Lo spazio sociale come spazio del contagio

Il vischioso è l’agonia dell’acqua

— Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla.

Traiamo la tesi che vorremo discutere in questo saggio da una schiera di autori di diversa provenienza disciplinare che hanno cercato, negli ultimi lustri, di descrivere la natura delle relazioni intersoggettive facendo ricorso ad un lessico appartenente alla costellazione semantica del contagio. Secondo questa lignée sociologica e filosofica, le relazioni intersoggettive e lo spazio in cui queste hanno luogo, possono essere riconosciute e pensate come condizione di esposizione al contagio.

La percezione dell’esposizione al rischio del contagio — termine usato in parte metaforicamente e in parte secondo analogia con il settore disciplinare cui pertiene — può essere considerata come una delle esperienze fenomenologicamente originarie nella definizione delle qualità dello spazio vissuto; l’opzione sulla spinta della quale presentiamo questo saggio è che la concezione dello spazio della modernità possa essere considerata come una pratica di immunizzazione.

Per discutere la tesi appena accennata vorremo fare riferimento ad alcuni autori che nel corso della seconda metà del XX secolo hanno affrontato tematiche e problemi che in qualche modo possono essere utili a determinare una fenomenologia dell’esposizione.

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1. Le fasi della globalizzazione

Peter Sloterdijk, nella trilogia Sphären, elabora, nelle parole del traduttore francese Olivier Mannoni, «niente di meno che una storia filosofica dell’umanità attraverso il prisma di una forma fondamentale: la sfera e tre delle sue declinazioni, la bolla, il globo, l’alveolo di schiuma», offrendo una sorta di grande narrazione a partire da un presupposto polemico indirizzato contro tutte le retoriche della globalizzazione. Secondo Sloterdijk il mondo è sempre stato globalizzato; nell’ultimo secolo avremmo semplicemente assistito ad alcuni, per altro significativi, cambiamenti di forma.

La sferologia di Sloterdijk cerca di proporre una cronistoria delle globalizzazioni elaborate dall’umanità, sulla base di una tesi fondamentale che vorremmo fare nostra e discutere in questo articolo. L’indagine sferologica prende a proprio oggetto gli spazi di coesistenza all’interno dei quali l’uomo interpreta e definisce se stesso: le sfere, i globi e la schiuma sarebbero, dunque, la diacronia evolutiva dei contenitori simbolici e immunitari attraverso i quali l’uomo pensa se stesso nel mondo e trova la propria protezione dai pericoli esterni.

Le epoche della globalizzazione sono tre, la globalizzazione celeste, la globalizzazione terrestre e la globalizzazione attuale, elettronica.

La globalizzazione celeste, elaborata nel mondo greco, si realizza nella perfezione sferica del cosmo antico, dove il tratto immunitario è costituito dalla perfezione dell’ordine della sfera dei cieli aristotelica. In questa formulazione sferologica, la Terra risultava protetta dalla confezione celeste posta a tutela degli uomini;1 una sfera protettiva invisibile che durò fino al Medio Evo, almeno fino a Dante, entrando in crisi ai primi albori della modernità. In questo caso la segmentazione storiografica fornita della scoperta dell’America, diffusa anche se discussa, offre un comodo riscontro. La fine della globalizzazione celeste coincide con le grandi avventure dei navigatori e dei cartografi che, al loro ritorno, offrono per la prima volta la visione empirica della sfericità della globo terraqueo (Sloterdijk 2005: 56ss). La rottura epocale della globalizzazione celeste, che verrà portata a termine nel corso della modernità, attraverso l’opera dei cartografi, di Galileo e, per finire, di Nietzsche, comporta un radicale cambiamento prospettico. Il geocentrismo della globalizzazione celeste comportava una prospettiva analitica verticale e offriva una localizzazione precisa e rassicurante — anche se non così lusinghiera, stando all’assiologia spaziale aristotelica — agli abitanti della Terra. La rottura di questa prima fase epistemica comporta un clamoroso stravolgimento immunitario. Gli uomini non sono e soprattutto non possono più sentirsi protetti dalla sfericità celeste e si trovano invece svelati, scoperti, esposti addirittura scorticati, spellati.

Il processo di modernizzazione prende piede in modo consistente nel momento in cui si iniziano ad elaborare delle soluzioni immunitarie alternative a quella andata in frantumi; secondo Sloterdijk, lo stato nazionale costituisce un tentativo, per larghi tratti riuscito e con una tenuta temporale rilevante, di ricostituire una forma di radicamento territoriale, regionale e patrio che potesse offrire un sostegno orientativo.

Un tratto molto interessante — su cui torneremo in seguito — di questa analitica spaziale di Sloterdijk2 è che al termine di questo processo, lo spazio della vita degli uomini cambia completamente le proprie qualità primarie. I luoghi perdono le loro caratteristiche specifiche, smettono di essere localizzazioni, perdono le loro determinazioni di terre natie e protettive e vengono meno al loro ruolo di garanzia identitaria. Nel corso della globalizzazione terrestre i luoghi diventano ubicazioni, caratterizzazioni spaziali determinate dalle coordinate, dalla distanza relativa.

In questa prospettiva, Sloterdijk esercita la sua vis polemista contro un’altra delle chiavi classiche dell’interpretazione del postmoderno, ovvero la retorica della perdita del centro. Secondo il nostro autore, questa idea risale ad un fraintendimento delle conseguenze della rottura della globalizzazione celeste, la quale offriva senz’altro una precisa e solida centralità al globo terrestre. Il vero cambiamento epocale non consiste tanto nella perdita del centro in quanto tale: il concetto di centralità è evidentemente relativo alla determinazione degli spazi periferici. Essendo il centro il luogo a partire dal quale noi organizziamo la nostra percezione spaziale, secondo Sloterdijk, non è questo ad essere andato perso nel corso della modernizzazione quanto, piuttosto, la cintura di sicurezza semiotica e immunitaria garantita dalle periferie.3

A livello concettuale una delle conseguenze più significative di questo evento simbolico rappresentato dal ritorno dei cartografi dalle grandi esplorazioni pre-Rinascimentali, è la rottura del;4 nella fattispecie, si assiste alla comparsa del fuori, non previsto nella cosmologia aristotelica.5 All’abisso scoperchiato dalla rottura della logica cosmica corrisponde o comunque si associa, nel corso della modernizzazione, un secondo abisso, rappresentato dalle culture altre. In questa prospettiva è molto interessante ripercorrere per sommi capi l’evoluzione dei rapporti con l’alterità culturale, spesso fraintesi nella retorica del multiculturalismo.

La molteplicità delle culture è un dato antico quanto il mondo e la coscienza di questa stessa molteplicità smise di fare notizia già al tempo dei sofisti. Ciò che si rende invece significativo, andando a costituire una novità ed un problema ancora in via di definizione prima che di soluzione, è la presenza di una molteplicità di culture all’interno di una comunità determinata, nella fattispecie, nello stato nazionale. In questa prospettiva, il sentimento di paura immunologica deriva dalla possibilità di essere sempre raggiunti e toccati, in una società dalle pareti sottili.^[6] Il multiculturalismo è un problema di contatto, coatto, delle varie culture che hanno perso le loro periferie e si può porre logicamente solo all’interno di una medesima comunità,6 segnatamente all’interno dello stato nazionale liberal democratico, punto di arrivo del percorso di modernizzazione. Nel valutare le considerazioni formulate a proposito del tema dell’esposizione sull’astro degli svelati, è senz’altro importante ricordare che Sloterdijk ha compiuto in Germania un lavoro ermeneutico molto significativo, sdoganando la lettura di Heidegger e Nietzsche a sinistra, riuscendo a superare i pregiudizi ideologici che li avevano tenuto distanti dalla teoria critica, l’alveo in cui lo stesso Sloterdijk è cresciuto. In questo senso, l’elaborazione della categoria dell’esposizione è in grande misura debitrice dell’analitica esistenziale heideggeriana. L’astro degli svelati è per l’appunto il mondo sul quale il Dasein è gettato, un mondo inesorabilmente esterno, privo di coperture cosmologiche rassicuranti.7

2. Ordine e purezza

La sensazione di esposizione di cui ci parla Sloterdijk è compatibile con l’esperienza fenomenologica del contagio che stiamo cercando di determinare in queste pagine? Le ragioni che ci portano a proporre questa relazione poggiano sugli scritti di Mary Douglas, in particolare sul saggio del 1966, Purity and danger. La tesi principale di questo testo consiste nel sostenere che le categorie dell’ordine di una cultura siano un’estensione ed un’applicazione al mondo naturale e sociale di una metafisica teologica la cui ragione d’essere è esattamente una funzione di discretizzazione del mondo. La relazione che intercorre tra i due autori sin qui richiamati guadagna in chiarezza nel momento in cui la si istituisca su un piano diacronico, orientato secondo una filosofia della storia che accetti, almeno per adesso in modo irriflesso, il paradigma del nichilismo.

