L’incommensurabilità della solitudine. Riflessioni sull’incontro

Si sa non tutti se la possono permettere. Non se la possono permettere i vecchi, non se la possono permettere i malati; non se la può permettere il politico: il politico solitario è un politico fottuto, di solito. Però, sostanzialmente, quando si può rimanere soli con se stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante. Il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle. E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante; si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo, addirittura, che si riescano a trovare delle migliori soluzioni. (Fabrizio De André)

1. Introduzione

Le parole di Fabrizio De André1 sottolineano magistralmente alcuni dei nodi intorno a cui si costruisce ciò che è la solitudine. Nella presentazione dell’album scritto con Ivano Fossati Anime Salve, che, come sottolinea l’autore, etimologicamente significherebbe propriamente «spiriti solitari», egli attua un elogio della solitudine. Non è tanto l’anacoretismo o il romitaggio in sé, ma la solitudine che ci rapporta al circostante, quella a cui si riferisce. Ma cosa intendiamo realmente quando parliamo di solitudine? Il riferimento alla traduzione del connubio «anime salve» come «spiriti solitari» si istituisce all’interno della radice etimologica che ne forma il significato. Anima, forma femminile di animus, è propriamente spirito (congiunta al greco ànemos, vento, soffio, si pensi allo spirito della vita, lo pneuma). Salvo, dal latino salvus invece significa tutto, intero, integro e quindi individuale e solitario. L’uomo ha sempre teso verso l’originalità dell’isolamento, la chiusura dei rapporti attraverso un autocompiaciuto distinguersi spesso dettato da un sentire inadeguato il proprio mondo. E questo senz’altro ha portato a quelle soluzioni migliori per i propri e gli altrui problemi a cui fa riferimento il cantautore; ad un rapporto migliore con il mondo ma anche all’isolamento autocompiaciuto. Uno dei casi più emblematici è rappresentato da quanto successe a Gene Rosellini,2 un giovane studente che frequentò numerosi e disparati corsi universitari senza mai laurearsi, il quale decise di abbandonare la sua vita per com’era e darsi a tutt’altre esperienze. Nel 1977 raggiunse Cordova in Alaska. Lì intraprese un esperimento antropologico consistente nel testare se fosse possibile vivere come un uomo dell’età della pietra. Le tecnologie a cui voleva limitarsi nell’utilizzo includevano solo quegli strumenti «creati da materiali naturali con le sue stesse mani».3 Lo stesso Krakauer narra di averlo incontrato nel 1981:

Un pomeriggio, mentre camminavo sotto la pioggia verso la città, incrociai uno sconosciuto sulla quarantina agitato e trasandato. Aveva un cespuglio di barba nera e i capelli lunghi fino alle spalle, legati con un sudicio laccio di nylon che glieli teneva discosti dal volto. Camminava spedito verso di me, curvo sotto il peso di un tronco di un paio di metri che portava in equilibrio sulla spalla.4

Dieci anni dopo l’arrivo Rosellini fu intervistato dalla reporter dell’Anchorage Daily News Debra McKinney alla quale confessò la propria concezione di un regresso qualitativo dell’uomo contemporaneo a cui lui rispondeva con un ritorno a condizioni umane precedenti. Impiegava giornate intere a tagliare tronchi con pietre affilate e la sua capanna «non era che una casupola (hovel) senza finestre costruita senza sega né ascia».5 La cosa interessante è che l’esperimento durò oltre dieci anni ma Rosellini comprese che non era impossibile vivere così, nel modo in cui la sua esperienza lo dimostra ma, al contempo, per via del suo vissuto di uomo contemporaneo, sosteneva fortemente che non fosse più possibile continuare un tale esperimento, che fosse letteralmente impossibile vivere così e decise di abbandonare. Con le sue stesse parole:

Ho cominciato la vita adulta con l’ipotesi che sarebbe stato possibile trasformarsi in un uomo dell’età della pietra (Stone Age native) e per oltre trent’anni mi sono programmato e condizionato a questo fine. Negli ultimi dieci anni direi di aver effettivamente sperimentato la realtà fisica, mentale ed emotiva dell’età della pietra, ma alla fine ho dovuto guardare in faccia la realtà. Ho imparato che non è possibile per gli esseri umani così come noi li conosciamo vivere nella natura e della natura (I learned that it is not possible for human beings as we know them to live off the land).6

Rosellini fu trovato nel novembre del 1991 con un coltello piantato nel cuore sul pavimento della sua baracca (shack).7

