuni metodi di estendersi al di là delle proprie possibilità concettuali generando delle insanabili fratture. Cercheremo adesso di entrare nel merito del discorso delle sfere per comprendere al meglio il loro funzionamento e il loro rispettivo significato analogico: queste sfere sono mondi nei mondi, ognuna delle quali mantiene una coerenza interna in virtù dell’irriducibilità di metodo. In questo senso l’irriducibilità ci permetterebbe di individuare quei meccanismi di funzionamento di quei mondi che tuttavia possiedono un significativo potere simbolico. È opportuno sottolineare, dunque, che quando parliamo di sfere, ci riferiamo a dei mondi, ognuno dei quali possiede una propria autonomia indipendentemente dagli altri; tuttavia, questa quadruplice distinzione che Jaspers compie, e che adesso vedremo, potrebbe presentare delle anomalie: se la realtà si manifesta come è in sé stessa, allora sembra che tali sfere vengano intese come delle porzioni di mondo sussistenti in sé, e non come delle realtà studiate in funzione dei metodi che noi applichiamo. Quando Jaspers parla di sfere del reale, non intende ingenuamente affermare che la totalità del darsi del mondo sia definita in virtù di quattro concetti.

Nel mondo che per noi non è mai totale, ci sono quattro mondi originari. Essi sono tra loro separati, senza un regime intermedio, connessi solo dal fatto che costituiscono una serie in cui ognuno pone l’antecedente come condizione. Sono la natura inorganica con le leggi che comprendono tutta la realtà, la vita come organismo, l’anima come esperienza soggettiva e lo spirito come coscienza pensante rivolta ad oggetti.40

L’autonomia di queste quattro sfere è rappresentata non soltanto dall’esplorazione di differenti linguaggi che si iscrivono nella realtà, ma da un rispettivo potenziale analogico che si pone come condizione di possibilità.

  1. La sfera della materia indica tutto ciò che può essere concepibile in termini quantitativi e meccanici attraverso rappresentazioni misurabili grazie a strumenti che sottopongono la materia a leggi esclusivamente esterne. Questa sfera descrive l’ordine dei meccanismi fisici o delle strutture chimiche di realtà inorganiche misurate attraverso dei modelli matematici. Questo mondo, indagato dalla fisica e dalla chimica, è il substrato originario della nostra conoscenza orientata verso l’infinitamente piccolo, la cui struttura non può subire mutamento dall’interno, ma solo dall’esterno.
  2. La sfera della vita, invece, sottostà alla piena e continua trasformazione di ciò che nasce e muore all’interno dell’ambiente; il vivente è quindi sottoposto a leggi indagate dalla biologia che lo intendono come «totalità formata e formatrice dell’esserci che si conserva per sé».41 Tale totalità possiede la peculiarità di trasformarsi continuamente dall’interno, la cui alterazione è coadiuvata dal rapporto con il contesto circostante.
  3. La sfera dell’anima invece indica la rappresentazione interna prodotta da un’esperienza vissuta ed organizzata da impulsi di «soddisfazione e insoddisfazione in tensioni e distensioni».42 L’esserci, che in relazione ad un mondo si percepisce come una soggettività, è spinto da pulsioni puramente interne. Queste tensioni vengono approfondite dalla psicologia e da tutte quelle scienze che studiano il vivente in funzione del loro comportamento.
  4. Infine, nella sfera dello spirito il mondo non è più realtà esterna, ambiente o relazione con esso, ma è un mondo totalmente prodotto dall’esserci spirituale. Lo spirito è il pensiero puro che accede al regno del simbolico e che apre ad una riflessione totalmente consapevole di sé, la cui unità è ordinabile da quelle idee che si esprimono mediante un dato linguaggio. Esso è diverso dalla semplice esperienza soggettiva, in quanto si compie nella comunicazione e si organizza nel mondo mediante simboli ed immagini. Il processo conoscitivo, studiato in maniera più definita dalle scienze dello spirito, ammette una dimensione antropologica che trae il proprio nutrimento dall’immagine e dal rapporto polivoco tra simboli.

Nonostante, come abbiamo accennato, queste quattro sfere tentino di estendere la loro pensabilità anche oltre le loro stesse possibilità, per la conoscenza di una particolare sfera è necessario un metodo specifico che prescinde dagli altri: ha senso utilizzare dei teoremi per spiegare leggi fisiche, non ha senso farlo per la psicodinamica. Analogamente le teorie meccanicistiche sono ottime per il funzionamento dell’inorganico, ma inefficaci nel mondo biologico. Alla questione se esiste una gerarchia tra le scienze, Jaspers risponde che molto spesso le scienze più nobili sono quelle con i contenuti più complessi, come l’astronomia, la logica e la matematica. Al contrario discipline come la psicologia o la sociologia,43 racchiudono in sé «le possibilità più alte in ordine al contenuto, giungono a figure isolate e a risultati medi, muovendosi sempre al più basso livello di scientificità».44 Ma è chiaro che non c’è una scienza migliore delle altre, giacché «ogni ordinamento gerarchico sembra relativo al punto di vista scelto».45 Un punto estremamente importante da sottolineare è che bisogna immaginare tali sfere, come dei cerchi chiusi ermeticamente dall’interno, che nella loro inseità non possono essere dedotte l’una dall’altra, ma che tuttavia possono essere fondanti l’una per l’altra.

Coi suoi prodotti ogni mondo si converte nelle forme del precedente, gli atti spirituali nei processi psichici da essi generati, gli atti psichici nei processi biologici incoscienti, la vita nella materia morta. In questo modo ogni mondo successivo è fondato nella sua realtà dall’antecedente: la vita dalla materia inorganica e dalle sue leggi, l’anima dalla vita, lo spirito dall’anima. Nessuna sfera successiva possiede il proprio esserci senza la precedente, così come la precedente senza la successiva.46

Proprio perché le sfere sono irriducibili, mostrano dei salti, delle fratture, delle crepe che non derivano dai loro rispettivi contenuti, dal momento che non ci è permesso accedere al mondo tramite i metodi più disparati scelti arbitrariamente.

  1. La prima frattura è resa manifesta dall’irriducibilità dell’oggettività della sfera fisico-chimica dall’auto-organizzazione interna al vivente, la quale acquisisce così una dignità ed un’autonomia propria. La frattura tra la materia e la vita è mostrata nel fatto che la vita, di per sé, non può essere dedotta dalla materia: c’è un salto che non spiega perché la vita non sarebbe materia inerte e viceversa.
  2. La seconda frattura avviene tra la vita e l’anima: la prima mantiene una sua oggettività che è rappresentata dall’organizzazione del vivente, mentre la seconda è pura interiorità caratterizzata dalle sole esperienze vissute, che definiscono a loro volta una certa specificità. C’è un salto dalla sfera della vita a quella dell’anima, in quanto la vita come organizzazione interna non è deducibile dall’idea di «esperienza interna».
  3. Infine, la terza frattura tra anima e spirito indica l’impossibilità dello spirito come volontà e intelletto di essere compreso nei termini di impulso e stimoli. Il salto consiste nel fatto che le espressioni dell’anima non sono né pensate né volute, mentre quelle dello spirito, sono invece sempre meditanti ed interroganti. Lo spirito è strettamente legato alla libertà non tanto come volontà che pone autonomamente la propria legge morale, bensì esso è libero in quanto non si mostra mai in un’articolazione autonoma e definita. La frattura tra l’anima e lo spirito è rappresentata dall’impossibilità di una riduzione della coscienza intenzionale che elabora simboli e che è rivolta sempre ad oggetti.

È opportuno precisare però, che l’intero schema qui ripreso che vede una formulazione delle sfere dell’essere non era un tema presente esclusivamente in Jaspers; anche Nicolai Hartmann alcuni anni prima aveva parlato di stati dell’essere come materia, vita, coscienza e spirito in cui ogni strato superiore è sorretto da uno strato inferiore. Lo spirito sarebbe la manifestazione massima del reale, non nel senso trascendentale o eventualmente idealista, ma nel senso di più specifico del termine, ovvero di un realismo ontologico.47 Decenni dopo, Popper in virtù della questione mente corpo, e in armonia al dualismo interazionistico che portava avanti insieme a Eccles, parlerà di mondi tra i mondi:48 il «mondo 1» è il mondo dei corpi fisici sia mobili sia immobili, sia organici sia inorganici, di questo mondo fanno parte tutti gli enti materiali reali; il «mondo 2» è il mondo del mentale e dello psicologico, il mondo di tutte le percezioni sensibili; il «mondo 3» invece è il mondo delle nostre costruzioni culturali, dei prodotti della mente umana, delle opere scientifiche, storiche, artistiche, letterarie e dei miti religiosi. Quest’ultimo mondo è altrettanto reale rispetto agli altri due e merita altrettanta attenzione e studio. Ma a differenza di Hartmann o Popper, quando si parla di mondi o di stati dell’essere in Jaspers non si vuole far riferimento a porzioni di realtà che costituiscono il mondo nella sua totalità, quanto piuttosto a quei metodi che definiscono la nostra stessa possibilità di comprensione ma che al tempo stesso generano delle insanabili spaccature.

Una distinzione analoga sulla frattura è presente in Bergson e si struttura soltanto in due mondi, ovvero, l’organico e inorganico, che tuttavia sono distinti dall’isolamento percettivo del fenomeno e che costituiscono così anche le differenze metodologiche. Quando noi stiamo percependo un oggetto, lo percepiamo sempre separato dal resto del contesto,49 per questo motivo, definire un ente, significa visualizzarlo, e per farlo, siamo obbligati a scinderlo dal mondo circostante:50 in fondo è questa stessa separazione a costituire in Bergson quell’inevitabile frattura che vige nel mondo: la frattura tra organico ed inorganico infatti, così come quella tra materia inerte e materia cosciente, non è sempre così evidente tra i filosofi e gli scienziati: è per questo che si continua a cercare l’unità del mondo indipendentemente da questa spaccatura.

