1. Sospensione all’ascolto
Quando Husserl parla dell’epochè ci mette subito in guardia dall’assimilarla con ciò che essa non è. Questa esigenza definitoria è comprensibile all’interno di una storia della filosofia che della sospensione del giudizio ha fatto un baluardo della sospensione della ricerca, dell’indagine sul reale e, quindi, in definitiva, portatrice di un certo scetticismo. «Facendo questo, come è in mia piena libertà di farlo, io non nego questo “mondo”, quasi fossi un sofista, non metto in dubbio la sua esistenza, quasi fossi uno scettico»,1 scrive Husserl. Non vi sono, quindi, adesioni allo scetticismo, non è scettico (Skeptiker) chi agisce così; non si tratta neanche di solipsismo o discorsi da sofista (Sophist) che mirano a bloccare la ricerca. Quello che avviene è semplice sospensione del giudizio. Il mondo (Welt) c’è. Non metto in dubbio la sua esistenza (ich bezweifle ihr Dasein nicht), ma, piuttosto, «esercito l’epochè “fenomenologica”».2 L’esercitare (üben) è il verbo chiave per la fenomenologia – e in particolar modo per una fenomenologia dell’ascolto. Il mettere tra parentesi (einklammern) è un metodo (Methode der Einklammerung), è un ridurre (reduzieren), che è sottrarre qualcosa. È, per dirla con Merleau-Ponty, un ritrovare lo stupore che abbiamo disimparato ad avvertire.3 Il metodo, la pratica dell’epochè, quindi l’esercizio, è qualcosa di ben preciso. Allora «[…] tutto il trascendente (ciò che non mi è immanentemente dato) va provvisto di un indice di nullità, cioè la sua esistenza, la sua validità, non va posta come tale ma, al più, come fenomeno di validità».4 Ciò che non è immanentemente dato (immanent Gegebene) va posto, fissato (ansetzen) come fenomeno di validità (Geltungsphänomen). L’indagine, quindi, si limita a ciò che è dato immanentemente: la base è l’immediato. Nella percezione, pertanto, ciò che sentiamo direttamente e non il contesto – o una ri-costruzione dell’ascolto attuato – si propongono come ambito d’indagine. Il discorso così delineabile non è estraneo allo stesso Husserl, non solo in quanto, come vedremo, molta della fenomenologia da lui discendente si è dedicata all’ascolto, ma anche perché è lo stesso Husserl che ne riporta numerosi esempi.5
Effettivamente oltre che in Erfahrung und Urteil, dove, nel presentare la presa eidetica attuabile nell’ascolto, parla di unità che si coglie nel fluire della percezione,6 Husserl fa esempi sul e con il suono. «Con» perché lo scopo è tutt’altro (ad esempio descrivere l’invariante nelle variazioni) e «sul» quando, piuttosto, sembra dedicarsi ad una filosofia del suono propriamente detta. Ciò che si deve fare è il dirigersi al suono come cosa immanente dove «il contenuto fisico “suono” è presente nella percezione fenomenologica ridotta come “cosa” immanente».7 Ecco, allora, che il suono (Ton) mostra un contenuto fisico (physische Inhalt) che nella percezione fenomenologica ridotta (in der reduzierten phänomenologischen Wahrnehmung) è presente come cosa immanente (immanentes Ding).
Questa, l’operazione che attua un’epochè dell’ascolto. Ridurre il suono a ciò che è puramente immanente. Il suono che si presenta nella sua immediatezza va accolto per far emergere l’esperienza con stupore.8
2. Un esempio acusmatico
Pierre Schaeffer ci consegna esempi che, emergenti da una pratica effettiva e concreta, possono costituire valide prove all’epochè fenomenologica nell’ascolto. Il padre della musique concrète nel Traité des objets musicaux parla di ascolto ridotto (écoute réduit),9 riprendendo proprio la terminologia fenomenologica. L’oggetto sonoro (objet sonore) è intenzionato in modo del tutto particolare e ciò che ne deriva è un ascolto che toglie il contesto per estrapolarne le caratteristiche proprie. L’objet sonore «è definito come il correlato dell’ascolto ridotto: non esiste in sé […]. È un’unità sonora percepita nella sua materia, sua consistenza propria, sue qualità e sue dimensioni percettive proprie».10 Schaeffer nello specifico ci parla di musica acusmatica e della sua attualità (actualité d’une expérience ancienne).11 Nell’esperienza acusmatica ciò che sentiamo è puro suono, puro nel modo in cui è suono decontestualizzato. Il termine indica un udire senza vederne le cause produttive. In particolare rimanda agli allievi di Pitagora che si dice assistessero alle lezioni senza poter vedere il maestro a causa di un velo che lo avrebbe coperto. Il suono, allora, diviene «semplice suono»: è suono così percepito. Il discrimine sta proprio nell’aggettivo percepito. È l’atto dell’ascoltatore che mira ad un particolare recepire, che, ricercando le consistenze proprie del suono, mette in gioco una ricerca auditiva che metta tra parentesi (entre parenthèses) il contesto. Per Schaeffer, quindi, la riduzione fenomenologica si può attuare nell’ascolto nel modo in cui eliminiamo il contesto.