L’opzione della Douglas consiste, sulla scia del citato e di poco precedente Finitudine e colpa, nel considerare sotto il medesimo rispetto le pratiche religiose delle culture primitive e le pratiche igieniche connesse alla categoria della contaminazione. In questi termini, la domanda fondamentale posta dalla Douglas concerne la relazione logica tra le categorie dello sporco, dell’impuro e del disordine: lo sporco genera il disordine, o viceversa? Cosa viene prima? Qual è lo statuto ontologico dello sporco?

La tesi del saggio del 1966 è che lo sporco esista solo in relazione ad un contesto che ha una precedenza logica e ontologica. Lo sporco esiste solo come traduzione, o meglio come percezione del disordine, il quale a sua volta si dà solo in relazione all’ordine che viene a negare. Sulla base di tale prospettiva, gli abominî del Levitico, il libro in cui vengono definite le regole della cultura alimentare kosher, possono venire ricondotti ad una pratica di sistematizzazione e discretizzazione metafisica volta a regolare e rendere possibile — oltreché tollerabile — l’interazione con il mondo naturale e sociale. L’identificazione dello sporco è uno strumento di organizzazione e ancora prima di indagine dell’ambiente circostante. Le categorie dell’ordine di una cultura assumono così la caratteristica di poter essere le chiavi interpretative attraverso cui comprendere la Weltanschauung di un dato sistema culturale. È interessante d’altronde notare che in tal modo la rimozione dello sporco e del disordine non si presenta come pratica negativa, quanto come costruzione di strutture categoriali, in primo luogo sociali. A tal proposito, e in accordo con l’intima progettualità di questo scritto, vorremmo concentrare la nostra attenzione proprio sugli aspetti sociali del problema del contagio.

Come accennato in precedenza, secondo Sloterdijk, il processo di modernizzazione prende piede con la prima ondata di ritorni dei cartografi dalle grandi avventure di esplorazione del globo del XV secolo. Il tratto simbolico del superamento di questa fase, con l’accesso agli albori del capitalismo, viene ravvisato nel ritorno dei capitali dalle grandi missioni di circumnavigazione del globo. Dobbiamo ora valutare la relazione tra il movimento dei capitali e la dimensione dell’estraneità sociale, in rapporto alla categoria di ordine e disordine.

La figura dello straniero è una determinazione moderna; nel passato, specialmente nel caso della Grecia antica, senz’altro il più noto, lo straniero non esisteva, non aveva l’occasione di presentarsi in quanto tale all’interno di una comunità; anzi, lo straniero è una di quelle categorie sociali in cui si fa più evidente il dispositivo della sacralizzazione immunizzante. Le pratiche religiose connesse alla figura dell’ospite avevano esattamente la funzione di fornirgli — ed anzitutto istituire — un posto adatto all’interno della comunità. Lo straniero in quanto tale non esiste perché è sempre comunque già inserito in un contesto definito, che se ne facesse un ospite sacro o una vittima espiatoria, che lo si rendesse schiavo o semplicemente lo si uccidesse. Nella cronistoria sferologica di Sloterdijk la comparsa e la diffusione — l’urbanizzazione — della figura dello straniero nelle comunità occidentali ha una stretta relazione genetica con la circolazione del capitale: l’epoca dello straniero è l’epoca del capitalismo. Ma come si costituisce lo straniero e quali sono le modalità di interazione che provoca?

A tal proposito tornano solidali le riflessioni di Alfred Schütz contenute ne La fenomenologia del mondo sociale. Secondo Schütz, il capitalismo come epoca dello straniero immette nelle comunità occidentali una condizione di fluidità foriera di ansia e insicurezza che induce i gruppi residenziali a compattarsi attraverso l’istituzione di livelli di immunità che forniscano una rassicurazione soddisfacente. Il dispositivo sotteso a questo compito è la reciprocità di prospettiva.^[9] Per essere rassicurante il comportamento dell’altro deve avere un certo grado di prevedibilità, deve essere un comportamento che evochi e provochi una certa forma di immedesimazione. Lo straniero è colui con il quale non è praticabile il dispositivo dell’immedesimazione reciproca. Questo carattere di non rispondenza alla reciprocità di prospettiva è ciò che definisce lo sporco, l’impuro, il contaminante. Il vero problema di questo dispositivo è la sua intrinseca sommarietà, è un dispositivo vuoto e costantemente esposto alle contraddizioni: è un prefabbricato di comunità.

L’effetto di contaminazione prodotto dall’incontro con lo straniero è una forma di aggressione del vuoto sé del noi comunitario. Lo straniero è colui con il quale non ci si può immedesimare ma allo stesso tempo è colui il quale rende vistosa la gratuità, la fragilità, la debolezza del proprio argomento costituente. Lo straniero rende illegittima la propria opzione identitaria, andando a minarne le fondamenta irriflesse e aggredendone la sommaria coerenza. La re (l) azione sociale provocata dallo straniero è del tutto coerente e convergente con la dinamica del contagio; la metastabilità del sistema identitario di riferimento viene aggredita da un agente patogeno che ne mina la solidità apparente. La reazione di una comunità culturalmente debole è un riflusso nel feticcio identitario del noi, un fatto culturalmente vuoto, un dispositivo senza contenuti che vela la ricerca di un a priori infondato.

È bene notare che dalle operazioni di legittimazione della politica imperiale di Augusto sino ai kilt scozzesi, geniale — a giudicare dal successo e dalla resistenza dimostrata — operazione di marketing tardo ottocentesca, le tradizioni di riferimento sono sempre state inventate, acconciando un passato (ri) costruito ad uso del progetto di futuro in vendita, dell’identità preconfezionata esposta in vetrina.8 Secondo un autore come Bauman però, nella postmodernità dei molti e sempre nuovi inizi, la costruzione del passato su cui innestare l’identità del noi, diventa sempre più estemporanea, generando un pomerio sfrangiato, il cui fragile perimetro di purezza si oppone senza speranze alla contagiosa impurità dell’esterno.

3. Identità mimetica

Le considerazioni appena esposte, sulla scia delle categorie di Alfred Schütz, ci permettono di chiamare in causa un autore strettamente coinvolto nelle riflessioni di matrice immunologica, vale a dire René Girard. Girard ha iniziato la sua brillante carriera accademica con un saggio di critica letteraria, dedicato ad alcuni grandi classici della tradizione occidentale, da Cervantes a Dostoevskij, da Stendhal a Proust, ravvisando come tratto comune e costitutivo una fenomenologia del desiderio mimetico.9 Ciascuno di questi autori a suo modo e con diversi livelli di autocoscienza, avrebbe descritto con una precisione ed una fedeltà sconosciute a qualsiasi ricerca sociologica o filosofica la più intima delle caratteristiche dell’essere umano, ovvero la natura mimetica dell’identità. La riflessione di Girard ha prodotto altri significativi risultati sul tema, andando a fare della teoria mimetica una vera e propria antropologia di base, con interessanti effetti nei campi dell’etnologia, della psicanalisi e della filosofia.

L’osservazione che ci preme considerare in questo contesto è quella costitutiva, il cuore della teoria mimetica: il desiderio umano non è un investimento pulsionale diretto sull’oggetto di interesse e soprattutto non è motivato, almeno non in prima istanza, dalle caratteristiche specifiche dell’oggetto. I desideri oggettuali sono invece sempre indirizzati da una mediazione imitativa pre-oggettiva e pre-soggettiva. La mimesi, in termini genetici, è una categoria ontologica che precede la determinazione dell’oggetto di interesse e dello stesso soggetto che dovrebbe nutrire questo interesse.

Ciò significa che, stando a questo paradigma teorico, la costituzione intersoggettiva dell’identità individuale va presa in modo radicale. I desideri, le preferenze, i criteri di selezione, l’assiologia fondamentale, in questa prospettiva, sono sempre frutto di un’assunzione mimetica irriflessa e di una sorta di sedimentazione genetica.