2. Cosa significa il movimento? Orientamento ed esperienza del perdersi

Il caso di Rosellini è alquanto emblematico e fa sorgere alcune domande fondamentali. Innanzitutto qual è il senso del movimento attuato tanto nel viaggio, quanto nella decisione di ritirarsi dai propri contemporanei e simili. Franco La Cecla sottolinea che per «un nomade il tragitto stesso non è uno spostamento: è la ripetizione di un gesto di fondazione»,8 il nomade ripete nella sua ossessione per la corsa e il movimento, nella sua dromomania, ciò che costituisce la sua mappa culturale ed esistenziale stessa. Questi nella sua ri-corsiva corsa traccia un tragitto che non significa altro se non «srotolare il tappeto delle proprie mappe mentali, simboliche, culturali in corrispondenza ai luoghi del territorio che si attraversano».9 L’attraversamento fisico di un territorio non è nulla se non lo si relaziona alla visione propria dell’ossessione movimentata. Ciò che soggiace a questa è un tratto esistenziale, prima che esperienziale; è fondazione prima che movimento. Ovvero l’orientamento non è solo sapersi orientare e saper ritrovare la direzione ma è «la base su cui si possono costruire associazioni emotive».10 Questo non è solo l’immediata ricostruzione del percorso, l’indirizzamento dei movimenti nello spazio quanto, piuttosto, una «struttura generale di riferimento all’interno della quale un individuo può agire e a cui può appigliare la propria conoscenza».11 L’orientamento è quindi trascinato con sé e srotolato ovunque lo spazio debba prendere senso. L’uomo gettato nel mondo ha dovuto sin da subito trovare un modo di sentirsi a proprio agio, à son aise, nell’adagiare il proprio corpo in uno spazio, scontrandosi con ciò che questo combatteva e minacciava. Il termine agio, sottolinea Agamben, «indica infatti, secondo il suo etimo, lo spazio accanto (ad-jacens, adjacentia), il luogo vuoto in cui è possibile per ciascuno muoversi liberamente, in una costellazione semantica in cui la prossimità spaziale confina col tempo opportuno (ad-agio, aver agio) e la comodità con la giusta relazione».12 Attraverso l’orientamento l’uomo vive lo spazio con la giusta relazione, muovendovisi liberamente, trascinando il proprio agio in ogni suo movimento. Almeno questo è quanto cerca di fare.

Mircea Eliade riconosceva l’importanza dell’orientatio già per gli albori dell’esperienza umana nel mondo,13 poiché:

lo spazio può essere organizzato intorno al corpo umano come se si estendesse davanti, dietro, a destra, a sinistra, in alto e in basso, rispetto a tale corpo. A partire da questa esperienza originaria – sentirsi 'gettati' in mezzo ad un’estensione apparentemente illimitata, sconosciuta, minacciosa – si elaborano i vari mezzi di orientatio; infatti non si può vivere a lungo nella vertigine provocata dal dis-orientamento.14

Questa esperienza originaria è ciò che costituisce l’esperienza umana nella sua totalità, ovvero fino ad oggi, e la solitudine, nel suo tratto più violento ed estremo, nella sua perdita del rapporto con le coordinate che strutturano la cultura umana, può significare dis-orientamento e perdizione. Tuttavia questo valore dell’orientatio è dato per scontato, trascurato o misconosciuto nell’uomo moderno poiché, convinto di aver abbattuto il nemico illimitato, dimentica che «[l]’esperienza dello spazio orientato è ancora familiare all’uomo delle società moderne, sebbene egli non sia più cosciente del valore 'esistenziale' di essa».15 Per il nomade la casa come centro del mondo non è un luogo fisico individuabile ma una coordinata di senso data dalla ripetizione di un gesto di fondazione, mentre l’uomo sedentario si erge e si definisce attraverso un luogo fisico. Il valore esistenziale della spazialità orientata è fondamentale proprio perché, con le parole di Merleau-Ponty, se «lo spazio è esistenziale; avremmo potuto dire altrettanto propriamente che l’esistenza è spaziale».16 Ovvero l’esistenza si dà solo in relazione allo spazio, il quale pertanto diventa uno spazio vivo prima che vissuto. Questo è lively nel modo in cui ci si relaziona e interagiamo ma soprattutto nel modo in cui è uno spazio imprevedibile. Lo spazio intorno in cui mi sento a mio agio non è solo ciò di cui faccio esperienza diretta, ovvero dove si possa attuare l’interscambiabile azione della mano, occhio e orecchio. Esso si dilata in un orizzonte (horizon) di più complessa natura.17 Non è sufficiente che ciò che minaccia il mio essere a proprio agio sia da me individuabile direttamente come una radio che fa rumore nella stanza accanto, la quale la sento, la vedo e la tocco per spegnerla. Ciò che disturba l’agio, che poi è un disturbo di una solitudine e dell’intimità, può trovarsi molto distante. L’eremita che senta ogni giorno lo scorrere e il vociare della folla, i suoni delle fabbriche, per quanto separato spazialmente da questi non sarà mai solo e a proprio agio se la vallata gli dona gli echi della comunità. Per cui l’immagine evocata da Bachelard in cui:

L’eremita è solo davanti a Dio e la sua capanna è l’antitipo del monastero. Intorno ad una simile solitudine concentrata, si irradia un universo che medita e che prega, un universo fuori dell’universo. La capanna non può ricevere alcuna ricchezza «da questo mondo», essa gode di una felice intensità derivante dalla povertà.18

Diviene meno compatta e il suo spazio religioso disturbato. Questo significa che lo spazio dell’agio, lungi dall’essere un accanto adiacente è un accanto circostante. Ovvero esiste una percezione spaziale nel senso che, per dirla con le parole di La Cecla, «esiste cioè, una sensibilità allo spazio basata su di un contatto con il circostante sentito come malleabile e pieno di suggestioni».19 E questa sensibilità vissuta non è neutra ma valoriale è una vera e propria percezione che ci rapporta e per cui sentiamo «un rapporto tra il proprio corpo e lo “spazio involucro” circostante».20 Quando l’uomo si perde, quando ci perdiamo, sentiamo infatti che «improvvisamente tra noi e l’intorno c’è un vuoto, una soluzione di continuità, siamo sospesi come nel vuoto ed esso è un “gorgo” potenziale».21 Il perdersi è delineato proprio da questa discrepanza tra la familiarità abituale e il messaggio contrastante che in quel momento si percepisce.22 Ma la questione si pone in un’ottica ben precisa: si «può stare male in un luogo che non riusciamo a sentire o a fare nostro proprio perché il nostro corpo si aspetta una affinità con le presenze fisiche circostanti».23 In questa mancata affinità ci troviamo disorientati nel modo in cui «il mondo che ci circonda diventa ambiguo e insopportabile».24 L’uomo senza ambiente è un uomo che non riesce a sentire proprio quell’orizzonte avvolgente che lo definisce. La Umwelt come contrapposta alla Umgebung, ovvero il mondo intorno, l’ambiente, e ciò che sta intorno, i dintorni,25 definisce l’uomo nel modo in cui questo vi interagisce. Lo definisce proprio perché la sua variazione nell’interazione lo disturba e non vi si riconosce più.

Tuttavia perdersi può significare altro. «“Perdersi” può avere un altro esito diverso dal disorientamento. Può consentire quel “fuori-di-luogo” per cui sia[m]o costretti a ricostruire i nostri punti di riferimento, a misurarci e a ridefinirci rispetto ad un altro contesto».26 Ri-installare un orizzonte è il compito dell’uomo nel momento del post-smarrimento. Lo smarrimento si conclude nel ri-disegnare un orizzonte. La presenza nello spazio «ha dunque a che fare con i sensi, con la percezione, con la percezione che proviene […] da tutto il corpo».27 È con tutto il corpo che ci posizioniamo e sentiamo l’avvolgerci dello spazio entro cui siamo situati. È con tutto il corpo che incontrano lo spazio che viene sentito come proprio, proprio perché sentiamo uno spazio nel modo in cui vi è interazione con questo, «ma anche definizione dello spazio intorno, tracciamento su di esso delle proprie intenzioni, dei propri movimenti».28 La Cecla ci dona un’importante sguardo sul rapporto uomo-spazio: percepiamo ciò che è legato allo spazio, attraverso il corpo e i sensi; definiamo questo spazio attraverso i modi in cui vi interagiamo; quindi, in definitiva, vi «è anche uso di questo stesso spazio, cioè servirsi dell’intorno come di uno strumento, uno strumento involucro, una protesi della presenza corporea».29 La Cecla definisce questa capacità «mente locale» e parla di una reale coltivazione dello spazio: l’abitare, allora, viene visto come una vera e propria facoltà.30

3. Il significato del perdersi per l’uomo contemporaneo

L’uomo è localizzato, situato in punti dello spazio a cui può rimandare e che può conoscere costantemente. Ma cosa succede quando, oltre al perdersi obbligato, quella costrizione dovuta allo scarto del rapporto con l’esterno, si decide di perder-si, di voler perdersi? È possibile perdersi intenzionalmente se l’orientamento è definito come il composto delle coordinate che l’essere umano si porta dietro e attraverso cui mappa il circostante? Secondo La Cecla:

in realtà intenzionalmente non ci si può perdere. L’immersione nell’estraneo è condizione necessaria ma non sufficiente della sopraffazione di esso sui nostri sensi nella forma di stupore e spavento. “Perdersi”, per l’appunto, non indica una azione riflessiva, come pensarsi, parlarsi, toccarsi. In realtà «ci si trova perduti», o meglio «ci si ritrova perduti», dove l’azione riflessiva è il cercarsi e il ritrovarsi, non il perdersi.31

