Recensione a Catherine Malabou, Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice

Recensione a Catherine Malabou, Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, Meltemi, Milano 2019, pp. 116.

L’opera di Catherine Malabou – Ontologia dell’accidente – è una riflessione molto intensa sulla potenza di ciò che l’autrice chiama plasticità distruttrice, partendo dall’idea che esista una vita biologica, a cui segue la riflessione esistenziale, per la quale il procedere della nostra vita, se non fosse turbato da traumi, sarebbe come il corso di un fiume: si compirebbe il nostro destino, senza alcuna deviazione, che equivarrebbe a divenire ciò che già siamo.1 Ciò che invece cambia completamente la direzione dell’esistenza di un essere umano è proprio l’accadimento di un accidente, di un evento traumatico: sotto questo punto di vista Malabou prende in considerazione i malati di Alzheimer, i cerebrolesi, coloro che sono stati colpiti da catastrofi di tipo politico o naturale. È interessante notare come l’estraneità che si forma in questi vissuti non sia quella delle etiche che l’autrice definisce mistiche e che hanno operato nel XX secolo: così facendo la filosofa francese si pone al di fuori di un contesto che pone l’Altro come alterità, come qualcuno che non sia lo stesso soggetto; nei casi presi in esame, l’Altro risiederebbe nel soggetto stesso.

La plasticità, tuttavia, è sempre stata presa in considerazione come un evento positivo, che lavora in maniera tale da scolpire l’identità di un individuo, collocandolo sempre in un contesto in cui è possibile riconoscersi. A questa forma positiva di plasticità si affianca quella negativa, come l’apoptosi, che prevede il suicidio delle cellule affinché possano, per esempio, separarsi le dita di una mano. Questi due tipi di plasticità, insieme, formano un equilibrio necessario allo sviluppo della vita. A questi due tipi se ne aggiunge un terzo, che non ha un nome in nessun campo e che la Malabou chiama plasticità patologica, distruttrice, deflagrazione plastica [plastiquage] e che assume un ruolo totalmente diverso: non lascia cicatrici, non riconcilia ma segmenta, aliena e non permette alcun riconoscimento di ciò che prima era familiare.

Nel primo capitolo vengono offerti alcuni esempi di metamorfosi che sono la cifra dell’immaginario e del pensiero filosofico e artistico occidentale: vengono analizzate, perciò, alcune figure letterarie come la Dafne di Ovidio e Gregor Samsa di Kafka, oltre alla lettura che Deleuze dà di quest’ultimo. L’idea che muove ognuna di queste narrazioni è quella dell’impossibilità di modificare la natura di un soggetto, infatti ciò che viene colpito è la forma che muta incessantemente, sebbene abbia un numero finito di possibilità, che vengono fissate in uno schema: il rapporto forma-essenza è rappresentato da un circolo che non può essere spezzato, poiché il fondo ultimo, cioè l’essenza, non viene mai alterato, intaccato. Dafne, per esempio, per scappare da Febo si tramuta in albero, e sebbene la sua forma cambi, in lei resta salvo l’essere-donna che non ne mina la natura: redenzione che si trasforma in salvezza, in questo caso dal dio. Altro esempio è quello di Gregor Samsa, il quale subisce una trasformazione ma conserva, pur sempre, la sua interiorità, la sua natura che gli permette di poter avere rapporti con il padre, la madre o la sorella e di continuare tranquillamente il suo monologo interiore, rendendo possibile, dunque, la narrazione della metamorfosi vista dall’interno.

Al contrario, Malabou intende per plasticità distruttrice l’evento traumatico che annulla il senso dell’esistenza del soggetto, non permettendogli di ritrovarsi ma legandolo all’impossibilità di fuggire da sé stesso, in cui non c’è né una interiorità, né una esteriorità a cui appellarsi: neanche l’estremismo di Kafka riesce a descrivere in maniera puntuale ciò che succede a chi va incontro a questa plasticità, poiché Gregor continua a essere in attesa di un senso, che può sviluppare nella propria sofferenza, della quale resta sempre conscio, nonostante la forma non più umana. La plasticità distruttrice, invece, rende impossibile il riconoscimento del prorpio dolore, perché lascia indifferenti a sé stessi, annullando la fuga che nella metamorfosi, così come è classicamente intesa, è assicurata dall’idea della metafisica tradizionale, per cui la natura non varia al cambiare della forma.