L’intesa della maggior parte dei filosofi su questo punto deriva dal fatto che essi sono concordi nell’affermare l’unità della natura, e nel rappresentarsi quest’unità in una forma astratta e geometrica. Fra l’organico e l’inorganico essi non vedono, non vogliono vedere la frattura […] In questa realtà ci ricollocheremo sempre più completamente, quanto più ci sforzeremo di trascendere l’intelligenza pura.51

Dunque, ne consegue che c’è una frattura che i filosofi non riescono a scorgere e che tuttavia presuppongono per il completamento del loro sistema. Bergson qui non si riferisce soltanto a quei filosofi realisti che vedono la realtà come qualcosa di compiuto, ma anche a quei filosofi idealisti che vedono dispiegato nel concetto puro l’intero senso del reale. Infatti, qualche riga oltre la nostra citazione, egli spiegherà che il percorso di Fichte, in cui l’intelligenza dà forma alla materia, è speculare a quello di Spencer, in cui è a partire dalla materia che si plasma l’intelligenza. Ambedue qui cadono nello stesso equivoco,52 che Jaspers in un modo completamente diverso ribadirà nel 1932.53 Bergson, iniziando a speculare arbitrariamente su certi contenuti biologici, aveva notato una frattura al fine di superarla; il discorso inverso avviene in Jaspers, che ben consapevole della stessa frattura, riesce a tenere ben distinti alcuni piani del sapere, che per essere tali e continuare a produrre dei frutti necessitavano di un’irriducibilità metodologica. In linea con un kantismo, il filosofo di Oldenburg spiega che «ogni conoscenza prospera se si limita a un solo mondo, perché solo così può formarsi dei concetti adeguati alle cose».54 Torniamo, quindi, a quanto dicevamo precedentemente: proprio perché tra le sfere vi è una lotta dettata dall’irriducibilità di una nell’altra, non è possibile trovare l’unità scientifica delle sfere quando ci orientiamo nel mondo.

4. Oltre la questione del metodo. Il singolo in psicopatologia

Come abbiamo visto, secondo Jaspers la peculiarità del procedere scientifico e della sua transitiva pretesa oggettivante55 risiede nell’applicazione di un metodo che si plasma in funzione dell’oggetto di studio. Con questa definizione si può dire che Jaspers eviti gran parte dei problemi di ordine epistemologico, avvicinandosi invece – certamente in maniera più periferica – ad una riflessione sulla conoscenza e ad una conseguente analisi circa il problema del metodo, che tuttavia non era appannaggio esclusivamente jaspersiano. Ritornano infatti tutti i problemi già esposti da Kant in merito ai limiti della ragione e alla legittimità della conoscenza, problemi che erano rimasti aperti anche dopo le riflessioni circa i metodi delle scienze della natura e dello spirito, la cui scientificità già nel corso dell’Ottocento constava di una certa ambiguità. John Stuart Mill, ad esempio, non vedeva distinzione di metodo tra quello delle scienze naturali e quelle dello spirito: entrambe sono definibili a partire da un principio di induzione; ma è chiaro che una tale definizione, che riconduce le scienze dello spirito e quelle della natura ad un piano esclusivamente logico, oltre che ad ammonire la peculiarità del contenuto specifico a cui entrambe sono rivolte, tenderà a non considerare le specifiche differenze metodologiche.

Hermann Von Helmholtz ripresenterà questa separazione nella seconda metà dell’Ottocento e cercherà di tracciare una linea di demarcazione tra i due saperi a partire dalla distinzione tra induzione logico-scientifica, tipica delle scienze della natura, e induzione di tipo artistico-intuitivo, che era invece propria del procedere delle scienze dello spirito. Con Helmholtz, per quasi un secolo, questa differenziazione tra i due tipi di scienza appare dunque qualcosa di legittimo, ma si pone nuovamente su basi totalmente arbitrarie: Gadamer in Wahrheit und Methode osserverà che una distinzione del genere possiede un vizio velatamente psicologistico.56 Dovremmo aspettare Dilthey che spiegherà nel 1883 nell’opera Einleitung in die Geistwissenschaften, come le scienze dello spirito differiscano dalle scienze della natura esclusivamente per il metodo. Ma per compiere questa distinzione, Dilthey introduce come punto cardine per le scienze dello spirito, il concetto di Erlebnis mostrando così l’importanza dell’esperienza interna sia come condizione di possibilità del vissuto intenzionale sia come causa dell’azione che costituisce tutti i fatti storico-sociali e psicologici. Dunque, con la ricostruzione dell’Erlebnis sarebbe stato possibile donare all’uomo un senso e una direzione, ma non nei termini hegeliani, come esemplificazione di un coronamento dello spirito assoluto, bensì come funzione soggettiva nei termini kantiani. Non è un caso che gran parte delle questioni portate avanti dal criticismo neokantiano di quegli anni si soffermeranno non soltanto sulle condizioni di possibilità delle scienze della natura, ma anche sulle condizioni di possibilità di quel metodo applicato alle scienze umane e alla storia. Lo stesso Gadamer osserverà, tuttavia, che Dilthey, nel voler superare quella distinzione di metodo tra le due scienze, abbraccerà – forse inconsapevolmente – una definizione kantiana di scienza, per cui il soggetto non sarebbe in grado di tradire la sua identità pensata come costruzione a priori su cui si basa l’intera conoscenza.57

La stessa esigenza sarà poi assorbita totalmente da Jaspers, ma nel suo caso accade qualcosa di inusualmente diverso: l’esigenza di una distinzione tra i due termini del conoscere ripresa dall’autore di Philosophie non dipendeva tanto da riflessioni in merito alle astratte condizioni di possibilità del conoscere, quanto piuttosto nella specificità di metodo. Viste da uno scienziato dello spirito infatti le riflessioni sulle scienze della natura possono essere considerate non come spiegazione di fenomeni reali, bensì come semplici riflessi di simboli o metafore arricchite da un suolo di significatività che avrebbero così svilito il più autentico significato scientifico. Viceversa, le scienze dello spirito potevano erroneamente subire delle riduzioni a fenomeni di carattere esclusivamente naturalistico. Per evitare tali tricks epistemici, l’idea di Weber,58 poi formalizzata da Dilthey, che la realtà del mondo si presenta come polarità di natura e spirito, si trova in pieno accordo con quanto ribadisce Jaspers.59 Eppure, nonostante le note difficoltà che Jaspers evita intelligentemente richiamandosi a Dilthey, egli non esiterà ad affermare che entrambe possono essere poste di fronte ai loro limiti. Questi limiti per la scienza della natura consistono nell’impossibilità di riuscire a spiegare e dominare ciò che inevitabilmente le trascende, mentre per le scienze dello spirito tali limiti consistono nell’impossibilità di giungere ad una pura oggettività.

Se da un lato per l’«orientazione filosofica nel mondo» le realtà scientifiche indagate si presentano come accidentali, cioè sempre relative a particolari momenti del processo storico del conoscere,60 dall’altro sono pensate come realtà determinate da quella che è la coscienza in generale, il cui compito è quello di unificare il molteplice sensibile sotto un’unica rappresentazione.61 Così lo stesso processo di unificazione del molteplice sensibile funzionerebbe come quel tentativo di ritrovare l’unità del sapere a partire dall’esperienza che l’esserci fa del mondo. Ma che cos’è allora la scienza? O meglio, che cos’è ciò che ci consente di conoscere il mondo a partire dalla nostra coscienza in generale? Alla luce di quanto detto, ciò che ci permette di farlo è il metodo. Il metodo altro non è che un peculiare strumento che noi applichiamo al molteplice sensibile, al fine di renderlo accessibile alla nostra coscienza in generale, esso «è come la chiave che consente di aprire le porte delle infinite e ancora occulte possibilità del sapere».62 Per Jaspers, i metodi restano tra loro distinti in quanto, non sempre lo stesso metodo è in grado di spiegare i termini di funzionamento di un particolare universo di senso perché non c’è un metodo assoluto dato alla coscienza in generale. Al contrario, se le scienze avessero la loro efficacia in funzione degli oggetti analizzati e non in funzione dei metodi, allora potremmo legittimamente affermare che la totalità del mondo può essere circoscritta alla nostra coscienza in generale. Ma proprio perché il mondo di per sé non si presenta mai come totalità e unità al contempo, tutte le scienze sono semplicemente porzioni di sapere limitate ai nostri relativi modi di conoscere.

Se però mi si è dissolta l’unità del mondo, allora le scienze non mi si costituiscono più in ambiti oggettivamente delimitati, ma solo in forme a priori date dalla coscienza in generale e che, svolte con tutta la necessaria perfezione formale in una costruzione di categorie e di procedimenti, compongono la totalità della conoscenza possibile. Le scienze allora si dividono secondo i metodi.63

Nonostante la potenza estendibile all’infinito del metodo nel suo oggetto particolare, siamo costretti ad affermare che il mondo empiricamente datoci non è mai il mondo nella sua totalità; per quanto infatti ci si possa sforzare di pensare un linguaggio ancora più formale, che vincoli il mondo sotto un’unica legge, questo non riuscirà mai a rappresentarsi la totalità del mondo: esso sfugge ed eccede alle nostre possibilità di cattura. La riflessione diltheyana sul metodo, ripresa appunto da Jaspers, infatti, aveva coinvolto nei primi decenni del Novecento non soltanto filosofi e storici, ma anche psicologi e psicopatologi. Binswanger, figura di spicco degli anni ’20 e noto per il suo approccio fenomenologico alla psichiatria, confrontandosi con la Allgemeine Psychopathologie di Jaspers del 1913, aveva tentato un superamento della scissione cartesiana e della concessione gnoseologica diltheyana di un distinguo tra scienze della natura e dello spirito. Questa ultima divisione era infatti particolarmente utile per lo studio della matematica e delle scienze dure, ma non lo era per la psicopatologia, che si trovava a lavorare sia su un piano materiale sia su un piano simbolico.64 Anche prima di Binswanger le modalità del comprendere diltheyano nella psicologia non avevano festeggiato un felice trionfo scientifico: era sempre necessario il ricorso a fattori sociali, individuali e storico-spirituali perché fosse possibile avviare anche nell’ambito delle scienze empiriche uno studio sulla psiche umana. Per tale motivo secondo Binswanger sarebbe stato opportuno superare questa scissione ed aprirsi più verosimilmente ad una pratica di psicopatologia fenomenologica che si svincolasse definitivamente da una teoria della conoscenza che pareva essere così poco flessibile.

