Recensione ad Evelina Praino, L’individualità ai margini dell’impero neoliberale

Evelina Praino, L’individualità ai margini dell’impero neoliberale (prefazione di Claudio Tarditi), Libreriauniversitaria, Padova 2021.

Se per lungo tempo il dibattito sul neoliberalismo è stato sostanzialmente appannaggio di ristretti circoli accademici o, tutt’al più, di qualche salotto progressista, in tempi più recenti esso ha acquistato una risonanza pubblica più ampia, anche grazie ad alcuni episodi – tra cui quello delle neo-diplomate alla Scuola Normale Superiore di Pisa che hanno denunciato apertamente la degenerazione dell’istituzione universitaria in struttura aziendale orientata al profitto – che hanno richiamato l’attenzione dei media.1 Ciononostante ed eccezion fatta per gli studi di Han,2 per citare solo i più recenti, lo stato dell’arte su questo tema è tutt’altro che chiaro e univoco; probabilmente per sua stessa natura, e in forza delle sommarie letture e interpretazioni che ne sono state offerte da più voci.

Proprio per fare chiarezza sui concetti fondamentali e sui presupposti della visione del mondo neoliberale, nonché sulle questioni teoretiche, etiche e politiche che ne sono derivate, il saggio di Evelina Praino, L’individualità ai margini dell’impero neoliberale (Padova, 2021) offre un ottimo strumento di comprensione. Si tratta infatti di un testo che, pur presentando solide riflessioni in ambito etico-politico, si pone innanzitutto come indagine strettamente teoretica sulla questione centrale per tutta la tradizione filosofica occidentale: il soggetto, qui declinato nella nozione di individualità, stretto nella morsa della competizione e dei dispositivi prestazionali:

i soggetti «intraprendenti» innescano inevitabilmente un effetto a catena per cui, una volta prodotti rapporti di reciproca competizione, li rafforzano spontaneamente e li riproducono a loro volta, imponendosi così un adattamento crescente a delle condizioni inaccettabili che il sistema ha solo parzialmente contribuito a creare (p. 10).

Si tratta di un punto decisivo messo in luce sin dalle prime pagine: il neoliberalismo, nella tesi dell’autrice, non è (soltanto, e neppure in primis) una teoria politica, ma un modello di razionalità:

attualizzando un unico modello di razionalità, la forza del sistema neoliberale consiste nel governare gli individui tramite principi che si occupano della vita umana non parzializzandola, ma assumendola nella sua interezza; lo sviluppo dei mercati diventa quindi un tutt’uno con la sottomissione degli attori sociali a governamentalità (p. 10).

Dunque, non è possibile comprendere i caratteri del neoliberalismo unicamente attraverso le categorie della filosofia politica, ma occorre ricostruirne – anche grazie agli strumenti messi a punto da M. Foucault, punto di riferimento di questo percorso teorico – la genealogia, interrogando le forme di soggettività cui esso ha dato e dà attualmente luogo. In breve, comprendere il modello di razionalità neoliberale significa chiedersi cos’è un soggetto – o un individuo – una volta consumatesi tutte le narrazioni e le mitologie del soggetto (cartesiana, kantiana, hegeliana, forse anche husserliana) – che hanno attraversato la modernità e che ne hanno fatto, a vario titolo, un principio di auto-fondazione.

Solo a queste condizioni è possibile chiarire «gli effetti pervasivi [del neoliberalismo] sui modi di pensiero nella misura in cui è stato incorporato nel senso comune attraverso cui molti di noi interpretano, vivono e comprendono il mondo».3 Su questa base, il volume di Evelina Praino esamina accuratamente le strategie attraverso cui il complesso di valori e credenze, che caratterizza fluidamente il neoliberalismo, contribuisce in modo decisivo a forgiare le soggettività all’interno dei dispositivi disciplinari e securitari che caratterizzano il nostro tempo.

Risulta quindi evidente che la critica non possa collocarsi su un piano strettamente politico, in primo luogo perché l’ambito di riferimento neoliberale è più propriamente quello antropologico, in secondo luogo poiché la vita stessa dell’homo œconomicus, soggetto del mondo neoliberale, è così concentrata sul suo carattere individualistico da porre in secondo piano i propri tratti sociali e, di conseguenza, marginalizzare fortemente la propria componente genuinamente politica (pp. 29-30).

Questa articolazione concettuale viene dettagliata nel testo in tre momenti essenziali. Nella prima sezione, sono individuati i presupposti della mentalità neoliberale nella Rational Choice Theory che, fondandosi su un modello di razionalità limitata e innervata dal principio di competizione, trova compimento negli apparati securitari in grado di governare le condotte individuali. Come dimostrano gli studi di Simon, su cui l’autrice innesta le riflessioni di Thaler e Sunstein, il mondo è troppo complesso e ricco di dati dalle conseguenze imprevedibili, perché gli individui riescano a dare risposte sempre ottimali; di conseguenza, politiche governamentali paternalistiche e volte a direzionare i soggetti politici nelle loro scelte rischiano di essere assunte favorevolmente, affievolendo la capacità critica relazionale dei soggetti e la loro attitudine alla resistenza politica. Una volta affermato il principio del massimo utile individuale a partire dalle condizioni limitate in cui il soggetto opera abitualmente, quindi, le condotte diventano trasparenti per le dinamiche governamentali, che riescono così a orientarle e disciplinarle. Con un orientamento, da parte del mercato, dello stesso desiderio umano, le prassi soggettive diventano infine totalmente prevedibili, soprattutto nella misura in cui si elimina la visibilità di tutte quelle modalità di conduzione esistenziale che, non rispondendo al calcolo economico, risultano creative o, più sbrigativamente, «anomale». Ciò comporta, evidentemente, il venir meno di tutti quegli aspetti della vita che non hanno propriamente scopo o che non sono riconducibili all’interesse economico: più precisamente, tali aspetti subiranno una mutazione di significato tale da renderli adattabili e compatibili con la razionalità utilitaristica, sovente così radicata da confondersi col senso comune.