Nel secondo capitolo, si mostra come in filosofia, tuttavia, ci sia stato chi ha dato un certo rilievo al cervello e al rapporto che si instaura tra quest’ultimo e il corpo, mettendo l’accento sulle emozioni, le quali possono modificare la percezione che abbiamo del mondo: Baruch Spinoza, seguendo Malabou e Damasio, sarebbe stato il primo a dare importanza ontologica al cervello. Per il filosofo olandese, infatti, esiste una certa propensione dell’essere umano a preservare il proprio essere, definita come conatus essendi, che si accresce o diminuisce anche in base allo stato umorale del soggetto: in questo senso la gioia lo aumenterebbe, mentre la tristezza lo diminuirebbe, oppure, per dirla diversamente, queste emozioni lo assecondano od ostacolano. Spinoza, dunque, avrebbe in qualche modo anticipato i tempi, portando alla luce delle scoperte che oggi sono confermate dalle neuroscienze, che legano indissolubilmente coscienza ed emozioni. In questa direzione ha lavorato Antonio Damasio, che ha sviluppato l’idea di alcuni “marcatori somatici”, che vengono annullati nel momento in cui il paziente riporta delle lesioni: in questo caso, quello che per Spinoza era il conatus, il desiderio di sopravvivere, viene meno. L’annullamento di questi marcatori, dunque, recide il legame tra la ragione e la vita, cioè non permette al soggetto malato di prendere decisioni vantaggiose in situazioni di rischio o conflitto: la ragione non viene persa, l’intelligenza resta intatta, ma è come se non facesse più presa sul malato. La plasticità distruttrice è caratterizzata da questa indifferenza verso la propria sopravvivenza, insensibilità al mondo, che si tramuta in una mancanza di teleologia,assenza di un fine verso cui tendere: in poche parole si diventa estranei. A proposito bisognerebbe interrogarsi sulla connessione tra la perdita delle connessioni che permettono la corretta funzione delle aree deputate all’emotività e la freddezza e l’indifferenza che vengono riscontrate nei soggetti che perpetrano un omicidio, mostrando dunque come questo sia un problema anche morale, oltreché ontologico, perché permetterebbe un dialogo fruttuoso tra le neuroscienze e l’etica, senza tuttavia subordinare pericolosamente la seconda alle prime.

L’importanza, dunque, di una ontologia dell’accidente, ci invita a riflettere Malabou, sta proprio nel ripensare il carattere dell’accidente, il quale non deve essere visto come un semplice caso, ma come una delle possibilità esistenziali dell’essere umano, una legge inscritta nel cervello. Questo vorrebbe dire lavorare apriori su un evento che è aposteriori; in altre parole, ontologicamente, siamo sempre soggetti alla possibilità che un trauma, di qualsiasi natura, possa accaderci e, nonostante la sua natura di evento irripetibile, cambiarci fino a farci perdere noi stessi. L’estranietà, la perdita di sé è inscritta nell’identità che definiamo “normale”. Lo stesso Spinoza riflette su questa possibilità, arrivando a pensare a una sorte di morte altra, che non sia quella che sopraggiunge nel tempo e che fenomenicamente è espressa dal cadavere. L’altra morte, per Spinoza, è rappresentata da un poeta spagnolo che dopo essere stato colpito da una malattia ha smesso di riconoscere le proprie opere e la propria vita passata: la sua natura è mutata in un’altra, totalmente differente. Si potrebbe dire che in questo caso alla forma immutata non corrisponda la stessa natura.

Deleuze aveva analizzato le variazioni del conatus, distinguendole in due tipi: gli affetti, gioia e tristezza per esempio, e quelle che riguardano invece la struttura del conatus, come la malattia e la vecchiaia che mostrano l’elasticità del conatus spinoziano. Ma Malabou rifiuta questo termine, poiché è elastico qualcosa che torna al proprio stato iniziale, alla propria forma, mentre la plasticità è ciò che non può tornare al punto di partenza, poiché è una modificazione permanente. La plasticità, allora, permette di ripensare il soggetto attraverso la sua decostruzione che, per la filosofa francese, è un altro modo di dire addio all’essere, che tuttavia non è riscontrabile nella morte, ma nella indifferenza della vita a sé stessa. Malabou interpreta, dunque, la plasticità come uno strumento ermeneutico e morale, in quanto utilizzabile per comprendere il male, la violenza che viene commessa dagli esseri umani che trovano nell’indifferenza l’arma per la propria sopravvienza. Il conatus, in ogni caso, è salvo, ma alberga in esso una certa pulsione di morte che potrebbe manifestarsi in ogni momento, in ognuno di noi.