In tal guisa, la fenomenologia poteva estendersi ed entrare anche nel campo della psicopatologia, a patto che la stessa psicopatologia riuscisse ad aprirsi alla chiarificazione di alcuni concetti fondamentali presenti in campo fenomenologico. Ed è qui che Binswanger elabora una distinzione tra psicopatologia descrittiva e fenomenologica.65 Mentre lo psicopatologo procede facendo delle descrizioni, classificando gli accadimenti psichici in classi, generi o specie, il fenomenologo orientato verso la psicopatologia si sforza di attualizzare ciò che il paziente gli comunica, di riferirsi alle sue parole, di concentrarsi – ancora una volta – sull’Erlebnis. Occorre quindi innanzitutto che la fenomenologia riesca a coniugare il significato autonomo dell’Erlebnis, disimpegnando questo termine dalle note incensature diltheyane con spunti di riflessione che il mondo esterno e la scienza gli forniscono. Sarà a partire da queste analisi che Binswanger cercherà di riformulare il terreno epistemologico su cui è poggiata l’intera pratica psicopatologica e lo farà proprio a partire da una riflessione fenomenologica autonoma che cerca di scardinare le definizioni stesse che vengono formulate tra «sanità» e «malattia mentale». Sia il sano di mente sia l’alienato non vivono fuori dal mondo o in un mondo diverso, ma vivono nello stesso mondo: l’alienazione, per il malato, è l’unico modo possibile per poter vivere la propria esistenza nel mondo, è il modo più autentico per dare un senso alla propria vita. A tal riguardo, la Daseinsanalyse, che si caratterizza come una prassi terapeutica autonoma, può riconoscere alla psicoanalisi un certo valore ontologico, oltre che terapeutico. Infatti, se per Erwin Straus il ruolo della psicoanalisi era estraneo a qualsiasi formulazione del concetto di Erlebnis, per Binswanger la psicoanalisi poteva costituire un interessante tentativo di interpretazione per la storia della vita interiore.66 Su questa stessa linea di una ricerca ontologica, Binswanger ricorrerà allo Husserl della Krisis, il quale riteneva che potesse essere possibile rintracciare una Lebenswelt, quel suolo che fa da sfondo a tutte le pratiche di senso in cui sarebbero contenuti anche gli atti significativi della volontà, e dunque della psiche.

Ma se tutto ciò poteva rappresentare un interessante e possibile punto di sviluppo tra due modalità della conoscenza, con il fine più pragmatico di arrivare a teorizzare nuovi e possibili modelli di quella che era la malattia mentale in campo scientifico, analogamente questo avrebbe creato non pochi problemi a quella che era la figura del malato, pensato come singolo irriducibile ed unico. Per Jaspers infatti tutto il lavoro presente tra le scienze psicopatologiche, compresa la riflessione sul metodo, sarebbe potuto essere un punto di riflessione euristicamente fruttuoso ed interessante su entrambi i fronti. Tuttavia, ciò che strideva alle sue orecchie era giocato proprio dalla nozione di Lebenswelt, dal momento che ogni paziente, ogni malato costituisce un unicum irripetibile, al quale non è possibile applicare teorie generali psicopatologiche seppure sembrano appartenergli, la malattia mentale è soltanto il riflesso rispetto all’irriducibilità di un’esperienza specifica, sciolta da quel fraseggio fenomenologico e al tempo stesso scientifico che vede nel paziente un fondo ed un’oscurità non sempre accessibili. È impossibile cogliere fino nelle profondità siderali quel terreno a partire dal quale si ergono tutte le stesse pratiche che danno significato all’esistenza e al nostro modo di stare al mondo, ma se poniamo attenzione, è proprio questo il punto di rottura rispetto a Binswanger e parimenti il filo conduttore tra lo Jaspers medico e lo Jaspers filosofo: il paziente è anzitutto un singolo, ed in quanto tale, è necessariamente portato al naufragio. Sembra dunque che lo stesso approccio fenomenologico, inizialmente incanalato nelle prime riflessioni di Jaspers in Allgemeine Psychopathologie e in Psychologie der Weltanschauungen, mostri i suoi limiti proprio nel misurarsi con l’irripetibilità e l’unicità dell’esistenza e trova nel naufragio proprio il punto cardine circa l’inconsistenza di ogni definizione del malato. Secondo Pareyson, il fatto che Jaspers sia passato dalla psichiatria alla filosofia per mezzo della psicologia, indicherebbe non soltanto la consapevolezza di una inevitabile inflessione epistemologico-scientifica di carattere più diltheyano e weberiano che non propriamente husserliano,67 ma anche l’impossibilità di una cattura del singolo da parte di una certa fenomenologia nel suo significato più tecnico e trascendentale del termine, dal momento che, come spiegheremo, «il suo intento più consapevole è la fedeltà a Kierkegaard».68

5. L’inconsistenza dell’unità al cospetto dell’esistenza

Di riflesso al problema dell’unità, Jaspers, nelle prime pagine di Psychologie der Weltanschauungen, aveva meditato intorno al concetto di «sostanza», concetto di cui si servirà sia per affermare implicitamente l’importanza relativa al problema teorico dell’unità, sia per definire l’unità della visione del mondo nel singolo.

Il fatto stesso che ci sia dato descrivere, non già la sostanza in sé stessa, bensì parecchie forme sostanziali, indica che possediamo da un lato la «sostanza» quale idea di un nucleo centrale, pregnante, di un tutto, e dall’altro la adoperiamo quale schema per i limiti di volta in volta raggiunti dalla nostra visione, e dalle formulazioni in cui essa si esprime.69

È opportuno premettere che quando parliamo di «visione del mondo» questo termine porta con sé un pieno ed inevitabile coinvolgimento teoretico con l’idea di «sostanza»: si tratta, tuttavia, di una sostanza che non deve essere pensata in senso essenzialistico-metafisico, o come un concetto puro, ma come un’idea con un carattere pratico-normativo, che mostra i classici contenuti di una un’apertura al mondo. Tale concetto, infatti, rivela quei processi come «l’autenticità», «l’inautenticità», «la formalizzazione», la «differenziazione» e «l’assolutizzazione» che possono escludere o includere il singolo nella realtà. Jaspers per chiarificare questo concetto utilizza un’immagine, che spiega come le visioni del mondo siano degli «involucri che ci imprigionano».70

Noi vediamo l’uomo quasi come il centro in un cerchio che lo avvolge. Dall’angolo visuale dell’uomo, vediamo negli atteggiamenti funzioni le quali si impossessano dell’oggettivo. Il circolo è questo mondo dell’oggettivo, mondo in cui l’uomo, nella sua scissione di soggetto e oggetto è rinchiuso.71

Eppure, sebbene l’idea di sostanza, nella sua piena configurazione unitaria e stabile, riesca a spiegare molto bene cosa intenda Jaspers quando parla di visione del mondo, si tratta comunque di un’idea che non è identificabile con i contenuti oggettivi di una rappresentazione, per il fatto che, da un punto di vista eminentemente psicologico, questi involucri possano essere rotti, cambiati o sostituiti. L’esperienza fondamentale di rappresentazione psicologica del mondo da parte dell’uomo si rivolge principalmente verso tre aspetti che non possono essere circoscritti, ma soltanto chiarificati: l’immagine del mondo spazio-sensoriale, l’immagine psichico-culturale del mondo, e infine l’immagine metafisica del mondo.72 Anche qui Jaspers cercando di elaborare delle suddivisioni interne alle visioni, delinea fino in fondo ed in maniera oggettiva i margini che separano una visione del mondo dall’altra, giacché, da un punto di vista psichico, lo psicopatologo sapeva bene che queste molto spesso tendono ad intrecciarsi. Per tale ragione sembra che, proprio a partire dalla visione del mondo che il singolo possiede, la stessa idea di unità, premessa nell’idea di sostanza, venga sfaldata continuamente. Jaspers ribadirà a più riprese l’impossibilità per le scienze di raggiungere un’unità compiuta, perché ciò significherebbe racchiudere il mondo in una totalità già data e predisposta. Ma, dal momento che l’unità è rappresentata da Jaspers anzitutto nel suo ideale normativo, è opportuno sottolineare che ogni idea acquisisce senso e significato nella misura in cui diviene «un’indicazione che segnala la via da percorrere per realizzare l’unità».73 Con una vena che sembrerebbe decisamente platonica, rammenta infatti che l’unità del sapere intesa nel suo carattere più programmatico e scientifico, maturi in seno ad un intervento metafisico nell’esistenza:

Nell’orientazione scientifica nel mondo c’è il monismo come idea vera dell’unità (anche se non si giunge mai all’unità ultima perché, a causa dell’instabilità del mondo, ogni unità che si raggiunge si frantuma); quest’idea dell’unità è come l’Uno nella trascendenza che ha la sua collocazione originaria nel pensiero metafisico.74

Quanto detto ci potrebbe far pensare che ciò che emerge dall’incondizionato e si palesa nella ricerca, può permettere di incamminarci verso quella strada dell’unità originaria, proprio perché il fondamento dell’idea è anzitutto metafisico. Ma fino a che punto la stessa ricerca, che ci proietterebbe verso questa unità, nasce in seno ad un’esigenza esistenziale maturata da una risposta concreta alla trascendenza? Per Jaspers l’esistenza non è la manifestazione di un «voto creatore»,75 per utilizzare un’espressione di Gabriel Marcel, cioè manifestazione dell’esistenza proiettata verso delle scelte concrete che hanno la loro origine nella trascendenza, ma di un’esistenza che acquisisce il suo unico senso in virtù del trascendere. Ciononostante, non sottrae al concetto di unità un valore, oltre che antropologico anche euristico per il sapere.