Ma questo, piuttosto, per la costante conoscenza e il costante riconoscere i luoghi in cui si è immersi. Il perdersi come disarticolazione delle proprie coordinate è tendente all’impossibilità. Il perdersi, oggi, nelle nostre città è più una «distrazione che una decontestualizzazione».32 È uno scarto che si viene a formare nel confronto tra paesaggio interiore e paesaggio esteriore. Se il primo viene esternato nelle sue differenze con l’esteriore allora lo si nota nel suo essere solitario, ovvero nel non aver appigli «con un paesaggio condiviso da altri».33 Nel tagliare questi legami, nel separarsi dagli «srotolamenti» di mappe condivise, si avverte un piacere che porta a ricercarne le condizioni di possibilità. Ma il perdersi individuale dell’uomo, questo «scarto solitario», è legato in modo sempre più forte all’impossibilità reale di perdersi. L’«esperienza “totale” e non come distrazione banale e quotidiana»34 del perdersi è un’esperienza che si sposta sempre più lontano. «Viaggiare e la mitologia moderna delle agenzie di viaggio, delle guide ai paesi lontani, del viaggio-avventura possono essere interpretate come un banale e disperato tentativo di fare commercio del perdersi».35 L’uomo, che nelle culture indigene si radica attraverso la «mente locale», o nel fare «mente locale», dopo aver smarrito le coordinate grazie al rituale dell’orientatio, nella cultura contemporanea vive un’esperienza completamente differente poiché accade che «nella condizione moderna di abitanti, il perdersi abbia solo un valore di atto mancato, al pari di una gaffe. Viene vissuto come un atto di distrazione, un errore»36 o ancora, aggiunge La Cecla, «è una condizione di alienazione»,37 poiché adesso non importa il «qui» in cui ci si radica nello spazio quanto piuttosto le relazioni che si istituiscono e i nodi che si formano nel tessuto interpersonale e nella rete della modernità – soli in una stanza ma connessi con l’infinità delle possibilità.

Il viaggio allora, in particolare quello in luoghi distanti ed «esotici», diventa il tentativo di esperire un contrasto e uno scarto tra il paesaggio interiore e quello esteriore. Non più uno spontaneo smarrimento con l’intorno, ma una sua forzatura e ricerca. Se un primo approccio per esperirne la forza può prevedere la modificazione dell’interiore attraverso l’alterazione forzata delle sue coordinate – come, ad esempio, negli stati di coscienza non ordinari –, è solo attraverso l’incontro con un esteriore completamente diverso da ciò che ha strutturato e permesso l’interiore individuale attraverso un’interiorizzazione dei suoi tratti, che se ne può vivere e assaporare appieno l’intensità. Il viaggio esotico, il viaggio in posti distanti, ne diventa il mezzo privilegiato. Tutta questa attenzione contemporanea al viaggio «ha trasformato il perdersi in un bene di mercato sottoposto alle leggi dell’economia dell’illusione».38

4. La necessità del perdersi a se stessi

Quando non guidati da una decisa volontà di perdersi, o dove non la si ammetta, si farcisce l’idea del viaggio, dello spostamento in posti lontani, con uno spirito d’esplorazione attuabile anche e soprattutto nell’incontro con l’altro. L’esperienza dello spostamento allora sarebbe giustificata da un’esperienza d’incontro, primariamente antropologica, dell’altro. La Cecla, cita alcune parole attribuite a Socrate su «un tale che non si era affatto emendato nel corso del suo viaggio»,39 su cui Socrate disse: «Lo credo, si è portato con sé».40 Già Montaigne, nel capitolo Della solitudine dei suoi Saggi,41 riprendeva lo stesso esempio del tale non emendato (amendé) e aggiungeva che «se in primo luogo non liberiamo (décharge) noi stessi e la nostra anima dal peso che l’opprime, il movimento la schiaccerà ancora di più».42 Ovvero «non basta l’essersi allontanati dalla gente, non basta cambiar luogo, bisogna allontanarsi dalle inclinazioni comuni che esistono in noi: bisogna sequestrarsi e isolarsi da se stessi (r’avoir de soi)».43 Poiché «portarsi con sé significa colonizzare con la nostra presenza ogni passo del nostro viaggio».44 Così non si è mai soli: vi è sempre il proprio bagaglio da srotolare ovunque con cui colonizzare e imporre il proprio ordine all’incontro, che non è più un incontro quanto una sua mancanza. È così che «non ci si può più perdere perché i luoghi vengono divorati dall’ordine che ci siamo portati appresso, ad essi non viene concesso di essere località con cui interagire».45 Ciò che viene a mancare è l’interazione, nell’importare ovunque gli strascichi delle abitudini ciò che si disinstalla è il senso del viaggio come incontro. Così la località è conosciuta come posizione nella mappa ma non come possibilità d’esperienza e d’interazione. Non si è mai soli ma sempre parte di una rete colonizzatrice dello spazio.