Nel terzo capitolo Malabou analizza l’evento dell’invecchiamento, mentre nel quarto utilizza la storia di Marguerite Duras come un esempio di quello che potrebbe ben rappresentare un invecchiamento precoce, un improvviso essere vecchio, che contraddice, invece, il fenomeno biologico cui siamo inclini a dare il primato, infatti, invecchiare si può dire in molti modi. Il primo è quello che lo vede come un processo lento e naturale, che prende forma progressivamente, stadialmente, e coincide con l’avanzare dell’età. In questo caso, la plasticità è un adattamento della nostra vita a questo divenire-vecchi, che ci riporta in un certo senso al solipsismo e all’egoismo dell’età infantile, in quanto ci si concentra più sulla vita psichica, piuttosto che sull’investimento libidinale: l’inizio di questo tipo di vecchiaia si ha quando, con la perdita della genitalità, si tende a investire sulla componente narcisistica. Il secondo tipo di invecchiamento, d’altra parte, mette in discussione l’idea psicanalitica per cui la vita psichica sarebbe indistruttibile e nella malattia mentale si tornerebbe agli stadi anteriori della vita affettiva, ponendo l’accento dunque sull’impossibilità di rifugiarsi nel passato. È una sorta di travestimento che non permette di riconoscere neanche le persone con cui si è stati a contatto; travestimento che è necessario perché si è improvvisamente qualcun altro, che prima non c’era. Proust, in questo senso, è di esempio per Malabou, poiché mette in scena dei personaggi che per il narratore non sono più riconoscibili, un’opera graduale del tempo che aggiunge rughe, capelli bianchi, ma che allo stesso tempo attua un profondo cambiamento, una rottura che non permette l’istantaneo riconoscimento: invecchiare presuppone l’essere identico a sé stessi e, contemporaneamente, l’altro nella stessa persona. Proprio utilizzando questo modello dell’invecchiamento, graduale e improvviso insieme, possiamo analizzare la figura di Marguerite Duras, la quale si ritrova vecchia già a diciotto anni: un viso scavato dal tempo e dall’alcol, una giovinezza perduta, una vita che si ritrova a essere invecchiata precocemente, nonostante la morte sia giunta tardi. Un viso che esprime freddezza e indifferenza come tratti caratteristici e che non sono il segno di un graduale disamoramento della vita, ma è l’espressione della potenza dell’accidente, di un amore che non c’è più, come quello per i genitori, passaggio estremo che non avviente nella durata, bensì nell’istante.

Il penultimo capitolo è dedicato alla morte – alla sua duplice natura biologica e logica – la quale si realizza sempre attraverso un accidente, che ne permette la realizzazione, possibilità che per l’essere-per-la-morte deve in ogni istante poter essere possibile. Esemplare, in questo senso, è la differenza tra la morte di Thomas e di suo figlio Hanno, personaggi de I Buddenbrook: quella del primo è immediata, causata da un mal di denti, dunque inaspettata; mentre quella del secondo è più lenta, graduale, scandita dalla malattia, dai ritmi del tifo. Malattia che per Malabou è un evento dell’evento, forma della morte, percezione e manifestazione della fine presente nei soggetti finora descritti – cerebrolesi, anziani, malati neurodegenerativi. In questo formarsi alla morte – cioè il prendere forma della morte attraverso il trauma o l’evento traumatico per cui si è vecchi, in cui la soggettività si allontana ben prima della fine – per l’autrice non vi sarebbe altro che la morte e non la presa in carico della nostra finitezza, come in Heidegger per esempio. La malattia è la manifestazione della morte e non della finitezza umana, poiché nel malessere, nell’accidente che ci colpisce, non c’è altro che il sopraggiungere della morte, evento che può capitare in ogni istante, bruscamente o graudalmente, come in Marguerite Duras. Nell’istante prima della morte, la plasticità distruttrice non ci porta davanti l’essere, come farebbe il nulla nel primo Heidegger, poiché nulla ed essere sono ancora categorie dell’identità: chi è stato vittima di un trauma assomiglia al meno che nulla.