René Girard, nel corso degli anni ’70 ha applicato la teoria mimetica a ricerche di stampo etno-antropologico, andando a ravvisare nella mimesi non solo un carattere fondamentale dell’antropologia di base ma anche una chiave di lettura e di decostruzione dei principali miti, riti e istituzioni culturali delle società arcaiche. In ponderosi volumi come La violenza e il sacro e Delle cose nascoste sin dall’origine del mondo, Girard ricostruisce la genealogia della cultura occidentale attraverso il meccanismo vittimario, risposta naturale ai pericoli creati dall’essenza mimetica dell’essere umano. Senza scendere in dettagli non strettamente inerenti, anche se utili alla comprensione di quanto si sta cercando di sostenere in queste pagine, vista la natura mimetica dei desideri umani, ad ogni livello di evoluzione o di sviluppo, è sempre molto facile che la mediazione interna10 scateni dei conflitti. I conflitti a loro volta possono facilmente degenerare in faide e diffondere la violenza, come una pandemia, all’interno della comunità. A questo punto i possibili scenari seguenti all’esplosione della faida e all’escalation della violenza non sono numerosi. Secondo Girard, uno di questi, originario e fondativo, è la risoluzione vittimaria. In piena crisi di indifferenziazione, quando tutti i sistemi differenziali elaborati in seno alla cultura di riferimento — i primi dei quali sono quelli protetti dai tabù fondamentali dell’incesto e del parricidio — vengono meno, la mimesi si sprigiona in tutta la sua pervasività; tutte le rivalità particolari, attraverso l’inesorabile progressione mimetica, confluiscono nell’unico conflitto del «tutti contro uno». L’indifferenziazione mimetica polarizza l’intera comunità contro una sola vittima, ritenuta l’unica responsabile della catastrofe che la violenza diffusa ha nel frattempo provocato.

Il meccanismo vittimario si mette in funzione non appena le rivalità mimetiche raggiungono il picco più alto di intensità; mentre il desiderio di uno stesso oggetto divide, l’odio per un nemico comune riconcilia gli individui appartenenti alla comunità.11 Nei saggi degli anni ’70, Girard mette a punto lo strumento decostruttivo con cui riesce a fornire alcune brillanti interpretazioni di miti e riti, a partire dal più celebre caso di Edipo.

Ciò che qui ci interessa accennare, seppure brevemente, è quanto emerge in un saggio come L’origine della cultura e fine della storia,12 nel quale Girard propone alcune rilevanti considerazioni sulla relazione di derivazione dei sistemi culturali dai fenomeni vittimari. In questa prospettiva, i sistemi culturali vengono ridotti a estensioni progressive delle strutture differenziali elementari scaturite dalle risoluzioni vittimarie delle crisi di indifferenziazione.

A partire dal saggio del ’78, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Girard ha iniziato a condurre una strenua battaglia per sostenere la propria ermeneutica biblica. L’innovativa, ancorché perfettamente coerente con la tradizione, lettura delle Sacre Scritture proposta da Girard poggia sull’intuizione strutturale dell’analogia tra i riti vittimari di un enorme numero di religioni arcaiche e la vicenda narrata nei Vangeli, mettendo però in mostra una significativa differenza. I Vangeli, come per altro l’Antico Testamento, raccontano, come i miti precedenti o extraperimetrali, una risoluzione vittimaria, ma assumendo la prospettiva della vittima e ripartendo in maniera perfettamente opposta le responsabilità degli avvenimenti narrati. Così, se il mito greco attribuisce ad Edipo la responsabilità della peste, riconoscendolo colpevole della violazione dei due più antichi tabù, il Vangelo riconosce l’innocenza di Giuseppe, e di Gesù Cristo.

Secondo Girard, l’evento e la diffusione della narrazione evangelica compiono lo svelamento del meccanismo vittimario, sotteso ad ogni altra religione umana e, soprattutto, ad ogni struttura sociale e culturale. Una volta svelato, il meccanismo mimetico-vittimario perde gran parte della sua efficienza, costitutivamente fondata sul misconoscimento,13 e smette di offrire un solido strumento risolutivo alle reiterate ed inevitabili crisi di indifferenziazione scatenate dai conflitti mimetici.

La conseguenza che ci interessa trarre da quanto sommariamente ricordato sin qui è che nel corso dell’evo cristiano la diffusione del messaggio disvelante e la conseguente rottura del meccanismo vittimario — testimoniata brillantemente dalla diffusione del concetto di capro espiatorio, assolutamente autoevidente alla maggior parte degli occidentali ma del tutto assente in culture come quella giapponese, dove in assenza di un termine indigeno, il concetto è stato introdotto mediante un calco dall’inglese (Girard 1978: 131) — si pone a giustificazione della retorica che descrive la modernità e, come abbiamo visto in Bauman la postmodernità in misura maggiore, come epoca di crisi reiterate e dei molti inizi.

Nel paradigma aperto da Girard, le crisi di indifferenziazione, conseguenza diretta della mimesi dell’antagonista, non hanno più mezzi irriflessi di risoluzione. I molti inizi e le crisi reiterate nella metastabilità occidentale hanno progressivamente dissolto le strutture consolidate dei sistemi differenziali di riferimento. Questi fenomeni si sono resi percepibili in maniera sempre più evidente nel corso del XX secolo dando luogo a descrizioni e spiegazioni variegate ma con forti tratti comuni, a partire dalle riflessioni sull’anomia, in Émile Durkheim sino alle considerazioni sul tema del nichilismo elaborate da Gianni Vattimo.

In questi termini gli effetti del contagio mimetico hanno progressivamente perso non solo il meccanismo vittimario, a cui si è per millenni demandata la risoluzione delle crisi di indifferenziazione,14 ma hanno soprattutto corroso le strutture sociali e categoriali che ne limitavano la possibile diffusione. Nella prospettiva girardiana i sistemi differenziali avevano il merito di ridurre i possibili focolai della mimesi dell’antagonista, andando a costituire le condizioni necessarie per favorire lo sviluppo di mediazioni mimetiche esterne. La mimesi si configura come contagio sia dal punto di vista individuale che sociale. È mimetica e contagiosa, la diffusione della violenza nelle crisi di indifferenziazione, così come è mimetica e contagiosa la modalità che pone capo alla risoluzione vittimaria. Come si accennava poco sopra è però, ed anzi soprattutto, mimetica anche la stessa identità, definita per via di sedimentazioni progressive di effetti di contagio. Ad ogni momento dato la soggettività è esposta e le sole modalità di profilassi sono i sistemi differenziali emersi dalle risoluzioni vittimarie di riferimento, strutture di ordine infondate ed illegittime, vuote anche se performative. Nel momento in cui ogni differenza sociale, gerarchica o generazionale viene erosa, i sistemi di gestione dell’ordine lasciano sempre più spazio e libertà al contagio mimetico.

4. Mimesis e immunità

A tal proposito vorremmo qui ricordare alcuni passi di un lettore italiano di Girard, Roberto Esposito che, in collaborazione con Jean-Luc Nancy, ci offre una sponda utile a consolidare, al di là dell’analisi antropologica, le riflessioni sul tema della mimesi in una fertile convergenza con il tema del contagio.

In primo luogo vorremmo prendere brevemente in esame il saggio Communitas, le cui tesi fondamentali ci paiono solidali e convergenti al programma analitico in via di definizione in questo articolo. Il saggio del 199815 si apre con un’introduzione programmatica nella quale Esposito fornisce una prospettiva analitica sul tema della comunità in patente ed esplicita rottura con la tradizione, andando a superare il dibattito tra comunitaristi e individualisti. L’intima natura della comunità non ha nulla da fare con la proprietà: non si tratta di «appropriar [si] del nostro comune (per comunismi e comunitarismi), o comunicare il nostro proprio (per le etiche comunicative) (Esposito 2006: IX)». Esposito elabora la sua tesi con una netta presa di distanza dalla dialettica del proprium, ravvisando gli estremi per capovolgere completamente le retoriche novecentesche sul tema.