Chi fa procedere le forze entusiastiche dalle idee, sostiene che l’idea è l’elemento comune il quale, tanto nella poesia che nell’arte e nella filosofia nella scienza e nella vita, permette la comprensione e l’unione spirituale degli uomini al di sopra di ogni diversità delle sfere concrete.76

L’idea di unità, e quindi la stessa unità, non è più soltanto l’esigenza di vedere proiettata la totalità della coscienza nel mondo fuori di sé al fine di abbracciare il tutto della trascendenza, ma diviene psicologicamente e politicamente quel punto ineliminabile oltre il quale gli uomini si trovano a voler essere riuniti. Infatti, se da un lato Jaspers aveva avvertito sin dal suo lavoro di psicopatologo l’importanza dell’unità per la psicologia e la psicopatologia (pensando l’irriducibilità del malato come unità della malattia), in Philosophie sottolinea che l’unità nell’esistenza agisce come quel segno indelebile dell’esserci che ambisce a ritrovare il senso ultimo delle cose al cospetto di quegli enti che abitano il mondo.77 Se provassimo a ripensare questo tema dell’unità del sapere come totalità, dove si collocherebbe allora l’irriducibilità del singolo rispetto all’esistenza e i suoi modi?

Le sfere dello spirito, che dapprima stanno l’una accanto all’altra, entrando in contatto, lottano tra loro e si costituiscono in unità intorno a un contenuto di volta in volta originario, in cui non sono più forze che si combattono, ma componenti di una totalità che nasce dall’accordo del molteplice. Tutto ciò lo si ritrova raccolto in quel microcosmo che è l’uomo; le cose sono il suo mondo, le categorie le strutture della sua orientazione nel mondo, le sfere dello spirito sono presenti e conciliate con il suo esserci. Non c’è quindi una totalità, ma ad avere in pugno tutte le cose è l’esistenza che si manifesta attraverso il tutto.78

Questo significa che non bisogna intendere l’esistenza né come il banale risultato di un processo di astrazione dagli enti materiali, né come un concetto definito a partire da un’essenza, né tantomeno come un particolare attributo di un ente tra gli enti, l’esistenza è «rottura dell’esserci del mondo»79 accertabile solo nella chiarificazione. Chiarificare non significa decifrare le operazioni tramite le quali l’esistenza trae la propria definizione nel linguaggio che rimarca l’importanza del soggetto conoscente, ma significa gettar luce su quelle dinamiche nelle quali essa manifesta le sue «possibilità»: la libertà, la comunicazione, la volontà, la storicità, le situazioni limite e le azioni incondizionate. Ognuna di queste non pretende alcuna validità universale, poiché non si tratta di oggetti di un sapere astratto, ma di tracce incise nella possibilità dell’esistenza. Ma se da un lato l’esistenza mostra tutti i suoi limiti quando la coscienza dell’esserci è posta di fronte ai limiti del mondo, aprendo alle sue possibilità e alla chiarificazione dell’esistenza, dall’altro è soltanto di fronte alla «verità nell’essere dell’esistenza rispetto all’altra esistenza che produce la vertigine»80 che è possibile un superamento stesso dell’esistenza, aprendo così la strada alla metafisica. I limiti del mondo emergerebbero, infatti, non soltanto nel momento in cui l’unità del pensiero non riesce a racchiudere il mondo nella sua totalità, ma anche nel momento in cui essa è posta d’innanzi ad altre esistenze e raggiunge la consapevolezza dell’impossibilità dell’unità con l’altra esistenza. In questo modo Jaspers traccia un primo sentiero verso un’apertura metafisica, spiegando che non è raggruppando le esistenze in una totalità che è possibile cogliere lo stesso significato dell’esistenza: giacché l’esistenza non è risolvibile in un’altra esistenza, essa matura la sua unicità soltanto di fronte ad uno scontro, allorché la lotta tra esistenze non sarebbe null’altro che una «lotta di una fede contro un’altra fede»,81 o per utilizzare un’espressione di Von Der Wahrheit di una «volontà contro un’altra volontà» (Wille gegen wille). Per questo motivo lo scontro tra esistenze non può che spostarsi verso la metafisica, che vede nella trascendenza il suo ultimo e più maturo compimento. È opportuno precisare che non si tratta di un ricorso al metafisico come scappatoia o come conseguenza necessaria dell’impossibilità di una comprensione totalizzante del mondo e della chiarificazione di tutte le possibilità dell’esistenza: l’accesso al regno della trascendenza non è semplicemente «riduzione a», ma «apertura a» un discorso metafisico e religioso in quanto l’esistenza «cerca di affermarsi nell’eternità dell’essere autentico».82 Per questo motivo se si vuole parlare di pluralità di esistenze, bisogna rappresentarle nella loro dimensione puramente cifrata, singolare, irripetibile ed unica poiché «la vera unità è solo nella trascendenza di questa esistenza».83

6. La singolarità come rottura definitiva dell’unità

In sintesi, per quanto riguarda il problema dell’unità, sembra di vedere Jaspers frapposto tra tre esigenze. Nel primo caso cerca di estendere il problema dell’unità alla trascendenza, richiamando alla nozione di Umgreifende; nel secondo caso, in linea con un processo di sintesi che Kant aveva interpretato come funzione dell’appercezione dell’Io penso in grado di garantire la sintesi del molteplice, estende l’unità a tutte le scienze, unità che però incontra necessariamente dei limiti; nel terzo caso si si affida tacitamente a Kierkegaard per compiere quel salto nella trascendenza, arrivando a sostenere che il sapere quando diviene consapevole dell’impossibilità dell’unità definitiva, incontra il naufragio che si presenta come limite antinomico del trascendere formale. Questo terzo momento è però possibile se si rammenta nuovamente l’importanza del singolo nel pensiero di Jaspers - ma cerchiamo di andare con ordine. Uno degli intrecci teorici più interessanti e fruttuosi dell’intero percorso di Jaspers è giocato proprio da questo tema della singolarità, irripetibilità ed unicità dell’esistenza come ponte tra la psicopatologia e la filosofia. Seguendo un po’ la linea già tracciata da Krapelin che vedeva un evidente rinnovamento per la pratica psicopatologica, la malattia mentale sembrava poter essere resa psicopatologicamente a partire da alcune fondamentali unità morbose.84 Jaspers si inserirà sulla linea di un chiaro abbandono dello studio anatomico ed istologico del cervello, poi presente in Kurt Schneider e, proprio perché per lo psicopatologo non è possibile risolvere l’individuo a partire dai contenuti concettuali a quest’ultimo applicati, bisogna provare a capire non tanto che il singolo sia abitato da forze esterne, ad oggi incomprensibili, che lo definiscono e lo abitano silenziosamente (come ad esempio accade nella psicanalisi), quanto piuttosto di capire che l’esser malato dipende dalla piena esperienza di indipendenza, autonomia, unicità ed irriducibilità; se questo è vero, ne consegue che la psicopatologia intesa come prassi autonoma e come disciplina scientifica, nelle sue tematizzazioni concettuali, non potendosi volgere meccanicamente alla comprensione di questa insostituibile irriducibilità, deve aprirsi a quel pluralismo metodologico che permette uno sguardo complessivo e non esclusivo circa il significato dell’essere uomo.

Nel capitolo La vita dello spirito in Psychologie der Weltanschauungen, Jaspers afferma che l’universalmente valido, che consiste nel vero delle forme e dei concetti, per quanto possa estendersi nel metodo, non riesce ad includere l’individuale.85 Una visione del mondo che si evolve in seno ad un’universalità, «spaccia per viva una tale oggettività dimenticandosi dell’esistenza individuale concreta, che viene ad essere, in conseguenza, casuale, meschina, arbitraria, priva di spiritualità»:86 è proprio su questa linea che Jaspers interviene con un’idea del singolo, prima articolata in Psychologie der Weltanschauungen, e poi in Philosophie, che mostra un’inflessione più filosofica aperta ad un’indagine sistematica che riconsidera in primis il significato dell’esserci come singolarità, giacché come suggerisce Pareyson, «nell’intimo del singolo e dell’individuale dobbiamo cercare l’assolutezza della validità».87 Per la Arendt, l’essere che si risolve nella periecontologia, elevandosi ad Umgreifende, mostra il momento più alto dell’impossibilità di formulazioni ontologiche che raggiungono la trascendenza dell’essere.88 Ma è solo nell’esistenza che si accede ad un livello di trascendenza. Claudio Fiorillo osserva infatti che la questione sull’essere si realizza, non tanto a partire dalla certezza dell’essere come cominciamento, come inizio, così come accade in Hegel, ma si tratta di seguire una domanda sull’essere che io stesso sono.89 Tale questione sull’essere è una domanda che ritorna continuamente, ma che, continua Fiorillo, «nella sua radicalità, tale domanda non è però univoca. Né lo può essere, dal momento che investe l’intero variopinto orizzonte di ciò che è, di cui fa parte anche l’io stesso che domanda».90

Vorremmo spendere alcune parole, facendo riferimento alle riflessioni di Pareyson circa il problema ontologico dell’esistenza al fine di capire più nello specifico qual è esattamente il ruolo dell’irriducibilità del singolo rispetto all’essere della trascendenza. Nonostante una certa letteratura critica jaspersiana ritenga che il collocamento compiuto da Pareyson non restituisca a pieno titolo una certa autonomia filosofica al pensiero di Jaspers, alcune analisi di Pareyson risultano essere particolarmente utili circa quella riflessione ermeneutica del contenuto filosofico del singolo. Pareyson, infatti, inserendo Jaspers nell’alveo di un esistenzialismo già maturo e definito, lo mette a confronto con due pensatori in particolare: Heidegger e Kierkegaard. Dal momento che l’esistenza viene alimentata dalla sua relazione partecipativa con la trascendenza, la quale costituisce così tutti i rapporti teandrici dell’identità con la situazione e parimenti dell’identità con l’alterità, tutto il fenomeno culturale dell’esistenzialismo deve essere letto alla luce di questa particolare esigenza di pensiero:

Kierkegaard nella relazione a Dio, nello Heidegger relazione all’essere, nello Jaspers relazione alla trascendenza, nel Lavelle partecipazione all’Atto e nel Marcel mistero ontologico.91

Nelle sue argomentazioni Pareyson segue la linea di Jean Wahl, il quale nei suoi Ètude Kierkegaardiennes del 1938, già rammentava l’importanza di Kieerkegaard nello sviluppo più compiuto del pensiero jaspersiano. Inoltre, tra le pagine di Psychologie der Weltanschauungen, soffermandosi su quelli che sono i «punti d’appoggio per l’infinito», parlando del rapporto tra l’individuo e l’universale in corrispondenza alla visione del mondo, oltre a riflettere insieme ad altri pensatori come Spinoza, Cicerone, Kant, Aristotele e Platone, riflette insieme a Kierkegaard.92 Pareyson, sia in Studi sull’esistenzialismo sia in La filosofia dell’esistenza di Carlo Jaspers, resta su una linea d’indagine del filosofo di Oldenburg che si concentra prevalentemente non soltanto sulla chiarificazione dell’esistenza e sull’indagine dei segni dei quali l’esistenza è contornata, ma anche sul problema ontologico. Tutto parte da qui e da Kierkegaard: sarebbe dunque Jaspers a dare una giusta lettura del filosofo danese.93 Barth e Heidegger nel tentativo di dialogare con Kierkegaard, concentrando le loro riflessioni sull’esperienza del tempo a fini meramente ontologici, si trovano a dover fare i conti con il problema del singolo al cospetto dell’eternità. Nel caso del primo la negazione del tempo viene ripensata in favore dell’eternità, mentre nel secondo la negazione dell’eternità viene ripensata in favore del tempo. Ma a differenza di Jaspers, entrambe le riflessioni sfaldano definitivamente il paradosso del singolo, elemento chiave per la comprensione di Kierkegaard.94 In Kierkegaard non c’è tentativo di soluzione del singolo in qualcos’altro, per questo motivo l’ultimo livello del pensiero jaspersiano è restituito dal naufragio, che coinvolge e dissolve la stessa esistenza nell’angoscia e poi nella riconciliazione. Le riflessioni sull’irriducibilità del singolo vengono mostrate ancora meglio quando Pareyson in Studi sull’esistenzialismo si trova ad accostare Heidegger accanto a Jaspers su questioni di carattere più eminentemente ontologiche,95 ed insistendo notevolmente su un’interpretazione esistenziale dello stesso Heidegger,96 segue, per molti aspetti, la linea di Jaspers, perché capisce che è proprio nel problema ontologico, pensato anche come possibilità di costruzione delle categorie e come «autoidentità storica dell’uomo»,97 che si pone il problema dell’esistenza come apertura alla trascendenza.

Detto in altri termini, se ci si sposta da un’analisi ontologica dell’esserci a una riflessione dell’esserci nel rapporto con l’essere stesso, risulta inevitabile una riflessione sul carattere relazionale tra i due e, dal momento che si tratta di un rapporto di ulteriorità, avremo a che fare con un’indagine non più esclusivamente ontologica, ma anche esistenziale.98 Pareyson infatti nel riflettere più estesamente su Heidegger, mostra come la chiave per comprendere la demarcazione tra esistenziale (existenzial) ed esistentivo (existenziell), dipenda proprio dalla sussistenza del problema ontologico rispetto ad una fase di pre-riflessione intorno all’uomo. Partendo dall’assunto della piena e completa trascendenza dell’essere rispetto all’ente, ne deriva che «l’esserci rapportandosi all’ente, deve averlo già sempre trasceso per attingere la condizione della sua manifestabilità; e che questo e-levarsi sopra l’ente verso l’essere, […] è l’intima struttura e il modo di essere caratteristico dell’esserci, e si chiama e-sistenza, emergenza dall’ente e dalla sua insignificanza e rapporto con l’essere».99 Questo significa infatti che il problema dell’essere è dato e si può presupporre solo partendo dal riferimento del problema dell’uomo. Esserci, infatti, per Pareyson non significa esclusivamente «esser nel mondo presso l’ente che nel mondo si presenta (In-der-Welt-sein bei dem innerweltichen Seinden)», ma anche «l’ente, che è nel mondo e che rinvia all’ente che nel mondo si presenta».100 Ma se per Heidegger l’esserci è l’ente, al quale ne va sempre, nel suo essere, dell’essere stesso, per Pareyson «l’uomo, in quanto c’è, esiste, e, in quanto esiste, trascende».101 Pareyson, a questo punto sposta l’attenzione dal tentativo di risolvere il problema dell’essere al tentativo di fondare filosoficamente il singolo: mentre in Heidegger, con il Man, abbiamo a che fare con un singolo anonimo, svuotato del suo significato e «minacciato dall’indifferenza esistenziale»,102 la peculiarità di Jaspers è che il singolo è tale nella misura in cui riesce a porre «la sua concretezza di fronte al naufragio finale: il singolo è minacciato dal naufragio dell’esistentivo».103 Potremmo sommariamente riassumere dicendo che Pareyson rendendosi conto dell’impossibilità di fondare filosoficamente il singolo, sperimenti egli stesso una sorta di naufragio teoretico, non altrimenti percorribile nell’ontologia.104

Esattamente come il pensiero rivolto all’orientazione filosofica e scientifica che ricerca un unità giunge a compimento quando incontra quei limiti di cui abbiamo parlato e prende atto della sua debolezza proprio nel momento in cui prova a catturare la totalità del mondo, in un’ottica più marcatamente esistenziale, il trascendere formale, cioè il tentativo di pensare l’essere della trascendenza (ed il rispettivo fine di fondare ontologicamente il singolo), «può compiere il suo ultimo passo trascendente solo in un annientamento di sé»,105 cioè solo nel naufragio. Mentre nel trascendere formale e nelle modalità di linguaggio che cercano l’essere, è soltanto il pensiero a naufragare, nell’esistenza (dentro la quale l’esserci è immerso) arriviamo a comprendere che il naufragio finale non avviene soltanto come un ulteriore esempio di un trascendere nel pensiero, ma come ripiegamento dell’esistenza nel singolo, che genera un sentimento prima di angoscia e poi di pace, quel sentimento che rappresenta l’ultimo tassello invisibile di un puzzle che è sempre abbandonato all’insondabilità dell’essere della trascendenza.


  1. Come accennato, tutti i capisaldi sull’idea dell’università nel pensiero di Jaspers in relazione al problema dell’unità del sapere sono contenuti in: Die Idee der Universität, Springer, Berlin 1923. La stessa opera sarà riedita nel 1946; poi in K. Jaspers, K. Rossmann, Die Idee der Universität, Springer, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1961. Tra le altre opere di Jaspers non pubblicate in italiano su questo tema troviamo: Vom lebendigen Geist der Universität, in K. Jaspers, F. Ernst, Vom lebendigen Geist und vom Studieren, Schneider, Heidelberg 1946.; Erneuerung der Universität. Reden uns Schriften (1945-46), von R. De Rosa, Schneider, Heidelberg 1986. La stessa riflessione avviata da Jaspers vanta inaspettatamente numerose opere e articoli circa la sua riflessione sull’università. In lingua italiana, cfr: G. Tanzella-Nitti, Verità nella libertà e universalità della conoscenza nell’idea di università di Karl Jaspers, in Id.Passione per la verità e responsabilità del sapere, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 70-77.; G. Vellucci, Jaspers e l’Università come idea, in «Studium», 96 (2000), n. 2, pp. 242-250. In lingua tedesca, cfr: K. Salamun, Philosophie, Erziehung, Universität. Zu Karl Jaspers’ Bildungs- und Erziehungsphilosophie, Peter Lang, Frankfurt 1995.; H. Kopetz, Forschung und Lehre : die Idee der Universität bei Humboldt, Jaspers, Schelsky und Mittelstraß, Wien 2001. Per lingua inglese, cfr: J. Wyatt, Commitment to higher education. Seven West European thinkers on the essence of the University: M. Horkeimer, K. Jaspers, F.R. Leavis, J.H. Newmann, J. Ortega y Gasset, P. Tillich, M. de Unamuno, Society for Research into Higher Education and Open University Press, Bristol 1990.; G.J. Walters, The tasks of truth. Essays on Karl Jaspers’s idea of the university, Peter Lang, Frankfurt 1996. Per quanto riguarda invece il rapporto tra unità del sapere ed università si veda: AA.VV. L’unità del sapere, la questione universitaria nella filosofia del XIX secolo, a cura di A. Rigobello, G. Amati, A. Bausola, M. Borghesi, M. Ivaldo, G. Mura, Città Nuova Editrice Roma 1977. In questo testo si cerca di declinare accanto al problema dell’unità del sapere anche la questione universitaria del XIX secolo con particolare riferimento a I. Kant, F. Scheilermacher, K. W. Von Humboldt, J. G. Fichte, F. W. J. Schelling, G. W. F. Hegel, J. H. Newman, E. Renan e A. Labriola. Per l’intera bibliografia consultata in questo articolo Cfr. G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, Laterza, Bari-Roma 2001, pp. 199-234; C. Fiorillo, «Bibliografia di Karl Jaspers» in Dialeghestai, Rivista telematica di filosofia, 2003. ↩︎

  2. In merito alla riflessione dell’unità strutturale della verità, cfr. F. Furger, Struktureinheit der Wahrheit bei Karl Jaspers, Diss., Roma 1960.; L.H. Ehrlich, Truth and its Unity in Jaspers, in Aa.Vv., Karl Jaspers (1883-1969), in «Revue internationale de philosophie», 147 (1983), pp. 423-439. Per quanto riguarda invece la questione dell’unità in merito al problema dell’esistenza: T. Räber, Das Dasein in der «Philosophie» von Karl Jaspers. Eine Untersuchung im Hinblick auf die Einheit und Realität der Welt im existentiellen Denken, Francke, Bern 1955. ↩︎