I suoni che incontriamo nel quotidiano sono suoni con una loro consistenza percettiva e fisica, la voce del canto è suono e tutti i suoni che udiamo durante l’esecuzione di una sinfonia nella loro immanenza sono suoni.12 Quando però li ascoltiamo sospendendo le relazioni abituali, ciò che ci resta è l’ascolto ridotto o, potremmo dire, un’epochè auditiva. Molti autori hanno descritto la differenza tra ascolto musicale e ascolto quotidiano – quindi, in definitiva, tra suoni e rumori13 – proprio in virtù di questa relazione. L’ascolto che mette fuori gioco, realmente, le cause, ovvero definibile come un ascolto iconico, in cui le componenti contestuali della produzione sonora sono ridotte al minimo e l’attenzione è rivolta specificatamente al suono, dove, ancora, questa permette di estrapolare l’oggetto sonoro dalle relazioni indicali e semantiche, quindi dal suo contesto di significato – che si contrappone a quello indicale, che, di contro, ricerca e include le cause14 – è attuabile anche nei contesti ordinari. In quelli che consideriamo rumori o suoni non significanti possiamo concentrarci sulle proprietà percettive proprie ed è lì che si innesca un tipo di ascolto che distoglie, mette fuori gioco e disinstalla l’ordinario per far emergere l’esperienza del suono ridotto a «cosa immanente».
3. Fenomenologia contemporanea: ascolto disinteressato e distrazioni
Quando ci sediamo e ascoltiamo un brano musicale ci concentriamo diversamente da quanto avviene quando sentiamo rumori e suoni ordinari. Questo è quello che, seppure con differenze, sostengono Don Ihde e Mikel Dufrenne. Quest’ultimo ne L’occhio e l’orecchio15 rielabora una fenomenologia del corpo come, in definitiva, rivolta ad un a priori materiale. L’analisi culmina in una fenomenologia della carne (chair), che è anche carne sonora.16 Dufrenne nel distinguere tra suoni e rumori introduce una tipologia d’ascolto particolare: l’ascolto disinteressato.17 Se una differenza tra suoni e rumori c’è la si può rintracciare nel modo in cui sono dati al soggetto e, quindi, in cui li si ascolta. «Il rumore, infatti, ci allerta e ci spinge, di solito, a scoprire la sua sorgente e a comprendere il suo messaggio: il brontolio del tuono è l’annuncio della tempesta, il colpo di fischietto è un vigile che mi intima di fermarmi, il grido è un uomo in pericolo, lo posso aiutare?».18 Il rumore ha un rapporto diretto con l’oggetto dal quale «si stacca» giungendomi e parlandomi dell’oggetto – o, in aggiunta, dell’evento – dal quale è sorto. Ma i suoni? Ecco la questione sembrerebbe del tutto diversa per i suoni. «Per esperire la carne del sonoro è necessario abbandonare per un momento la posizione di un soggetto che si pone opponendosi a un ambiente al quale reagisce, che è attento al suono solo per l’informazione che ne riceve».19 Dufrenne utilizza ancora i termini chiave per una semiotica musicale a cui prima accennavamo. Il rumore mantiene un rapporto indicale nel modo in cui è portatore d’informazione. Questo ci parla e ci comunica informazioni, ovvero ha una relazione con il contesto di significato. Dall’altra parte, invece, «è necessario che l’ascolto rinunci a rinviare il suono alla sua sorgente o, almeno, che la sorgente non gli sia presente se non per il fatto di dare corpo al suono».20 L’ascolto disinteressato lo è in virtù del non interesse che riceve il contesto semantico. «Dare corpo al suono» rimanda all’intenzione percettiva delle qualità proprie che il suono presenterebbe e che – per quest’impostazione – l’ordinario rapporto tra oggetti ci nasconderebbe nel modo in cui ci distrarrebbe dal suono in sé. L’ascolto del suono si focalizza su questo e sulla sorgente, in quanto questa può dare corpo al suono, «e non perché mediante il suono essa lanci un messaggio, in modo che la sua presenza non nasconda la presenza del suono, che viene allora afferrato e ascoltato per se stesso».21 Possiamo attuare un ascolto così definito in modo ordinario ma per Dufrenne, come dicevamo, questo è mediato dai suoni – come contrapposti ai rumori – e, pertanto, dalla musica. «Per ottenere questa conversione dell’ascolto sembra proprio che la mediazione della musica sia indispensabile. Essa dispone a un ascolto disinteressato dei suoni prodotti artificialmente, la cui sola ragion d’essere sta nell’essere ascoltati».22 Pertanto la distinzione qui sembra risiedere nella differenza propria dell’oggetto (suono o rumore) e del soggetto che presta ascolto. Eppure anche i rumori possono essere inseriti in progetti che definiremmo musicali. Dufrenne lo riconosce e se, quindi «la musica oggi integra i rumori»,23 questo significa che «il rumore può essere promosso alla dignità del suono nella misura in cui sia chiamato a inserirsi tra i suoni»24 e, di conseguenza, è plausibile anche che «il suono può essere restituito alla sua natura di rumore nella misura in cui sia destrutturato».25 Questo risulta di estremo interesse in virtù del fatto che Dufrenne costituisce un quadro fenomenologico in cui l’esperienza del movimento dallo status di suono a quello di rumore è data, sì ad una modalità percettiva, ma in virtù delle modificazioni proprie dell’oggetto che vanno a