Il tentativo di perdersi nel ritrovarsi in un esteriore imprevedibile è anch’esso messo fuori gioco dall’organizzazione minuziosa delle agenzie e dalla presenza di guide esperte conoscitrici dei luoghi e obbligate alla reiterazione di percorsi, volta all’eliminazione della scoperta e della perdizione. Infatti il «viaggiatore stesso, per quanto carico di stupore possa essere, può solo far finta di perdersi».46 Lo spaesamento che dovrebbe essere indotto dal viaggio viene attutito e ridotto a nulla.47 Questa impossibilità del perdersi assume un significato preciso per l’uomo attuale e l’era contemporanea dei viaggi.

Vedere cose diverse, ecco l’equivoco che spesso attraversa l’incontro del turista con un mondo lontano dal suo. […] Si tratta di evidenti messe in scena dell’esotico, di costruzioni teatrali dove i luoghi visitati finiscono per diventare dei semplici fondali e i loro abitanti, al massimo, delle comparse di seconda fila. Ci sono però altre forme di turismo, che si pongono in alternativa ai modelli di massa, e che stanno tentando, per voce di associazioni, organizzazioni non governative ed enti vari, di proporre un tipo diverso di incontro con l’altro. Il turismo che si definisce «responsabile, etico, sostenibile», ha dato vita a nuovi immaginari, a «esotismi» diversi, che spostano il turismo dalla sua tradizionale dimensione di svago a quella dell’esperienza. […] L’incontro, promesso dagli operatori e desiderato dai viaggiatori, finisce spesso per essere viziato o interrotto da equivoci, incomprensioni, e dalle aspettative precostruite con cui noi di solito viaggiamo.48

Il viaggio, lo spostamento e l’incontro si trovano falsati da dinamiche che ne costruiscono le condizioni di possibilità. Attraverso la diffusione pubblicitaria, ad esempio, si viene a sapere dell’esistenza di luoghi ma, al contempo, della loro inesistenza. Ciò che ne deriva è l’impossibilità dell’incontro.

5. L’incontro mancato: un esempio antropologico

Chi viaggia non si sposta solo con abiti, guide e medicine, ma il suo bagaglio «contiene anzitutto le sue incertezze, le sue paure, la sua visione del luogo e delle persone che sta per incontrare».49 Un esempio quanto mai eccellente dell’intreccio tra mancato incontro e costruzione dell’immaginario che affetta il pre-viaggio grazie a chi ne perpetua le dinamiche nel post-viaggio, ovvero il rientro, è rappresentato da quanto è successo con la catena montuosa dell’Himalaya e, in particolare, nel Monte Everest e gli sherpa. Gli sherpa sono una popolazione nepalese di origine tibetana la quale, abituata al freddo e alla resistenza fisica, è divenuta, dopo la spedizione in vetta del 1953, sinonimo di guide alpinistiche ed è stata vittima di un’«identificazione del mestiere di portatore con l’appartenenza etnica».50 L’interesse economico per queste figure guida che ne seguì portò cambiamenti non indifferenti. Un abitante del Nepal ha un reddito annuo di circa 1.400 euro, uno sherpa che lavora come guida può guadagnare cinque volte tanto.51 Questo ha significato una rivalutazione economico-culturale della popolazione.

In una prima fase i giovani tendevano a investire il denaro in beni o azioni che facessero loro acquistare prestigio all’interno della comunità. […] Con il passare degli anni la tradizionale economia, fondata essenzialmente su un’agricoltura e un allevamento di autosussistenza e su un commercio basato sul baratto, ha progressivamente perso terreno in favore di quella monetaria.52

La richiesta e i guadagni connessi hanno portato prima di tutto a un interesse manifestatosi da parte dei giovani che «abbandonano l’agricoltura per tentare questa nuova via, meno faticosa e più redditizia»53 e in secondo luogo a un’esportazione dell’immagine della guida sherpa e delle sue competenze all’estero fino al punto che «in numerose località alpinistiche di tutto il mondo possiamo incontrare guide sherpa»54 e, ovviamente, ciò ha dato il via «a un esodo verso la capitale e altre grandi città del Nepal e dell’india soprattutto da parte dei giovani»55 i quali ormai gestiscono l’economia sherpa, un tempo in mano solo agli anziani. Ciò che è rilevante non è tanto la questione del reinventare l’immagine di una popolazione e della sua cultura, né tantomeno il decidere di commercializzare competenze e prodotti, e performances, propri della cultura di appartenenza.56 Quanto, piuttosto, l’impossibilità dell’incontro. L’aspettativa che il viaggiatore si forma per l’Everest costituisce un’identità della popolazione che, pur descrivendoli in parte, non è loro – anche se poi decideranno essere l’identità. La coincidenza tra popolazione e mestiere di portatore viene accolta, ma tale identità tra opposti ha conseguenze disastrose per la visione propria degli sherpa, proprio perché la conoscenza dei luoghi non aveva mai significato per loro alcuna violazione degli spazi. Chi raggiunge la vetta ha violato gli dèi, poiché nella «tradizione religiosa sherpa le montagne sono considerate delle divinità»,57 ma «oggi sono molti gli sherpa che sfidano gli déi per denaro».58