  3. Cfr. Vernunft und Wiedervernunft in unserer Zeit, Piper, München 1950; trad. it. Ragione e antiragione nel nostro tempo, a cura di G. Saccomano e P. Chiodi, Sansoni, Milano 1970 e poi 1978. ↩︎

  4. L’obiettivo originario di Jaspers era quello di elaborare una Logica filosofica suddivisa in quattro parti, le altre tre parti che riguardano rispettivamente una Dottrina del metodo, una Dottrina delle categorie e una Dottrina della scienza che saranno pubblicate in: Nachlaß zur philosophischen Logik, (pubblicato da): von H. Saner, M. Häggi, Piper, München 1990. ↩︎

  5. K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper Verlag GMBH, Müncih 1947; trad. it. Della verità, a cura di D. D’Angelo. Bompiani, Milano 2015, p. 23. Abbreviato con: VdW↩︎

  6. Id., Psychologie der Weltanschauungen (1919, 1971), München-Zürich, Piper, 1985; trad. it. Psicologia delle visioni del mondo, a cura di V. Loriga, Astrolabio, Roma, 1950, p. 540. Abbreviato con: PdW↩︎

  7. Ibid↩︎

  8. Ibid↩︎

  9. M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tubingen, 1927; trad. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 20. ↩︎

  10. VdW, p. 97. ↩︎

  11. Ivi, p. 109. ↩︎

  12. Cfr. Ivi, pp. 1305-1311. ↩︎

  13. Cfr. Ivi, pp. 1341-1357. ↩︎

  14. Cfr. Ivi, pp. 1311-1341. ↩︎

  15. Cfr. Ivi, pp. 1357-1339. ↩︎

  16. Ivi, p. 1405. ↩︎

  17. Ivi, p. 1407. ↩︎

  18. Cfr. C. Fiorillo, Fragilità della verità e comunicazione. La via ermeneutica di Karl Jaspers, Aracne, Roma 2003, p. 85. ↩︎

  19. Die geistige Situation der Zeit, Walter De Gruyter, Berlin 1931 e riedita nel 1933; trad. it. La spirituale del tempo, a cura di N. De Domenico, pref. di A. Rigobello, Jouvence, Roma 1982, p. 137. ↩︎

  20. Ivi, p. 139. ↩︎

  21. Ivi, p. 137. ↩︎

  22. Ivi, p. 167. ↩︎

  23. Un interessante lavoro sul rapporto Heidegger e Jaspers risulta essere a nostro avviso: G. Penzo, L’iter verso l’essere di Jaspers in riferimento a quello di Heidegger, in «Saggi e ricerche», Antenore, Padova 1967. Per quanto riguarda alcune riflessioni in merito al problema dell’unità delle scienze, saranno presenti in: M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes in Holzwege, Frankfurt a. M.; L’epoca dell’immagine del mondo in «Sentieri interrotti», tr. it. di P. Chiodi, Firenze 1973. Qui Heidegger spiegherà come «Ogni scienza in quanto ricerca, è fondata sul progetto di una determinata regione oggettiva e perciò è necessariamente scienza particolare». P.79, infatti nonostante egli osservi che la multidisciplinarietà diventi una «necessità essenziale della scienza come ricerca» ibid., in realtà Heidegger concepisce l’unità delle scienze come qualcosa di estremamente lontano rispetto alla sua prospettiva. ↩︎

  24. Briefwechsel Heidegger-Jaspers (1920-1963), V. Klostermann GmbH, Frankfurt am Main 1990; trad. it Lettere 1920-1963, a cura di A. Iadicicco, Raffaello Cortino Editore, Milano 2009, p. 173 (lettera n.134). Più precisamente, per Heidegger la tecnica diviene il dominio dell’ente, che dimentico dell’Essere, definisce autonomamente l’essenza di ogni ente. Gli esiti di queste riflessioni sono presenti in filosofi come Jonas e Anders. Jonas nel Il principio responsabilità ritiene che la tecnica ci pone su un piano per cui essa rinnova sé stessa molto più velocemente di quanto i nostri imperativi etici siano in grado di prevedere. E in termini analoghi, seppur più radicali, Anders in Opinioni di un eretico e in L’uomo è antiquato con l’immagine del dislivello prometeico ci ricorda che il processo di produzione tecnica è semplicemente «altro» rispetto all’uomo. È pertanto impossibile separare la tecnica dal suo utilizzo, proprio perché non siamo in grado di controllarne gli effetti. ↩︎

  25. Sebbene Jaspers avverta il tentativo di un sovvertimento radicale del nostro tempo nei confronti della conoscenza, che se pensata esclusivamente sotto il carattere strumentale, si convertirebbe in tecnica, la scienza «va insieme con la consapevolezza del metodo» Id. Über Meine Philosophie, 1941; trad. it. La mia filosofia, a cura di R. De Rosa, Einaudi, Torino 1946 p. 110. Abbreviato con: ÜMP. Infatti, il pensiero scientifico si muove esclusivamente all’interno di quelle sfere della realtà che vengono rappresentate dai loro caratteri formali e logicamente incontrovertibili presenti, in ogni metodo, per tale ragione, «ogni conoscenza scientifica, è, come tale, irresistibilmente certa e ci costringe ad accoglierla come tale». Ibid. Più nello specifico, in merito al tema della tecnica con la medicina e la figura del medico: cfr. Id, Der Arzt im technischen Zeitalter, Piper, München 1986; trad. it. Il medico nell’età della tecnica, a cura di M. Nobile, Introduzione di U. Galimberti, Raffaello Cortina Editore, Milano 1991; per quanto riguarda un interessante testo di letteratura secondaria orientato al tema della tecnica: A. G. Vitolo, Karl Jaspers. Il compito dell’università nell’età della tecnica, Luciano, Napoli 2006. ↩︎

  26. ÜMP, p. 119. ↩︎

  27. Id., Philosophische Weltorientierung in «Philosophie», Springer, Berlin 1932 e poi 1972; trad. it. Orientazione filosofica nel mondo in «Filosofia», a cura di di U. Galimberti, U. Mursia Editore, Milano 1977, p. 112. Abbreviato con: PW. ↩︎

  28. PW, p. 109. Secondo Jaspers nel momento in cui viene posta la questione sul senso della scienza, la risposta pare esserci già sfuggita: «Il senso della scienza, per quanto assodato e presente quando l’indagine è condotta con passione, non è a sua volta scientificamente dimostrabile […] La scienza giunge fin dove giunge il sapere logicamente vincolante, ma è a un tempo qualcosa di più. Avvertire questo qualcosa di più non conduce a una dimostrazione, ma ad un appello che chiede di poter cogliere il senso della scienza». Ivi, p. 108. ↩︎

  29. Cfr. Ivi, p. 109. ↩︎

  30. Ivi, p. 93. ↩︎

  31. Ivi, p. 75. ↩︎

  32. Ivi, p. 89. ↩︎

  33. Ibid↩︎

  34. Ivi, p. 97. ↩︎

  35. Ivi, p. 94. ↩︎

  36. Risulta qui essere particolarmente adeguata una citazione di Galimberti: «Quando la conoscenza scientifica e tecnica si pone come conoscenza totale, allora si rende possibile una pianificazione totale in cui l’uomo diventa per l’uomo un materiale conformabile e trasformabile secondo i propri scopi […] La libertà infatti non si può produrre. Si possono solo far sorgere o predeterminare le condizioni mediante le quali la libertà può rendersi possibile o impossibile. La libertà proviene da una fonte diversa». U. Galimberti, Il tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Il Saggiatore, Milano, 2005, p. 432. ↩︎

  37. Cfr. PW, pp. 74-81 e pp. 120-122. ↩︎

  38. Ivi, p. 121. ↩︎

  39. Cfr. Ivi, p. 77. ↩︎

  40. Ivi, p. 89. ↩︎

  41. Ivi, p. 137. ↩︎

  42. Ibid↩︎

  43. Discorso diverso avviene per l’antropologia, che per Jaspers è esclusivamente una scienza naturale e non una scienza spirituale, o, diremmo oggi, una scienza culturale: Cfr. Ivi, p. 158. ↩︎

  44. Ivi, p. 167. ↩︎

  45. Ibid↩︎

  46. Ivi, p. 91. ↩︎

  47. Cfr. N. Hartmann, Das problem des geistengen seins, WdG&Co, Berlin, 1962. ↩︎

  48. Cfr. K. Popper, Epistemologia evolutiva in «Paradigmi», 1994 pp. 5-25. Cfr. anche K. Popper, I tre mondi. Corpi, opinioni e oggetti del pensiero,il Mulino, Bologna, 2012. ↩︎