comporre, così, un risultato differente.26 Questa possibilità di oscillamento si pone come primaria in una fenomenologia del corpo che voglia ridestare il ruolo assopito della carne. Effettivamente per Dufrenne la sinestesia si pone come fondamento percettivo nel modo in cui essa è esperienza ontologica e non soggettiva o psicologista.27 Tuttavia, per quanto una fenomenologia della carne debba divenire un’ontologia della carne, alla fine l’ambito sinestetico a cui ci si appellerebbe resta un ambito enigmatico che Dufrenne definisce come possibile e virtuale. Tattile e sonoro, ad esempio, si uniscono al visivo in quanto virtuali, senza, quindi, essere sentiti o visualizzati. Questo è ciò che è sufficiente affinché vi siano sinestesie.28 L’ambito del virtuale, del possibile, determina il luogo d’incontro dei sensi che in definitiva è un luogo del richiamo tra i sensi.29 Non è solo una fenomenologia francese a darci spunti in questa direzione ma, piuttosto, la situazione si complica e stringe intorno al nucleo che si sta delineando, se puntiamo l’attenzione verso quella americana. Don Ihde30 propone tesi simili. Nel delineare una tipologia di ascolto come stiamo cercando di evidenziare, tacitamente distingue tra suoni e rumori proprio come Dufrenne. È vero che l’autore francese aveva letto Ihde – in particolare nella prima edizione del testo qui in esame – ma non si può parlare di semplice influenza quanto, piuttosto, prospettive diverse su una struttura di senso che basa lo stesso metodo. Ihde si rivolge all’ascolto confrontandosi con le metafore spaziali, così come sono combattute nel corso del libro. Quello che emerge è una differenza tra la musica come organizzazione di suoni di fronte alla quale l’ascoltatore perde l’interesse spaziale – il ricondurli alla fonte – e l’uso quotidiano che invece consiste in ricezione e identificazione delle fonti sonore.31 L’ascolto però non si distinguerebbe solo per una postura auditiva del soggetto. Quello che emerge – rafforzando la differenza tra ascolto musicale e everyday life – è un’ontologia del sonoro. Come per Dufrenne non è solo il rapporto soggetto-oggetto a determinare la tipologia d’ascolto, dove il suono intenzionato costituisce l’ascolto – e, quindi, le differenze tra ascolti. Al contrario è anche la direzione oggetto-soggetto che mette in funzione la pratica d’ascolto. Il termine «pratica» forse è fuorviante in quanto rimanderebbe, apparentemente, alla prospettiva del soggetto da cui risulterebbe una praxis oggettualizzante. Invece ciò che emerge con forza è il darsi dell’oggetto, quella Selbstgegebenheit a cui si può «solo» rispondere. Ma ambedue si spingono oltre arrivando ad un’ontologia dell’uditivo. Suoni e rumori sono intrinsecamente diversi e, rispettivamente, lo sono anche i relativi ascolti.
La musica richiede un ascolto attento e immersivo. Questo significa completo assorbimento ma anche fragilità (fragility). La fragilità della musica risiede proprio qui: l’ascolto può essere distratto da rumori o suoni inattesi;32 di contro i suoni quotidiani – e i rumori – sono impiegati per usi vari e, quindi, hanno una loro praticità. Ora l’esempio della musica concreta, in quest’ottica, non sembrerebbe trovare vita, come, invece, abbiamo visto con Dufrenne. Essa non sarebbe musica. Siamo in queste pagine in cui vi è una vera e propria «metafisica della musica». Il rumore è ciò che distrae dall’ascolto. Non è l’intenzione e l’«organizzazione del suono» che costituiscono la musica ma una loro natura che potrà essere giustificata in criteri di tono, timbro e volume. Se il rumore distrae il nostro ascolto della nona sinfonia, davanti ad una composizione concreta saranno alcuni rumori interni a distrarci? saranno, invece, quelli esterni oppure verranno creativamente inseriti nella composizione una volta compresa la tipologia di esecuzione? Potremmo piuttosto parlare di una fenomenologia della distrazione come modo di dis-articolare l’ascolto musicale. L’ascolto musicale sospende l’ordinario dove, però, quest’ultimo può fare irruzione – sia nel modo in cui un suono avviene e ci distrae inderogabilmente in virtù della global presence of sound, sia nel modo in cui rivolgiamo l’attenzione ad un particolare che distoglie il focus sulla presa fluente del melodico – e, così, riprendere posto. Questo porta a parlare di fragilità del musicale. Possiamo tuttavia godere degli aspetti propriamente musicali del circostante in modo da costituire l’ascolto musicale. Ovviamente questa lettura porta alla scoperta della vasta sonorità del mondo, e, allora, in questo senso vi è una sospensione dell’atteggiamento naturale. Ihde poi, in linea con una ricerca sulle tecnologie, parla dell’ascolto in cuffia in cui il soggetto si isolerebbe. Effettivamente l’indagine sulle tecnologie riproduttive cerca di garantire un ascolto sempre più privo di rumori esterni e, quindi, cerca di far fronte alla fragilità della musica, procurando, intorno, un relativo silenzio.33 Anche Heidegger differenzia gli ascolti ribadendo che il suono ci parla della cosa a cui è, inevitabilmente, legato. La cosa, quindi, si presenta facilmente attraverso i sensi. Non sentiamo il