Il nodo paradossale che forma quest’esperienza intreccia l’impossibilità di incontrare la cultura, ormai modificata, verso cui si chiede aiuto per il gioco dell’alpinismo ad, appunto, un suo eccessivo contatto costituito dalla modificazione della stessa. Come un grande principio di indeterminazione – o d’indeterminatezza (Unschärfeprinzip, Unbestimmtheitsrelation) – la cultura sherpa nel momento in cui la si incontra è già modificata. Nell’intreccio che costituisce questo incontro mancato ci si trova immersi nei liquidi fangosi di una paradossale incapacità: non usare gli sherpa significherebbe non sfruttarli e non metterli a rischiare la vita in azioni che gli occidentali relegano a loro, ma, al contempo, significherebbe rovinare la loro recente economia venutasi a costruire su questo. A questo legato vi è un altro immenso problema, oltre allo sfruttamento delle risorse delle popolazioni, ed è quello dei rifiuti. «È stato calcolato che tra il 1994 e il 1999 sono state lasciate 9,4 tonnellate di rifiuti».59 Non solo di materiale d’alpinismo e delle basi necessarie per le imprese ma anche di un’altra forma meno evidente «quella dei trekker che utilizzano in abbondanza fazzoletti di carta, salviette rinfrescanti e carta igienica»,60 questo non crea problemi solo per il tempo necessario per lo smaltimento naturale ma poiché «creano un ulteriore discrimine tra il turista e il nativo […] laddove la gente dei villaggi utilizza l’acqua per la pulizia del corpo».61

La cultura sherpa è egemonizzata da una cultura altra che l’ha posta in una condizione di subalternità,62 ovvero «questi gruppi hanno fatto proprie categorie create per loro da altri».63 Questa strutturazione dell’immaginario si perpetua grazie alle dinamiche proprie della fotografia. Le foto e le immagini del luogo sono i primi strumenti per «conoscere» l’alterità che viene, attraverso questi, formata. Il turista non solo è mosso da tali immagini ma ne diviene dispensatore e produttore, «quelle immagini non solo danno forma al viaggio, nel senso che diventano la ragione per fermarsi a scattare fotografie, ma contribuiscono a perpetuare il modello stereotipato che già aveva indotto al viaggio».64 La fotografia come documentazione del viaggio effettuato è il sostituto moderno del racconto, del resoconto. Quanto già Montaigne diceva con chiarezza unica: «Nessun piacere ha gusto per me se non posso comunicarlo (nul plaisir n’a goût pour moi sans communication)»,65 e, aggiunge Pascal «segno della stima che l’uomo ha dell’uomo»,66 si allarga all’esperienza che diviene tale se condivisa, se mostrata. Anzi, la fotografia «non è solo un mezzo per rievocare esperienze vissute, […] l’essere stati là fa parte di una sorta di processo di iniziazione e la foto ne diventa la prova, che legittima chi l’ha scattata nel suo status di viaggiatore».67 Il viaggio in solitario è attraversato in ogni sua tappa dallo spirito di condivisione che ne seguirà o che, addirittura, può accompagnarlo passo dopo passo grazie all’uso dei social networks. Ma la fotografia alimenta attivamente la logica dell’inautenticità dell’incontro. «Il fotografo oggettiva la soggettività dell’altro, catturandone ed evidenziandone una caratteristica rilevante. L’insistenza dei turisti nel fotografare determinati individui, abbigliati in un certo modo, in particolari pose, finisce poi per influenzare il comportamento dei nativi»,68 creando una rappresentazione apposita che si manifesta, in presenza dei turisti, con l’evitare di mettere certi indumenti, come le scarpe o l’orologio, per ricreare le aspettative che il turista si è creato. E il risultato è l’espressione del paradosso dell’incontro: ciò che è autentico è «non tradizionale» e ciò che è inautentico è «tradizionale». Vedere agire la popolazione come farebbe nel backstage della rappresentazione risulterebbe non tradizionale. Eppure negli intrecci di problemi che il turismo solleva la concettualizzazione dell’autenticità si scontra con la realtà: «rappresentata o meno, la pratica di spettacolarizzare la propria tradizione è autentica in quanto esiste».69