  49. Non abbiamo modo di spiegare all’interno di questo lavoro eventuali punti di contatto tra Jaspers e Bergson. Ci limitiamo nel dire che Jeanne Hersch, allieva prima di Bergson e poi di Jaspers, noterà che la nozione di libertà sarà un tema chiave per la comprensione di Bergson oltre che per il modello del filosofare esistenziale. In merito al suo rapporto con Bergson: cfr. J. Hersch, Les images dans l’œuvre de Bergson, trad. it di A. Carenzi, in: Henri Bergson, Lucrezio, a cura di R. De Benedetti, Medusa, Milano 2001. In merito al suo rapporto con Jaspers: cfr J. Hersch, L’illusione filosofica, trad. it. a cura di F. Pivano, Einaudi, Torino 1941. Per quanto riguarda invece il passaggio sulla percezione spiega che non si possono percepire più forme contemporaneamente e che la percezione, oltre ad essere legata ad una dinamica qualitativamente irriducibile, è sempre rivolta verso un oggetto. La separazione degli enti nella percezione infatti è sempre una qualità intrinseca al corpo stesso, ma non di tutti i tipi di corpi, soltanto dei corpi viventi ovvero di quelli organici. Nel corpo vivente sono integrate delle funzioni che ci consentono non solo di definirlo un ente tra gli enti con delle peculiarità specifiche, ma ci permettono soprattutto di constatare l’emergere di dinamiche percettive nuove ed inimmaginabili. L’intera analisi sul problema della rappresentazione è condotta a partire dal fatto che tutto l’universo può riprodursi soltanto mediante alcune immagini particolari proiettate sul cervello, tuttavia il cervello stesso è un’immagine, così come sono delle immagini tutte le altre realtà sensibili trasmesse alla nostra coscienza: cfr. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Materia e memoria, L’idea di luogo in Aristotele, Lettere in «Opere 1889-1896», a cura di P.A. Rovatti, trad. it. di F. Sossi, Mondadori, Milano, 1986, pp. 150-168. Analogamente a questa questione, Merleau-Ponty, afferma che in Bergson la percezione è alla base della vita in quanto filosofare, nel senso che ci pone sempre e nuovamente in relazione con l’essere nel mondo. Per questo motivo secondo un certo tipo di fenomenologia, come quella di Merleau Ponty, ci viene rammentato è nella relazione con le cose che dobbiamo cercare la nostra genesi: cfr. M. Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, a cura di Carlo Sini, Se, Milano 2008 pp. 17-27. ↩︎

  50. Questo suo esser definito ente, non indica il fatto che sia anche un essente, ovvero che questo ente sia già determinato a partire da un concetto: l’entità dell’ente non è data a priori. Questo accade perché ciò che costituisce l’ente come vivente è una proprietà, non una parte scandagliabile dal resto della sua totalità di ente, come concetto. Cfr. H. Bergson, L’Evoluzione Creatrice, Bur, Milano 2012, pp. 21-24. Anche l’intelligenza non è una dimensione propriamente definita in sé stessa, ma è al contrario una dinamica vivente. È pertanto difficile stabilire che cos’è un individuo in quanto ente finito, proprio perché esso assumerà sempre nuove forme di intelligenza per esprimere i suoi atti. Fino dalle origini del cosmo l’organico è stato il proseguo del solo ed unico slancio vitale presente tra le diverse linee evolutive che hanno caratterizzato la vita. Cfr. pp. 241-259. ↩︎

  51. Ivi, p.185. ↩︎

  52. Per Bergson non è la materia a determinare l’intelligenza, come non è l’intelligenza a imporre la sua forma alla materia. È opportuno invece inferire che entrambi si adattano progressivamente l’un l’altra fino a raggiungere un equilibrio monadico. L’intelligenza stessa infatti, prima di essere uno strumento, è un’attività consapevole nel mondo che ci mette in relazione con esso: cfr. Ivi, p. 200. Proprio perché l’intelligenza è attività, e non soltanto pura speculazione rivolta verso un oggetto, la reale portata della frattura tra organico e inorganico fa capo ad un problema filosofico prima che scientifico. La distinzione tra materia inerte e materia vivente, risiede nel fatto che la prima può essere oggetto della nostra intelligenza, invece, la seconda è affidata all’arbitrarietà delle speculazioni filosofiche, in quanto non riesce mai a trovare un centro. Questo è infatti uno dei motivi per cui secondo Bergson la stessa biologia non può essere definita una scienza dura. Merleau-Ponty osserva che il senso del filosofare in Bergson consiste nel rinnovare sempre nuovamente il pensiero come fusione tra ed esplorazione tra il vivente e il mondo. Cfr. M. Merleau-Ponty, Signes, Gallimard, Paris, 1960, pp. 229-241. ↩︎

  53. Se i limiti del mondo emergeranno a partire dalla sua comprensione, allora saremmo costretti a negare la nozione di libertà e trascendenza in favore di una comprensione del mondo come oggetto o come soggetto: cfr. PW pp. 171-191. Nel caso del positivismo la libertà sarà negata in funzione di strutture o paradigmi oggettivi che agiscono nell’uomo stesso indipendentemente dalla sua volontà. Discorso speculare avviene nell’idealismo. Se tutta la realtà è il prodotto del soggetto cosciente, la sua libertà coincide esattamente con la comprensione che il soggetto ha di sé stesso. ↩︎

  54. Ivi, p. 90. ↩︎

  55. Anche qui, cfr. Ivi, pp. 110-113. ↩︎

  56. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, J.C.B. Mohr, Tübingen (1960, 1965, 1972); trad. it. Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 2010 (prima ed. 1983), pp. 27-40. ↩︎

  57. Gadamer stesso osserva che Dilthey con il concetto di Erlebnis era riuscito a fondare le scienze dello spirito e a salvaguardare al tempo stesso l’idea di libertà. Tuttavia, questo concetto, era ancora legato troppo ad un trascendentalismo metafisico (cfr. Ivi, pp. 91-98). Per tale ragione, Kant, nel suo tentativo di oltrepassare la metafisica, ha intelligentemente evitato di fondare la nozione di libertà umana su un concetto trascendentale, e non è un caso che la stessa posizione sarà intelligentemente ripresa da Jaspers. ↩︎

  58. In realtà tutte le riflessioni circa il problema delle scienze dello spirito, erano già celatamente presenti in Max Weber che rappresentava per Jaspers, non soltanto un filosofo, ma anche uno scienziato e un politico allo stesso tempo: «l’aspetto vitale di un insolubile conflitto tra le possibilità del mondo è, per ogni considerazione di orientamento scientifico, un aspetto ultimo, ma non è ultimo per la coscienza dell’essere. Ciò che è razionalmente ultimo sotto un angolo visuale non è l’ultimo in senso assoluto». Id., Max Weber. Deutsches Wesen im politischen Denken, im Forschen und Philosophieren, Stalling, Oldenburg 1932; poi ristampato in: Max Weber. – Politiker, Forscher, Philosoph, Storm, Bremen 1946; trad. it. Max Weber. Il politico, lo scienziato, il filosofo, a cura di F. Ferrarotti, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 86. ↩︎

  59. In realtà la stessa distinzione tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, comparirà sarà presente nel quadro dell’Orientazione filosofica nel mondo, che si realizza sia in quel quadro di causalità presente nel mondo della natura, sia nella concettualità simbolica tipica del regno dello spirito: cfr. PW, p. 136. Sul rapporto tra Jaspers e Dilthey in merito alle scienze sociali: H.P. Rickmann, The philosophic basis of psychiatry: Jaspers and Dilthey, in «Philosophy of the Social Sciences», (1987), pp. 173-196. Per una più specifica tematizzazione in merito al rapporto tra Jaspers e Dilthey in campo psicopatologico: cfr. H.P. Rickmann, The philosophic basis of psychiatry: Jaspers and Dilthey, in «Philosophy of the Social Sciences», 17 (1987), pp. 173-196. ↩︎

  60. Cfr. Id., Vom Ursprung und Ziel des Geschichte, Artemis, Zurigo 1949; K. Jaspers, trad. it. Origine e senso della storia, a cura di A. Guadagnin, Edizioni di comunità, Milano 1972, pp. 337-343. ↩︎

  61. Sulle tracce di un itinerario kantiano e le più importanti analisi circa le riflessioni sul rapporto tra unità e molteplicità, Cfr. Appendice in PdW, Per quanto riguarda un interessante lavoro sull’incidenza del kantismo circa il problema etico in Jaspers: M.L. Basso, Karl Jaspers filosofo della libertà nel solco del kantismo, Clueb, Bologna 1999. ↩︎

  62. PW, p. 131. ↩︎

  63. Ivi, p. 125. ↩︎

  64. Cfr. L. Binswanger, Ausgewählt Vorträge und Aufsätze, Francke AG Verlag, Bern 1955; trad. it. Per un’antropologia fenomenologica. Saggi e conferenze psichiatriche (1970, 1984), a cura di E. Filippini, Milano 2007, pp. 7-13. ↩︎

  65. Cfr. Ivi, pp. 13-25, 214-228. Più nello specifico, l’obiettivo del metodo fenomenologico, così come lo pensa Binswanger, è volto alla spiegazione di come in campo puramente intellettuale esistano delle essenze generali che corrispondono ad alcuni atti intenzionali, che vengono definiti a loro volta come delle intuizioni intellettuali pure. ↩︎

  66. Il lavoro di Freud agli occhi di Binswanger rappresentava il più grande ed interessante tentativo di investigazione della storia interiore dell’uomo. Egli sapeva bene, infatti, che per lo psicopatologo è difficile risolvere il problema clinico del nevrotico o dello psicopatico soltanto in base alla storia interiore, cosa che invece sapevano fare gli psicanalisti. Pertanto, mentre alla psichiatria corrisponderebbe il compito di descrivere esteriormente il materiale del suo lavoro, la psicoanalisi ha invece il compito di dare un’articolazione interna del fenomeno. Tuttavia, Binswanger sapeva bene che per superare una certa frattura tra due formulazioni del sapere non possiamo limitarci a contrapporre la psichiatria in quanto descrizione della superficie alla psicoanalisi e in quanto descrizione della interiorità. Per tale ragione, la psichiatria deve quindi constatare oggettivamente i fatti che sussistono e che hanno una tangibilità, mentre la psicoanalisi deve invece far emergere una rispettiva divergenza: cfr. Ivi, pp. 39-64. Per quanto riguarda gli altri riferimenti a Freud, cfr. p. 152-170, 229-254. ↩︎

  67. Cfr. L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, a cura di C. Ciancio, Mursia, Milano 2001, p. 28. ↩︎

  68. Ibid↩︎

  69. PdW, p. 45. ↩︎

  70. Ivi, p. 167. ↩︎

  71. Ivi, p. 165. ↩︎

  72. Cfr. Ivi, 179-237. Sempre nello stesso capitolo Jaspers farà delle ulteriori distinzioni: l’immagine del mondo spazio sensoriale si divide in immagine del mondo meccanico-naturale, storico-naturale e mitico-naturale. l’immagine psichico-culturale del mondo si divide in: mondo immediato, mondo diverso e dall’estraneo, mondo infinito dell’intellegibile. L’immagine metafisica del mondo riguarda invece la situazione dell’immagine metafisica del mondo (pensata come totalità singola nella totalità delle immagini del mondo in generale), i tipi di contenuti (che possono essere le idee di carattere metafisico o addirittura mitologico) ed infine i tipi di pensare filosofico (che suddividendo i filosofi li suddivide in: filosofi intuitivi, filosofi sostanziali e pensatori vuoti: cfr. p. 252). ↩︎