rumore che ci giunge come oggetto sonoro proprio ma, piuttosto, come legato a qualcos’altro. Heidegger critica alcune impostazioni per le quali la cosa è ciò cui alcune proprietà rimandano: la sostanza degli accidenti. La sostanza, allora, come usato dal pensiero greco in avanti, si riferisce a ciò che «sta sotto». Il greco hypokéimenon, tradotto dal latino substantia, indica, appunto, ciò che sta sotto. Possiamo, inoltre, argomentare nei confronti della cosa come «l’unità d’un molteplice di dati sensibili».34 Però la «pretesa, infatti, che nella manifestazione delle cose noi incominciamo col percepire [vernehmen], innanzitutto e propriamente, un presentarsi di sensazioni – ad esempio di suoni e di rumori – è priva di fondamento. Ciò che udiamo [hören] è la tempesta che sibila nel camino, il rombo del trimotore, la Mercedes nella sua evidente diversità dalla Adler. Ciò che ci è più vicino non sono le sensazioni [Empfindungen], ma le cose stesse [Dinge selbst]. In casa udiamo sbattere la porta, e non udiamo mai sensazioni acustiche o anche solo semplici rumori».35 La cosa risiede in se stessa e noi vi accediamo. Possiamo parlare di un’unione di materia (Stoff) e forma (Form), ma Heidegger ci mette in guardia anche da questa concezione della cosa come «materia formata».36
«Ciò che dobbiamo fare è rivolgerci all’ente [Seienden], pensarlo nel suo essere [Sein], ma in modo tale da lasciarlo riposare da se stesso nella sua essenza [Wesen]».37 Addentrarsi in quest’analisi distoglierebbe l’attenzione dal fil rouge che attraversa pensatori differenti e che si sta delineando. Heidegger ci dice che dobbiamo ascoltare astrattamente per non udire il contesto da cui il suono emerge e di cui ci parla. «Per poter udire un semplice rumore dobbiamo non udire [weghören] le cose, distogliere [abziehen] da loro il nostro orecchio, cioè ascoltare astrattamente [abstrakt hören]».38
Come abbiamo visto la questione di un ascolto interessato alle fonti si contrappone all’ascolto che, lo si chiami musicale o artistico, ricerca le caratteristiche proprie che appartengono allo stesso disattivando, momentaneamente, il contesto di significato.
4. Heidegger e il dibattito sulla fonte
Quello che abbiamo raggiunto con l’ultima tappa del percorso sopra delineato ci ha consegnato un’altra questione di importanza non indifferente. In che modo, allora, sentiamo attraverso i sensi le cose? Prendiamo per esempio la voce. Se qualcuno ci grida in una stanza di piccole dimensioni è probabile che non avremo alcuna difficoltà a sentirlo; se quello stesso suono lo riceviamo immersi nell’acqua o nel mezzo di una tempesta, vedremo che entreranno in gioco altre componenti a cui prima non avevamo dato attenzione. Nel primo caso, nell’acqua, avremo una velocità di propagazione del suono diversa da quella dell’aria, da cui ne consegue una percezione differente. Il mezzo dove il suono viene prodotto o recepito modifica la sua emissione o ricezione. Nel secondo avremo difficoltà nel percepirlo: il forte vento, ad esempio, renderà la ricezione difficile e l’emissione dovrà essere amplificata perché un qualche risultato abbia esito. Pertanto occorre domandarsi dove sia il suono. È nell’oggetto? Nelle orecchie del soggetto che lo ascolta? Oppure nel mezzo di trasmissione, visto che alla radio, sott’acqua o all’aperto avremo risultati diversi? Che cosa veramente sentiamo? Se Heidegger ci ha detto che nel rombare del motore sentiamo direttamente la macchina è interessante notare come egli non venga menzionato quando Di Bona e Santarcangelo ne Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti, propongono tre modalità interpretative per la percezione della fonte sonora.39 La prima è quella diretta, a cui Heidegger sembrerebbe ascrivibile: ciò che sentiamo sono direttamente le fonti sonore. Usiamo i suoni per muoverci quotidianamente, rimandando questi a delle sorgenti ben identificabili. I suoni sono intenzionati diversamente nel modo in cui il vissuto (Erlebnis) costituisce il rapporto intenzionale con essi.
I suoni privi di significato, inoltre, hanno un valore ben differente da quelli ricchi di significato. E questi lo sono in virtù della loro natura: caratteristiche che non gli abbiamo imposto noi originariamente la prima volta che li abbiamo incontrati, ma questo avere o meno significato si è formato e diffuso come una catena, un fondo residuale nella coscienza percipiente, e si perpetua e consolida nel ruolo che continuano ad avere. Prendiamo ad esempio un camion che ci sta raggiungendo ad alta velocità da dietro le nostre spalle. Il forte rumore ci spaventerà e, collegando questo ad un pericolo, saremo portati a spostarci immediatamente. Questo perché abbiamo imparato a riconoscere la relazione rombo del motore-camion e a esperirla come pericolosa.40 Ma non è necessario essere investiti da un camion per comprendere che questo è pericoloso, pertanto non è stato per nostra conoscenza diretta. Le analisi di Heidegger possono essere già ascrivibili ad una filosofia del suono, proprio perché ne condivide il ruolo chiarificatore di quello che quotidianamente diamo per scontato perché, immersi nell’oceano di suoni, abbiamo svalutato.