6. Conclusioni

La condizione di solitudine dalle proprie mappe, dai bagagli-aspettative e un riconoscere tale condizione affrancandola dalle false costruzioni di cui sono schiave le seppur attente agenzie contemporanee, può consentire di accedere alla dimensione del viaggio e farne esperienza vera. Assaporare la situazione per cui si può essere pellegrini, essere stranieri un po’ al luogo visitato e un po’ a noi stessi, soli con noi stessi, capaci di «isolarsi da se stessi» e non fuggenti da tale solitudine ma piuttosto esternandola nell’incontro, allora, solo allora, riconosceremmo il senso dello spostamento, ovvero «rappresentare la condizione terrestre provvisoria, l’impossibilità di imporre l’ordine di un nostro insediamento al generale ordine delle cose»,70 e così abbandonare la mappa e lo srotolamento dell’orientamento che ci contraddistingue. È adesso che il movimento «attraversa i confini del conosciuto, si lascia dietro le spalle le mura della città o i recinti del villaggio, si sporge costantemente all’esterno in una condizione di apertura e al tempo stesso fragilità».71 Il pellegrino è distaccato da ciò che ha costituito il suo naturale paesaggio interiore e la sua identità. E il suo essere pellegrino, che non può che essere per definizione una nuova identità, è strutturato dal distacco e dal passaggio, dal trascorrere. Egli, veramente, si è perso a se stesso. E non acquisisce altro finché è in movimento se non l’essere straniero: l’essere costantemente straniero. Quello straniero come lo intendeva Simmel, ovvero «qualcuno che pur vivendo nel mondo ha la capacità di non appartenervi mai interamente, e di guardarlo ogni volta come se fosse la prima. Uno sguardo dotato di una curiosità straordinaria, e della capacità di rintracciare analogie, connessioni e rispondenze tra i fenomeni all’apparenza più diversi».72 Una curiosità persa a se stessa in cui l’uomo, nel suo transitare, si modifica interiorizzando ciò che costituisce il rapporto d’incontro, «è il movimento, il passaggio cosciente da un luogo all’altro, a modificare la percezione del viaggiatore, così come ne modifica identità e carattere».73 La dimensione del tra, che è la dimensione dell’incontro e il senso del vagare, viene a mancare se proiettati nella destinazione, nella meta, senza considerare il movimento tra le parti. Il senso, piuttosto, si manifesterà quando e se l’attenzione viene posta nel rientro, si dovrebbe tornare stranieri.74 Se l’uomo che può viaggiare e incontrare l’altro è colui che si è isolato dagli altri e da se stesso, che si è perso, allora l’uomo che si isola non è solo, ma sempre legato alle proprie mappe e coordinate. Per questo la solitudine non va ricercata ma voluta. Con la vera solitudine come un perdersi a se stessi, un isolamento dalle mappe che ci costituiscono, ha senso il viaggio, l’incontro, e il starsene soli. Questi gli intrecci apparente paradossali ma che creano il tessuto esperienziale di cui siamo fatti.


  1. Fabrizio De André, Elogio della solitudine, presentazione live dell’album «Anime salve» confluito poi nell’album «Ed avevamo gli occhi troppo belli» (trascrizione mia). ↩︎

  2. Si veda Jon Krakauer, Into the Wild, Villard, New York 1996; tr. it. di Laura Ferrari e Sabrina Zung, Nelle terre estreme, Corbaccio, Milano 2012, pp. 102 sgg. ↩︎

  3. Ivi, p. 103. ↩︎

  4. Ivi, pp. 101-102. ↩︎

  5. Ivi, p. 103. ↩︎

  6. Ivi, p. 104. ↩︎

  7. Ibidem. ↩︎

  8. Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 23. ↩︎

  9. Ibidem. ↩︎

  10. Ivi, p. 22. ↩︎

  11. Ivi, p. 23. ↩︎

  12. Giorgio Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, p. 19. ↩︎

  13. Cfr. Mircea Eliade, Histoire des croyances et des idées religieuses, Payot, Paris 1975; tr. it. di Maria Anna Massimello e Giulio Schiavoni, Storia delle credenze e delle idee religiose. Volume I: Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Sansoni, Firenze 1979, p. 13. ↩︎

  14. Ibidem. ↩︎

  15. Ibidem. ↩︎

  16. Maurice Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Éditions Gallimard, Paris 1945, si veda https://it.wikipedia.org/wiki/Gallimard; tr. it. a cura di Andrea Bonomi, https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Bonomi_(filosofo), Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 383. ↩︎

  17. Si veda D. Ihde, Listening and Voice: Phenomenologies of Sound, State University of New York Press 2007. ↩︎

  18. Gaston Bachelard, La poétique de l’espace, Presses Universitaires de France, Paris 1957; tr. it. di Ettore Catalano, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 1975, p. 59. ↩︎