Malabou, a questo punto dell’argomentazione, tocca un punto su cui vorrei soffermarmi: sul viso di chi vive una condizione traumatica, secondo l’autrice, affiorerebbe l’indifferenza che normalmente si legge in chi vede un necrologio e se ne va con l’aria di chi non è stato affatto colpito, indifferenza alla mia morte che rispecchierebbe l’indifferenza alla morte dell’altro. Secondo la filosofa francese, infatti, il volto degli anziani cerebrolesi rifletterebbe l’indifferenza con cui il nostro ricordo scivola via dalla memoria altrui. Questo particolare aspetto dell’analisi malabouiana è davvero drammatico, poiché se guardiamo alla filosofia del Novecento, notiamo come Emmanuel Levinas, per esempio, si sia battuto proprio per dare un senso alla morte attraverso il sacrificio per l’altro, la morte per l’altro, che esprime al meglio la responsabilità per l’altro. L’indifferenza che segna questi visi, morti viventi, sarebbe, in ottica levinassiana, il rifiuto del senso stesso dell’umano, che risiede proprio nel preoccuparsi affinché l’altro non muoia da solo, in solitudine, esposto sempre all’omicidio e a una morte prematura e invisibile.

Se prendiamo l’idea di plasticità distruttrice possiamo notare come sia l’esatto contrario dell’il y a levinassiano, in quanto quest’ultimo è una affermazione della potenza dell’essere, mentre nel trauma notiamo un tentativo di indifferenza verso la vita, verso l’esistenza – termine che per il primo Levinas sostituisce quello di essere. Indifferenza che si protrae anche nella morte altrui; indifferenza che per il filosofo di Kaunas, specialmente nelle ultime opere, sarebbe inammisibile. Morte che per Malabou si manifesta nella malattia, nella degenerazione che è visibile nel volto di chi ha subito un trauma; ma anche nella vita di chi conduce un’esistenza normale, la plasticità distruttrice interviene e la morte non si attua che attraverso l’accidente che plasma una identità del tutto nuova, senza legami con quella precedente. Ma forma della morte che rimane la morte stessa, senza alcuna possibilità di disciplinarla, di renderla più innocua. Nemmeno la morte per l’altro dona senso alla forma che prende il viso di quelle categorie di persone che Malabou ha preso in esame.

Nell’ultimo capitolo, infine, si cerca di giungere all’idea di possibile negativo, che vada al di là di ogni affermazione e negazione, un secco “no” della vita a sé stessa, cioè alla memoria, alle metamorfosi di Kafka e Ovidio. Per fare questo, Malabou indaga il diniego freudiano, cioè il rifiuto di riconoscere ciò che il soggetto ha rimosso, che sia un desiderio, un sentimento o un oggetto. Ma il diniego afferma negando, cioè si afferma qualcosa negandolo e rendendolo in questo modo possibile, poiché gli si impedisce di essere reale ed effettivo. Il paziente che nega che il personaggio del sogno sia sua madre, in realtà, ne sta affermando proprio la presenza, ma nella negazione non ne esprime la realtà, poiché si rifiuta di ammetterlo: potrebbe essere lei, ma non è lei. Il possibile negativo non è questo, avverte Malabou, poiché non vi è un rimosso che si insinua in noi attraverso la negazione, rendendoci dunque coscienti di ciò che ci ostiniamo a negare. Il diniego apre la possibilità di qualcosa di diverso, evento che sarebbe potuto andare diversamente, un’altra storia. Il diniego, per il suo carattere di rimozione, di esclusione e di rigetto, porta in superficie la possibilità del totalmente altro, di un mondo dove ciò che affermo prende forma perché possibile, sebbene smentito dai fatti. La plasticità distruttrice, al contrario, non porta con sé la possibilità, non prende in considerazione una alternativa alla realtà: il possibile negativo non diviene reale, ma non è neanche irreale, esaurisce sé stesso, perché opera nell’esaurimento di ogni possibilità, è assenza di sé al sé. Ma allora, conclude Malabou, la storia dell’essere stesso potrebbe essere composta di accidenti che ne sfigurerebbero l’essenza, poiché non vi sarebbe una identità che rinasce attraverso il trauma; al contrario si produce una nuova nascita che sorge dal vuoto, dall’assenza, dalla freddezza e dall’indifferenza.

Ci chiediamo, in conclusione, quale potrà essere la risposta di una filosofia che nell’ultimo secolo ha aperto sempre di più le porte all’alterità, ma che in fondo non ha del tutto esaurito i possibili scenari entro cui la soggettività si esprime. Il tipo di soggetto che Malabou prende in considerazione è, difatti, un trauma, una rotttura, con quello tipico indagato finora dalla tradizione filosofica occidentale.


  1. Catherine Malabou, Ontologie de l’accident. Essai sur la plasticité destructrice (2009), tr. di V. Maggiore: Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, 1ª edizione, Meltemi, Milano 2019, pp.120. ↩︎