La posizione decisamente contraria ad Heidegger propone una visione indiretta: ciò che sentiamo sono suoni, poi, in un secondo momento, le fonti sonore. Questa vede le sue radici già in George Berkeley che, per muovere contro il materialismo, sviluppò una teoria della percezione idealista per la quale non ci si può affidare a nulla di concreto per cui – scopo della sua analisi – ci si deve affidare a Dio come unico garante del reale. Egli sosteneva che nell’atto percettivo sia solo il suono a raggiungerci e non un’informazione sull’oggetto a cui rimanderebbe la produzione sonora. L’informazione principale si esaurisce in un suono che, soltanto in un secondo momento, potrà essere ricondotto ad una fonte. Solo grazie all’esperienza che ci ha educati a collegare un suono ad una fonte, e non per il suono stesso, individueremmo la fonte. «Per quanto io senta una varietà di suoni, non si può dire che oda le cause di quei suoni»,41 scrive Berkeley, dove cause, ovviamente sta per fonte sonora. Non è cosa che si possa fare con i sensi poiché «[…] i sensi non percepiscono nulla se non immediatamente, perché non fanno inferenze. Perciò la deduzione di cause […] spetta esclusivamente alla ragione».42 Quindi percepiamo suoni immediatamente mentre le fonti potranno essere rintracciate solo in un secondo momento, e con l’ausilio della ragione. L’analisi di Berkeley muove da uno stretto empirismo: a parte le qualità sensibili non c’è niente di sensibile da percepire direttamente. Solo l’esperienza ci educa a riconoscere le fonti sonore, quello che immediatamente percepiamo sono solo suoni. Posizione simile è quella di Bertrand Russell che nel capitolo quinto della sua opera I problemi della filosofia,43 presenta la distinzione tra conoscenza diretta (knowledge by acquaintance) e conoscenza per descrizione (knowledge by description), dove la prima è quella che investe i sensi e, essendo limitata è preziosissima, la seconda invece è quella che apprendiamo da fonti scritte, narrate e così via. Se essa non esistesse avremmo una conoscenza ampiamente ridotta. Ma se sentiamo un suono ciò che sentiamo è diretto, il suono appunto: ciò che non udiamo direttamente è la fonte, operazione che compiamo in un secondo momento. Suoni e i rumori sono sentiti direttamente, questi, poi, possono essere riferiti ad una fonte. Sia Russell che Berkeley giungono a soluzioni simili.44 Allora, in conclusione, possiamo dire che negare l’esistenza della cosa sarebbe quanto di più assurdo. Ma indagare le strutture di senso che si solidificano nell’atto percettivo è ruolo di una filosofia del suono – e della percezione in particolare. La cosa, come sottolinea l’indagine fenomenologica, non è fatta dalle molteplici percezioni che ne abbiamo, perché per l’appunto le abbiamo noi e ne riconosciamo la variabilità, e ciò, ovviamente, «suggerisce l’idea che la cosa si presenti solo indirettamente nella percezione».45 La cosa non è neanche data dalla mera somma di queste percezioni, quello che succede è ben diverso. Come riconosciamo il suono nel variare del divenire – Husserl parla di «prensione del suono»46 – così siamo diretti alla fonte, all’oggetto da cui è prodotto, come con Heidegger, Ihde e Dufrenne è emerso, e se volessimo mettere fuori gioco questa ordinarietà dovremmo attuare quell’ascolto preciso che ne metta tra parentesi il contesto.
5. Consenso intenzionale per il consolidamento musicale
Alcuni esempi interessanti su come il suono possa raggiungere tale status o come, al contrario, possa essere usato come mezzo di informazione, come veicolo, e, quindi, come sostengono gli autori indagati, come rumore, ci viene da un’analisi del consenso. Questo ci mostra innanzitutto quanto la variazione culturale e l’essere sociale del suono emerga come elemento fondante. Un individuo, infatti, darà il suo consenso, che qui consiste nel prestare ascolto, senza reazioni di negazione – o, come abbiamo visto, di distrazione – ad una manifestazione musicale che riconoscerà come tale. Questo riconoscimento passa spesso attraverso il sentimento e l’emozione.47 Il consenso, per l’appunto, risiede principalmente nelle componenti emotive: se un brano suscita qualcosa allora lo si apprezza. E questa, in effetti, è la forza metatemporale della musica – o l’elemento atemporale che contraddistingue alcuni brani. Un quartetto di Beethoven può suscitare in me individuo del terzo millennio emozioni molto forti. Parallelamente un raga bhairavi potrà suscitarmi forti emozioni e per questo lo apprezzerò come musica. Questo non solo perché ascoltando un raga o un quartetto riconosciamo le capacità dell’esecutore o del compositore nella produzione musicale, e contemplando tali capacità ne apprezziamo l’opera, ma perché scatta qualcos’altro che mi lega a quei suoni. È un sentire insieme che mi avvolge in quei momenti, quel feeling che la melodia trasmette verso cui non posso fare niente.48 La forza del consenso concorre, soprattutto attraverso l’accettazione, alla conferma e al consolidamento della produzione sonora. «L’udito è il senso sociale»,49 e saranno i soggetti a determinare il valore di una produzione perché «la musica si eleva o cade a seconda di ciò che si ascolta e di come la gente reagisce […] le relazioni di superficie fra i suoni, che possono essere percepite come “oggetti sonori”, non sono che una parte di altri sistemi di relazioni».50 Relazioni sociali elevano o fanno cadere ciò che si ascolta da «musica» ad altro che musica non è. È l’interesse, quindi, che determina il consenso e il perpetuarsi stesso di una determinata forma. «È il contenuto umano del suono umanamente organizzato a ‘catturare’ la gente»,51 senza questo interesse, ovviamente, non