  19. Franco La Cecla, Perdersi, cit., p. 96. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. Ivi, p. 89. ↩︎

  22. ibidem. ↩︎

  23. Ibidem. ↩︎

  24. Ibidem. ↩︎

  25. Si veda Jakob von Uexküll, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen: Ein Bilderbuch unsichtbarer Welten, Verstandliche Wissenschaft, Einundzwanzigster Band, Verlag von Julius Springer, Berlin 1934; tr. it. di Marco Mazzeo, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata 2010. ↩︎

  26. Franco La Cecla, Perdersi, cit., p. 92. ↩︎

  27. Ivi, p. 94. ↩︎

  28. Ibidem. ↩︎

  29. Ibidem. ↩︎

  30. Si veda ivi, pp. 88 sgg. Per la facoltà umana dell’abitare cfr. pp. 76-77. ↩︎

  31. Ivi, p. 26. ↩︎

  32. Ivi, p. 27. ↩︎

  33. Ibidem. ↩︎

  34. Ibidem. ↩︎

  35. Ibidem. ↩︎

  36. Franco La Cecla, Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano 2011, p. 39. ↩︎

  37. Ibidem. ↩︎

  38. Franco La Cecla, Perdersi, cit., p. 27. ↩︎

  39. Ivi, p. 28. ↩︎

  40. Ibidem. ↩︎

  41. Michel de Montaigne, Essais, Présentation, établissement du texte, apparat critique et notes par André Tournon, Imprimerie Nationale, Paris 1998; tr. it. di Fausta Garavini, Saggi, Bompiani, Milano 2012, libro I, capitolo XXXIX, pp. 425-447. ↩︎

  42. Ivi, p. 429. ↩︎

  43. Ibidem. ↩︎

  44. Franco La Cecla, Perdersi, cit., p. 28. ↩︎

  45. Ibidem. ↩︎

  46. Ibidem. ↩︎

  47. Si veda Marco Aime, L’incontro mancato. Tristi, nativi, immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2005, pp. 145-146. ↩︎

  48. Ivi, pp. 10-11. ↩︎

  49. Ivi, p. 11. ↩︎

  50. Ivi, p. 27. ↩︎

  51. Cfr. ivi, p. 29. ↩︎

  52. Ibidem. ↩︎

  53. Ivi, p. 32. ↩︎

  54. Ibidem. ↩︎

  55. Ibidem. ↩︎

  56. Questo, ovviamente, stupirebbe solo chi avesse un’idea di cultura come statica e immutabile. I coniugi Comaroff, ad esempio, si sono dedicati ampiamente alla commercializzazione della cultura da parte dei membri attivi della stessa si veda John L. Comaroff e Jean Comaroff, Ethnicity, Inc., The University of Chicago Press, Chicago-London 2009. ↩︎

  57. Marco Aime, L’incontro mancato, cit., p. 30. ↩︎

  58. Ivi, p. 31. ↩︎

  59. Ivi, p. 35. ↩︎

  60. Ibidem. ↩︎

  61. Ibidem. ↩︎

  62. L’analisi gramsciana di culture subalterne ed egemoniche è ben analizzata da Alberto Mario Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna di studi sul mondo popolare tradizionale, Palumbo, Palermo 2001. ↩︎

  63. Marco Aime, L’incontro mancato, cit., p. 89. ↩︎

  64. Ivi, p. 93. ↩︎

  65. Michel de Montaigne, Saggi, cit., p. 1833, libro III, capitolo IX, Della vanità, pp. 1753-1863. ↩︎

  66. Blaise Pascal, Pensées, in Oeuvres complètes, texte établi, présenté et annoté par Jacques Chevalier, Bibliothèque de la Pléiade, Éditions Gallimard, Paris 1954; tr. it. di Adriano Bausola e Remo Tapella, Pensieri, Bompiani, Milano 2017, pensiero inedito IX, p. 473. ↩︎

  67. Marco Aime, L’incontro mancato, cit., p. 169. ↩︎

  68. Ivi, p. 93. ↩︎

  69. Ivi, p. 126. ↩︎

  70. Franco La Cecla, Perdersi, cit., p. 28. ↩︎

  71. Ibidem. ↩︎

  72. Paolo Jedlowski, Introduzione a Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, tr. it. di Paolo Jedlowski e Renate Siebert, Armando Editore, Roma 2011, p. 11.; ed. or. Die Großstädte und das Geistleben, in Brücke und Tür, hrsg. von M. Landmann und M. Susman, K.F. Koehler Verlag, Stuttdart 1957 (1903). ↩︎

  73. Marco Aime, L’incontro mancato, cit., p. 141. ↩︎

  74. Si veda ivi, pp. 170-172. ↩︎