La prima sponda da cui Esposito trae le proprie opzioni ermeneutiche è fornita da un’indagine sorprendentemente originale del lessico. ‘Communitas’risulta a ben vedere una parola trasparente, la cui radice etimologica ha molto da dire: cum-munus. In nessun modo si può ritrovare nel significato originario del termine una qualsivoglia ragione per sostenere le retoriche della proprietà. Il munus è l’onere, l’ufficio, il dono da restituire a fronte di un donum ricevuto, in ogni caso, appartiene alla semantica del dovere e quindi è più vicino alla mancanza che alla proprietà; «il senso antico, e presumibilmente originario, di communis doveva essere «colui che condivide un carico (una carica, un incarico)». Ne risulta che communitas è l’insieme di persone unite non da una ‘proprietà’, ma, appunto, da un dovere o da un debito (Ivi: XIII)». È qui che il discorso di Esposito acquisisce sempre maggiore pregnanza per la nostra indagine. In questi termini emerge che i soggetti uniti dall’appartenenza alla comunità sono uniti da un dovere, da qualcosa che li «rende non interamente padroni di se stessi», che li «espropria […] della loro stessa soggettività»; dall’ipotesi di Esposito emerge, inoltre, il fatto che l’esposizione del soggetto al dovere della retribuzione del donum ricevuto non è indolore per il soggetto che la sperimenta. «Ciò che ciascuno teme, nel munus […] è la perdita violenta dei confini che, conferendogli identità, gli assicurano la sussistenza (Ivi: XV)».

Su che basi stabilire la convergenza tra quanto brevemente accennato delle tesi di Esposito e ciò che abbiamo sin qui detto in merito al tema del contagio? Come tradurre i concetti formulati dal filosofo napoletano nella costellazione semantica del nostro intervento?

Ci pare necessario distanziarci moderatamente da alcune considerazioni contenute nel saggio in questione, in merito ai racconti del delitto fondatore: Esposito ritiene di poter ricondurre questi contenuti narrativi ad una valenza simbolica a nostro avviso esasperata. Così nel testo: «tutti i racconti sul delitto fondatore — crimine collettivo, assassinio rituale, sacrificio vittimario — che accompagnano come un oscuro controcanto la storia della civilizzazione non fanno che richiamare in forma metaforica il delinquere — nel senso tecnico di ‘mancare’, ‘difettare’ — che ci tiene insieme. La falla, il trauma, la lacuna da cui proveniamo (Ivi: XVI)». Queste parole, il cui assunto implicito è decostruttivo, ci paiono imporre una sorta di ipertestualismo contraddetto in qualche misura poche pagine dopo, nel momento in cui lo stesso Esposito, venendo a patti con Hobbes, riconosce nell’«uccidibilità generalizzata» ciò che gli uomini hanno in comune, ciò che li assimila più di qualsiasi altra proprietà.

Cercando allora di far convergere le tesi di Esposito con la teoria mimetica-vittimaria di René Girard, già in parte ricordata, ci pare legittimo e in qualche modo corretto, ricondurre alla retorica vittimaria l’intima realtà della comunità. Il donum da cui ogni membro della comunità è in qualche modo tenuto in ostaggio, è esattamente il «trauma» da cui proveniamo; altrimenti detto, per usare la terminologia girardiana, ciò di cui ogni membro deve essere costantemente grato e verso cui ognuno è debitore è la risoluzione vittimaria di una crisi di indifferenziazione. Il munus che lega e accomuna i soggetti di una comunità è allora un debito potenziale, ovvero l’esposizione al rischio di essere vittimizzati a propria volta, l’esposizione all’incarico farmaceutico.^[18]

Secondo questa linea argomentativa ci pare ancora più evidente la relazione che Esposito instaura tra la communitas e l’immunitas. Ristabilendo la strutturale contraddizione tra questi due termini — mediata con ogni evidenza dalla comune radice — , Esposito ravvisa nel processo di immunizzazione la «chiave esplicativa dell’intero paradigma moderno: accanto e più di altri modelli ermeneutici, quali quelli espressi nei lemmi di ‘secolarizzazione’, ‘legittimazione’, ‘razionalizzazione’che ne appannano, o attenuano, la pregnanza lessicale (Ivi: XX)». Le pratiche di immunizzazione corrispondono, secondo Esposito, a pratiche di costituzione dell’individuo moderno, il quale diviene davvero tale — «cioè perfettamente individuo, individuo ‘assoluto’, circondato da un confine che a un tempo lo isola e lo protegge (Ivi: XXI)» — nel momento in cui si libera dal debito che lo vincola ad ognuno degli altri membri della comunità. In qualche misura inoltre, ci pare più chiaro ravvisare nell’esposizione al rischio farmaceutico il munus da cui, in ottemperanza al processo di secolarizzazione — in questi termini perfettamente parallelo al processo di immunizzazione — , l’individuo moderno si difende.

La strada intrapresa da Esposito lo conduce per altre vie che, in qualche misura, si prestano a riscontrare un’ulteriore piano di convergenza con la teoria mimetica. Distaccandosi dall’analisi più specificamente politica, in cui, come detto, nel munus comunitario, ravvisa un dono di morte, Esposito si avvicina ad una sorta di analitica esistenziale, fortemente ispirata dall’opera di Jean Luc Nancy. La pratica politica approda alla distruzione della comunità: «se la comunità comporta delitto, l’unica possibilità di sopravvivenza individuale sta nel delitto della comunità (Ivi: XXIII)». La componente etimologica messa al centro di questa seconda fase analitica è il cum; il delitto della comunità è il sacrificio del cum, della relazione tra gli uomini. L’appendice aggiunta nell’edizione ampliata del 2006, testimonia questa svolta ontologica, nella quale della comunità non ne è più niente. Le analisi etimologiche e politiche vengono messe a frutto in un’ontologia politica che stabilisce lo statuto della comunità: essa non è un ente, «né un soggetto collettivo né un insieme di soggetti. Ma la relazione che non li fa essere più tali16 — soggetti individuali — perché interrompe la loro identità con una barra che li attraversa alterandoli: il ‘con’, il ‘fra’, la soglia su cui essi s’incrociano in un contatto che li rapporta agli altri nella misura in cui li separa da se stessi (Ivi: 149)». Seguendo questa linea Esposito matura una forma di ambiguità. Da un lato, nel momento in cui la relazione comunitaria viene presentata come spersonalizzante ed aggressiva, si ha l’impressione che la comunità sia ben lontana dal produrre effetti di comunione. Dall’altro, le conclusioni del saggio vertenti sulla convergenza tra immunizzazione e nichilismo vanno a innestarsi sull’ontologia singolare plurale di Nancy che fa del legame, dell’apertura alla relazione con l’altro, del Mitsein, del con-essere, il nucleo originario dell’esistenza umana. Sulla scia del riferimento a Nancy, Esposito può sostenere che nel delitto del cum gli uomini «sono paradossalmente sacrificati alla loro sopravvivenza (Ivi: XXIII)», ravvisando nell’immunizzazione, operata dal e nel processo di modernizzazione, una cauterizzazione dell’apertura esistenziale al con-essere: una vera e propria catastrofe autoimmunitaria.

Ci pare che proprio in un’adeguata considerazione della teoria mimetica si possa trovare una via di fuga a questa ambiguità oltre a segnare un punto fermo nella determinazione del problema del contagio. I due versanti dell’ambiguità che ci è parso di poter ravvisare nelle argomentazioni di Esposito possono essere ricondotti ad unità ridistribuendoli nei due cotés della teoria di Girard. Come già accennato, infatti, ci pare legittimo ravvisare proprio nell’esposizione al rischio di essere presi nel meccanismo vittimario una verosimile traduzione del debito comunitario. D’altro canto, un secondo livello di convergenza si può istituire associando il tratto mimetico — strutturalmente bicipite — dell’antropologia fondamentale girardiana alla descrizione degli effetti di appartenenza ma al tempo stesso di aggressione prodotti dalla relazione comunitaria sul soggetto membro. Come accennato, e senza scendere nel dettaglio, la mimesi, nella teoria girardiana, si configura come relazione ontologicamente prioritaria, in perfetta analogia a quanto detto a proposito del Mitsein nell’analitica esistenziale di Jean-Luc Nancy.17

In una prospettiva statica dunque, la mimesi non può che risultare come una forza spersonalizzante, un’aggressione alla struttura identitaria del soggetto che ne mina equilibrio e stabilità. La mimesi si presenta al soggetto che ne sperimenta gli effetti come una agente patogeno, come veicolo di un contagio attraverso cui si diffondono desideri, assiologie e violenza. D’altro canto, secondo una prospettiva diacronica e genetica, la mimesi si presenta come il tratto costitutivo dello stesso essere umano, della sua evoluzione e di ciascuna delle sue pratiche di apprendimento.