avremmo avuto, ancora oggi, tutto il materiale musicale di cui disponiamo. E questo sembra scontato ma non va sottovalutato. È la società, che con le sue forze attive, costituisce costantemente l’organizzazione sonora, scegliendo cosa mantenere, cambiare o eliminare. E ciò si riversa nelle aspettative che si hanno verso la stessa musica. Queste aspettative devono essere confermate perché il processo prosegua senza interruzioni, «la musica non fa che confermare ciò che è già presente nella società e nella cultura».52 In quest’ottica sarà più facile comprendere quanto già accennato a proposito della musicalità o non musicalità di un suono. Se una cultura decide «che il rumore del vento tra gli alberi sia ‘musica’ ed un altro gruppo è convinto del contrario, se un altro gruppo è convinto che sia musica il gracchiare delle rane ed un altro ancora non è d’accordo, allora è evidente che i concetti sulla natura della musica differiscono notevolmente e danno forma particolare ai suoni».53 Se si decide che qualcosa sia musica esso allora lo sarà, se ciò non lo si decide, nel modo in cui non si dà assenso o non lo si propone, non lo sarà. Quindi l’approccio che abbiamo visto essere originariamente di Pierre Schaeffer, con la sua musica concreta, ha permesso di rendere musica ciò che prima era considerato come sfondo o rumore, ed è in quanto riconosciuta tale da una società che l’accetta – che ingloba e condivide questa concezione. Così le registrazioni del treno divengono musica, musica concreta. Ciò grazie ad «una accentuata intenzionalità sistematico-classificatoria che ha delle precise coordinate storico-culturali».54 Questo, infatti, permise l’allargamento prospettico a cui si assistette nel Novecento. Ciò che prima era considerato rumore o suono insignificante diventa degno di ascolto. Pertanto «verso la fine degli anni Quaranta Pierre Schaeffer inizia a lavorare alla manipolazione a fini compositivi di suoni precedentemente registrati: nasce la cosiddetta musica concreta, basata sull’idea che qualunque suono o rumore, a prescindere da come è stato prodotto, può essere trattato musicalmente a patto che il compositore sappia riconoscerne le potenzialità e ricavarne una forma musicale coerente e significativa».55
Abbiamo visto che il motivo per cui vi è un distinguere tra suoni e rumori non risiede solo nell’atteggiamento interpretativo del soggetto ma è, in qualche maniera, connaturato alla datità (Gegebenheit) – saper riconoscerne le potenzialità indica una presenza già forte e attuabile. Tuttavia, adesso, notiamo come il polo soggettivo sia determinante nel costituirsi dell’ascolto. Se un semplice «agglomerato» di suoni viene inteso come produzione musicale, lo si potrà considerare tale. Sarà musica e ciò risiede nel termine chiave: «inteso». E questo, anche e soprattutto, nel caso contrario, ovvero nel caso di un dissenso sociale. Se una manifestazione sonora non viene assentita sarà dissentita e quindi non accettata, aprendo così strade diverse all’oggetto rifiutato, per cui potrà continuare in esecuzioni minori, essere sospeso e riscoperto più avanti oppure perduto del tutto. Il suono, inoltre, è sociale nel modo in cui può servire ad asserire e dissentire in generale. In questo caso diviene un vero e proprio strumento e, quindi, non è più l’oggetto intenzionato, che può, come abbiamo visto oscillare tra l’ascolto interessato e quello disinteressato, ma, piuttosto, il mezzo tramite cui assentire o, soprattutto, dissentire. Questo è il caso dello charivari dove il rumore diviene un mezzo per esprimere del dissenso, pubblicamente e dal basso.56 Anche qui il ruolo principale è affidato all’intenzione che una manifestazione sonora così strutturata rappresenta e presenta. In questo caso vi è una vera e propria manifestazione di rumore che si contrappone all’utilizzo musicale, che abbiamo visto può includere i rumori nel modo in cui li utilizza per creare un tutto complesso. Se il dissenso è diretto e rapido, l’accogliere una produzione musicale nuova in una cultura, il suo affermarsi, e, quindi, il consenso sociale che ne è alla base, è processo lento e graduale. La produzione, infatti, sarà più solida all’interno del gruppo in cui la coesione e la collaborazione dello stesso è forte. Già Mauss aveva notato questa funzione sociale della musica nelle forme che può prendere nell’intreccio di suono e ritmo che abbraccia gli ambiti dal canto alla poesia, dal lavoro alla magia. Infatti «nel lavoro, nella poesia e nel canto il ritmo era la notazione dell’attività collettiva, e tanto più fortemente marcato quanto più estesa e intensa era la collaborazione sociale».57 Queste variabilità, poi, possono essere rintracciate anche nei gesti sonori più ordinari,58 poiché in ogni manifestazione sonora è l’intenzione e la circostanza, culturalmente variabile, che costituisce il significato del suono.59 Così, allora, lo studio dell’organizzazione del suono si pone lo scopo di ricercare e comprendere come sia articolata quell’emissione sonora di cui, a guardare le epoche storiche, l’uomo non ha saputo farne a meno.60 Il percorso delineato ci ha consegnato, dal metodo fenomenologico ad alcuni esempi, una praxis percettiva a cui si collega strettamente un presentarsi del suono e del rumore come culturalmente differenziati. Le tipologie d’ascolto, inoltre, si distinguono non solo per una postura del soggetto, ma per un darsi dell’oggetto «suono» in modo diverso. A questo, abbiamo visto, corrisponde e ne deriva una vera e propria filosofia del suono e delle sue sorgenti. In definitiva, però, è l’utilizzo e inserimento nelle pratiche musicali che permette una distinzione sostanziale tra i due.