La seconda sezione tematizza il rapporto tra biopolitica e individualità, interrogando così direttamente il processo di strutturazione dell’individualità. In questo contesto, riferendosi ampiamente alla prospettiva di Foucault, l’autrice evidenzia come l’homo œconomicus si autopercepisca come membro di una popolazione, definendosi di volta in volta cittadino, utente, consumatore, a seconda della propria posizione sociale e dei rapporti di potere in cui è collocato. In particolare, la nozione di autovalorizzazione svolge qui un ruolo centrale: se infatti l’individuo è inserito in una rete di scambi orientati alla soddisfazione dei propri desideri e al raggiungimento di un certo risultato, sarà portato a considerare sé stesso nei termini di «capitale umano» da affinare sempre più in vista di una sempre maggiore performatività nei confronti delle richieste provenienti dalla struttura in cui vive. La retorica delle «competenze» che caratterizza il nostro sistema sociale, educativo e produttivo, ne è un esempio evidente. In questo senso, il riferimento alla figura della Jeune-Fille – figura paradigmatica della “singolarità qualunque”, che il collettivo francese Tiqqun conia con chiaro riferimento all’ontologia politica agambeniana – è decisivo per fare emergere tutti quegli aspetti della nostra personalità che, sacrificati alla legge della mercificazione, conducono il soggetto all’isolamento politico e al deperimento affettivo.

Infine, la terza sezione affronta la complessa questione della resistenza ai dispositivi entro cui l’individuo agisce. Quale forma può infatti assumere un’azione resistente, se il dispositivo a cui oppone resistenza è caratterizzato da un altissimo grado di porosità e capacità di adattamento alla resistenza stessa? In altre parole, se il dispositivo securitario ha come massimo obiettivo la limitazione dell’imprevedibilità delle condotte dei singoli, non tenderà a «tollerare» quote minime di resistenze, a patto che queste siano in qualche modo funzionali all’omeostasi del sistema sociale? Ora, se una lettura affrettata condurrebbe ad ammettere tout court l’impossibilità o l’insensatezza di ogni resistenza, la lucida analisi di alcuni esempi storici (dal Comitato Invisibile francese all’Esercito Rivoluzionario del Popolo argentino) condotta dall’autrice può fornire elementi critici dirimenti. Infatti, recuperando considerazioni caratteristiche dell’ultimo Foucault, come il tema della cura sui e delle tecnologie del sé, le resistenze si pongono innanzitutto come azioni dirette verso sé stessi e orientate a limitare l’impatto dei dispositivi sui processi di soggettivazione, generando così condotte imprevedibili e altamente «disturbanti» per la governamentalità neoliberale. Che si tratti di strategie a medio-lungo termine o tattiche più locali e puntuali, resistere significa “disfare il gioco dell’altro, […] aggirare le regole di uno spazio costrittivo”;4 in breve sottrarsi alla normalizzazione attraverso cui il dispositivo si insinua in ogni anfratto delle nostre vite.

In definitiva, se il dispositivo neoliberale contribuisce radicalmente alla produzione delle soggettività in cui si incarnano le nostre vite, non è però assolutamente necessario che queste ultime vi aderiscano senza resto. È in quella piega non visibile, in quel resto, in quello spazio liminoide che la resistenza può (e deve) essere coltivata: più radicalmente, lo spazio costrittivo può essere riconosciuto e descritto solo se ci si posiziona originariamente sul suo margine, in quel luogo di passaggio in cui le regole non sono ancora distrutte, ma possono essere erose. In altri termini, non vi è fenomenologia del dispositivo se non nella resistenza ad esso, perché la riflessione stessa sulla sua genealogia ne provoca una perturbazione, una dislocazione, un’alterazione forse irreversibile. Attraverso il confronto con Foucault e Agamben, ma anche coi filosofi e sociologi che hanno tentato di descrivere i tratti sfuggenti del neoliberalismo, questo testo lascia emergere, senza ideologie, come lo stesso gesto filosofico, in fondo, possa essere nella prospettiva dell’autrice un atto di resistenza:

questo volume è una narrazione, che trae origine dall’esperienza vitale della funzione-autore o, se si preferisce, di un soggetto qualsiasi. Proprio per questo, è anche in sé una possibilità, a dimostrazione che la resistenza è sempre, per chi resiste, una possibilità (p. 174).


  1. Per un’analisi dettagliata dell’estensione del neoliberalismo, in ambito neoliberale, si veda V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli 2012. ↩︎

  2. B.-C. Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche di potere, Nottetempo, Roma 2016. Per un’analisi sistematica del tema, si veda anche: M. De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, Roma 2017. ↩︎

  3. D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 3. ↩︎

  4. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Ed. Lavoro, Roma 2012. ↩︎