Secondo Girard la mimesi è da un punto di vista ontologico la principale caratteristica dell’essere umano. É una proprietà alla pari dei cinque sensi e non può né è mai stata eliminata; nel corso dei millenni di evoluzione culturale precedenti allo svelamento giudeo-cristiano, le comunità umane avrebbero solo imparato a controllarla o quanto meno a ridurne gli effetti più catastrofici. Come si accennava in precedenza, i sistemi culturali e sociali, in quanto sistemi differenziali, avrebbero avuto il merito di ridurre lo spazio di azione delle tensioni mimetiche, riducendo con ciò stesso le possibilità di conflitto e di contagio violento.

Facendo convergere le considerazioni di Esposito sul processo di immunizzazione operato dalla modernità con la filosofia della storia elaborata da Girard, si ha il legittimo sospetto che la progressiva cauterizzazione dell’apertura al con-essere, ovvero l’isolamento protettivo degli esseri umani, si configuri come una forma di protezione dalle tensioni mimetiche piuttosto che dal munus, inteso come dono di morte. Il soggetto moderno, assolutamente individuato, è costruito attraverso la negazione di una relazione che travalica ogni possibile decisione. Questa operazione di immunizzazione, ovvero di esasperazione dell’individualità, è correlata alla progressiva erosione dei sistemi differenziali descritta nelle molte e note diagnosi del nichilismo. In questo scenario, la relazione sociale si presta ad essere percepita come contagiosa perché, venuta meno la solidità delle strutture identitaria culturali e sociali — la cui sostanziale illegittimità è stata progressivamente scoperta, in secoli di filosofia del sospetto — la mimesi ha nuovamente lo spazio di azione che le culture arcaiche avevano cercato di sottrarle. Ciò che è fondamentale mettere in luce è il rischio autoimmunitario che si corre nel mettere in atto le pratiche immunitarie descritte da Esposito. Una cauterizzazione dell’apertura alla relazione, essendo la relazione il luogo di costituzione della struttura identitaria, non solo non riduce lo spazio di libertà delle tensioni mimetiche, ma anzi, impedendo ogni processo di definizione del sé per via differenziale, a ben vedere alimenta o quanto meno favorisce la progressiva diffusione di doppi indifferenziati.

In questo aspetto ci pare di poter cogliere innanzitutto un luogo di possibile confronto delle tesi sin qui elaborate con le sociologie del conformismo e in secondo luogo, di riconoscere un tratto caratteristico delle fasi concitate delle crisi vittimarie descritte da Girard.18

5. Luoghi antropologici e accelerazione

Marc Augé, in uno dei suoi saggi più celebri, pubblicato agli inizi degli anni ’90, fornisce un’introduzione ad una antropologia della surmodernità, attraverso una categoria ispirata dalle riflessioni di Michel de Certeau: il nonluogo.

La categoria del nonluogo è elaborata in opposizione alla categoria del luogo antropologico, a cui l’autore dedica un capitolo ricco di descrizioni rilevanti per i nostri fini (Augé 1992: 43-69).

Il luogo comune dell’etnologo, e di tutti coloro di cui parla, è appunto un luogo: quello occupato dagli indigeni che vi vivono, vi lavorano, lo difendono, ne segnano i punti importanti, ne sorvegliano le frontiere, reperendovi allo stesso tempo la traccia delle potenze ctonie o celesti, degli antenati o degli spiriti che ne popolano e ne animano la geografia intima, come se il piccolo segmento di umanità che in questo luogo indirizza loro offerte e sacrifici ne fosse anche la quintessenza, come se non ci fosse umanità degna di questo nome se non nel luogo stesso del culto che viene loro consacrato. E L’etnologo, dal canto suo, si vanta di poter decrittare attraverso l’organizzazione del luogo […] un ordine così vincolante, e comunque evidente, che la sua trascrizione nello spazio si presenta come una seconda natura. (Ivi: 43-44, corsivo nostro).

Il luogo, come nozione sociologica o antropologica, per definizione associato ad un cultura collocata nel tempo e nello spazio (Ivi: 36) è un dispositivo spaziale di garanzia identitaria del gruppo ed «è ciò che il gruppo deve difendere contro le minacce esterne ed interne perché il linguaggio dell’identità conservi un senso (Ivi: 45)». Secondo Augé un luogo antropologico, per essere tale, deve avere tre caratteristiche: deve essere identitario, relazionale e storico.

Un tratto rilevante di quanto emerge dalle analisi di Augé è che le spazializzazioni di una cultura, dai reami del Benin alla Francia, si fondano su un dispositivo di costituzione del centro, che sia il re immobilizzato, al centro del villaggio, o i simboli del potere temporale e spirituale nelle piazze delle città, o Parigi, vero e proprio centro dell’intera nazione (Ivi: 59-63) e di definizione oltre che difesa dei confini, delle frontiere, delle soglie tra interno ed esterno.19

Uno spazio che non possa definirsi né identitario, né relazionale, né storico definirà un nonluogo (Ivi: 73). La tesi nota di Augé è che la surmodernità, categoria elaborata in relazione alle retoriche del postmoderno e che rappresenta «il diritto di una medaglia di cui il postmoderno ci ha presentato solo il rovescio (Ivi: 32)», produca nonluoghi. I tratti caratteristici della surmodernità sono riassumibili nella categoria dell’eccesso: secondo l’autore si tratta di un’accelerazione temporale, di un mutamento di scala nel rapporto alle dimensioni spaziali e di un’esasperazione dell’individualità, a cui è in qualche modo consegnata la responsabilità della produzione di senso (Ivi: 32-38). I nonluoghi, idealtipica polarità opposta al luogo antropologico, sono lo spazio della surmodernità. Una figura molto suggestiva con cui Augé determina l’evoluzione verificatasi nel passaggio dalla modernità alla surmodernità, e che in qualche modo converge esplicitamente con quanto detto sin qui, è la descrizione dello sviluppo delle carte geografiche: «dalle carte medievali, costituite essenzialmente dal tracciato di percorsi e itinerari, fino alle mappe più recenti dalle quali è sparita «la descrizione disparata» (Ivi: 76).

Il luogo identitario, relazionale e storico offre, così come le mappe medievali, un «insieme di possibilità, di prescrizioni e di interdetti il cui contenuto è allo stesso tempo spaziale e sociale (Ivi: 52)», mentre il nonluogo, così come le «mappe più recenti» riduce al massimo ogni provocazione. Il luogo antropologico è «uno spazio simbolizzato», uno spazio che detta un uso, coerente con una cultura ed una struttura sociale, il nonluogo è uno spazio astratto, dequalificato e non simbolizzato. La nostra tesi, in questo contesto, è che quanto Augé riconduce alla surmodernità, sia in realtà altrettanto se non maggiormente riconducibile al processo di immunizzazione di cui stiamo cercando di definire i confini. A tal proposito è infatti perfetta la convergenza con quanto detto da Sloterdijk a proposito della trasformazione dei luoghi identitari in ubicazioni relative. I nonluoghi caratteristici evocati da Augé sono «le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre (Ivi: 74)». Augé non usa mai il lessico del contagio né quello dell’immunologia nell’affrontare il tema della proliferazione dei nonluoghi eppure ci pare che proprio il processo di immunizzazione dagli effetti di provocazione all’interazione sedimentati nei cosiddetti luoghi antropologici possa essere la chiave di lettura genetica di questo fenomeno. Aggiungerei inoltre una considerazione sull’ennesimo tratto di convergenza con il nostro progetto ravvisabile nelle tesi espresse nel saggio del 2008, Che fine ha fatto il futuro? , in merito, precisamente, alla scomparsa delle soglie, delle discontinuità all’interno del cosiddetto mondocittà (Augé 2008: 41-43).

