Elisa Grimi, G.E.M. Anscombe, The Dragon Lady , con testimonianze inedite, Cantagalli, Siena 2014, pp. 524.
The Dragon Lady è ad oggi, in Italia, il testo di maggior riferimento per chiunque volesse inziare o approfondire la conoscenza di G.E.M. Anscombe, filosofa britannica ancora poco nota nel panorama italiano, alla cui diffusione sta contribuendo proprio il volume di Elisa Grimi.
Nell’alveo di teorie più o meno recenti sulla riflessione metaetica — cognitivismo, realismo, espressivismo, costruttivismo —, Elizabeth Anscombe (1919-2001) occupa un posto di rilievo. Allieva ed esecutrice testamentaria di L. Wittgenstein, è tra le figure più interessanti del Novecento; nel suo pensiero l’aspetto logico-ontologico si combina con quello etico e morale, attraverso una riflessione attenta sul legame tra azione e intenzione, tra responsabilità e dovere, sullo sfondo di un’accurata conoscenza e delle critiche puntuali ad alcuni autori della tradizione classica e moderna. Il metodo «anticonsequenzialista» (è proprio Anscombe a coniare il termine «consequenzialismo», successivamente utilizzato per indicare la tipologia delle teorie cui ella si opponeva fermamente) attinge dalla filosofia tommasiana il valore, parallelamente a quello dell’intenzione, dell’oggetto dell’azione morale (da Tommaso riprende la differenza tra la tensione al bene e al bene «in quanto bene»); non si può neanche dimenticare l’influenza di Wittgenstein per ciò che riguarda l’analisi logico-grammaticale e linguistica dei concetti di azione e intenzione, pur considerando che Anscombe sviluppa un percorso personale nella direzione di una filosofia e di una ragione «pratica». La teoria dell’azione di Anscombe muove dalla distinzione wittgensteiniana tra «cause» e «ragioni»; il paradigma dell’azione intenzionale è la domanda sul «perché», dalla cui risposta si comprende la ragione dell’azione.
Anscombe assume che bisogna ammettere l’esistenza della causalità mentale, ma non limitare la causalità mentale alle scelte o alle azioni intenzionali o volontarie, poiché il terreno di applicazione è assai più ampio; bisogna poi ammettere che i motivi non sono cause mentali, e ammettere che esistono applicazioni diverse tra quelle dei motivi e quelle delle intenzioni. Molta parte di Intention si occupa di osservare il problema della definizione dei due termini e della correlazione tra azioni «basilari» e azioni «volontarie», ancora oggi al centro delle scienze della mente e delle teorie dell’azione. Anscombe afferma qui la critica al mentalismo e il rifiuto del comportamentismo. Il quarto capitolo della monografia di Grimi è interamente dedicato a questo testo fondamentale di Anscombe, del 1957, in cui il divario tra cause e ragioni solleva il problema del recupero, in chiave aristotelica, dell’elemento teleologico dell’azione: «Anscombe si è occupata dell’azione a partire da un interesse di natura pratica, senza portare avanti un interesse per la conoscenza speculativa o un’indagine di carattere etico e normativo. È stata proprio Anscombe ad operare un recupero del sillogismo pratico aristotelico quale modello di spiegazione dell’agire umano. A dispetto degli altri sillogismi che hanno una fondazione di tipo causale, il sillogismo pratico coglie l’elemento teleologico caratteristico dell’azione, la direzione verso un fine deliberatamente scelto dall’agente» (p. 130).
Il livello e il linguaggio specialistico con cui qualche questione — in particolare quelle di Intention e del relativo capitolo — è presentata, rende d’impatto complessa la comprensione, per i non addetti ai lavori della filosofia analitica, della centralità e dell’attualità degli stessi problemi. Ciò potrebbe forse costituire l’unica obiezione per il lettore: d’altra parte, tale complessità è del tutto coerente con la proposta anscombiana, i cui contenuti e il cui modo di fare filosofia — seppur caratterizzati da una profonda e insita linearità — difficilmente risultano di immediato e facile accesso. «Ciò che si ha di fronte — scrive Elisa Grimi — non è uno scritto di carattere didattico che parte da precise assunzioni e quindi procede con argomentazioni analitico; esso è intriso di quello stile wittgensteiniano che porta a maturare passo dopo passo, scavando a fondo sul significato delle parole, sulla loro accezione sul loro nesso con la prassi umana» (p. 117).