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Edmund Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, in Gesammelte Werke, vol. III/1 e III/2, a cura di Karl Schuhmann, Martinus Nijhoff, Den Haag 1976; tr. it. a cura di Vincenzo Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002, vol. I, Libro primo, p. 71. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Éditions Gallimard, Paris 1945; tr. it. di Andrea Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il saggiatore, Milano 1965, p. 22. ↩︎
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Edmund Husserl, Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen in Gesammelte Werke, vol. II, a cura di Walter Biemel 1973; ed. it. a cura di Elio Franzini, L’idea della fenomenologia, Mondadori, Milano 1995, p. 42. ↩︎
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Questo portò, ad esempio, Roberto Casati a scrivere di filosofia del suono in Husserl. Si veda Roberto Casati, «Considerazioni critiche sulla filosofia del suono di Husserl», in Rivista di Storia della Filosofia, ANNO XLIV, N.S., IV, 1989, pp. 725-743. ↩︎
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Edmund Husserl, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik, Ausgearbeitet und Herausgegeben von Ludwig Landgrebe, Academia Verlagsbuchhandlung, Prag 1939; tr. it. di Filippo Costa e Leonardo Samonà, Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 1995, p. 97. ↩︎
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Edmund Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), in Gesammelte Werke, vol. X, a cura di Rudolf Boehm 1969; tr. it. a cura di Alfredo Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1998, p. 279. ↩︎
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Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 24. ↩︎
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Pierre Schaeffer, Traité des objets musicaux, Seuil, Paris 1966, cap. 15.5, pp. 251 sgg. ↩︎
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Michel Chion, Guide des objets sonores, Pierre Schaeffer et la recherche musicale, Paris, INAGRM/Buchet-Chastel, Bibliothèque de Recherche Musicale 1983, pp. 187, op. cit. in P. Couprie, «Le vocabulaire de l’objet sonore. Du sonore au musical», L’Harmattan, pp. 24, 2001, , (trad. mia). ↩︎
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Pierre Schaeffer, Traité des objets musicaux, cit., cap. 4, pp. 93 sgg. ↩︎
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Il vantaggio delle analisi che la proposta di un’epoché dell’ascolto comporta in quanto si sta delineando, è che non ne esclude altre provenienti dalle scienze dure. Un analisi neurologica di cosa avvenga nel nostro cervello quando udiamo e riconosciamo suoni potrà solo confermarla. Ciò che contraddistingue delle tipologie d’ascolto potrà solo essere confermato in sede neurologica così da garantire un dialogo tra i metodi. Un approccio così delineato potrà, infatti, solo aiutare la ricerca in questo ambito. Per cui anche i casi particolari presentati nel piacevole libro di Sacks potranno trovare un’impalcatura di senso maggiore (si veda Oliver Sacks, Musicophilia. Racconti sulla musica e il cervello, Adelphi, Milano 2008). ↩︎
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Come vedremo questa distinzione ha un valore prettamente culturale, nel modo in cui è determinata dalla cultura d’appartenenza. La valida distinzione tra suoni e rumori rintracciabile nell’intonazione si appella ad un criterio del tutto europeo – anch’esso culturalmente determinato. Motivo per cui si può parlare, generalmente, di un «ambito del sonoro». ↩︎
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Si veda Vincenzo Lombardo e Andrea Valle, Audio e multimedia, Apogeo, Milano 2008, pp. 420 sgg. ↩︎
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Mikel Dufrenne, L’œil et l’oreille; tr. it. di Claudio Fontana, L’occhio e l’orecchio, Il Castoro, Milano 2004. ↩︎
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Si veda ivi, p. 110. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 111. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 112. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Si veda ibidem. ↩︎
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Si veda ivi, p. 135. ↩︎
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Si veda ivi, p. 136. ↩︎
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Si veda ivi, pp. 194 sgg. ↩︎
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Don Ihde, Listening and Voice: Phenomenologies of Sound, State University of New York Press, 2007. ↩︎
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Cfr. ivi, pp. 217 sgg. ↩︎
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Si veda ivi, pp. 78 e 221. ↩︎
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Si veda ivi, pp. 111, 187, 222. ↩︎
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Martin Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes (1935/36), in Gesamtausgabe, Band 5 (Holzwege), a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1977; tr. it. a cura di Pietro Chiodi, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 11. ↩︎
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Ivi, pp. 11-12. ↩︎
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Si veda ivi, pp. 12-13. ↩︎
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Ivi, p. 17. ↩︎
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Ivi, p. 12. ↩︎
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Elvira Di Bona e Vincenzo Santarcangelo, Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, pp. 43 sgg. per le altre due proposte in cui l’identificazione è indiretta o una via intermedia. ↩︎
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Già Bergson parlava di «reintegrare la memoria nella percezione» come compito necessario per la comprensione di quanto avvenga nell’atto percettivo. Il ricordo immanente alla percezione diviene così fondamentale per la stessa, dove questa si viene a configurare come un ri-cordare, ri-incontrare. Si veda Henri Bergson, Materia e memoria, in Henri Bergson, Opere. 1889-1896, a cura di P. A. Rovatti, Mondadori, Milano 1986, in particolare p. 189. ↩︎