I luoghi che Augé vede proliferare nelle modalità del nonluogo sono gli spazi della standardizzazione, sono gli spazi del minimo comune multiplo delle culture di provenienza dei potenziali clienti del servizio offerto. Sono spazi asettici le cui affordances sono strumentalmente ridotte ai minimi termini. Una stanza di albergo non deve riportare nessun tratto culturale specifico, per non risultare estranea a nessuno dei clienti, e i centri commerciali non devono distrarre dal fine per cui sono costruiti né richiedere alcuno sforzo ermeneutico supplementare. I nonluoghi sono prodotti di una progettualità ben definita volta a liberare gli individui dalla sensazione del contagio prodotta dall’interazione con i luoghi e con le cose. Ci pare che in qualche modo Augé, proprio nell’affrontare il problema della relazione di provocazione dei luoghi antropologici e della sua evoluzione negli asettici nonluoghi compia una rovesciamento. È lucido nell’intuire che le «interpellanze» provenienti dai nonluoghi «mirano simultaneamente, indifferentemente, a ciascuno di noi […]; non importa chi di noi, esse fabbricano «l’uomo medio», definito come utente (Ivi: 92)» ma presenta l’effetto di alleggerimento dalle provocazioni di interazione come una fortuita conseguenza. Insomma, ci pare che non avendo assunto il paradigma della modernizzazione come immunizzazione e soprattutto, non avendo di conseguenza colto il rischio strutturale della catastrofe autoimmunitaria, Augé non raccolga quanto era possibile dalla sua intuizione antropologica schiacciando le une sulle altre le intenzioni procedurali di immunizzazione e le conseguenze perverse autoimmunitarie.

Le descrizioni dell’effetto conformistico e parcellizzante dei nonluoghi porta Augé a formulare il problema in termini che ci permettono di accostarlo ancora una volta al paradigma dell’immunizzazione storica fornito da Esposito. Secondo Augé «solo, ma simile agli altri, l’utente del nonluogo si trova con esso (o con le potenze che lo governano) in una relazione contrattuale. […] Il passeggero conquista dunque il proprio anonimato solo dopo aver fornito la prova della sua identità, solo dopo aver, in qualche modo, controfirmato il contratto (Ivi: 93)».20 In qualche misura dunque, la relazione impostata ed imposta dal nonluogo è una relazione documentale e asettica, ma ciò che ci preme rilevare è proprio il parallelo tra questa dimensione relazionale su base contrattuale e le considerazioni elaborate da Esposito nel fare i conti con i grandi filosofi politici del contrattualismo. Come si diceva, l’interpretazione su base politica della comunità ne evidenzia il tratto mortifero:

la comunità porta dentro un dono di morte. […] Dal momento che l’origine comune minaccia di risucchiare nel suo vortice tutti coloro che ne sono attratti, l’unica via certa si salvezza è quella di rompere seccamente con essa. […] Ciò che va sciolto è il legame con la dimensione originaria — Hobbes dice «naturale» — del vivere comune attraverso l’istituzione di un’altra origine artificiale, coincidente con la figura, giuridicamente ‘privatistica’e logicamente ‘privativa’, del contratto (Esposito 2006: XXII).

Il fatto che Augé possa descrivere i nonluoghi come spazi tipici della surmodernità appare ora non solo un’intuizione poetica o una descrizione antropologica ma la logica conseguenza di un processo, quello di immunizzazione definito da Esposito, che ha di fatto costruito la modernità e che, nei suoi eccessi, sta determinando la surmodernità. In questa prospettiva Esposito e Augé, raccolti nel medesimo paradigma, dimostrano una certa analogia nel descrivere i risultati autoimmunitari delle pratiche immunitarie politica e architettonica. In entrambi i casi, infatti, le conseguenze della corsa all’immunizzazione preventiva dalla relazione producono aberrazioni identitarie. Su questo punto si può richiamare un autore che ha dimostrato una straordinaria sensibilità nel valutare la natura di una specifica tipologia di luogo antropologico, assurto nella sua analisi, a luogo antropologico per antonomasia: il giardino. L’autore a cui ci riferiamo non è Foucault che pure nella conferenza Des espaces autres del marzo 1967 aveva trattato anche di giardini, ma Robert Pogue Harrison. In Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, Harrison assume il giardino a luogo esistenziale antonomasico, fornendoci così numerosi appigli nella nostra indagine. Innanzitutto, come è noto, non esiste giardino propriamente detto che non sia la messa in opera di una metafisica, che non sia la manifestazione di un’idea di ordine e di armonia.21

Il tratto specifico del testo a cui vogliamo fare riferimento è il tema della cura,22 preso in esame e assunto come linea guida del saggio. In effetti, il giardino, oltre ad avere le caratteristiche brevemente ricordate introduce il giardiniere, ovvero colui che se ne prende cura, in una relazione particolare. Il giardiniere coltiva il giardino e coltivando il giardino coltiva se stesso. La propria identità è costituita nella relazione di continuo differimento di sé, progettuale e mnestico, prodotto dall’imposizione della propria idea al giardino. La relazione di assoggettamento è biunivoca ed è, a ben vedere, il vero soggetto della questione. É la relazione di cura che lega il giardiniere e il giardino a costituire, nel progressivo andirivieni identitario, i due poli. Questo aspetto è fondamentale: non può esistere infatti un giardino in cui l’imposizione sia a senso unico. Non esiste giardino laddove l’azione dell’essere umano non tenga conto della vita. Harrison ci mostra così il ruolo di costituzione identitaria della relazione della cura nei confronti di un luogo antropologico, relazione che ovviamente viene a mancare nei nonluoghi. In qualche modo, ancora una volta, ci pare che il nonluogo, che certamente rappresenta la messa in opera di un sistema di ordine, nell’eccesso di difesa immunitaria si trasformi in una perversa catastrofe autoimmunitaria, la cui conseguenza è la distruzione — o semplicemente l’impedimento alla costituzione23 — di una struttura identitaria.

Vorrei ora tornare ancora un istante alle caratteristiche dei nonluoghi valutandone l’ergonomia asettica: per far emergere il contrasto tra luoghi antropologici e nonluoghi nel paradigma immunitario, ci pare che, in parallelo all’evocazione di Baudelaire, a cui Augé si richiama per valutare la differenza tra l’accumulazione storica della modernità e l’accelerazione esasperata della surmodernità, si potrebbe ricorrere all’evocazione di Balzac che nel Pére Goriot offre una prova esemplare del suo realismo, a cui ci sentiremmo di apporre l’etichetta del contagio.

Le pagine iniziali sono dedicate ad una minuziosa descrizione della maison Vauquer, la pensione dove alloggia, tra gli altri, Eugène de Rastignac; a partire dalla rue Neuve-Sainte-Geneviève, passando per la facciata dell’edificio, sino ai ninnoli che addobbano il caminetto, Balzac costruisce una rete di riferimenti identitari la cui aggressività sull’identità dei personaggi è manifestata in un gioco di corrispondenze. Mme Vauquer è lo specchio della pensione che dirige, in un tale numero di dettagli che Balzac ci induce a dubitare che si tratti di un particolare gusto per l’arredamento ad aver generato questa identità e che sia invece l’ambiente, con i suoi dettagli un po’miseri e un po’meschini, con la sua atmosfera stantia e chiusa, ad aver alla lunga determinato il carattere dei pensionanti tutti, da Mme Vauquer24 allo stesso Pére Goriot.

A sostenere ulteriormente queste impressioni che tendono a fare della relazione con l’alterità una minaccia di contagio, vorrei ancora proporre un riferimento alle ultime pagine dell’Essere e il nulla, nella quali Sartre affronta la categoria ontologica del vischioso, il cui interesse, oltre al valore intrinseco delle pagine, è connesso, mediante isteresi, alla categoria baumaniana della liquidità e al filosofema marxiano ad essa sotteso.

Pur come categoria ontologica specifica, il vischioso ci pare una magnifica simbologia per una fenomenologia del contagio: il vischioso dà, in prima istanza, «l’impressione di un essere che si può possedere (Sartre 1943: 689)», è un’impressione invitante, amichevole, di un essere che si presta al progetto; diversamente dall’acqua, «incomprimibile» e inesorabilmente distante, fredda, il vischioso pare disporsi all’uso, «il vischioso è docile», ma, dice Sartre:

solamente, nel momento stesso in cui credo di possederlo, ecco che per un curioso rovesciamento, è lui che mi possiede. Appunto qui appare il suo carattere essenziale: la sua mollezza fa da ventosa. L’oggetto che tengo in mano, se è solido, posso lasciarlo quando mi pare; la sua inerzia simbolizza per me la mia intera potenza: […] è il per-sé che assorbe l’in-sé. In altre parole il possesso afferma la preminenza del per-sé nell’essere sintetico «in-sé-per-sé». Ma ecco che il vischioso rovescia i termini: il per-sé è improvvisamente compromesso; […] la sua maniera di essere non è né l’inerzia rassicurante del solido né un dinamismo come quello dell’acqua, che consiste nel fuggirmi. […] Il vischioso è la rivincita dell’in-sé (Ivi: 690).