I primi tre capitoli si compongono, in ordine, di un’ampia biografia della filosofa, utile a collocare le sue prospettive e convinzioni filosofiche all’interno di vicende culturali, storiche ed esistenziali determinanti: ne sono di esempio gli anni di insegnamento tra Oxford e Cambridge, i dialoghi e l’incontro con i suoi allievi e amici, con il marito Peter Geach, gli insegnamenti e lo stretto legame con Wittgenstein, le accese divergenze con parte dei suoi colleghi e intellettuali contemporanei. Il secondo e il terzo capitolo descrivono rispettivamente gli ultimi due aspetti cui si è accennato: L’insegnamento di L. Wittgenstein e La premessa a Intention: la laurea honoris causa al presidente Truman. Anscombe fa propri problemi, domande, obiezioni e in larga parte il metodo wittgensteiniano, traendone importante supporto anche per il dialogo — in ella sempre vivo — con autori della tradizione classica e moderna. È il caso, tra i molti, della critica a Hume, costituita da problemi del calibro delle virtù e della causalità, interessanti quando li si osservi in prospettiva strettamente concettuale o quando ci si volga invece al versante più «sociale». Anscombe mira a formulare una descrizione «di quale tipo di caratteristica è una virtù», così da accedere ad una parte dell’oggetto dell’etica tralasciata dalla recente ricerca filosofica. Per Hume al centro sono passioni e sentimenti, mentre la verità concerne questioni di fatto e le relazioni di idee, non sottoposte all’ambito del giudizio; da ciò si assume la fallacia del passaggio dall’essere al dovere e di un concetto di «dovere» filosoficamente giustificato. Anscombe diverge da Hume riguardo all’esclusione della possibilità di un’etica normativa, di un fondamento ontologico e comprensibile del dovere morale. Ma il dovere morale non possiede di per sé nessun rigore logico se non lo si comprende alla luce di un ritorno all’azione stessa, del rapporto tra azione e ragione, e della descrizione delle azioni e delle intenzioni.
Ciò costituisce l’analisi esposta nel capitolo Modern Moral Philosophy, dal titolo di un altro testo-chiave di G.E.M. Anscombe. Prima di spendere qualche parola in più sulle pagine che seguono all’analisi dettagliata di Intention (descritto e sintetizzato fin nei singoli paragrafi, facilitando l’emergere della prospettiva di una filosofia dell’azione), va ricordato quello che precede quest’ultimo capitolo, vale a dire La premessa a Intention: la laurea honoris causa al presidente Truman. L’opposizione decisa, nel 1956, al conferimento della laurea honoris causa all’ex presidente degli Stati Uniti Harry Truman (per l’utilizzo della bomba nucleare) mette l’accento su almeno due fattori già esposti: da un lato l’integrità umana e intellettuale che caratterizza Anscombe, tale per cui — come in questo episodio — l’affermazione di certe convinzioni filosofiche o la «passione per la verità» sono state accompagnate da altrettante convinzioni e scelte civili, esistenziali, mai soggette al consenso o al dissenso comune; dall’altro il caso Truman ha posto le condizioni di riflessione di Intention e la critica al consequenzialismo, mostrando come il criterio di buoni fini ipotetici è insufficiente e fallace. In primo luogo, la sola valutazione (o «sopravvalutazione») delle conseguenze delle azioni non considera l’implicita differenza tra fini, non concepisce l’idea e l’esistenza di un fine «buono» e quindi di qualcosa di sbagliato in sé, arrestando il processo di un serio percorso morale dell’uomo; in secondo luogo, sarebbe impossibile valutare effettivamente tutte le possibili conseguenze di un’azione. Al contempo Anscombe critica il deontologismo formalistico dell’autolegislazione di matrice kantiana: l’etica normativa (e i concetti di «dovere», «legge», ecc.) trova validità nella sua matrice teologica, ma risulta infondata e inefficace in un’etica secolarizzata come quella presente.