  73. PW, p. 367. ↩︎

  74. Id., Existenzerhellung in «Philosophie», Springer, Berlin 1932 e poi 1972; trad. it. Chiarificazione dell’esistenza in «Filosofia», a cura di U. Galimberti, Mursia, Milano 1978, p. 371. Abbreviato con: EX. ↩︎

  75. A differenza di Jaspers, secondo Gabriel Marcel tutta la nostra esistenza è «un essere votati a». Anche quella del mestiere non è una banale scelta tra le altre, ma una vera e propria chiamata esistenziale. Essere scienziati, essere soldati, essere poeti o essere medici è un appello che mette inevitabilmente in gioco un mistero che ci trascende: cfr. G. Marcel, Homo viator, Borla, Roma, 1980, pp. 118-144. ↩︎

  76. PdW, p. 139. ↩︎

  77. Jaspers anche nel riflettere sull’unità delle scienze torna spesso sull’idea psicologica dell’unità, come forza che agisce in seno al ricercatore stesso che cerca un’unità nel mondo e nell’esistenza: «L’idea è solo ciò che dentro di me, diventa forza propulsiva» Ex, p. 299. Una domanda verrebbe quindi spontanea: trattandosi di una forza propulsiva, non si potrebbe questa confondere con una «tentazione implicita nella volontà di sapere» (p. 372) che priva l’esistenza di aprirsi alla trascendenza e la condanna ad un’immanenza? La volontà dell’unità rappresenta per Jaspers né un’unità esclusivamente intellettuale, né un’unità spirituale, al contrario il soddisfacimento è possibile «solo nell’unità nella quale, al di là di ogni unità prematura e parziale, nulla è andato perduto e tutto è sublimato» (p. 239). Ad ogni modo è qui evidente un innesto nietzscheano circa la nozione di volontà di potenza, che nonostante Jaspers conoscesse bene, sembra fare da contro altare a tutto il suo pensiero. Non abbiamo modo in questa sede di analizzare la questione in merito al rapporto tra Nietzsche e Jaspers. Per un’analisi più completa in merito al loro rapporto, cfr. K. Jaspers Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, W. De Gruyter, Berlin 1936; trad. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, a cura di Luigi Rustichelli, Mursia, Milano 1996. Per uno studio critico più approfondito, cfr. F. Nietzsche. Il divino come polarità, Pàtron, Bologna 1975. ↩︎

  78. PW, p. 371. ↩︎

  79. Ex, p. 30. ↩︎

  80. PW, p. 379. ↩︎

  81. Ex, p. 376. ↩︎

  82. Ivi, p. 30. ↩︎

  83. PW, p. 149. ↩︎

  84. Cfr. V. Lusetti, Psicopatologia antropologica, Edizioni universitarie romane, pref. di B. Callieri, 2008, p.42. ↩︎

  85. Cfr. PdW, p 445. ↩︎

  86. Ivi, p. 446. ↩︎

  87. L. Pareyson, La filosofia dell’esistenza di Carlo Jaspers, Loffredo, Napoli 1940, rist. come Karl Jaspers, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 74. ↩︎

  88. A differenza della Arendt, O.F. Bollnow in Existenzerhellung und philosophische Anthropologie 1938, ritiene che la chiarificazione esistenziale non permetta un’apertura autentica al significato antropologico, e ciò è dovuto al tentativo di Jaspers di separare dal piano dell’esistenziale, una formulazione ontologica e scientifica. Allo stesso modo, secondo F. Miano la visione jaspersiana della scienza può rischiare di risultare piuttosto dicotomica, nella misura in cui separa radicalmente l’intento di conoscenza come «osservazione della realtà» dalla «riproposizione di quelle domande perenni che nascono dalla capacità dell’uomo di meravigliarsi e di commuoversi di fronte alla realtà» (F. Miano, Etica e storia nel pensiero di Karl Jaspers, Loffredo, Napoli 1993, p 38.); inoltre è opportuno ricordare che Jaspers non tenga pienamente conto di tutte quelle svolte paradigmatiche di Einstein ed Heisenberg che avrebbero successivamente messo in discussione gran parte delle nozioni tipiche del procedere scientifico (Ivi, p. 41). ↩︎

  89. Cfr. C. Fiorillo, op cit., p. 83. ↩︎

  90. Cfr. Ivi, p. 81. ↩︎

  91. L. Pareyson, op cit., p.54. ↩︎

  92. In particolare Cfr. PdW pp. 446-448, 457, 460, 463-466, 469. Pareyson ritiene che la risposta ermeneutica al problema dell’essere, che affronterà teoreticamente in Verità ed interpretazione (1971), risieda nella tematizzazione dell’esistenza, il cui carattere principale è il dissolvimento dell’hegelismo (cfr. L. Pareyson, Esistenza e Persona, Il melangolo, Genova 2002, p. 238). In questo senso, Kierkegaard e Feuerbach sono stati coloro che hanno portato avanti questo ambizioso progetto di dissoluzione, che diviene dunque nel primo caso frammentazione del sistema e nel secondo rovesciamento del sistema. Ma la critica più rilevante di entrambi trova luce nella figura di Hegel in qualità di pensatore contrapposta allo Hegel in quanto uomo: per Pareyson secondo Kierkegaard «il pensatore astratto è quello che vive in categorie diverse da quelle in cui pensa, e pensa in categorie diverse da quelle in cui vive». p. 41. È curioso però notare che Jaspers, a detta di Pareyson, si inserirebbe certamente non sul solco di un dissolvimento del pensiero hegeliano, quanto piuttosto su un «rehegelizzamento» di Kierkegaard, in cui seppure vengono escluse quelle che sono le forme di ragione, si apre il discorso ad una sistematica che apre ad una chiarificazione dell’esistenza p. 231. Jaspers stesso osserverà che non è la sistematicità, la chiave per la comprensione della sua filosofia, ma è nel suo pensiero che si articola implicitamente una certa sistematicità: «Il mio filosofare fu sempre contrario al sistema, considerato come un tutto nel quale Essere e Verità stiano innanzi e possono trovare espressione ed esposizione in un libro. Ma, al tempo, fui sempre sistematico nel pensare nel senso che sempre volli cercare l’ordine, la coesione, i rapporti dei pensieri fra di loro. Il sistema vuole a torto affermare e fissare l’Essere». ÜMP p. 40. Sul rapporto tra Hegel e Jaspers, cfr. C. Amadio, La logica jenese di Hegel e la logica esistenziale di Jaspers, in «Il Pensiero», vol. 238 (1982), pp. 55-96; Ed. dell’ateneo, 1982; B. Croce, Indagini sullo Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1952; per quanto riguarda invece il rapporto più diretto tra Jaspers e Pareyson si veda: G. D’Acuto, Lo Jaspers di Pareyson, in «Il Cannocchiale», 1983, 3, pp. 161-164. ↩︎

  93. Oltre quelli di Pareyson, per i lavori che si concentrano sulla matrice kierkegaardiana di Jaspers, cfr. G. Cantillo, Kierkegaard e la filosofia dell’esistenza di Karl Jaspers, in Aa.Vv., Kierkegaard. Filosofia e teologia del paradosso, a cura di M. Nicoletti e G. Penzo, Morcelliana, Brescia 1999, pp. 265-278.; C. Fabro, Jaspers et Kierkegaard, in «Rev. Sc. Philos. Théol.», 37 (1953).; P. Prini, Storia dell’esistenzialismo. Da Kierkegaard a oggi, Studium, Roma 1989.; J. Wahl, études kierkegaardiennes, Aubier, Paris 1938.; R. Campbell, L’esistenzialismo. S. Kierkegaard, G. Marcel, K. Jaspers, M. Heidegger, J.P. Sartre, Rocco, Napoli 1955.; F. Fergnani, Mondo, Esistenza, Trascendenza nella filosofia di Karl Jaspers, Unicopli, Milano 1980. ↩︎

  94. Cfr. L. Pareyson, op cit., 8-29. ↩︎

  95. L’inserimento di Heidegger e Jaspers nel terreno esistenzialista, era stato già condotto da N. Abbagnano: Cfr. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Bompiani, Milano 1942. ↩︎

  96. «Il mio modo di leggere Heidegger non era già più quello di Grasselli o di Grassi o di Mazzantini o di Scaravelli, che lo consideravano di per sé stesso, o tutt’al più in connessione con Husserl: lo vedevo ormai inserito nell’intero ambito esistenzialistico» L. Pareyson, Esistenza e Persona, op cit, p. 233; Sul rapporto tra Heidegger e gli altri «filosofi dell’esistenza» Cfr. 234-239. ↩︎

  97. L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo op. cit. p. 154. ↩︎

  98. Cfr. Ivi, p. 148. ↩︎

  99. Ivi, p. 142. ↩︎

  100. Ivi, p. 143. ↩︎

  101. Ivi, p. 147. ↩︎

  102. Ivi, p. 173. ↩︎

  103. Ibid↩︎

  104. Pareyson interpreta l’Umgreifende come unione di esistenza e trascendenza, per tale motivo il rapporto uno-molti deve essere ripensato in virtù del trascendimento esistenziale: cfr. L. Pareyson, Karl Jaspers, op cit., pp.198-208. ↩︎

  105. K. Jaspers., Metaphysik in «Philosophie», Springer, Berlin 1932 e poi 1972; trad. it. Metafisica in «Filosofia», a cura di U. Galimberti, Mursia, Milano 1972, p. 133. ↩︎