Il vischioso in Sartre è la condizione fenomenologica in cui l’oggetto, l’in-sé, sopraffà la coscienza, il per-sé, e la ingloba. In questo senso descrive perfettamente la sensazione del contagio, una condizione in cui la distanza tra oggetto e coscienza viene meno, in cui l’oggetto aggredisce i confini della coscienza, confondendosi con le sue frontiere e annullando la differenza tra interno ed esterno. «Il simbolo si scopre bruscamente: ci sono dei possessi velenosi; c’è la possibilità che l’in-sé assorba il per-sé: cioè che un essere si costituisca alla rovescia di «in-sé-per-sé», in cui l’in-sé attirerebbe il per-sé nella sua contingenza, nella sua esteriorità di indifferenza, nella sua esistenza senza fondamento (Ibidem)». In questo passo Sartre attribuisce all’esperienza del vischioso tutti i tratti che abbiamo cercato di ricondurre all’esposizione al contagio.

Tornando al testo di Augé vorremmo proporre ora una considerazione su di un’ulteriore convergenza ravvisabile tra quanto l’autore dice a proposito della surmodernità e quanto viene detto da un sagace commentatore e allievo di Rene Girard. Secondo Augé il tratto caratteristico della surmodernità, attraverso il quale vuole in qualche modo mettere in dubbio, o quanto meno ridurre la legittimità delle retoriche del postmoderno, è la tesi dell’accelerazione, tesi a cui ha recentemente dedicato un secondo volume in cui, riprendendo i temi trattati nei Nonluoghi, affronta la questione del nontempo (Augé: 2008).

L’accelerazione del tempo, come detto, viene indicata come tratto caratteristico della surmodernità, ma la nostra tesi, prendendo a sostegno un articolo di Mark Anspach, attraverso il quale tirare le fila dei questo intervento, è che l’accelerazione non sia tanto un tratto caratteristico della surmodernità quanto una sorta di ricaduta ad una temporalizzazione arcaica. Anspach ha scritto un breve articolo frutto di ricerche portate avanti presso l’Association Recherches Mimétiques25 nel quale discute, attraverso l’applicazione della teoria mimetica, la piéce teatrale di Jean Giraudoux, La guerre de Troie n’aura pas lieu,26 ispirata all’Iliade. Anspach cita un verso di quest’opera, pronunciato da Cassandra, che ci offre una solidale convergenza. Prima di arrivare al verso specifico, è necessario introdurre brevemente lo scambio di battute precedente. La scena si apre con un dialogo tra Andromaca a Cassandra. La prima è convinta, riponendo la propria fiducia nel buon senso dei propri compagni troiani e nella presenza di spirito del marito Ettore, che la guerra di Troia non avrà luogo mentre Cassandra è pronta a scommettere il contrario.27 Nella piéce di Giraudoux, Ettore e Ulisse mostrano una certa sensibilità mimetica nei confronti dei temibili effetti della simmetria indifferenziata e cercano in qualche modo di intervenire affinché la guerra possa essere scongiurata: per evitare lo scoppio di una guerra suicida, Ettore cerca di persuadere Ulisse a riprendere con sé Elena, lasciando correre l’offesa subita da Menelao. Lo scambio di battute tra i due eroi è illuminante in merito al tema del destino, richiamato in causa come forza superiore e inappellabile. Questo è il momento in cui Giraudoux offre un esempio di rara poesia: cosa significa la parola destino? «Je ne sais pas ce qu’est le destin», protesta Andromaca. «Je vais te le dire», risponde Cassandra. Il destino, «c’est simplement la forme accélérée du temps (Giraudoux 1935: 56; Anspach 2006: 3, corsivo nostro)». Naturalmente, come tutti sanno, alla fine Cassandra avrà ragione, a causa di un turbinio di eventi in rapida successione che faranno cadere lo stesso Ettore nella spirale della violenza destinata ad espandersi — per contagio — sino a esplodere nella grande guerra di Troia.

Ciò che emerge da questo passo è che l’accelerazione è una sorta di ritorno alle origine della temporalizzazione, e quindi non andrebbe forse descritto nei termini positivi dell’accelerazione quanto nei termini di una negazione o corruzione del differimento. Nella prospettiva girardiana infatti, la socialità umana si rende possibile solo a seguito dell’attivazione di processi di differimento della reciprocità.28 In qualche modo ci pare dunque che la sensibilità disciplinare di Augé ci fornisca un ulteriore indizio della bontà della nostra ipotesi. L’accelerazione del tempo, come caratteristica del processo produttivo dei nonluoghi, una volta stabilita la mediazione del paradigma teorico inaugurato da Girard, converge perfettamente con un fenomenologia del contagio, o dell’esposizione; un’accelerazione del tempo è semplicemente una resa alla reciprocità mimetica, così come il differimento ne è un vincolo.

6. Conclusione

Per avviarci alla conclusione vorremmo ancora chiamare in causa un testo di Richard Sennett, il quale ci offre una prospettiva ancora diversa e ancora convergente con la nostra tesi in merito alle conseguenze autoimmunitarie seguite all’esasperazione delle pratiche immunitarie dovuta alla progressiva estensione della modernizzazione. Il testo in questione è L’uomo flessibile,29 saggio nel quale Sennett affronta gli effetti delle capitalismo sulla vita personale. L’intuizione fondamentale è quella di mettere a confronto desideri e aspettative delle generazioni nate dopo la II Guerra Mondiale con quelle dei loro padri. Lo spunto consiste nel descrivere le conseguenze inattese della soddisfazione delle pretese di questa generazione, il cui desiderio di potersi muovere con meno vincoli (Sennett 1999: 15), una volta realizzatosi, ha prodotto delle catastrofi identitarie. Ancora una volta torna fondamentale la temporalizzazione delle esperienze e delle relazioni sociali. La frenesia degli spostamenti imposti da professioni sempre più dinamiche distrugge i tessuti connettivi dei quartieri residenziali; le relazioni di vicinato si frantumano, i luoghi perdono la loro determinazione identitaria, il «lungo termine» scompare (Ivi: 20). Naturalmente il dinamismo delle professioni legate ai cicli innovativi del capitalismo ha delle evidenti ragioni immunitarie che vanno però a difendere esclusivamente il sé lavorativo, disgregando le relazioni sociali e riducendo ogni processo di determinazione dell’identità a lungo termine: «è la dimensione temporale del nuovo capitalismo […] a influenzare in modo più diretto le vite emotive delle persone anche fuori dal luogo di lavoro. Trasposto nell’ambito familiare, il «basta col lungo termine» significa continuare a muoversi, non dedicarsi in profondità a qualcosa e non fare sacrifici (Ivi: 23)». La catastrofe autoimmunitaria prodotta dalla temporalizzazione frammentata e iperdinamica imposta dai ritmi del nuovo capitalismo è chiaramente descritta in questo domanda: «come può un essere umano sviluppare un’autonarrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di episodi e frammenti? (Ivi: 24)».

La riflessione di Sennett cerca di evidenziare le conseguenze inaspettate prodotte dall’erosione di ogni forma di ostacolo alla libertà dell’individuo per mettere in luce il ruolo determinante dei vincoli nella creazione di narrazioni identitarie. L’immunizzazione moderna ha cercato di emancipare gli individui da ogni forma di contatto coatto, simbolico, fisico, sociale per garantire loro la massima libertà ma ha confuso un piano di descrizione statico, in cui le progressive erosioni potevano senz’altro produrre effetti benefici, con il piano genetico, non rendendosi conto che i vincoli di cui ci si è frettolosamente liberati sono necessari per la costituzione di un’identità solida e coerente. In questi termini, la difesa immunitaria — aggressiva30 — da ogni invasione del sé, da ogni forma di vischiosità sociale e simbolica, ha prodotto una catastrofe autoimmunitaria. «Immaginare una vita di impulsi momentanei, di azioni a breve termine, priva di routine sostenibili, una vita senza abitudine, è più o meno come immaginare un’esistenza priva di senso (Ivi: 43-44)».

La conclusione che vorremmo trarre da quanto detto sin qui è che la condizione postmoderna descritta dagli autori chiamati a convegno in questo intervento, si può a ragione definire come contagiosa. Il tratto innovativo che ci pare di poter dare a questo paradigma sta nel ravvisare in questa condizione non tanto una novità specificamente post o surmoderna quanto invece la condizione originaria della relazione sociale.