Quest’ultima considerazione ha molto a che fare con un altro testo centrale nella produzione anscombiana, cui è dedicato il quinto capitolo del libro e che riguarda la «filosofia morale moderna». Con la pubblicazione, nel 1958, del noto articolo Modern Moral Philosophy, Anscombe ha posto le condizioni di una rinnovata etica delle virtù. La grande lacuna della filosofia morale moderna è quella di una adeguata e rinnovata filosofia della psicologia, che definisca in primo luogo i concetti tematizzati dalla teoria morale aristotelica (virtù, disposizione morale, ragione pratica), essenziali per discutere di principi etici, e suggerisca poi una complessiva descrizione della natura e dell’azione umana. A partire dalla critica alla filosofia morale oxoniense dopo Sidgwick (quella di Ross e Hare), la filosofia morale di Anscombe ambisce a una teoria morale fondata sulle virtù umane, capace di esprimere le norme effettivamente utili a conseguire la realizzazione personale, le condizioni per essere chi si vuole essere e non ciò che si deve essere. Perché essere morali? Che cosa è morale e cosa la morale? Qual è l’origine dell’azione morale e quale conoscenza ne è possibile? Anscombe propone riflessioni indispensabili per comprendere i problemi del dibattito contemporaneo, per scoprire l’interazione con i modelli delle teorie dell’azione; recuperare la domanda sul concetto di volontà e ragione, o la domanda sul valore della capacità descrittiva dell’uomo in rapporto alla capacità comprensiva, vuol dire individuare la possibilità «significante» dell’azione umana e poter rispondere all’appello morale. Il riverbero di tali osservazioni è stato poi raccolto da numerosi autori, tra i quali Peter Geach, Philippa Foot, Iris Murdoch, Alasdair MacIntyre, Rosalind Hursthouse, ed è rintracciabile in ampia parte della discussione filosofica etica attuale.
I capitoli successivi, “L’auto-contraddittorietà del naturalismo”: la critica di Anscombe a C. S. Lewis, Causalità come derivatezza: una delucidazione attorno al determinismo e Cenni di tomismo analitico delineano ancora critiche, intuizioni e prospettive che Anscombe sviluppa nell’arco della sua intensa vita intellettuale.
La critica a Lewis consiste nella confusione, ancora una volta, tra causa e ragione, che nasce da espressioni ambigue come «perché» e «spiegazione». Anscombe chiede a Lewis di specificare cosa egli intenda con «ragionamento valido». In che cosa consiste la validità, oltre a ciò che sarebbe oggettivato con la spiegazione per distinguere valido e non valido? Qui emerge bene l’influenza wittgensteiniana, per esempio per ciò che riguarda l’attenzione per la diversità dei tipi di spiegazione e dei sensi di «perché», o per l’idea secondo la quale i motivi per pensare o fare qualcosa non possono essere supposti come eventi interni. A sintesi del delicato capitolo sulla causalità, Grimi afferma: «Seguendo la lettura che Anscombe fa della causalità, occorre ricordarsi di quella che possiamo chiamare la sua ontologia, vale a dire l’azione dell’uomo si forma e si orienta dinanzi all’ordine del mondo e alle leggi della meccanica quantistica. La fioritura dell’essere umano non può quindi essere circoscritta né ad una prospettiva deterministica né indeterministica, per lo stesso motivo per cui dinnanzi ad una azione occorre distinguere le cause dalle ragioni: è nella derivatezza dell’effetto dalla causa che va formulandosi quella concezione antropologica non facilmente riassumibile in base a leggi contingenti» (p. 391).
A chiudere il volume sono il capitolo La personalità e l’importanza del pensiero di G.E.M. Anscombe. Alcune testimonianze dirette e un’ampia e dettagliata bibliografia, fondamentale per muoversi all’interno della produzione anscombiana e del rispettivo ambito di ricerca. Le testimonianze inedite di allievi, amici e conoscenti si articolano in pagine suggestive e utili ad un impatto diretto con una personalità brillante e decisa, non sistematica, attenta a comprendere la verità e le circostanze all’interno di una prospettiva storica e umana ampia. La filosofia e la vita di Anscombe paiono continuamente sovrapporsi, intersecarsi, in un esercizio di reciproca dipendenza. In questo senso l’appellativo espresso nel titolo del volume, The Dragon Lady, preannuncia ciò che è lasciato alla lettura integrale, mostrando la capacità di incidere sul proprio ambiente culturale in virtù di una esistenza radicata e radicale.
Una riflessione seria in materia di filosofia analitica oggi farebbe bene a non prescindere dal contributo che Elizabeth Anscombe ha offerto, che lo si faccia considerando i problemi posti a oggetto della sua filosofia o considerando l’autentica curiosità e genuinità che ne ha caratterizzato la ricerca. La monografia di Elisa Grimi è, da questo punto di vista, un’ottima introduzione e una guida preliminare alla lettura delle opere.