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George Berkeley, Tre dialoghi tra Hylas e Philonous, in Opere Filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET, Torino 2007, p. 294. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. Bertrand Russell, The Problems of Philosophy, Oxford University Press 1957; tr. it. di Elena Spagnol, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 54 sgg. ↩︎
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Una terza via, ovvero intermedia tra le due, prevede che vi sia una relazione tra vista e udito. Si percepisce un suono direttamente e una fonte indirettamente ma il collegamento tra i due avviene grazie alla collaborazione di vista ed udito. È così che si può ricollegare il suono alla fonte; l’esperienza della fonte avviene solo bimodalmente (Si veda Matthew Nudds, «Experiencing the production of sounds», European Journal of Philosophy, 9, 2001, pp. 210-229, op. cit. in Di Bona e Santarcangelo, Il suono, cit., pp. 53-54). Tralasciando le lacune che quest’impostazione presenta tagliando fuori dall’analisi una fetta di soggetti che possono udire suoni e ricondurli a delle fonti anche senza attingere alla vista, ovvero i ciechi, quello che si propone di fare è di andare direttamente alla fonte tenendo conto delle difficoltà e problemi che si incontrano, motivo per cui l’intreccio vista-udito sarebbe vincente. Ci sono, ovviamente, casi in cui la vista ci viene in sostegno nella percezione uditiva e casi in cui questo, invece, non avviene. ↩︎
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Giovanni Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza. Saggio di filosofia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano 1979, p. 21. ↩︎
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Edmund Husserl, Esperienza e giudizio, cit., p. 97. ↩︎
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Un rapporto stretto lega l’emozione suscitabile dalla musica e il suo valore sociale si veda Steven Mithen, The Singing Neanderthals. The Origins of Music, Language, Mind and Body, Harvard University Press, Cambridge 2006; tr. it. di Elisa Faravelli e Cristina Minozzi, Il canto degli antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente e del corpo, Codice Edizioni, Torino 2019, pp. 121-143. ↩︎
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Cfr. John Blacking, How Musical is Man?, University of Washington Press 1973; tr. it., Come è musicale l’uomo?, Ricordi, Milano 1986, p. 120. ↩︎
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Christoph Wulf, Antropologia dell’uomo globale. Storia e concetti, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 136 (corsivo originale). ↩︎
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John Blacking, Come è musicale l’uomo?, cit., p. 120. ↩︎
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Ivi, p. 54. ↩︎
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Ivi, p. 73. ↩︎
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Alan Merriam, The Anthropology of Music, Northwestern University Press, Evanstone 1964; tr. it. di Elio Di Piazza, Antropologia della musica, Sellerio Editore, Palermo 2000, p. 81. ↩︎
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Elio Matassi, «Introduzione. Dimensioni dell’ascolto», in Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea, Quodlibet, Macerata 2002, p. 177. ↩︎
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Andrea Cremaschi e Francesco Giomi, Rumore Bianco. Introduzione alla musica digitale, Zanichelli, Bologna 2008, p. 13. ↩︎
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Cfr. David Le Breton, La Saveur du Monde. Un anthropologie des sens, Éditions Métailié, Paris 2006; tr. it. di Maria Gregorio, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, pp. 135 sgg. ↩︎
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Così Henri Hubert e Marcel Mauss, Mélanges d’histoire des religions, Alcan, Paris 1909; tr. it. di Anna Macchioro, La rappresentazione del tempo nella religione e nella magia, in Emile Durkheim, Henri Hubert e Marcel Mauss, Le origini dei poteri magici, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 118. ↩︎
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Alcuni esempi possono essere rintracciati nei fischi. In un contesto aperto, come quello di una strada, possono significare un richiamo. Lo stesso ad un concerto può significare apprezzamento di un’esecuzione o di un solo presentandosi anche durante l’esecuzione del brano, in corrispondenza appunto della fine di un solo come si può, ad esempio, nel jazz tra lo scambio dei solisti. Ma se questo si ripete più volte potrà significare non apprezzamento dell’esecuzione fino al completo disprezzo, come avviene oltre che nei concerti non apprezzati negli stadi in cui servono a rendere nervosa la squadra avversaria. In questi esempi emerge ancora il modo di un atto sonoro, di una produzione. Perché il suono potrà sembrare sempre «uguale» ma l’intento e la sua ricezione non lo saranno. Inoltre molto interessante risulta l’ultimo esempio. Poiché la squadra che riceverà i fischi da parte del tifo avversario sentirà la tensione e l’odio con cui sono emessi ma gli stessi giocatori della squadra a cui gli spettatori fanno il tifo percepiranno quegli stessi fischi senza avere la reazione avversaria (o senza sentire la pressione di un’intenzione così emessa dal tifo). Anzi addirittura potranno essere incoraggiati da questa presenza. Questo ci porta ancora a dire che l’effetto e il senso di un suono non risiede in sue caratteristiche peculiari e tipiche, per cui esisterebbe un suono in sé nell’uso ma, piuttosto, è dato da un intreccio di contesto e intento. ↩︎
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Cfr. David Le Breton, Il sapore del mondo, cit., pp. 113 e 119. ↩︎
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Cfr. John Blacking, Come è musicale l’uomo?, p. 126. ↩︎