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  1. P. Sloterdijk, Il mondo dentro al capitale, Roma 2006, pp. 36. ↩︎

  2. L’autore della trilogia in questione ritenne sin dalle prime fasi della stesura dell’opera di aver concepito il libro che Heidegger avrebbe dovuto scrivere, una sorta di compagno di Essere e tempo, il cui sottotitolo intenzionale avrebbe potuto suonare Essere e spazio↩︎

  3. Sotto questo profilo le riflessioni di Augé suonano solidali e ci tornerà utile in seguito tenere in considerazione quella sorta di coppia formale costituita dai saggi Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano 1993 e Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Milano 2009. ↩︎

  4. A tal proposito è sempre di grande suggestione rilevare il fatto che in una lingua come il russo, la parola kocmoc significa semplicemente spazio. ↩︎

  5. Cfr. Aristotele, Fisica, 212b. ↩︎

  6. A questo proposito sono molto interessanti le considerazioni storico-antropologiche-filosofiche di Alfred Schütz sullo straniero e quelle di Bernard Waldenfels sull’estraneità. ↩︎

  7. In questa prospettiva, il mondo smette le vesti di ordine e pulizie che gli aveva garantito la denominazione e si presta alla definizione heideggeriana di «astro errante», che compare in M. Heidegger, «L’epoca delle immagini del mondo», in Sentieri interrotti, Firenze 1985, p. 64. ↩︎

  8. Cfr. Z. Bauman, L’arte della vita, Roma-Bari 2009 e Id., Intervista sull’identità, Roma-Bari 2003. ↩︎

  9. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano 1965. ↩︎

  10. Girard opera una distinzione tra mediazione interna e mediazione esterna per chiarire il ruolo della figura del mediatore. Il modello da cui presoggettivamente si prende ispirazioni nella determinazione dei propri desideri può dunque essere esterno al nostro mondo, vuoi perché troppo lontano, nel tempo e nello spazio, vuoi perché inesistente o interno, e quindi raggiungibile. Per rimanere agli esempi di matrice letteraria, nel primo caso si può citare Amaldigi di Gaula, modello ispiratore del Don Quijote, per quanto riguarda il secondo, si potrebbe fare riferimento alla vicende che legano Monsieur de Rênal, sindaco di Verrières e Valenod nelle prime pagine de Le rouge et le noir di Stendhal. ↩︎

  11. Questa distinzione analitica viene elaborata nel torno di anni che va dalla pubblicazione del ’72, in cui la mimesi di appropriazione è già chiaramente esposta, all’opera del ’78, in cui viene definita la mimesi dell’antagonista. ↩︎

  12. R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro, Milano 2003. ↩︎

  13. J.-P. Dupuy, Ordini e disordini, Firenze 1986, p. 128. ↩︎

  14. Secondo Girard il meccanismo vittimario si colloca alle origine dell’umano da numerosi punti di vista e per numerose ragioni, una delle quali è che rappresenta una risoluzione dei fenomeni di faida che altrimenti, in assenza di tale meccanismo, potrebbero facilmente condurre all’autodistruzione delle comunità in cui prendevano piede. ↩︎

  15. Riedito in versione ampliata nel 2006. ↩︎

  16. Il corsivo, nostro, è volto a sottolineare una sottile incoerenza. Nelle prime pagine del testo Esposito si sofferma con molta decisione sull’errore commesso da tutta la tradizione filosofica e politica che prima di lui ha affrontato il tema: la comunità non va intesa «come un legame collettivo venuto ad un certo punto a connettere individui prima separati (Esposito 1998: XV)» eppure in questo passo sembra confondersi su quale sia il soggetto a cui attribuire priorità logica e ontologica. ↩︎

  17. Cfr. Nancy J.-L., Essere singolare plurale, Torino 2001, pp. 37-41. ↩︎

  18. A tal proposito mi permetto di ricordare l’ermeneutica mitica applicata ne La violenza e il sacro a certi elementi simbolici strutturali, a certi mitologemi diffusi come la catastrofe pandemica. La peste tebana, la cui responsabilità sarà fatta cadere sulle spalle di Edipo, è un caso simbolico in cui indifferenziazione e contagio sono perfettamente saldati. ↩︎

  19. A tal proposito, per esempio, si pensi al pomerio di Roma ed al fatto che il gesto fondativo compiuto da Romolo non sia tanto l’istituzione di un centro quanto di una soglia. ↩︎

  20. A tal proposito cfr. anche Augé 2008, p. 49. ↩︎

  21. Un aspetto interessante della questione, per altro già evidente nella sua convergenza con le tesi di Mary Douglas è il riferimento spontaneo ai tappeti, e nella fattispecie all’uso rituale che ne viene fatto nell’Islam. Il tappeto-giardino ammette, o meglio accoglie, il fedele in preghiera in uno spazio puro, perché ordinato e separato. ↩︎

  22. Ovviamente le risonanze heideggeriane del tema sono presenti all’autore ma non è qui il caso di addentrarci nella questione se non per valutare il carattere intrinsecamente relazionale degli esistenziali heideggariani, in questo come in altro, profondamente debitore delle indagini sull’intenzionalità e sulla categoria della relazione nella fenomenologia husserliana. ↩︎

  23. Le analogie con il lessico immunologico svelano ancora più di quanto non sia stato sin qui accennato. Un tema di fondamentale interesse in questa analogia è quello che emerge da un confronto con le teorie del sé immunologico e con i dibattiti a cui si assistette all’inizio del XIX. L’aspetto specifico di questi dibattiti, che non possiamo qui considerare, è lo scontro che oppose Metchnikoff e Ehrlich, rappresentanti di due scuole di pensiero opposte (rispettivamente cellularisti e umoralisti): nella continua interazione con l’esterno — e con l’interno — il sistema immunitario, una vera e propria soglia, si limita a proteggere l’integrità del sé o partecipa attivamente alla continua e progressiva determinazione dell’identità? Cfr. A.I. Tauber, The Immune Self: Theory Or Metaphor? Cambridge University Press, 1994, pp. 6, 26 e 38. ↩︎

  24. Cfr. H.de Balzac, Papà Goriot, Milano 1992, p. 10: «tutta la sua persona infine spiega [explique] la pensione, come la pensione implica [implique] la persona». Si considerino le influenze che Balzac subì da parte delle teorie proto-evoluzioniste di Geoffroy Saint-Hilaire a proposito dell’effetto di determinazione che l’ambiente di sviluppo di un animale, compreso l’uomo — visto il principio di unità di composizione postulato — aveva sull’individuo. A ben vedere lo stesso si potrebbe dire del realismo di Zola in cui il ruolo del milieu è determinante nella definizione dell’identità dell’individuo; in questo caso Zola, come altri suoi contemporanei naturalisti, per esempio Bourget e Maupassant, fu grandemente influenzato dall’astro del determinismo naturalistico dell’epoca, vale a dire Hippolyte Taine. ↩︎

  25. M. R. Anspach, Pourquoi la guerre de Troie aura-t-elle lieu? Du mythe grec à Giraudoux, enquête sur un conflit mimétique, <http://www.arm.asso.fr/offres/file_inline_src/57/57_P_3235_1.pdf>, 2006. ↩︎

  26. Jean Giraudoux, La guerre de Troie n’aura pas lieu [1935], Paris, 1991. ↩︎

  27. Andromaque: La guerre de Troie n’aura pas lieu, Cassandre! / Cassandre : Je te tiens un pari, Andromaque. / Andromaque : Cet envoyé des Grecs a raison. On va bien le recevoir. On va bien lui envelopper sa petite Hélène, et on la lui rendra. / Cassandre : On va le recevoir grossièrement. On ne lui rendra pas Hélène. Et la guerre de Troie aura lieu. / Andromaque : Oui, si Hector n’était pas là !… Mais il arrive, Cassandre, il arrive ! […] Quand il est parti, voilà trois mois, il m’a juré que cette guerre était la dernière. Cfr. J. Giraudoux, op. cit. p. 55 (Acte I, scène 1), citato in M.R. Anspach., op. cit. p. 2. ↩︎

  28. Cfr. anche M. R. Anspach, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, Torino 2007. ↩︎

  29. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano 1999. ↩︎

  30. Cfr. A. I. Tauber, op. cit., p. 38, in cui si rende conto del primato di Metchnikoff nel determinare l’azione del sistema immunitario come una «active response to a pathogen», allontanandosi dalla considerazione del «host’s immune status as due to passive factors». ↩︎